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mercoledì 30 settembre 2020

IN THE AIR TONIGHT - PHIL COLLINS (Atlantic, 1980)

 


Quando il 15 gennaio del 1981 Phil Collins si siede al pianoforte per eseguire In The Air Tonight a Top Of The Pops, è per lui un periodo complesso, frenetico, esaltante da un punto di vista professionale, ma sentimentalmente disastroso. Anni decisivi per la carriera artistica del batterista dei Genesis: stringe amicizia con John Martyn con cui collabora a Grace And Danger (1980), entra nella line up del terzo (1980), splendido, album di Peter Gabriel (esperienza che ispira alcuni dei suoni presenti in Face Value), pubblica con la casa madre Duke (1980), album spartiacque nella carriera dei Genesis, che spiazza tanti vecchi fan per conquistarne di nuovi.

E quindi, a febbraio del 1981, dà alla luce Face Value, il suo esordio solista, che lo vede in veste di compositore, produttore e cantante. Un disco che apre a un inaspettato successo e che esalta le doti di hit maker di Collins, capace di fondere soul, r’n’b, adult pop e suoni campionati con un’efficacia e un’eleganza formale davvero invidiabili.

Se artisticamente Collins è lanciato verso un’orbita di successi seriali, la sua vita sentimentale però è andata in pezzi. Ha infatti divorziato da Andrea Bertorelli, la ragazza conosciuta quando i due erano ancora bambini, e poi divenuta sua moglie e madre di suo figlio Simon.

E’ il 1979, quando la donna molla Collins nella casa di campagna che condividevano in Inghilterra e se ne va. Una mazzata per il batterista, che entra in una crisi esistenziale che non sembra avere fine. Si isola da tutti, si chiude nella sua villa e scrive a raffica, cercando nel potere lenitivo della musica la forza di uscire da un dolore che lo divora.

Un lutto sentimentale totalizzante e feroce, che però tira fuori alcune delle cose migliori mai scritte da Collins in carriera, un songbook dello struggimento che in parte finirà su Duke (Misunderstanding), in parte verrà recuperato in futuro come base per straordinarie hit (Against All Odds e Don’t Lose My Number) e in parte confluirà in questo album di debutto.

Face Value è un disco che parla di un cuore spezzato e della fine di un amore: la ex moglie è ovunque, in ballate struggenti come You Know What I Mean e If Leaving Me Is Easy, o in brani più vivaci come I Missed Again, che spinge sulla ritmica e sul groove funky, nonostante il titolo assai esplicito.

In questo contesto scuro e depresso, In The Air Tonight, primo singolo estratto dall’album e prima hit assoluta di Collins, spinge oltre la riflessione amorosa. Se, infatti, in altri brani il mood è triste e afflitto, la punta di diamante di Face Value è invece una vera e propria invettiva, una canzone che trasfigura la sofferenza e la perdita in rabbia e livore.

C’è astio e voglia di vendetta “in the air tonight”, perché il male che è stato fatto non viene e non verrà mai dimenticato. Parole crude quelle di Collins, parole che non ammettono repliche: “Well, if you told me you were drowning, I would not lend a hand” (Se mi avessi detto che stavi affogando, non ti avrei teso la mano). E’ il rancore a dominare incontrastato nelle liriche del brano, un rancore cieco, che non può essere placato: "Beh, io ricordo. Io ricordo, non preoccuparti. Come potrei mai dimenticare?... La ferita non si vede, ma il dolore continua a crescere. Niente di nuovo, né per me, né per te.”

Un testo secco e diretto, che tuttavia fece nascere una di quelle leggende letterarie che a volte accompagnano la storia della musica. Secondo questa interpretazione, la canzone si riferirebbe a un fatto realmente avvenuto nella vita di Collins, il quale, vide un uomo affogare in un lago vicino a casa, mentre un altro uomo, in piedi sulla sponda, guardava senza intervenire. Versione suggestiva, ma inventata.

La canzone si riferisce alla ex moglie Andrea, e lo stesso batterista successivamente precisò che quella dell’annegamento era solo una metafora. Quel che è certo è che Collins, quando si siede al pianoforte per eseguire la canzone a Top Of The Pops, quel divorzio non lo ha ancora digerito. Nel video, a fianco del batterista, compaiono, infatti, un barattolo di vernice e un pennello da imbianchino. Motivo? Collins aveva appena saputo che la ex moglie si era messa insieme a un decoratore. Quando si dice: “legarsela al dito”.

 


 
 
Blackswan, mercoledì 30/09/2020

martedì 29 settembre 2020

DIRTY STREETS - ROUGH & TUMBLE (Alive NauralSound Records, 2020)

 


I Dirty Streets sono la classica band di talento, con un’impeccabile discografia alle spalle e un’incredibile potenza di tiro collaudata da centinaia di infuocati live act. Eppure, come spesso accade (forse troppo spesso), resta collocata in quel sottobosco alternative frequentato solamente da pochi aficionados. Questo power trio proveniente da Memphis avrebbe, infatti, tutte le carte in regola per divenire rilevante come altri gruppi che si muovono in territori simili, i primi dei quali a venire in mente sono i Rival Sons.

L’impianto musicale dei Dirty Streets, come evoca il nome del gruppo, è sporco e grezzo, i lori riferimenti stilistici guardano a grandi classici come Jimi Hendrix, Faces, Led Zeppelin, Creedence Clearwater Revival e Humble Pie, ma la potenza hard rock blues insita nelle loro composizioni trova un’espressione meticcia, convivendo con sonorità soul e funky. Il risultato è, quindi, è una miscela cruda e turbolenta in cui il rock si sposa con echi Stax e Motown, un lungo groove, tutto sangue e sudore, che si muove come una corrazzata dal cuore pulsante di Memphis.

Il leader della band, Justin Toland (chitarra/voce), si è approcciato alla musica attraverso suo padre, un appassionato di classic rock che ha fatto conoscere al figlio Stones, Creedence e molta musica soul. A 17 anni Toland si trasferìsce a Memphis dove incontra Thomas Storz (basso), nativo della città, e lo frequenta grazie a comuni amici. La coppia trova ben presto un terreno musicale comune e inizia a suonare con il contributo estemporaneo di vari batteristi, fino a quando nel 2007 entra a far parte del trio Andrew Denham (batteria), batterista nato a Shreveport e patito dell'hard-rock di matrice britannica. Inizia così la carriera dei Dirty Street, vera e propria garage band, che inizia a suonare con pochi mezzi, e peraltro assai rudimentali, ma che si fa conoscere nell’area di Memphis grazie a dei live act feroci e travolgenti. Cinque album all’attivo, Portrait of a Man (2009), Movements (2011), Blades of Grass (2013), White Horse (2015), Distractions (2018), che hanno preceduto questo Rough And Tumble, disco pervaso dalla medesima veracità dei suoi predecessori e connotato dal consueto approccio ruvido e possente, così richiamato dal titolo.

Come si diceva poc’anzi i riferimenti stilistici dei Dirty Streets sono immediatamente riconoscibili, cosa che appare ben chiaro fin dall’opener Good Pills, infuocato hard rock che paga debito agli Humble Pie, e che in due minuti e mezzo mostra di che pasta sono fatti questi tre ragazzi: il riff sanguinoso, il timbro soulful di Toland e una sessione ritmica che non lesina colpi bassi. Inizio in derapata, seguito poi da Tell The Truth, un blues ispido e coriaceo che potreste tranquillamente trovare in un disco di John Fogerty.  

