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mercoledì 30 ottobre 2019

PEARL JAM - IMMORTALITY (Epic, 1994)




Pur essendo una band ad alto contenuto energetico e dall’impatto live formidabile, i Pearl Jam hanno sempre inserito nei loro dischi qualche pregevole ballata. A partire da Ten (1991), in cui spiccava per bellezza e intensità l’ormai leggendaria Black, ogni disco del combo originario di Seattle, è punteggiato da uno o più lenti attraversati da vibrante emotività.
Un brano come Just Breath da Backspacer (2009), ad esempio, ci porta in una volatile dimensione folk che fluttua a mezz’aria tra languori nostalgici. Così come avviene nella ballata elettroacustica di Presente Tense da No Code (1996), uno dei vertici del songwriting del chitarrista Mike McCready. E l’elenco potrebbe allungarsi a dismisura.
Nessuna dei brani citati, tuttavia, riesce a toccare i vertici intensi e depressi raggiunti dalla cupa Immortality, canzone che compare in Vitalogy (1994) e venne pubblicata come singolo, il secondo tratto dall’album, l’anno successivo.
In realtà è tutto Vitalogy a essere un disco dai contenuti assai drammatici: il raggiungimento della fama e il malessere che ne deriva (Not For You e Corduroy, in tal senso, sono due canzoni simbolo), oltre ai consueti temi tratti dall’analisi della caotica società americana (il razzismo, la fine dell’istituzione famiglia, la violenza e le armi da fuoco) forgiano un suono ruvido, anticommerciale, ostico e lontano da ogni compromesso o ammiccamento al mercato.
Ballata elettroacustica dall’incedere dolente, Immortality possiede un testo ambiguo e di non facile comprensione, che parla di studenti che marinano la scuola, e che negli intenti di Eddie Vedder dovrebbe “aiutarti a capire le pressioni su qualcuno che è su un treno parallelo...”. E’ evidente, tuttavia, che qualunque sia il significato recondito della canzone, il messaggio lanciato da Vedder è tutto tranne che conciliante: “Cannot find the comfort in this world” e “But there's a trapdoor in the sun” rappresentano un’esplicita dichiarazione di pessimismo e di inadeguatezza al mondo, che non ammette repliche.
Diversamente da quello che generalmente si pensa, la canzone non fu scritta per omaggiare Kurt Cobain, morto l’anno precedente, anche se la chiosa fulminante, “some die just to live” (qualcuno muore solo per vivere), farebbe pensare tutto il contrario. Di certo, questo verso icastico e puntuto suona perfetto per ricordare la figura di Cobain, anche perché in linea con uno dei temi cardine del disco, i cui testi sono spesso incentrati sul peso e sulle implicazioni derivanti dal successo.
Così il messaggio diviene più comprensibile, soprattutto oggi, visto che negli ultimi anni il suicidio delle rockstar sembra diventato un macabro rituale: la morte è il prezzo da pagare perché la fama, per sua stessa natura precaria e destabilizzante, diventi immortalità, e trasformi il musicista, cristallizzato nella sua giovinezza, in un’icona senza tempo. Un tema classico del rock, mutuato dal ”muore giovane chi è caro agli dei” del commediografo greco Menandro, e che trent’anni prima, nel 1965, gli Who inserirono in quel verso leggendario di My Generation che recita: “I hope I die before I get old”.





Blackswan, mercoledì 30/10/2019

martedì 29 ottobre 2019

PREVIEW




Tame Impala (Kevin Parker) annunciano ufficialmente il loro quarto album, The Slow Rush, in uscita il 14 febbraio su Island Records Australia via Caroline International. Oggi Parker condivide anche un nuovo brano tratto dall’album, il singolo  “It Might Be Time”, che segue “Borderline”. All’inizio dell’anno aveva pubblicato un altro brano intitolato “Patience”. The Slow Rush è stato registrato tra Los Angeles e lo studio di Parker a Fremantle, sua città natale in Australia. I dodici brani sono stati registrati, prodotti e mixati da Parker.  The Slow Rush sarà disponibile  anche in quattro diversi formati su doppio vinile: edizione standard nera, edizione limitata color verde bosco, edizione esclusiva per i negozi indipendenti di colore rosso e blu e l’edizione esclusiva “splatter” per il sito dei Tame Impala.
“It Might Be Time” è l’ombra della tua paura che aggredisce il tuo tallone d’Achille. È l’idea orribile che il tuo fascino sia andato a farsi un giro e che potrebbe non tornare. È dubitare di te stesso, pensando “Ce l’ho ancora? L’ho mai avuto?”. Il testimone paranoico dentro di te ti deride e ti dice di svegliarti e di accettare che i bei tempi ormai sono andati. Esplosione dinamica di pungente prog-pop,  “It Might Be Time” pulsa sul groove insistente della tastiera e su una batteria esagerata che vola ai confini, l’espressione apparente di un funk agitato. Una bomba inebriante di psichedelia che minaccia di implodere, “It Might Be Time” rappresenta il sound potente dei Tame Impala nel 2020.
The Slow Rush è un tuffo profondo nell'oceano del tempo che evoca la sensazione di una vita che passa in un battibaleno, di una tappa fondamentale che ti sfreccia davanti mentre stai guardando il tuo cellulare, è un inno di lode alla creazione e alla distruzione e all'interminabile ciclo della vita. All'inizio di quest’anno Parker ha detto al New York Times “Molti dei brani sostengono l’idea  del tempo che passa, di quando vedi la tua vita passarti davanti rapidamente e sei in grado di vederla in modo chiaro. Sono stato spazzato via da quest’idea del tempo che passa. C’è qualcosa di veramente entusiasmante in tutto ciò.” La copertina dell’album è stata creata in collaborazione con Neil Krug e rappresenta un simbolo dell’umanità tutta inghiottito dall'ambiente circostante in un batter d’occhio.
Negli ultimi sei mesi i Tame Impala hanno partecipato in qualità di headliner a numerosi festival, tra i quali Splendour in the Grass, Coachella, Primavera, Lollapalooza, ACL e molti altri. Hanno inoltre presentato due nuovi brani al Saturday Night Live e hanno suonato concerti sold-out intorno al globo incluse due serate al Madison Square Garden di New York.
I Tame Impala sono Kevin Parker. Currents è il loro ultimo album certificato oro e acclamato dalla critica di tutto il mondo, con cui ottennero la seconda nomination ai  GRAMMY. Dell’album Pitchfork ha scritto che “quasi ogni canzone di Currents rivela la vasta gamma di capacità di Parker e della sua crescente esperienza come produttore, arrangiatore, autore e cantante, mantenendo al contempo l’essenza dei Tame Impala.”  NPR ha affermato, “[Parker] è fautore di una costante riscoperta…Questa sua dedizione all’evoluzione aiuta i Tame Impala ad essere i degni candidati al successo più duraturo.”
I Tame Impala girarono in tour gli Stati Uniti per la prima volta nel 2010, suonando in piccoli club con un pubblico di sole 200 persone. Dopo una serie di concerti negli Stati Uniti e grazie alle insistenti richieste dei fan di una performance live trascendentale, i Tame Impala iniziarono a partecipare ai festival in tutto il mondo come headliner e pubblicarono tre album - Innerspeaker, Lonerism e Currents. In qualità di autore e produttore, Parker ha collaborato con Travis Scott, SZA, Lady Gaga, Mark Ronson, Kanye West, Kali Uchis, Theophilus London, Miguel, A$AP Rocky e molti altri.





