Jack White è un musicista di successo, eppure, nonostante ciò, se ne fotte bellamente dell’industria discografica e dei tempi e delle modalità che ne regolano gli ingranaggi. Lui continua a essere un artista che fa le cose alle sue condizioni, quando ne ha voglia e in base all’ispirazione del momento. Non ha freni né pastoie, e galoppa libero negli sconfinati territori del rock, sperimentando a suo esclusivo piacere.
La storia di questo No Name è ormai nota. Il 19 luglio, nei negozi della Third Man Records, la piccola casa discografica indipendente di sua proprietà, ad alcuni clienti che acquistavano un album in vinile, venne regalato un album gratuito, non contrassegnato, con una copertina bianca su cui era semplicemente stampata la parola “No Name”: nessun credito e nemmeno il titolo dei brani. Poi, finalmente, dopo lo streaming, la versione fisica del disco, a beneficio di coloro che ancora ascoltano musica tramite supporto.
Sarò
un boomer, anzi lo sono, ma questo album sparato a mille dalle casse
dello stereo ha tutto un altro sapore, lo stesso che provai, tempo fa,
ad ascoltare i dischi dei White Stripes. Un suono simile, e lo stesso
approccio furente, spigoloso, slabbrato, sanguigno: un rock blues
grezzo, declinato in modo schietto e diretto, attraverso una selvaggia
inclinazione garage, che riporta alle radici di quel suono nato negli
anni ’60. I White Stripes, dunque, ma con una maggiore consapevolezza
compositiva: riff di chitarra come se piovesse, e un drumming primitivo
che ricalca quello di Meg.
Per i fan della band e del Jack White più elettrico e aggressivo questo è un disco che sembra troppo bello per essere vero, e che riconnette il chitarrista alla sua originaria natura, grazie a tredici canzoni implacabili e furenti, ma al contempo orecchiabili e divertenti. Tutto semplice, diretto, figlio di una filosofia lo-fi, per cui altro non serve se non un riff spacca ossa, una ritmica ossessiva, una voce grintosa e pochi e spartani abbellimenti (qualche assolo, qualche cambio di tonalità, estemporanee armonie vocali). Tutto impastato da un mixaggio basico, quasi amatoriale, che mette in risalto sporcizia e distorsione, favorendo l’impeto a discapito della pulizia del suono e dell’appeal commerciale. Insomma, Jack è davvero tornato alle origini e sembra che non sia passato un solo giorno dal 1999, anno domini dell’esordio del fenomeno White Stripes.
Basta la prima traccia, "Old Scratch Blues" e tutto è subito chiaro: blues a tutto volume, riff garage annichilente, voce viziosa, e un assalto sonoro che morde alla giugulare senza che la tensione venga mai meno per tutta la durata della scaletta. Un’attitudine che diventa ancora più pesante nella successiva "Bless Yourself" (ironica presa di posizione nei confronti della religione e della polizia), brano che scortica la pelle, nonostante non manchi, nel deliro sonoro, anche un discreto piglio melodico.
Ogni
canzone è spigolosa, sporca, figlia di una garage rock senza
compromessi ("That's How I'm Feeling"), di urticante punk lo-fi
("Bombing Out"), di espliciti echi del passato White Stripes ("What’s
The Rumpus?"), di furia iconoclasta e sarcastica ("Archbishop Harold
Holmes") e slide blues audaci e, tutto sommato, orecchiabili
("Underground").
No Name possiede un’anima sfacciatamente aggressiva, non ci sono trucchi o alchimie, e tutto è dannatamente diretto, immediato, quasi purificatorio nella sua urgenza di riappropriarsi delle radici, dell’essenza di quel sacro fuoco che, sempre, dovrebbe animare il rock. Eppure, questi tredici brani, sono molto di più di un furente sfogo, ma sono figlie della visione di chi, nel corso del tempo, non è mai stato alle regole del gioco, ha plasmato una materia nota con intelligenza, idee e passione, e ha saputo rendere fruibili suoni antichi a un pubblico giovane. Qui, soprattutto, ci sono grandi canzoni, che riaccendono un fuoco che, con dischi come No Name, mai si spegnerà.
Voto: 8
Genere: rock, garage, blues
Blackswan, lunedì 23/12/2024
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