Sono tanti i momenti in cui band picchia senza farsi troppi scrupoli, come succede nell’untuosa slide sui cui scivola rapida Itta Benna, nel clichè hendrixiano di Can’t Go Back o nella polvere sollevata dalla potenza elefantiaca di Think Twice, tutta muscoli, sporcizia e pedale wah wah.

I Dirty Streets, però, sono anche capaci di rallentare il passo e regalare all’ascoltatore due magnifiche ballate rurali: The Voices (su cui aleggia lo spirito dei Creedence Clearwater Revival) e la conclusiva On The Way, gli occhi abbacinati dal sole, mentre poco più in là scorrono sonnolente le acque del Mississippi. Chiosa di un disco rumoroso e vibrante, che si allinea a quelli precedenti, per una discografia (e una band) che meriterebbero ben altra visibilità mediatica.

VOTO: 7,5 




Blackswan, martedì 29/09/2020


lunedì 28 settembre 2020

IL MEGLIO DEL PEGGIO

 


Il caso Sardegna è stato un attacco mediatico orchestrato politicamente e il Billionaire è stato strumentalizzato perché conosciuto in tutto il mondo: solo le discoteche di destra avevano il Coronavirus, quelle di sinistra no”. Parola di Flavio Briatore.

Non c’è da stupirsi se la vacuità di certi personaggi continui a imperversare anche ai tempi del Covid. La nostra società è purtroppo popolata per lo più da soggetti la cui unica attitudine è l’irrisione, la sfrontatezza, l’edonismo sfrenato. Quando assistiamo alle comparsate televisive di certi maitre a penser da strapazzo che snocciolano teorie bislacche sulla pandemia mi chiedo se non sia il caso di intervenire. Siamo in democrazia, certo. Penso però che questa congiuntura dovrebbe suggerire una maggiore sobrietà nei toni e soprattutto nelle parole. 

Del resto i vari Briatore, le Santanche’, gli Sgarbi e inopinatamente i Bocelli (quello che canto’ in Duomo a Milano durante il lockdown, salvo poi partecipare a un convegno di negazionisti) ci hanno dimostrato quanto la vacuità umana sia dilagante. A proposito degli italiani, Pier Paolo Pasolini diceva così nelle sue Lettere Luterane del 1976:” L’Italia- e non solo l’Italia del Palazzo e del potere- è un paese ridicolo e sinistro...Ma i cittadini italiani non sono da meno. Li ho visti in folla a Ferragosto. Erano l’immagine della frenesia più insolente. Ponevano un tale impegno nel divertirsi a tutti i costi, che parevano in uno stato di “raptus”. 

Era difficile non considerarli spregevoli o comunque consapevolmente incoscienti”. Parole profetiche, premonitrici quelle di Pasolini. “Andrà tutto bene”, si ripeteva compulsivamente. Abbiamo visto e sentito storie di solidarietà, umanità, scambio reciproco nei mesi scorsi. Ma poi è arrivata l’estate che ha portato con se’ la rimozione collettiva. Le vite perse, una generazione cancellata sembrano per molti un lontano ricordo. Bisogna andare avanti, certo. Ma est modus in rebus.

Cleopatra, lunedì 28/09/2020



venerdì 25 settembre 2020

BIFFY CLYRO - A CELEBRATION OF ENDINGS (14th Floor/Warner, 2020)

 


 

La storia dei Biffy Clyro è quella di una band che non è quasi mia riuscita a esprimere al meglio il proprio potenziale. Se da un lato, infatti, sono innegabili l’appeal commerciale del gruppo capitanato da Simon Neil (quanto meno in patria e in terra d’Albione) e la straordinaria potenza live del terzetto, è altrettanto innegabile che la discografia dei Biffy Clyro sia povera di lasciti memorabili. Si si eccettuano Puzzle (2007) e Only Revolutions (2009), non ricordo altri dischi che si distinguano per caratura artistica. D’altra parte, non stiamo parlando di una band, la cui musica è destinata a cambiare le sorti della storia; tuttavia, quando il meccanismo è oliato a dovere, Simon Neil è capace di canzoni divertenti e di vibrante intensità.

E’ quello che succede in questo A Celebration Of Endings, ultimo lavoro della band, che arriva a quattro dal precedente (e deludente) Ellipsis (2016). Le traiettorie su cui si muove la scrittura di Neil sono sempre le stesse: impeto rock, ritmiche battenti e melodie a presa immediata, un tocco di alternative e due tocchi di mainstream. Se talvolta il piatto della casa era risultato un po' sciapo o stracotto, in questa nuova fatica le cose funzionano (prevalentemente) bene, la scrittura è fluida e la messa in opera convinta e pimpante.

Certo, il taglio, prevalentemente radiofonico, a volte, toglie un po' di freschezza alle composizioni, e certi arrangiamenti appesantiscono canzoni che altrimenti potrebbero trovare forme espressive più dirette ed efficaci. Per dire: un singolo come Space possiede una discreta melodia ma l’allestimento, così gonfio d’archi e di suoni artefatti, finisce per imbolsire la canzone e trasmette quell’abboccato dolciastro che può mettere a repentaglio il lavoro del vostro dentista, così come l’esuberanza innodica di un brano come Tiny Indoor Fireworks suona fin troppo grossolana e adolescenziale.

Insomma, difetti ce ne sono e sono ricorrenti; qui, però, non mancano anche i pregi, che in un bilancio complessivo han di gran lunga maggior peso. L’iniziale North Of No South è un gioiellino per equilibrio strutturale e melodia, irresistibile e non prevedibile, The Pink Limit è una randellata ben assestata, incalzante e vibrante, The Champ allinea potenza muscolare e deliziosi coretti, e la conclusiva Cop Syrup stritola in una morsa noise un malinconico crescendo orchestrale dagli esiti quasi prog.

I dischi “importanti” sono altri, certo; A celebration Of Endings, tuttavia, ha il merito di divertire con leggerezza e suggerire reiterati ascolti, sempre, tutti, piacevoli. A volte, può bastare così.

VOTO: 7

 


 

 

Blackswan, venerdì 25/09/2020

mercoledì 23 settembre 2020

EMBRACE - THE GOOD WILL OUT (Hut, 1998)

 


Nella seconda metà degli anni ’90, quando il brit pop domina incontrastato nelle charts di tutto il mondo, emerge, dietro nomi di grido quali Oasis, Blur, Radiohead, Verve, una retroguardia musicale che rielabora, a volte innovandoli, in altri casi riprendendoli pedissequamente, i temi cari a un genere che sembra ormai aver già espresso il suo picco di vitalità. Entrano in classifica band come Travis, Stairsailor, Supergrass ed Embrace, solo per citare alcuni dei gruppi più famosi. Questi ultimi, da non confondere con l’omonima band americana di harcore punk, meteora anni ’80, si formano a Bailiff Bridge (West Yorkshire) nel 1990, per volontà dei fratelli McNamara (Danny, voce e chitarra, Richard, voce e tastiere) a cui si aggiungono ben presto Mickey Dale (tastiere), Mike Heaton (batteria) e Steve Firth (basso).