Blackswan, martedì 29/10/2019

lunedì 28 ottobre 2019

ALTER BRIDGE - WALK THE SKY (Napalm Records, 2019)

Non ci eravamo lasciati benissimo con gli Alter Bridge. L’ultima prova in studio, The Last Hero, risalente al 2016, ci aveva fatto storcere il naso. Quel disco, infatti, suonava un po' bolso e privo d’ispirazione, eccessivamente pompato nei suoni e virato in modo spudorato verso il mainstream. Non una prova indecente, per carità, ma di certo non all’altezza della fama del gruppo.
Dopo di che, è stato il sciogliete le fila, compensato da due dischi live in due anni (Live At 02 Arena del 2017 e Live At The Royal Albert Hall del 2018), entrambi ottimi, e seguito dagli impegni dei due leader: Mike Tremonti è tornato a picchiare duro con la sua band (A Dying Machine del 2018) mentre Myles Kennedy a consolidare il sodalizio con Slash e a sfornare il suo primo album solista, l’inusuale e fascinoso Year Of The Tiger (2018).
A distanza di tre anni, gli Alter Bridge si ripresentano con un nuovo album, il sesto in studio, che fortunatamente è di gran lunga migliore del suo predecessore e ripropone una band in splendida forma. E’ cambiato il modo di collaborare, dal momento che sia Tremonti che Kennedy hanno lavorato su materiale scritto in proprio e poi, al momento della registrazione, condiviso col resto della band. Un metodo più complesso, probabilmente, ma più in linea con i tanti impegni dei due leader. E se il dubbio poteva essere quello di un disco meno omogeneo e più altalenante, visto il diverso approccio musicale di Tremonti e Kennedy, in realtà Walk The Sky risulta un disco compatto e omogeneo, tanto nel suono quanto nella qualità delle canzoni.
Michael Elvis Baskette, chiamato nuovamente in veste di produttore, questa volta ha fatto un buon lavoro, evitando di calcare troppo la mano, come aveva fatto nel precedente lavoro, e la band sembra più in palla e agguerrita che mai.
Come sempre nelle canzoni degli Alter Bridge convivono due anime: quella di Tremonti, votata al metallo più duro, e quella di Kennedy, che possiede un indubbio gusto per la melodia. Ecco allora i riff micidiali di Forever Falling e Native Son, compensate dal taglio quasi AOR di Godspeed e dalle sontuose linee vocali dell’eccellente Better End, uno dei brani più riusciti del disco grazie a un andamento intricato e a un ritornello acchiappone.
Insomma, il giochino stavolta riesce molto bene, e i riff tonitruanti del chitarrista si fondono alla perfezione e bilanciano le numerose aperture melodiche. Agli amanti delle sonorità più estreme potrà sembrare che il tiro di certi brani venga un po' abbassato dal ricorso a ritornelli di facile presa, e forse un po' è vero; ma il pacchetto Alter Bridge è questo, prendere o lasciare. E Walk The Sky è un signor disco, tra i migliori della band di Orlando.

VOTO: 7 





Blackswan, lunedì 28/10/2019

sabato 26 ottobre 2019

PREVIEW




THE FLAMING LIPS annunciano il loro primo live album ufficiale THE SOFT BULLETIN RECORDED LIVE AT RED ROCKS WITH THE COLORADO SYMPHONY ORCHESTRA, in uscita il 29 novembre su Bella Union [PIAS]. Ascolta "RACE FOR THE PRIZE" (feat. The Colorado Symphony & André de Ridder).
Il 26 maggio del 2016 i Flaming Lips eseguono per intero, al Red Rocks Amphitheatre di Morrison, Colorado, l’acclamatissimo album The Soft Bulletin (1999, Warner) assieme alla Colorado Symphony Orchestra. Questo evento spettacolare è considerato da coloro che erano presenti come uno dei momenti più impressionanti, magici e commoventi di una vita. Per i LIPS e i loro fan, forse l’apice di una magnifica interpretazione che rimarrà gratificante ed emotivamente carica come quella notte del 2016.
Il pre-order è già iniziato è include il download immediato di “Race For The Prize” a cui si aggiungeranno altri download il 15 novembre (“The Spark That Bled”).
The Flaming Lips (Wayne Coyne, Steven Drozd, Michael Ivins, Derek Brown, Jake Ingalls, Matt Kirksey e Nicholas Ley) sono accompagnati da un’orchestra di 69 elementi e un coro di 56. La performance è stata condotta da Andre de Ridder e vede tutti i 12 brani originali dell’album suonati in sequenza con nuovi, incredibili arrangiamenti.
L’evento è stato prodotto dagli stessi Flaming Lips assieme a Scott Booker e al collaboratore di lunga data Dave Fridmann. L’album viene pubblicato per celebrare il 20° anniversario di The Soft Bulletin, pubblicato nell’estate del 1999 e sarà pubblicato nelle versione doppio vinile, CD e digitale.






Blackswan, sabato 26/10/2019

venerdì 25 ottobre 2019

HOLY HANNAH! - HOLY HANNAH! (Holy Hannah!, 2019)

La cosa più bella di ascoltare centinaia di dischi e scrivere di musica è il piacere della scoperta, di individuare artisti meritevoli, magari alle prime armi, e poterli condividere con chi legge, dando visibilità a progetti meritevoli di interesse.
E’ il caso di questo disco d’esordio firmato Holy Hannah!, moniker sotto il quale si cela Hannah Von Der Hoff, chitarrista e cantante originaria di Minneapolis, principale città del Minnesota. Hannah ha iniziato a suonare a diciotto anni, traendo passione e ispirazione dalla discografia di mamma e papà, e lentamente si è formata un proprio stile, militando in band della zona e suonando prima nel circuito delle Twin Cities, per ampliare poi progressivamente il suo raggio d’azione.
E’ stato solo nel 2016, però, che ha creato un trio insieme a Aaron Silverstein (Mae Simpson Band) e al chitarrista jazz Andrew McManimon (Upeksha) in veste di bassista, che di recente ha chiamato Holy Hanna! Registrato al Brown Bag Studios di Minneapolis, e prodotto e mixato da Tony Schreiner, questo esordio ha il classico tiro da power trio, anche se intorno alla band sopra descritta ruotano diversi musicisti che hanno partecipato alla realizzazione di alcune canzoni: Jeremy Ylvisaker (Andrew Bird, Jenny Lewis, Justin Vernon, Haley) nella prima traccia del disco (K.I.S.S. Method), Patrick Harison alla pedal steel in Brick House, Zack Lozier alla tromba in Ego Burn e Garrett Neal, Rhodes & B3  Organ in Pick Your Poison.
Holy Hannah! pero’ non è il solito disco di rock blues, che comunque rappresenta una buona fetta della proposta, dal momento che il repertorio della chitarrista è assai vario e spazia in generi diversi.
Lust/Love è un brano potentissimo e sensuale dagli echi hendrixiani, Hot Minute si avventura con successo nel territorio fusion, tra funk, rock e echi jazzati, Ego Burn è un blues conturbante aperto da un bel suono di tromba, Pick Your Poison è una ballata blues a lenta combustione, Get A Grip! e Emerald City sono derapate garagiste che viaggiano velocissime e lasciano senza fiato. Chiude la scaletta Sunday Afternoon dalle morbide atmosfere jazz cesellate dalla Von Der Hoff, che in solitaria, con voce e chitarra, dimostra tutto il suo talento.
Ci sono parecchi elementi di pregio in questo esordio: una giovane ragazza che non lesina nulla in termini di pathos e sudore, e un approccio scarno, verace e potente, a cui però fa da contraltare una band che, pur badando all’essenziale, sta sugli strumenti con ottime capacità tecniche. Da parte nostra, oltre ad augurare a Hannah un luminoso futuro, suggeriamo caldamente a tutti di ascoltare questo disco, sicuri che saprà conquistarvi.
 
VOTO: 7
 
 
 
 
 
Blackswan, venerdì 25/10/2019

giovedì 24 ottobre 2019

PREVIEW



Alla vigilia di quello che sarebbe stato il 75° compleanno del cantautore americano e membro fondatore dei Byrds, Gene Clark arriva la ristampa di uno dei suoi lavori migliori, “No Other”,  dall’8 novembre 2019 disponibile in CD, 2xCD, LP & deluxe boxset.
Registrato presso il Village Recorder di West Hollywood e prodotto da Thomas Jefferson Kaye, No Other è stato originariamente pubblicato su Asylum Records nel 1974, un anno dopo la breve reunion dei Byrds. Gene aveva realizzato un disco visionario di rock psichedelico, folk, country e soul che è costato una piccola fortuna.Sebbene accolto calorosamente dalla critica, No Other fu un fallimento commerciale e non fu più stampato.
Tuttavia, come ha scritto il New York Times nel 2014 in occasione del 40° anniversario dell’album , "il senno di poi ha bruciato No Other, in quanto ha riscattato altri album che sono stati ricostruiti come repertorio rock, come “Third / Sister Lovers” di Big Star e Berlin di Lou Reed" l'album che viene ora riconosciuto come uno dei più grandi del suo tempo, se non di tutti i tempi.
La 4AD ha recentemente rimasterizzato No Other ad Abbey Road e dopo 45 anni sta donando all’opera la rivalutazione che merita. L'album originale di otto tracce è in uscita sia su CD che su LP, mentre è in arrivo anche una doppia edizione a tiratura limitata con copertina rigida  che include un disco bonus di versioni alternative in studio di ogni traccia più una registrazione di 'Train Leaves Here This Morning '(un successo degli Eagles del 1972, scritto da Gene e Bernie Leadon, membro fondatore degli Eagles).
L'edizione deluxe del cofanetto che entusiasmerà i fan in attesa da decenni, è stata curata con amore. Un articolo estremamente limitato, la confezione contiene l'LP, tre SACD (l'album originale con replica di un'autentica custodia del vinile giapponese, più altri due dischi), un esclusivo 7", un disco Blu-Ray completo che include le versioni HD di tutte le tracce, uno straordinario mix surround 5.1 dell'album, il master del vinile originale del 1974 e un documentario esclusivo di Paul Kendall (il regista dell'acclamato film del 2013, The Byrd Who Flew Alone: The Triumphs and Tragedy of Gene Clark), e un libro di 80 pagine rilegato contenente saggi, ampie note di copertina e foto mai viste prima.
MARTIN MILLS, fondatore e presidente del gruppo Beggars, accompagna la notizia della ristampa di No Other con queste appassionate parole rivelandosi il fan più accanito di Gene Clark: “Nel creare e seguire la crescita della Beggars negli anni, la mia unica ambizione è sempre stata quella di portare nel mondo una musica che potesse avere, per gli ascoltatori di oggi, lo stesso valore che aveva per me la musica che ascoltavo da giovane. Van Morrison, Love, The Byrds. E chi si celava dietro ai Byrds, riuscendo comunque ad emergere, come Gram Parsons… e Gene Clark. E quanta magia nella storia di quella band. Dalla prima versione folk rock di Mr. Tambourine Man alle urla delle chitarre di Eight Miles High, solo 18 mesi e 4 incredibili album dopo. E poi il loro capolavoro, Notorious Byrd Brothers, seguito dall’esplosione country di Sweetheart of the Rodeo. E il mistero… da dov’è venuto Gram Parsons? Dov’è andato Gene Clark? Chi erano davvero i Byrds?
Con il senno di poi e una maggiore consapevolezza acquisita nel tempo, diremmo che la risposta all’ultima domanda era Gene Clark. Ci siamo lasciati ingannare dagli occhiali da sole di Roger Mcguinn e dai capelli di David Crosby e ci siamo lasciati sfuggire l’importanza di Mr. Tambourine Man. Fino a che non ha iniziato ad esplorare il territorio country, ancora prima di Gram, insieme ai Gosdin Brothers, e Dillard e Clark, e ha iniziato a fare dei dischi da solista che mi hanno cambiato la vita.
Ivo e Steve mi hanno fatto sentire Roadmaster e mi sono reso conto che One In A Hundred era davvero la canzone più bella dei Byrds, senza essere dei Byrds. Poi White Light. Poi ancora No Other.
No Other è il classico dimenticato. Sottovalutato ai tempi la sua importanza è ora evidente.
Quando ho scoperto che Warners era pronta a cedere Gene a seguito del processo di cessione di EMI, non riuscivo a credere ai miei occhi. Warners si era preoccupata di proteggere i suoi progetti più importanti durante il processo, ma questo evidentemente non rientrava tra quelli. Così ci siamo assicurati i diritti delle opere di Gene, ed è diventato nostro. Incredibile, uno dei più grandi classici della mia giovinezza era nostro.
O meglio, della 4AD. Dato l’amore di Ivo per Gene, la sua cover di un brano con This Mortal Coil, aveva perfettamente senso che fosse pubblicato per la sua etichetta. Abbiamo dato vita ad un’opera di tutto rispetto, con del nuovo materiale, un lavoro d’amore per Steve.
Tratteremo questo classico come un nuovo album, piuttosto che come una semplice ristampa. Ha tantissimi punti di forza. Si tratta di un classico meravigliosamente rivisitato per i fan. Sarà l’acquisto o l’ascolto perfetto per chi conosce già Gene Clark. Per i milioni di persone che conoscono e amano i Byrds, questa è la perfetta introduzione al cuore di quella collisione di talenti.
La ristampa 4AD sarà pubblicata l’8 novembre ed è stata masterizzata ad Abbey Road. Ha un sound incredibile.
Consegnamolo al mondo."
 