L’avventura degli Embrace ha inizio con la registrazione di una demo contenente tre tracce (Overflowing, Say It With Bombs e Sooner Than You Think), che viene venduta ai concerti in formato cassetta. La band si sposta a Manchester, dove registra nuovamente i brani, che finiscono su una cassetta allegata alla fanzine di Leeds, The Expression She Pulled. E’ il momento della svolta: il primo singolo, All You Good Good People, viene pubblicato nel febbraio 1997 via Fierce Panda Records, e altri due singoli (Fireworks e One Big Family) danno agli Embrace ulteriore visibilità, tanto che, l’8 giugno del 1998, la Hut, una sussidiaria della Virgin, pubblica The Good Will Out, esordio che vede in veste di produttore un maestro della consolle quale Youth (bassista dei Killing Joke, che l’anno precedente ha messo mano a Hurban Hymns dei verve).

L’album, che salirà alla prima piazza delle charts inglesi, viene osannato dalla critica e ottiene un incredibile successo in termini di vendite, diventando disco d'oro nel suo primo giorno di uscita e uno degli album di debutto più venduti in assoluto da un gruppo britannico (oltre 500.000 copie nella sola Inghilterra). Qual è segreto di questo exploit, che, a ben ascoltare, non aggiunge nulla di nuovo a un movimento che sembra già essersi giocato le carte migliori? Belle canzoni, certo, ma anche la capacità di rielaborare con intelligenza la lezione degli Oasis e dei Verve. Suono che vince non si cambia, insomma: The Good Will Out è un mix equilibrato (e rinfrescato) che sembra uscire dalla penna dei fratelli Gallagher e di Richard Ashcroft, una miscela millesimata di riff di chitarra, arrangiamenti lussureggianti e melodie irresistibili.

Il disco si apre con i sei minuti di All You Good Good People, andamento cantilenante, ritornello innodico, chitarre scintillanti e un brillante arrangiamento di ottoni e archi. Parte la successiva My Weakness Is None Of Your Businness, ed è chiaro che ci si trova di fronte a una grande band con idee chiarissime: la melodia ariosa, l’abbraccio degli archi, il mood malinconico, echi Fab Four, il timbro vocale depresso di McNamara e ancora un ritornello fulminante, da cantare a squarciagola sotto il palco, groppo in gola e accendino alla mano. Tra tante splendide canzoni, che oscillano tra muscolari e ruvidi rock (One Big Family e The Last Gas sono Oasis al 100%) e ballate col cuore in mano (Fireworks sembra un outtake da Urban Hymns, una sorta di The Drugs Don’t Work in ritardo di un anno), spunta anche Come Back To What You Know, il tormentone che vale una carriera, la canzone che in Inghilterra scala le classifiche fino alla sesta piazza e tributa agli Embrace un posticino nella storia del rock britannico. Una ballata che sembra uscita dalla penna dei fratelli Gallagher, malinconica e carica di epos, che conquista con un ritornello immediato, arioso, semplicemente e clamorosamente catchy.

Vetta di un esordio che torna a dare lustro al brit pop e che apre la carriera di una band, tutt’ora in attività, che pur non replicando più tali livelli di ispirazione, ha continuato a rilasciare ottimi album e canzoni capaci di farsi ricordare nel tempo.

 


 

 

Blackswan, mercoledì 23/09/2020

martedì 22 settembre 2020

PREVIEW

 


EELS annunciano l’anticipato nuovo album Earth to Dora in uscita il 30 ottobre su E Works / [PIAS]. In occasione dell’annuncio, la band presenta il nuovo singolo “Are We Alright Again”. L’album sarà disponibile in digitale, su 12” LP standard e doppio 12” LP in un box set deluxe.

Registrato nello studio degli EELS a Los Feliz, California, Earth to Dora è stato prodotto dal leader della band Mark Oliver Everett a.k.a. E ed eseguito da E, Koool G Murder, The Chet and P-Boo.

Riguardo al nuovo album E afferma, “Questi brani sono nati appena prima dell’inizio della pandemia. Spero che possano dare in qualche modo conforto. Ascoltando brani che parlano di cose che sogniamo di tornare a fare. O magari perché  le persone stanno affrontando proprio ora alcune di queste tematiche. Solo una canzone è stata completata proprio durante i primi giorni di pandemia “Are We Alright Again” una sorta di sogno ad occhi aperti in quarantena di cui avevo disperatamente bisogno.”

Earth to Dora è il 13esimo album degli EELS, il primo dall’acclamato The Deconstruction del 2018 descritto da MOJO come “un altro album degli EELS di cui fare tesoro”, da Uncut come “travolgente” e da CLASH come “una collezione di greatest hit dove tutte le hit sono nuove”e include i recenti singoli “ Baby Let’s Make It Real” e “ Who You Say You Are”.

 


 

 

Blackswan, martedì 22/09/2020

lunedì 21 settembre 2020

WALTER TROUT - ORDINARY MADNESS (Provogue, 2020)

 


Dopo aver visto la morte in faccia, qualche anno fa, a causa di una grave cirrosi al fegato, Walter Trout, leggendario chitarrista del New Jersey, ha vissuto una sorta di seconda giovinezza, inanellando un filotto di album tutti bellissimi.

Il ritorno alla vita, nel 2015, con Battle Scars, (vincitore di due Blues Music Awards) che rielaborava il dolore ed esorcizzava la paura della morte, Live In Amsterdam, del 2017, che certificava il ritorno sulle scene, confermando uno stato di forma stupefacente per chi solo qualche tempo prima si era trovato a giocare a scacchi la sua partita con la morte, We’re Al l In This Together (2017), una sorta di grande party organizzato da Trout, invitando tutti i migliori chitarristi in circolazione (e non solo), per celebrare il potere salvifico della musica. E poi, ancora, Survivor Blues (2019), figlio di un’idea non originalissima, ma sviluppata con la consueta classe, in cui Trout reinterpretava una serie di cover di grandi del blues, pescando, però, nel sottobosco dei pezzi meno noti.

Ordinary Madness è il nuovo capitolo di una discografia inappuntabile, l’ennesimo disco di rock blues, tutto sangue, sudore e chitarre. Prodotto da Eric Corne e registrato a Los Angeles, presso gli studi privati del grande Robby Krieger (The Doors), l’album ha visto la partecipazione di Michael Leasure (batteria), Johnny Griparic (basso) e Teddy ‘Zig Zag’ Andreadis (tastiere) e ospitate di peso (come Skip Edwards, Drake ‘Munkihaid’ Shining e Anthony Grisham).

Il disco è stato rifinito poco prima del lookdown statunitense e, in qualche modo, nelle atmosfere meno esuberanti e più riflessive, si percepisce l’eco dell’immane tragedia che ha colpito l’umanità. Le canzoni, poi, suonano leggermente diverse dal solito anche a causa di un ulteriore infausta contingenza: Trout si è rotto tre volte il mignolo della mano sinistra, circostanza, questa, che ha reso più travagliata e complicata la registrazione dell’album.

Ciò nonostante, anche in un clima non proprio idilliaco, Trout ha mantenuto salda la barra del timone, sia a livello di scrittura che di esecuzione, e ha rilasciato un disco ispiratissimo, in cui ballate d’ampio respiro si alternano a brani pervasi dalla consueta, inesauribile energia. In scaletta, nessun filler, ma solo splendide canzoni: l’iniziale title track, bluesone cadenzato, che lentamente prende fuoco tra le vampe di un arroventato assolo, Ok Boomer, chiosa stritolata tra le maglie hard di un suono potente e clamorosamente vintage, Heartland, ballatona tutta epos e vento nei capelli, e, per citarne un’altra, Make It Right, virile esibizione di muscoli pompati da una tonante linea di basso.