 
 
 
 
Blackswan, giovedì 24/10/2019

mercoledì 23 ottobre 2019

BONNIE BISHOP - THE WALK (Thirty Tigers, 2019)

Poco nota da noi, ma nome di spicco del panorama country texano, Bonnie Bishop ha avuto il suo momento di fama anche fuori dai confini nazionali per aver vinto un Grammy Award nel 2013 con la canzone Not Cause I Wanted You, portata al successo da Bonnie Raitt.
La Bishop, però, nonostante l’ambito riconoscimento, a causa di gravi problemi di depressione e di continui attacchi di panico, che le pregiudicavano la possibilità di suonare in pubblico, dopo aver pubblicato Free (full lenght risalente al 2012), aveva lasciato Nashville, era tornata in Texas e aveva mollato lo star system. Salvo, ripensarci, qualche anno dopo, convinta dal genio onnivoro del produttore Dave Cobb che, ritrovatosi per le mani alcuni demos della songwriter di Houston, non solo riuscì a farla tornare in sella, ma la convinse anche a dare una connotazione maggiormente soul alle sue canzoni.
Il risultato di quella collaborazione fu lo splendido Ain't Who I Was (2016), sesto album in carriera, definito dalla stessa Bishop una sorta di rinascita, artistica ma non solo. Cobb fece davvero un mezzo miracolo, restituendo agli ascoltatori songwriter che, nonostante le difficoltà passate, vive oggi una seconda giovinezza ed è, forse, pronta per il grande salto. In quel disco, come accennato prima, Cobb ebbe l’intuizione di spingere la Bishop verso territori decisamente più soul, delineando un suono caldo, avvolgente e dal retrogusto leggermente vintage. Un disco intenso ed emozionante che, pur ricevendo sperticati elogi da parte della critica specializzata, non ottenne il successo commerciale che meritava.
La Bishop, però non si è data per sconfitta e ha ripreso la sua strada, affidando per il nuovo The Walk la consolle a Steve Jordan, batterista che in carriera ha suonato con decine di mostri sacri e che ha alle spalle una solida carriera di produttore (Neil Young, Sheryl Crow, John Mayer). Jordan ha proseguito il lavoro di Cobb portandolo alle estreme conseguenze, dando ancora di più un taglio southern soul alle sette canzoni in scaletta e incorniciando il graffio morbido della voce della Bishop in una strumentazione sobria e senza fronzoli ma decisamente incisiva.
Solo sette brani, tre però sopra i sette minuti e nessuno inferiore ai quattro, che evocheranno in molti paragoni con Bonnie Bramlett, Susan Tedeschi e, perché no, Bobbie Gentry, ma che in definitiva appartengono esclusivamente al marchio di fabbrica della Bishop. Che ci regala autentici gioielli, come l’iniziale Love Revolution, con la voce della texana che cresce d’intensità passando da sussurro a ringhio, e il brano che si gonfia in un crescendo trainato dall’intenso assolo di chitarra di Ryan Tharp. Una canzone di impressionante potenza, che apre un disco, forse non tutto allo stesso livello (Keep On Moving e I Don’t Like To Be Alone sono abbastanza prevedibili), ma decisamente intrigante e centrato.
Le atmosfere paludose della title track, il groove funky di Every Happiness Under The Sun e gli accenti gospel delle conclusive Women At Well e Song Don’t Fall Me Now sono momenti davvero ispirati, che palesano il grande talento della Bishop sia in fase di scrittura che di interpretazione. La collaborazione con Jordan, poi, è decisamente riuscita: i due hanno creato un flusso di musica coeso e omogeneo, che riesce a mantenere alto il pathos dall’inizio alla fine del disco, senza alcun cedimento.
Non so dire se questo nuovo lavoro aprirà alla cantante texana le porte dell’auspicato successo commerciale, perché il minutaggio dei brani è troppo lungo per avere un appeal radiofonico e perché il songwriting è troppo maturo e adulto per riuscire a sfondare fra un pubblico giovane. In quanto a qualità, però, non dubito che la critica finirà per essere nuovamente concorde nel definire The Walk un gran bel disco.

VOTO: 7,5





Blackswan, mercoledì 23/10/2019

martedì 22 ottobre 2019

PREVIEW




CHRISTOPHER PAUL STELLING annuncia BEST OF LUCK, il nuovo album prodotto da BEN HARPER, in uscita il 7 febbraio su ANTI- Ad aprile 2020 sarà in Italia per quattro date.
Cantante appassionato e virtuoso della chitarra, Christopher Paul Stelling ha appena annunciato Best Of Luck, il suo quinto album prodotto da Ben Harper, disponibile dal 7 febbraio, contestualmente alla pubblicazione del primo estratto “Trouble Don’t Follow Me” con un video diretto da Andrew Anderson: Stelling percorre le strade boscose del North Carolina su un pick-up Ford degli anni ’60.
Attraverso l’album, i dubbi e il malcontento vengono trasformati in messaggi di resilienza e speranza. “Trouble Don’t Follow Me” cattura perfettamente questa idea, con un ritmo allegro e quasi anthemico e una voce piena di soul e gospel. “Non mi sorprende che una delle mie canzoni più ottimistiche possa essere stata scritta nel momento più difficile,” dice Stelling. “Quando tutto ciò di cui avevo bisogno era un po’ di speranza, e una canzone da poter suonare notte dopo notte senza stancarmi. Qualcosa che catturasse la ricetta di base della resistenza. Una canzone sul marciare avanti, un avvertimento per tutto ciò che potrebbe ostacolarti e il bisogno di sentirsi forti per le persone intorno in modo da poterle ispirare a fare lo stesso.”
In settembre, Stelling ha pubblicato il singolo “Have To Do For Now”, accompagnato da un video anch’esso diretto da Andrew Anderson nella casa Stelling ad Asheville. Il video segue Stelling mentre trascorre il tempo a casa tra la fine dell’estate e l’inizio dell’autunno, viene sopraffatto da dai ricordi e dà a questi ricordi la forma di una canzone (guardalo qui).
Ben Harper afferma di avere immediatamente riconosciuto uno spirito affine nel virtuosistico finger-picking di Stelling. “Fu come trovare un John Fahey che fosse anche un cantante eccezionale.”
Best Of Luck è un disco raffinato ed estremamente accessibile che fonde abilmente i generi. Harper, che ha prodotto album di Mavis Staples, Rickie Lee Jones, The Blind Boys of Alabama e molti altri, ha reclutato una sezione ritmica all-stars composta da Jimmy Paxson (Stevie Nicks, Dixie Chicks) alla batteria e il bassista Mike Valerio (Randy Newman, LA Philharmonic) per dare versatilità al lavoro. “Credo davvero che questo disco sia l’intersezione tra il folk e il soul,” ha detto Harper.
Ecco le date italiane:
15 aprile – Milano, IT – Legend Club
16 aprile – Torino, IT – Blah Blah
17 aprile – Firenze, IT – Arci Progresso
18 aprile – Ravenna, IT – Boca Barranca





Blackswan, martedì 22/10/2019

lunedì 21 ottobre 2019

Il MEGLIO DEL PEGGIO



E venne il giorno della "singolar tenzone": Matteo Renzi sfida a duello Matteo Salvini. La contesa, più mediatica che altro, si è svolta sullo stesso suolo che vide lustri orsono, un impettito Silvietto firmare il celebre contratto con gli italiani. Al cospetto di un compiaciuto Bruno Vespa, i contendenti si sfidano a colpi non di fioretto, ma di sorrisetti di circostanza e di battute ironiche secondo un copione studiato a tavolino dai guru della comunicazione. Se i telespettatori si aspettavano attacchi frontali su Russiagate, xenofobia e razzismo da una parte, e sullo scandalo che ha coinvolto l'ex ministro Luca Lotti e il Csm dall'altra, sono rimasti a bocca asciutta. 
Si è assistito a una sfida non tra contrapposte visioni politiche ma tra egolatrie ridondanti: l'uno, il senatore di Rignano, ex rottamatore rottamatosi con il referendum costituzionale, troppo bulimico di protagonismo e di visibilità ha persino fondato un partito a sua immagine, pur di non restare seduto in panchina e guardare la partita da bordo campo. L'altro, il Capitano, quello dei pieni poteri, salvo poi incartarsi in una crisi di governo da lui stesso creata e gridando al complotto, ritorna come un figliol prodigo da Silvietto e ricompatta il centrodestra con la virago Meloni a piazza San Giovanni. 
Tutto e' lecito pur di apparire: se l'uno parla alla testa degli italiani, l'altro si rivolge alla pancia. Renzi e Salvini sono facce di una stessa medaglia: è il tramonto dei contenuti e il prevalere della comunicazione, della visibilità a tutti i costi in un avvilente reality che sembra non avere fine.

Cleopatra, lunedì 21/10/2019

domenica 20 ottobre 2019

OLD CROW MEDICINE SHOW - LIVE AT THE RYMAN (Columbia Records/The Orchard, 2019)