Qualche pizzico di elettronica (poca roba, non temete), non toglie (e non aggiunge) nulla a un disco dal suono super classico, rilucente come nei giorni migliori, con cui Trout dimostra, per l’ennesima volta, di stare un gradino sopra, come tecnica e classe, a molti chitarristi blues più giovani e più acclamati. Maestro.

VOTO: 7,5

 


 

 

Blackswan, lunedì 21/09/2020

giovedì 17 settembre 2020

THE WATERBOYS - GOOD LUCK, SEEKER (Cookyng Vinyl, 2020)

 


Un fatto è indiscutibile: Mike Scott continua a sfornare dichi con una costanza invidiabile. Anzi, a ben vedere, ha addirittura intensificato i tempi di uscita: se nel primo decennio dei 2000 aveva dato alla luce tre album, negli ultimi dieci anni i lavori pubblicati sono addirittura cinque. Un’urgenza espressiva, bisogna essere onesti, non sempre seguita dalla qualità delle composizioni proposte, visto che probabilmente l’unico lavoro davvero meritevole di attenzione è Modern Blues del 2015.

Il resto del repertorio, purtroppo non è stato quasi mai all’altezza di quei dischi leggendari, che, a buon diritto, hanno regalato ai Waterboys un posto di rilievo nel rock alternativo britannico degli anni ’80. Good Luck, Seeker, sedicesimo full lenght in studio, somiglia incredibilmente al suo predecessore, The Action Is Here, uscito lo scorso anno, e ne palesa gli stessi difetti (molti) e gli stessi pregi (pochini).

La sensazione è che Mike Scott abbia perso la strada maestra e si sia smarrito in crocicchi e laterali che non portano da nessuna parte. Anche questo Good Luck, Seeker, infatti, è un ampio contenitore (quattordici canzoni, ventiquattro nella versione deluxe) in cui il “signor Waterboys” fa confluire ogni idea che gli balza in testa, buona o cattiva che sia. Il risultato è così un disco che manca di coerenza e compattezza, a tratti confuso e pasticciato, e soprattutto ben lontano da quello stile unico che aveva fatto di This Is The Sea o Fisherman’s Blues due autentici capolavori.

Il buon Mike, tra l’altro, non canta quasi più, preferendo vestire i panni di affabulante storyteller, e spesso, troppo spesso, ricorre a ritmiche quadrate, e un po' cafone, che tolgono respiro e originalità a brani già di per sé non troppo ispirati. Un disco dall’andamento altalenante, quindi, che si gioca le carte migliori nel folk rock di Low Down In The Broom, che per tre minuti evoca i sentori celtici e le atmosfere epiche dei primi dischi, e nei sette minuti (questi, si, splendidi) di My Wanderings In The Weary Land, un brano dall’architettura rudimentale ma efficacissimo negli esiti, quasi una sorta di We Will Not Be Lovers 2.0, costruito sull’impeto vibrante di tamburi battenti e un lungo e sanguigno duello fra violino e chitarra.

Se queste due canzoni sono le vette del disco, la restante scaletta si divide fra brani piacevoli ma sostanzialmente innocui (il r’n’b iniziale di The Soul Singer, gli echi “madchester” di Freak Street, la saltellante leggerezza di Sticky Fingers, le atmosfere eleganti di You’ve Got To Kiss a Frog Or Two) e canzoni davvero prescindibili e bruttine assai (il rap e l’elettronica che imperversano in Dennis Hopper o il folk celtico da supermercato di The Land Of Sunset, per citarne solo due, senza infierire ulteriormente, sono a dir poco sconfortanti).

Forse, sarebbe il momento per Mike Scott di fermarsi un attimo a riflettere. Visto che di buone canzoni è ancora in grado di scriverne, non sarebbe meglio centellinare i dischi, fare una selezione delle cose migliori e curare maggiormente la qualità?

VOTO: 5,5

 


 

 

Blackswan, giovedì 17/09/2020

martedì 15 settembre 2020

DON WINSLOW - BROKEN (HarperCollins, 2020)

 


In sei intensi e tormentati romanzi brevi, Don Winslow ritorna ai temi cardine della sua narrazione e ad alcuni dei suoi personaggi più amati, per esplorare la ferocia ma anche la nobiltà che definiscono la condizione umana.

«Sei storie straordinarie. Una ha il miglior incipit di sempre: Nessuno sa come ha fatto lo scimpanzé a prendere la pistola» – Stephen King

«Con "Broken", Don Winslow si conferma un purosangue, in grado di dare al lettore intrattenimento allo stato puro senza lesinare sulla commedia sociale, pigiando sull'acceleratore quando si tratta di cogliere e far risaltare i risvolti quotidiani dell'inefficienza nella guerra alla droga... "Broken" introduce nuovi personaggi e ne richiama in azione alcuni molto amati: un titolo imperdibile per i suoi appassionati» – Francesco Musolino, Il Messaggero

«Winslow si conferma ancora una volta uno dei maestri del thriller. E dimostra di avere mordente. Tutti dovrebbero imparare da lui» – New York Times

«Un agghiacciante corso intensivo sulle frontiere del crimine. La scrittura di Winslow sa coniugare il virtuosismo tecnico con le infinite possibilità dello stile. Una lettura geniale» – Financial Times

 

Nella nutrita bibliografia di Don Winslow, a fianco alle saghe di Art Keller, Neal Carey e Boone Daniels, non era mai comparsa prima d’ora una raccolta di racconti. Broken ovvia a questa mancanza, proponendoci sei novelle e una veste del tutto inedita del romanziere che ha conquistato un meritatissimo successo grazie alla straordinaria trilogia sul cartello messicano (Il Potere Del Cane, Il Confine, Il Cartello).

In considerazione della maggior brevità dei racconti ivi contenuti, manca a Broken l’ampio respiro epico che aveva pervaso i tre romanzi poc’anzi citati. Per il resto, siamo però di fronte al solito, impeccabile Winslow, capace di conquistare con una prosa asciutta e dal sapore cinematografico, e bravissimo a tenere alto il ritmo e la tensione per tutte le cinquecentotrenta pagine del libro.

Sei racconti, alcuni dei quali dedicati alla fonte che li ha ispirati (Steve McQueen, Elmore Leonard, Raymond Chandler), che rimbombano come sei fucilate, rapide e letali, e che sono anche l’occasione per tornare a far vivere alcuni dei personaggi già precedentemente comparsi nei romanzi di Winslow.

Broken apre il libro con una storia di vendetta, violenta e adrenalinica, che si sviluppa nelle stesse atmosfere che erano state tratteggiate in Corruzione, uno degli ultimi lavori dello scrittore newyorkese, risalente al 2017.  

Rapina sulla 101, abbassa un poco la tensione creatasi con il primo racconto, e si sviluppa come il più classico dei polizieschi, una sorta di caccia al ladro in salsa californiana.

Lo Zoo di San Diego, ha uno spunto bizzarro (uno scimpanzè scappa da un laboratorio armato di pistola) ma lo sviluppo, poi, è molto classico e assai avvincente.