Se la roots music americana continua a godere di ottima salute, lo si deve soprattutto a band come gli Old Crow Medicine Show, capaci di affiancare a un’evidente attenzione filologica anche un surplus di esuberanza e di ispirazione. Il loro approccio verace e giovanilistico (non tanto nel senso dell’hype o dell’immagine quanto semmai nella forza esplosiva delle loro performance) toglie, così, la polvere da un genere antichissimo, restituendogli nuovo smalto e mantenendolo credibile nei confronti anche delle nuove generazioni, grazie a sostanziose dosi di pathos energizzante.
La band capitanata da Ketch Secor, da anni continua a miscelare country, bluegrass e blues, spolverando il tutto con uno sbuffo di rock e irrorando la miscela di vera e propria attitudine punk. Così, nonostante gli OCMS siano a tutti gli effetti una string band, il risultato finale, sia in studio che dal vivo, sembra sempre inaspettatamente attraversato da una vibrante elettricità.
Non è un caso che la band, nonostante siano passati ormai due decadi dai lontani esordi, non abbia ceduto un solo grammo di peso specifico artistico, inanellando un disco più bello dell’altro, ampliando sempre più la schiera dei fan (la band è ormai conosciuta e stimata anche fuori dei confini nazionali) e conquistandosi con Remedy (2014), nono album in studio, un ambito Grammy Awards per il miglior disco folk dell’anno.
Questo ultimo Live At The Ryman, registrato nella cornice storica e suggestiva del celebre auditorium di Nashville, celebra i vent’anni di carriera e fotografa la band nel proprio ambiente naturale che, come nella miglior tradizione del genere, resta il palco. Dieci brani in scaletta (la prima traccia è un’introduzione alla serata corredata dai saluti al pubblico) senza trucchi e senza inganni, in cui viene evidenziata quella potenza nell’esecuzione, di cui si diceva poc’anzi, ed emerge, dato non certo marginale, l’indiscutibile caratura tecnica del combo, che sta sugli strumenti con tracimante ardore senza però sbavare di una sola nota la nitidezza del suono.
La non eccessiva durata del disco, poi (sono quarantatré minuti in totale), sottolinea vieppiù l’hic et nunc di una performance travolgente davanti a un pubblico in adorazione, che non perde occasione per far sentire il proprio coinvolgimento. Un live che si beve tutto d’un fiato e che non conosce un attimo pausa: dall’honky tonk dell’iniziale Tell It To Me, alla giga furibonda di Shout Mountain Music fino al cavallo di battaglia Wagon Wheel, cantata in coro dal pubblico, Live At Ryman suona come una grande festa a cui, davvero, mancano solo i fuochi d’artificio. E se un’immensa versione di Methamphetamine fa tremare le vene dei polsi, lo scatenato traditional Will The Circle Be Unbroken, posto a chiusura concerto, se ascoltato a volume ragguardevole, rischia di far tremare (e incrinare) i vetri delle finestre di casa.
Live imperdibile per i fan degli Old Crow Medicine Show, e il modo migliore, per chi non li conosce, per approcciarsi a questa fantastica band.

VOTO: 7,5





Blackswan, domenica 20/10/2019

venerdì 18 ottobre 2019

PREVIEW




Yann Tiersen annuncia il nuovo album intitolato Portrait composto da nuove registrazioni di 25 brani, scelti dalla sua discografia, e tre inediti. In uscita il 06 dicembre su Mute, l’album sarà disponibile su triplo vinile, doppio CD, su audiocassetta e in digitale. Sia la versione trasparente che quella nera del vinile di Portrait includono un 7” con nuove versioni alternative al clavicembalo di “Comptine d’Un Autre Été (L’Après-Midi)” e “The Waltz of the Monsters”, non disponibili altrove. 
Registrato con i musicisti, presso lo studio The Eskal, in presa diretta su nastro 24 tracce 2″ pollici, mixato su nastro stereo ¼  e poi masterizzato da nastro a vinile, l’album vede Tiersen utilizzare un approccio analogico. “Limitare la nostra abilità di manipolare digitalmente, sovraincidere o fare cambiamenti, ha donato al processo di registrazione energia e una tensione meravigliosa, elementi che pensavo fossero andati persi per via delle infinite possibilità che la registrazione digitale offre. Per mantenere la musica nel mondo reale bisogna evitare di tradurre il suono in 1 e 0.” Il risultato è un album pieno di vita ed energico come se fosse un concerto dal vivo ma presentato come album in studio.
Portrait vede la collaborazione di John Grant, Gruff Rhys dei Super Furry Animals, Stephen O’Malley dei Sunn O))), e i Blonde Redhead ed è stato registrato dai turnisti Emilie Tiersen, Ólavur Jákupsson e Jens L Thomsen al The Eskal, il nuovo studio recentemente costruito da Tiersen sull’isola di Ushant, in Bretagna.
Le reinterpretazioni presenti in Portrait, provengono dall’intera carriera di Tiersen: dal suo album di debutto The Waltz of the Monsters (1995) fino a Dustlane (2010), e dai suoi album più recenti EUSA e ALL. L’album include  ‘Porz Goret’, ‘Rue des Cascades’, ‘Monochrome’, ‘Comptine d’Un Autre Été (L’ Après-Midi)’ e ‘La Dispute’, dando ai fan l’opportunità di riscoprire questi brani nelle versioni che Tiersen considera definitive.





Blackswan, venerdì 18/10/2019 

giovedì 17 ottobre 2019

ZAC BROWN BAND - THE OWL (BMG, 2019)

Come suicidarsi artisticamente, istruzioni per l’uso. In queste poche parole si può riassumere il giudizio sulla nuova fatica di Zac Brown. In circolazione ormai da undici anni, l’irsuto country rocker originario della Georgia, pur non avendo mai fatto dischi epocali, si è guadagnato negli anni un seguito nutrito di fan, facendo peraltro incetta di premi, tra cui tre Grammy Awards. E forse è proprio il successo su scala nazionale, che ha spinto Brown a cercare il colpo grosso, spostando le sonorità roots verso una dimensione più mainstream e radiofonica. Una scelta professionale che ha fatto non poco arrabbiare i fan della prima ora, che non hanno lesinato critiche, a volte davvero pesanti.
E’ da Jekyll + Hyde (2015), però, che il rocker di Atlanta ne azzecca davvero poche (va bene, Welcome Home del 2017 non era completamente da buttare) e che la critica e gli aficionados non gli risparmiano nulla, tanto che Brown, durante la serata di gala degli CMA Awards, è sbottato con un “fuck the haters!” che non ammette repliche.
In questo caso, però, non si tratta di odio, ma semplicemente di dare un giudizio a un’opera musicale. Brown faceva del buon country rock e il cambio di rotta, chiaramente, sconcerta. Per carità, si possono intraprendere diversi percorsi artistici, abbandonando la casa madre, e fare comunque le cose per bene. Il problema è che questo nuovo The Owl è un pasticcio senza capo né coda, un abbraccio esiziale con sonorità moderne e molto mainstream, che Brown non sa gestire, soprattutto a livello di scrittura.
Basta ascoltare una volta il singolo Someone I Used To Know dalle sonorità vagamente EDM, per aver voglia di prendere il cd e lanciarlo dalla finestra. Il singolo, però, è la quarta traccia in scaletta e ci si arriva faticosamente, dopo aver ascoltato nefandezze come l’iniziale The Woods e suoi fastidiosi beats elettronici o l’atroce Need This, in cui l’uomo si cimenta pure in un cantato rap.
Alla terza traccia, OMW, pensi addirittura di aver inserito nel lettore un disco di Justin Bieber e lo sgomento è talmente invasivo da costringerti a pescare dalla discografia metal uno a caso dei dischi degli Slayer, per ripulire le orecchie da tanto indigeribile pattume.
Cosa ci faccia, poi, Brandi Carlile, ospite in una brano debole e prevedibile (il migliore del disco, peraltro) come Finish What We Started, è un mistero che mi ha tenuto sveglio un’intera notte (o forse era solo il panino alla salamella, non ricordo).
Se quanto raccontato fin ora non vi ha sufficientemente terrorizzato, vi suggerisco ad abundantiam la traccia numero otto, intitolata Warrior, omaggio pompato, retorico e militarista ai soldati dell’esercito americano.
Detto questo, vi assicuro che poche volte ho fatto tanta fatica ad ascoltare un disco e ancor più a recensirlo, e mi consolo, con una punta di astio vendicativo, onorando The Owl con la palma di peggior disco del 2019. Amen.