Sunset vede come protagonista Boone Daniels e la Pattuglia dell’Alba e racconta una caccia all’uomo ad alta tensione, che conquista però anche per il retrogusto nostalgico e i continui ammiccamenti alla musica jazz.

Paradise ha un tiro diretto e senza fronzoli e fa tornare in scena, in un suggestivo scenario hawaiano, il trio de Le Belve (Ben, Chon e O) e, udite udite, anche Frankie Machine.

Chiude il libro L’ultima Cavalcata, che è anche il racconto migliore dei sei e quello connotato da una forte critica alle politiche trumpiane: si parla infatti di emigrazione e di confini chiusi, di centri di accoglienza e di traffico di esseri umani. La chiosa perfetta per un libro che, seppur ponderoso, si divora in un batter d’occhio. Quando si tratta di Don Winslow funziona sempre così.

Blackswan, martedì 15/09/2020

lunedì 14 settembre 2020

FANTASTIC NEGRITO - HAVE YOU LOST YOUR MIND YET? (Cooking Vinyl, 2020)

 


Ci sono musicisti che hanno il tocco magico e non sbagliano un disco, nemmeno a farlo apposta, e Xavier Amin Dphrepaulezz, al secolo conosciuto come Fantastic Negrito, è senz’altro uno di questi.

Una carriera iniziata a metà degli anni ’90 sotto il moniker di Xavier e interrotta per lungo tempo a causa di un terribile incidente d’auto, che gli stava costando la vita. Poi, anni di riflessione, vissuti sempre nelle zone limitrofe al music businness, fino a quando nel 2014, il chitarrista originario del Massachusetts da’ alle stampe l’omonimo esordio sotto la nuova egida, con cui, fin da subito, si è accattivato le simpatie di pubblico e critica. Da questo momento in avanti, la carriera di Fantastic Negrito è svoltata decisamente: due dischi, The Last Days Of Oakland (2016) e Please Don’t Be Dead (2018) che sono valsi a Xavier due Grammy Award nella categoria Best Contemporary Blues Album oltre alle stigmate del fuoriclasse, di quello, appunto, che, come si diceva a inizio articolo, non sbaglia un colpo.

Have You Lost Your Mind Yet? conferma l’assunto e ribadisce il concetto che questo cinquantaduenne possiede classe infinita, idee a bizzeffe e un livello di scrittura concesso a pochi. Forse, quest’ultimo lavoro, non è un disco sorprendente come il suo predecessore, è meno pirotecnico e, pur in ambito in cui la contaminazione la fa da padrone, guarda maggiormente a un suono classico, la cui genesi è lontana nel tempo. Ciò nonostante, questo ibrido, in cui confluiscono, con gusto e misura, rock, blues, psichedelia, funky, soul, r ‘n’ b, gospel e hip hop, funziona maledettamente bene per tutti i quaranta minuti della durata dell’album, grazie a undici canzoni (in realtà sono nove più due brevi intermezzi) che suonano al contempo famigliari e spiazzanti, che nascono dall’alchimia fra suoni classici e visione moderna, che imboccano percorsi solo all’apparenza lineari, preferendo semmai repentini cambi rotta.

Il disco si apre con il funky battente di Chocolate Samurai, groove assassino, voce roca che scartavetra la pelle, tappeto di hammond e quella chitarra, pronta a inserirsi, con tocchi acidi e riff muscolari. E’ questo, in linea di massima, il marchio di fabbrica Fantastic Negrito: la capacita di trasfigurare un solido background di black music attraverso un’inclinazione ruvida e rockista, come avviene, ad esempio, in Platypus Dipster, divertita e sferragliante chiosa, tutta impeto e chitarre.

Uno spettro espressivo ampio, quello entro il quale, Fantastic Negrito, si destreggia con le movenze di un califfo, padrone della sua musica e consapevole come pochi. Non è da tutti, infatti, miscelare con equilibro la potenza evocativa dello spiritual con la libertà espressiva dell’hip hop, cosa che avviene, ad esempio, nella folgorante I’m So Happy I Cry (in duetto con Tarriona Tank" Ball dei Tank And The Bangas), uno dei brani di punta del disco.

Poi, come già detto, Dphrepaulezz si muove anche in territori più prevedibili, osa meno, certo, ma senza che l’ispirazione perda d’intensità. Ecco, allora, l’accattivante melodia bluesy di How Long?, o la fascinosa Your Sex Is Overrated, torrido ballatone arroventato da uno strepitoso assolo di chitarra a opera di Masa Kohama, presente nel brano come ospite.

Non solo grande musica, però. Sarebbe, infatti, ingiusto non soffermarsi sull’impegno politico e la critica sociale che trasudano da ogni poro di queste canzoni. Uno sguardo cinico e disincantato su un’America moralmente alla deriva e vittima delle sue infinite contraddizioni, un paese in balia del proliferare delle armi e dello spaccio di droga, in cui non esiste giustizia, a meno che tu non sia ricco e bianco (emblematica in tal senso la breve e caustica Justice In America).

Al quarto disco, Fantastic Negrito fa centro per l’ennesima volta, inserendosi definitivamente nella scia di quei musicisti neri, quali Prince, Sly Stone e George Clinton, che hanno saputo innovare un genere pur rispettandone la tradizione, e che, come tutti i fuoriclasse, non sbaglia(va)no un disco, nemmeno a farlo apposta.

VOTO: 8

 


 

 

Blackswan, lunedì 14/09/2020

venerdì 11 settembre 2020

PREVIEW

 


Il nuovo album di Keaton Henson “Monument” è un album sulla perdita, e sull'affrontare la perdita di coloro che amiamo, raccontata con dettagli incredibilmente sinceri attraverso gli aspetti della nostra vita che gravitano intorno al trauma stesso, sull'amore, l'invecchiamento, il recupero, la vita, visti attraverso il prisma del dolore.
 
"Monument" è il primo album in studio del cantautore, poeta, artista inglese da "Kindly Now" del 2016. L'anno scorso Henson ha pubblicato l'EP "Six Lethargies".
 
Al disco hanno partecipato Philip Selway dei Radiohead (batteria e percussioni), Leo Abrahams (chitarre) e la compositrice Charlotte Harding (sassofono).

 


 

 

Blackswan, venerdì 11/09/2020

giovedì 10 settembre 2020

TERRA ALTA - JAVIER CERCAS (Guanda, 2020)

 


Un crimine spaventoso sconvolge una quieta cittadina nel Sud della Catalogna: i proprietari dell’azienda più impor­tante della zona, le Gráficas Adell, vengo­no trovati morti, con segni evidenti di feroci torture. Il caso è asse­gnato a Melchor Marín, giovane poliziotto e appassionato lettore, alle spalle un passato oscuro e un atto di eroismo quasi involontario, che lo ha fatto diventare la leggenda del corpo e lo ha costretto a lasciare Barcellona. Stabilitosi in questa piccola regione dal nome evocativo di Terra Alta, crede di aver seppellito l’odio e la voglia di riscatto sotto una vita felice, grazie all’amore di Olga, la bibliotecaria del paese, dalla quale ha avuto una figlia, Cosette. Lo stesso nome della figlia di Jean Valjean, il protagonista dei Miserabili, il suo romanzo prefe­rito. L’indagine si dipana a ritmo serrato, coinvolgendo temi come il conflitto tra giusti­zia formale e giustizia sostanziale, tra rispetto della legge e legittimi­tà della vendetta. Ma soprattutto Javier Cercas, l’autore di libri memo­rabili come Soldati di Salamina, Anatomia di un istante, L’impostore, racconta l’epopea di un uomo solo che cerca il suo posto nel mondo, e per questo dovrà lottare e mettere a rischio tutto: i valori, gli affetti, la famiglia, la vita. Una narrazione di assoluta tensione psicologica e morale, che diventa romanzo totale.