VOTO: 4





Blackswan, giovedì 17/10/2019

mercoledì 16 ottobre 2019

PREVIEW



SUNDOWNING, album d'esordio degli Sleep Token, uscirà il 21 novembre su Spinefarm.
“Give”, il settimo brano dell’album di debutto degli Sleep Token, Sundowning, è stato pubblicato e segue il precedente “Take Aim”.
Sundowning, cioè la sindrome del tramonto, è un fenomeno neurologico associato a crescente confusione e irrequietezza nei pazienti affetti da delirio o altre forme di demenza. Il termine ‘sundowning’ è stato coniato a causa del timing della confusione dei pazienti. Per i pazienti affetti da sindrome del tramonto, inizia a verificarsi una moltitudine di problemi comportamentali verso sera o quando tramonta il sole…”.
Da giugno a novembre, attraverso 12 tracce e stagioni che passano, gli Sleep Token rivelano una serie di registrazioni uniformi nello spazio e con tempi precisi, che si distinguono sia come pietre di paragone individuali sia come sequenza di tracce musicali accuratamente allineate, il tutto informato da un filo emotivo comune e da un flusso di grafiche e video specifici per ogni canzone; il risultato finale è una versione sia fisica sia digitale dell’album (22 novembre), con scelte di formato che abbracciano un box-set su misura contenente una varietà di elementi esclusivi, tra i quali le prime registrazioni della band.





Blackswan, mercoledì 16/10/2019

martedì 15 ottobre 2019

THE ORPHAN BRIGADE - TO THE EDGE OF THE WORLD (Appaloosa Records, 2019)

In un panorama musicale cristallizzato in prevalenza su standard consunti e formule prevedibili, il progetto degli Orphan Brigade spicca, oltre che per la qualità delle composizioni, anche per la volontà di infrangere consuetudini, scritte e non, e cercare forme espressive più libere e originali. 
L’idea è semplice ed efficace: creare una musica itinerante, che si leghi a doppio filo con i luoghi in cui viene composta e suonata, in modo da creare una geografia dell’anima e dell’arte, che suoni più sincera e immediata di quanto possa avvenire in un normale studio di registrazione. Hic et nunc, qui e ora, in un rapporto simbiotico tra le note e ciò che le circonda. E questa continua migrazione della band, alla ricerca di un’ispirazione che sia il meno artificiale possibile, che trovi come fonte il contatto diretto tra gli artisti e un mondo esterno, diverso ogni volta, è anche il grimaldello non solo per raccontare uno spazio, un territorio, una località, ma anche per recuperare le storie, le leggende e i misteri, spesso dimenticati, che hanno contribuito a crearne la leggenda.
Nel 2015, gli Orphan Brigade (la cui anima è composta da Nelson Hubbard, Ben Glover e Joshua Britt, nucleo attorno al quale ruotano valenti musicisti), pubblicarono Soundtrack To a Ghost Story, disco registrato presso la Octagon Hall di Franklyn, che non è uno studio ma una dimora museo, appartenuta a Andrew Jacskon Caldwell, proprietario terriero, morto nel 1866. Due anni dopo, nel 2017, gli Orphan Brigade si sono trasferiti a Osimo, nel cuore delle Marche, dove il nuovo disco, Heart Of The Cave, fu quasi interamente registrato. In questo caso, l’originalità del progetto, fu scegliere il cuore della terra, e cioè i famosi cunicoli sottostanti la città marchigiana, come location ove dar forma alla scaletta dell’album.
Per il terzo full lenght, l’ensemble americana si è spostata di nuovo, e precisamente nella contea di Antrim, in Irlanda del Nord, tra distese di verde lussureggiante, impervie falesie e il ruggito dell’oceano, incombente, minaccioso e al contempo evocativo. Un luogo in cui lo sguardo si perde tra i colori di una bellezza che sembra antichissima ed eterna, e vola lontano, verso orizzonti oltre i quali, come recita il titolo del disco, si trova il confine del mondo, così come noi lo conosciamo.
E’ in questa magnifica cornice che le canzoni di To The Edge Of The World sono state concepite e registrate: una musica in cui sonorità celtiche e roots americano convivono in perfetta simbiosi, parti inscindibili di un insieme fatto di contemplazione e riflessione (la conclusiva Mind The Road, in tal senso, è un invito all’umanità a guardare le vestigia della storia come monito per non ripetere gli errori del passato), di storie misteriose e di fantasmi evocati.
Ogni brano in scaletta è legato a un luogo preciso e porta con sé un racconto: la splendida Captain’s Song, dedicata a un famigerato capo clan del 1500, è stata scritta su una barca nella baia di Glenarm, e vede anche il contributo del grande John Prine, la giocosa Fair Head’s Daughter (dal testo, invero, molto cupo) è stata composta presso le grotte della spiaggia di Cushendun, dove sono state girate due sequenze de Il Trono Di Spade, mentre l’inquietante ballata Banshee, dedicata alla figura mitologica femminile il cui lamento è annunciazione di sventura, è stata registrata a mezzanotte, nella foresta di Glenarm.
Quattordici canzoni in scaletta, suonate benissimo peraltro, che suonano come brevi racconti e evocano luoghi e mondi lontani: da ascoltare in cuffia e da godere fino in fondo, grazie anche al fatto che Appaloosa Records ha inserito nel booklet tutti i testi tradotti in italiano e note a margine.
Ennesimo, bellissimo disco.

VOTO: 8 





Blackswan, martedì 15/10/2019

lunedì 14 ottobre 2019

IL MEGLIO DEL PEGGIO


La sagra della bufala non chiude mai i battenti. Da quando Matteo Salvini occupa quotidianamente la scena politica e gossippara, non c'è giorno in cui non ci ritroviamo nel piatto una bufala bella fresca. Dopo la sortita durante il comizio di Pontida, in cui l'improvvido ex ministro ostento' una minore in braccio spacciandola per una vittima dello scandalo sul presunto traffico di minori a Bibbiano e rivelatasi poi una panzana doc, il Capitano, non pago della figura da cioccolataio, ci delizia con altre leccornie da leccarsi i baffi. 
Questa volta la bufala ce la serve a cena durante la puntata della trasmissione di Giovanni Floris. Il ruspante ex ministro, incalzato dalle domande del padrone di casa sul Russiagate, risponde, o meglio dribbla, mostrando una foto dal telefonino di un orecchio di un poliziotto preso a morsi, a suo dire, da un detenuto nordafricano."Mi sono rotto le palle che i nostri uomini della sicurezza vengano aggrediti da delinquenti che arrivano dall'altra parte del mondo", precisa impettito. 
Peccato che a rompergli le uova nel paniere sia stata la sorella della persona, vittima dell'episodio, che su Facebook ha smascherato la panzana chiarendo l'accaduto. L'orecchio in questione è di un ispettore carcerario che è stato colpito accidentalmente da un fornello a gas lanciato attraverso lo spioncino della cella da parte di un detenuto a cui era stata negata una telefonata non prevista dal regolamento. 
Dunque un incidente e non un'aggressione, come invece ha lasciato intendere Salvini alle prese con una sbornia (triste) che non passa. Insomma, tra bufale, mojito e cubiste, per il Capitano il teatrino sembra proprio non volere finire.

Cleopatra, lunedì 14/10/2019

sabato 12 ottobre 2019

CHEAP WINE - FACES (Cheap Wine Records, 2019)

Ci sono band che invecchiano male e che si trascinano stancamente per anni, manifestando un’afasia di contenuti e ispirazione che sa di rimpianto e occasioni perdute. E poi ci sono band, come i Cheap Wine, che non solo non hanno subito le angherie del tempo, ma a cui il trascorrere degli anni ha trasmesso una nuova consapevolezza, una maturità in cui cesello stilistico e slancio creativo convivono con risultati stupefacenti.
A due anni di distanza dall’ottimo Dreams, la band pesarese torna sulle scene con nuovo disco, autoprodotto e nuovamente realizzato attraverso lo strumento del crowfunding, e fin dal primo ascolto, stupisce come i Cheap Wine siano capaci di rinnovarsi senza snaturare la propria identità artistica. Faces, infatti, suona famigliare, di quella stessa famigliarità che si prova nel ritrovare un amico o rinnovare una tradizione; ciò nonostante, nulla in queste nove tracce suona come la riproposizione di clichè stereotipati o formule prevedibili e consunte.
Non è solo il songwriting, come sempre ispirato e di qualità: in Faces si ascolta una band consapevole dei propri mezzi, che potrebbe viaggiare con il pilota automatico inserito, e che invece sta sugli strumenti con palpabile entusiasmo e con una forza d’urto talora travolgente. E non è un caso che questo sia un disco “molto suonato”, con anche lunghe code strumentali a chiosare i brani, che trasmettono all’insieme una connotazione quasi jammistica (e sarà interessante ascoltare dal vivo, in un contesto, quindi, meno vincolante, come questa componente verrà sviluppata).
Nonostante l’approccio alle canzoni sia inequivocabilmente rock, la scaletta è però attraversata da un mood cupo, in cui convivono riflessioni malinconiche e contemplazione crepuscolare. Alla metrica precisa e potente della sezione ritmica (Alan Giannini alla batteria e Andrea Giaro al basso) e alle chitarre sferraglianti dei fratelli Diamantini, fanno, infatti, da contrappunto le tastiere di Alessio Raffaelli, il cui tocco asciutto e icastico diviene spesso l’elemento risolutivo in chiave emozionale. Percezione, questa, evidente fin dall’apertura di Made To Fly, la cui vibrante elettricità viene destabilizzata da poche note di tastiera che sprofondano il brano verso un’inquietante penombra.
A contribuire a questa tensione emotiva, ci sono poi le belle liriche di Marco Diamantini, incentrate sul tema dell’identità, sviscerato tra nichilismo, disperazione e desiderio di fuga: i volti che affollano le nostre vite, alcuni indifferenti e sfumati, altri feroci e malevoli, e le mille sfaccettature della nostra anima, che deve misurarsi con un mondo ostile, in un alternarsi di disagio, sofferenza e inadeguatezza.
Se il precedente Dreams era attraversato da lampi di luce e suggeriva una visione del mondo filtrata attraverso la dimensione onirica del sogno e vividi barlumi di speranza, in Faces la tensione scema solo nel finale, tra le volute psichedeliche di New Ground, i cui languidi arabeschi accompagnano “la fuga dalla città disperata” e segnano l’abbrivio per una nuova vita e un possibile riscatto.
Difficile trovare il meglio in questi quaranta minuti di musica suonata e arrangiata perfettamente, ma a voler operare necessariamente una scelta indico la livida malinconia di The Swan And The Crow, il tiro diretto e il riff scorticato di Disguise e le cupe spire della title track, dalle sonorità contigue al post punk.
Se è indubitabilmente vero che il ”rock ‘n’ roll is a state of mind”(Misfit), il merito dei Cheap Wine è quello di essere riusciti nuovamente a materializzare questa inclinazione nel migliore dei modi, con un disco potente e vibrante ma capace di suscitare nel contempo importanti riflessioni esistenziali. E questo, è tutto ciò che il rock dovrebbe fare. Sempre. Play It Loud, Think It Loud.

VOTO: 8





Blackswan, sabato 12/10/2019