Un anziano industriale e sua moglie vengono trovati morti nella loro masseria, i corpi orrendamente mutilati. Dell’indagine è incaricato Melchior Marin, giovane poliziotto dal passato turbolento, che in Terra Alta, dove si è trasferito da qualche anno, è finalmente riuscito a farsi una nuova vita. Nonostante gli sforzi profusi dagli inquirenti, però, gli indizi non portano a nulla, e i vertici della Polizia decidono di chiudere il caso. Melchior non ci sta, è convinto che non tutto il possibile sia stato fatto per individuare i responsabili dell’efferato delitto e, contro il volere dei superiori, continua a indagare per conto suo, mettendo a rischio tutto ciò che ha di più caro.

Lo scrittore catalano Javier Cercas, dopo una serie di fortunati saggi romanzati (Soldati di Salamina, Anatomia di un Istante, L’impostore), abbandona la sua comfort zone e si dedica al genere poliziesco, con risultati, come sempre, ottimi. Perché in Terra Alta c’è tanta carne al fuoco e tutta cucinata a puntino.

L’intreccio noir, costruito sullo sfondo di una provincia catalana aspra e legata ad ataviche tradizioni, è ben costruito e, pur restando in un ambito abbastanza convenzionale, si dipana in modo avvincente e con un finale assolutamente plausibile. La trama poliziesca, però, è anche lo spunto per tratteggiare la figura e la vita del Melchior Marin, uomo tormentato dai fantasmi dell’infanzia e della giovinezza, reduce da una vita dissoluta e al servizio del crimine, ex carcerato con la passione per I Miserabili di Victor Hugo, testo, questo, sviscerato a fondo per tutta la durata del romanzo e abbrivio letterario per riflettere sui temi della giustizia, del rispetto della legge e della vendetta.

Il thriller, però, è anche la scusa per tornare a scrivere di quella guerra civile spagnola (e sulla memoria del popolo spagnolo riguardo a quegli anni bui) che, da sempre, è uno dei temi preferiti da Cercas (i luoghi in cui si svolge il romanzo sono quelli della sanguinosa battaglia sul fiume Ebro) e che, nello specifico, rappresentano anche il movente che sta alla base dei tragici eventi.

In definitiva, Terra Alta è un romanzo, di ampio respiro e dalle molteplici sfaccettature, a cui non mancano, tuttavia, i colpi di scena e il ritmo avvincente del più classico dei gialli. Cercas, per concludere, scrive benissimo, con una prosa semplice e asciutta, capace, però, di scavare la superficie per guardare il profondo dell’animo umano. Con risultati sorprendenti.

Blackswan, giovedì 10/09/2020

mercoledì 9 settembre 2020

DROPS OF JUPITER - TRAIN (Columbia, 2001)

 


E’ fuori di dubbio che la fortuna dei Train sia legata soprattutto a una canzone. La canzone in questione s’intitola Drops Of Jupiter e quando uscì, nel 2001, fu un clamoroso successo internazionale, che trainò l’omonimo album in vetta alle classifiche, e vendette, letteralmente, valanghe di copie. Qualche numero per farsi un’idea: il brano arrivò alla quinta piazza di Billboard Hot 100, rimase per cento settimane nella Adult Contemporary Chart, conquistandone la vetta, e scalò le classifiche di mezzo mondo (prima in Canada e Irlanda, decima in Inghilterra, quinta in Australia), aggiudicandosi un settimo posto anche da noi, in Italia.

Un successo clamoroso, e forse il momento più alto nella storia della band, che aveva esordito solo tre anni prima con un disco d’esordio autofinanziato, che però riuscì ad attirare subito l’attenzione di pubblico e critica grazie a tre singoli dal grande impatto radiofonico (Free, I Am e, soprattutto, Meet Virginia). Una discreta partenza per una band fino ad allora sconosciuta e che pagò di tasca propria per poter pubblicare l’album (si parla di un investimento di 25.000 dollari). Un esordio talmente riuscito, ben oltre le aspettative del gruppo, che fece drizzare le antenne alla Colombia, con cui i Train pubblicarono, tre anni dopo, Drops Of Jupiter, il sophomore della definitiva consacrazione.

L’album, come accennato, vendette benissimo e vinse vari dischi di platino, grazie a un filotto di canzoni irresistibili, alla produzione di Brendan O’Brien (mago della consolle già con Bob Dylan, Bruce Springsteen e Pearl Jam) e alla title track, che vinse ben due Grammy Award, come migliore brano rock e come migliore arrangiamento strumentale (che venne scritto da Paul Buckmaster, fidato collaboratore di Elton John). 

Drops Of Jupiter rispecchia fedelmente il suono che ha sempre caratterizzato la musica della band californiana, che s’inserisce fin da subito nel solco tracciato da band come i Counting Crows, reinterpretando però quel rock “americano” con una maggior propensione al mainstream e con più leggerezza. Venata di soul e sostenuta da un sublime arrangiamento d’archi, Drops Of Jupiter è, però, una canzone tutt’altro che leggera. Anzi.

Pat Monahan la scrisse per ricordare la madre, morta di tumore nel 1998. Se è vero che il testo poco lineare lascia aperte anche altre interpretazioni, fu il suo stesso autore a spiegare la fonte della sua ispirazione, sostenendo anche che il primo verso (Now that she's back in the atmosphere With drops of Jupiter in her hair) lo aveva addirittura sognato una notte. Pat si rivolge alla propria madre, con versi struggenti e accorati, come a voler cercare una spiegazione a quello è successo, per lenire il proprio cuore affranto, sperando che lei, lassù in cielo, abbia finalmente trovato la pace. (But tell me, Did you sail across the sun? Did you make it to the Milky Way To see the lights all faded?).

Nel video più famoso della canzone (per la cronaca, il brano fu promosso con ben due video), Pat rivolge spesso gli occhi al cielo, per dare ancora maggior enfasi a domande che resteranno, però, senza risposta (Tell me, Did you fall from a shooting star One without a permanent scar? And did you miss me while you were Looking for yourself out there?).

Dopo Drops Of Jupiter, la carriera dei Train prosegue con alti e bassi, qualche importante successo di vendite (Calling All Angels, dal successivo My Private Nation del 2003), ma un’ispirazione che mostra nel tempo sempre più la corda. Sarà solo l’airplay radiofonico di Hey Soul Sister (da Save Me, San Francisco del 2009) a riportare i Train in vetta alle classifiche di mezzo mondo, con cifre di vendita pazzesche.

 


 

 

Blackswan, mercoledì 09/09/2020

martedì 8 settembre 2020

PREVIEW

 


 

Ben Harper annuncia il nuovo album Winter Is For Lovers, che vede protagonisti solo Ben Harper e la sua chitarra lap steel Monteleone ed è una raccolta di 15 composizioni strumentali originali immaginate come una sinfonia. A partire dal 1994, Ben Harper è riuscito a ridefinire i confini musicali e, per tutta la sua carriera, la sua chitarra lap steel ha avuto un ruolo determinante nel suo sound. Eppure l’artista non aveva mai realizzato un album che mostrasse tutto il suo amore per lo strumento e tutta la sua maestria nel suonarlo. A partire da oggi, i fan possono già preordinare qui una delle 2000 copie in vinile 180gr di Winter Is For Lovers, tutte autografate e numerate. La data di pubblicazione del vinile standard e della versione digitale dell’album verrà annunciata in autunno.

La musica di Winter Is For Lovers è profondamente radicata nel DNA di Ben Harper e ci porta indietro fino a The Folk Music Store, il noto negozio di strumenti musicali che i suoi nonni aprirono in California negli anni ’50. Il negozio ha ospitato artisti come Sonny Terry, Brownie McGhee, il Reverendo Gary Davis, Doc Watson e John Fahey e lo stesso Ben Harper, che ci ha lavorato durante la sua adolescenza, ha avuto l’opportunità di conoscere Ry Cooder, Leonard Cohen, Taj Mahal, David Lindley e Jackson Browne.  
 
Su Winter For Lovers, Harper racconta:
“Questo è il mio primo album interamente strumentale. È semplice, essenziale, ci siamo solo io e la mia chitarra lap steel. Suona quasi spoglio e intimo proprio come speravo, perché è come se suonassi nel tuo soggiorno. A primo ascolto potrebbe sorprenderti perché è davvero ridotto all’osso, a differenza di molti altri brani e album di oggi.
 
Sono un grande fan del flamenco, della musica classica, di quella hawaiana e della chitarra blues e spero di avere in qualche modo rappresentato tutte queste influenze in Winter Is For Lovers.
 
Ci è voluto un po’ per comporre quest’album, che mi ha posto davanti una sfida completamente nuova. Registrare un intero album solo con una chitarra, senza alcun testo, è stato molto più impegnativo rispetto ai lavori precedenti, ma anche più gratificante”.
 
Ben Harper ha vinto 3 GRAMMY Awards e ricevuto 7 nomination. Ha prodotto, tra gli altri, anche gli album di Mavis Staples, Blind Boys of Alabama, Natalie Maines e Rickie Lee Jones. I suoi brani hanno totalizzato milioni di stream e lui ha calcato i palchi delle venue e dei festival più importanti al mondo. Il precedente album No Mercy In This Land, pubblicato nel 2018 e nominato ai GRAMMY, è il secondo album registrato con il leggendario armonicista Charlie Musselwhite. Nel 2016 Harper e la band The Innocent Criminals sono tornati con Call It What It Is, un album che Ben, noto attivista, ha composto con l’intento di affrontare la tematica della brutalità della polizia.

 


 

 

Blackswan, martedì 08/09/2020

lunedì 7 settembre 2020

BLUES PILLS - HOLY MOLY! (Nuclear Blast, 2020)

Che gli svedesi Blues Pills avessero talento da vendere, era un fatto lampante fin dai primi due dischi. Tuttavia, come spesso succede, non sempre il talento da solo è sufficiente per riuscire a sfondare e conquistare un posto in Paradiso. L’arte, si sa, è, infatti, declinazione di sostanza espressa attraverso regole formali, due componenti, entrambe imprescindibili, l’una indissolubilmente legata all’altra. Con questo nuovo Holy Moly! i Blues Pills sono riusciti finalmente a far quadrare il cerchio, a definire un suono, il loro suono, raggiungendo quelle vette di maturità che nei lavori precedenti si intuivano, pur non essendo ancora così lampanti.

C’è più personalità, in questo lavoro, e più consapevolezza anche nel maneggiare quei riferimenti stilistici che apparivano chiari fin dall’omonimo disco d’esordio datato 2014. Le sonorità care alla band restano incredibilmente vintage, ma appaiono decisamente più curate, grazie a un lavoro certosino in studio attraverso apparecchiature e strumentazioni assemblate per l’occasione. Rispetto ai lavori precedenti, poi, certe divagazioni psichedeliche sono state accantonate in favore di uno scatto più deciso verso territori hard rock, contaminati con gusto e intelligenza mediante una più spiccata propensione al blues, al soul e al funky (che già si era intravista in passato).

Il risultato è una scaletta di canzoni che, pur se derivative (Grand Funk Railroad, Big Brother And The Holding Company, Free, etc.), suonano fresche, dirette, avvincenti, anche per il continuo altalenarsi fra brani tiratissimi e ballatoni torridi a lenta combustione. Basterebbero questi elementi a parlare bene di Holy Moly!, se non fosse, però, che il collante fra i brani è la freccia più acuminata dell’arco Blues Pills: la voce pazzesca di Elin Larsson, che nel corso del tempo si è arricchita di personalità e di numerose sfumature, tanto che, quel paragone che si è sempre snocciolato con la leggenda Janis Joplin, pur mantenendo un fondo di verità, non è più così esaustivo.

Oggi, l’influenza delle grandi cantanti di colore, a partire da Aretha Franklin, sono sempre più determinanti nel modo di cantare della Larsson, come è immediatamente evidente dall’ opener Proud Woman, un arrembante r’n’b che pulsa vivido e scatenato sotto una ruvida corazza hard. Ed è solo il primo assaggio di quello che la band e la sua cantante sanno confezionare egregiamente, sia quando si lanciano in ansiogene derapate hard rock che lasciano senza fiato (la devastante Low Road, il blasone sixties del rock blues grezzo e sgarbato di Dreaming My Life Away, il crescendo sferragliante di Bye Bye Birdy), sia quando recitano con piglio personale le tavole del blues nell’incredibile California, gli acuti della Larsson a dettare legge e una chitarra al cherosene in sottofondo a far avvampare di passione, sia quando deragliano nel groove funky di Kiss My Past Goodbye o quando spengono le luci e la malinconia vibra nel buio della sofferta Song From A Mourning Dove.

Al terzo tentativo i Blues Pills colgono finalmente il centro del bersaglio e rilasciano il loro capolavoro: un disco orgogliosamente vintage e dall’impatto devastante, che farà battere il cuore di tutti coloro che ancora credono nella legge delle chitarre e sono convinti che il sacro fuoco del rock è ben lontano dall’essersi estinto.

VOTO: 8

 


 

 

Blackswan, lunedì 07/09/2020

giovedì 3 settembre 2020

KANSAS - THE ABSENCE OF PRESENCE (Sony, 2020)

Sono passati quasi quarantacinque anni dall’uscita di Leftoverture, capolavoro AOR datato 1976, che lanciò definitivamente i Kansas nell’Empireo del rock radiofonico, grazie anche a quell’immortale tormentone dal titolo Carry On Wayward Son. In questo lungo lasso di tempo, tante cose sono cambiate, sia a livello di ispirazione (tra alti e bassi, questi ultimi sono stati più numerosi) che di line up (se ne sono andati Steve Walsh e Kerry Livgren, avvicendati da Ronnie Platt alla voce, l’ottimo Zak Rizvi alla chitarra e da ultimo Tom Brislin, tastierista già alla corte degli Yes).

Affacciatisi al nuovo millennio (con l’album Somewhere To Elsewhere del 2000) i Kansas sono praticamente spariti e, a parte qualche live e un paio di best of, non hanno più dato notizie di loro. Un silenzio durato fino The Prelude Implicit (2016), che arrivò come una sorta di fulmine a ciel sereno, l’inaspettata sorpresa di una band che stava ormai lambendo i confini dell’oblio e che probabilmente in molti davano per morta e sepolta. Un’uscita importante, dunque, perché ci ha restituito un gruppo che, contro ogni pronostico, si riproponeva sul mercato con una prova decisamente gagliarda.

La stessa cosa si può affermare di questo nuovo The Absent Of Presence: l’impressione, infatti, è che i nuovi arrivati abbiano dato una sferzata di energia, sia sotto il profilo delle composizioni che dell’esecuzioni dei brani, tanto che, per quanto la proposta possa risultare passatista, il disco suona, per gran parte della sua durata, vivace e fresco, come, cioè, se a misurarsi col repertorio, fosse un gruppo con un’anagrafe molto meno usurata.

I Kansas il loro mestiere lo sanno fare e bene, sia quando si misurano con brani articolati e dall’impronta chiaramente progressive (l’ottima title track, Circus Of Illusion), sia quando mostrano la potenza di tiro dell’arsenale hard (Throwing Mountains), sia quando indirizzano melodia e potenza verso un’irresistibile appeal radiofonico (Animals On The Roof, Jets Overhead).  Se è vero che in scaletta qualche punto debole c’è (Propulsion 1 è un riempitivo, Never una ballata fin troppo stucchevole), per converso la maggior parte delle canzoni del lotto riesce a togliere la polvere dal vecchio marchio di fabbrica, riportando a nuova vita quella curiosa miscela di progressive, pop e hard rock di cui i Kansas sono stati, per lungo tempo, tra gli interpreti più blasonati.

Un disco anacronistico, se si vuole, e appetibile quasi esclusivamente ai fan della band e agli appassionati di genere. Però, buone canzoni, ottimi arrangiamenti e un’indiscutibile tecnica individuale, fanno di The Absence Of Presence un ritorno davvero riuscito e una prova che supera agevolmente la sufficienza.  

VOTO: 7




Blackswan, giovedì 03/09/2020

mercoledì 2 settembre 2020

PREVIEW

THE DAMNED annunciano THE ROCKFIELD FILES EP, in uscita il 16 ottobrein uscita su Search And Destroy Records / Spinefarm. Guarda il video del primo singolo "Keep Me Alive".

Tra il 1980 e il 1981, i The Damned sono stati a Rockfield per delle sessioni di registrazione che si sono poi trasformate in The Black Album, The Friday 13th EP e Strawberries. Quel periodo ha dato vita ad alcuni dei momenti più alti della carriera dei The Damned e ad indimenticabili racconti di cavalli, mucche, vampiri, fucili e a Lemmy.
 
Nel 2019 i The Damned sono tornati a registrare nei Rockfield Studios, dopo l’album Ten Evil Spirits pubblicato nel 2018 e finito dritto in Top 10. La formazione includeva tre dei quattro membri della band presenti alle prime registrazioni nello stesso studio: David Vanian, Captain Sensible e Paul Gray.
C’erano anche Monty Oxymoron alle tastiere e Pinch alla batteria. Sebbene la band non lo sapesse ancora, quelle furono le ultime registrazioni insieme al batterista Pinch, che ha abbandonato la band dopo il leggendario show dello scorso Halloween al London Palladium.
 
Per la prima volta, Tom Dalgety (Royal Blood, Rammstein, Ghost) si è occupato della produzione dell’EP e ha anche mixato le tracce nel suo studio a Bath.

 


 

 

Blackswan, mercoledì 02/09/2020

 

martedì 1 settembre 2020

TOM MCRAE - TOM MCRAE (db Records, 2000)

Nato a Chelmsford, nell’Essex, il 19 marzo del 1969, figlio di due vicari della Chiesa d’Inghilterra, Jeremy Thomas McRae Blackall inizia il suo percorso musicale cantando nel coro della parrocchia e dedicandosi allo studio della chitarra, con cui reinterpreta le canzoni dei suoi primi amori (Billy Bragg, Bob Dylan, U2).

Inizia, quindi, a comporre brani propri e milita in alcune band locali, fino a quando non incontra casualmente l'ingegnere del suono e produttore discografico Roger Bechirian, (Elvis Costello, Squeeze, Carlene Carter, The Undertones), di cui diventa amico e con cui inizia a collaborare. Bechirian contribuisce non poco a plasmare il sound acerbo di McRae, che in seguito, grazie ai buoni offici del produttore, ottiene un con la db Records di Dave Bates.

E’ il primo passo di una carriera ventennale e di un discografia di qualità, il cui primo capitolo, intitolato semplicemente Tom McRae, esce il 2 ottobre del 2000. Il disco, prodotto da Chris Hughes (quello di The Songs From The Big Chair dei Tears For Fear, per intenderci), vede la collaborazione in studio di numerosi musicisti (tra cui anche Howard Jones, che suona il piano in Untitled) e ottiene una candidatura al Mercury Music Prize.

L'esordio suscita consensi estremamente positivi da parte della stampa specializzata, ma resta (anche oggi) oggetto di culto per pochi appassionati. E non è difficile crederlo visto che l’album, nonostante sia in linea con un suono molto in voga in quel momento storico (si pensi a Damien Rice o Ben Christophers e all’esplosione del New Acoustic Movement), suona cupo, spigoloso, umbratile, poco incline a leggerezze o a melodie di facile presa. Le canzoni in scaletta rimandano alla tradizione (impossibile non citare un altro outsider come Nick Drake), l’ossatura delle composizioni è prevalentemente folk, anche se non mancano venature pop-rock, inserti di elettronica e frequenti arrangiamenti d’archi.

Il disco si apre con il fruscio di un vinile su cui si dipana la trama oscura e depressa di You Cut Her Hair, incubo rarefatto per piano, chitarra e un inquietante violoncello. E’ questa la cartina di tornasole per leggere il mood di un disco intenso e crepuscolare, così come evocato dalla bella foto in copertina.

Momenti scarni ed essenziali, come nella delicata 2nd Law o nella litania depressa per pianoforte e voce della già citata Untitled o ancora nella conclusiva I’m Scared Of Lightning, un minuto e venti per voce e chitarre di Drakeiana memoria. E ci sono momenti, invece, in cui gli arrangiamenti si fanno meno francescani e vanno a riempire spazi altrove lasciati vuoti. E’ il caso della ritmica ansiogena che attraversa A&B Song o del vento d’archi che sospinge la drammatica Language Of Fools. Tra gli highlights della scaletta meritano una citazione l’accorata Bloodless e il blues spazzolato della notturna e lacrimosa Sao Paulo Rain.

Un esordio folgorante e probabilmente il miglior capitolo di una discografia che si è sempre mantenuta a livelli qualitativi più che buoni. Tuttavia, queste canzoni tese al parossismo, che cercano la penombra o s’immergono nella grana livida di paesaggi autunnali e carichi di inquietanti presagi, costituiscono uno dei dischi inglesi più interessanti e riusciti della prima parte del nuovo millennio. Consigliato a tutte quelle anime malinconiche sempre in cerca di struggimenti.

 


 

 

Blackswan, martedì 01/09/2020