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venerdì 31 maggio 2019

SOPHIE AUSTER - NEXT TIME (BMG, 2019)

E’ inutile girarci intorno: Sophie Auster da sempre vive portandosi sulle spalle il peso della predestinazione. E’ quasi inevitabile, se tuo padre si chiama Paul Auster, uno dei più grandi romanzieri contemporanei americani, e tua madre, Siri Hustvedt, altra penna di peso del panorama letterario a stelle e strisce. Cresci mangiando pane e arte, sentendo la pressione di chi è, volente o nolente, sempre al centro dell’attenzione dei media, di chi, all’effetto genitoriale, si trova ben presto a sostituire lo spirito di competizione, l’impellente desiderio di sentirsi all’altezza delle aspettative della propria geniale stirpe.
Sophie si è misurata presto con il mondo, iniziando fin da bambina a recitare, facendo leva sulla propria avvenenza (e su qualche atteggiamento sopra le righe) per conquistarsi le prime pagine delle riviste, e coltivando la passione per la musica, campo nel quale ha debuttato nel 2004 con un omonimo album, in cui trasformava in note le poesie, comprese quelle del padre, con cui era cresciuta.
Next Time è la terza prova della Auster sulla lunga distanza, locuzione, questa, non usata a casaccio, visto che ha iniziato a lavorare al disco nel lontano 2016, allestendo un repertorio di quasi cento canzoni, poi ridotte a dodici, grazie a un meticoloso lavoro di cernita operato con la supervisione di Tore Johansson (New Order, Suede, Nicole Atkins, etc), qui in veste di produttore.
La musica di Sophie ruota intorno all’idea di un pop rock meticcio, capace di trovare un perfetto equilibrio tra classicismo e modernità, tra mainstream e intimismo, pescando a piene mani anche dalla tradizione r’n’b e soul, assecondata attraverso l’utilizzo di scintillanti arrangiamenti di ottoni.
Un songwriting elegante, quello della Auster, che denota una maturità compositiva sorprendente e che viene corroborato da una voce notevolissima, capace di alzarsi in punta di piedi fino a toccare i rami più alti dell’albero delle note, così come adagiarsi con grazia e padronanza tecnica sulle tonalità più basse.
Attraverso le liriche di Next Time, la Auster riflette sul traguardo raggiunto dei trent’anni, sugli errori del passato e sulla consapevolezza che è arrivato il tempo per cambiare e crescere. Lo fa con canzoni dal mood altalenante, talvolta gonfie di sole ed entusiasmo, in altri casi, attraversate da un’uggia malinconica e languori agrodolci. Ecco, allora, il pop in chiave mariachi dell’irresistibile Mexico, che apre il disco con una pimpante allegrezza, o Dance With Me, modernizzazione sorniona del Fleetwood Mac sound, o ancora il r’n’b saltellante e grintoso di My Baby, a cui si contrappongono la tessitura melo del velluto pop soul della splendida Dragon Blood Tree o la tenue filigrana folk della dolente Rising Sun.
A Next Time manca solo la hit capace di spostare gli equilibri, quel singolone trainante che possa mangiarsi le charts in un sol boccone. Per il resto, siamo di fronte a un disco compattato da una maturità artista solida e strutturata, e da idee, forse non originalissime, ma sviluppate con grande efficacia ed eleganza. Insomma, le belle canzoni si sprecano e la voce della Auster è di quelle che, decisamente, non passano inosservate. D’altra parte, buon sangue non mente.

VOTO: 7,5





Blackswan, venerdì 31/05/2019

giovedì 30 maggio 2019

PREVIEW



Marika Hackman annuncia il suo nuovo album Any Human Friend in uscita il 09 agosto su AMF Records. Marika condivide il video diretto da Will Hooper (IDLES, APRE) per “i’m not where you are”.
Any Human Friend è stato co-prodotto da David Wrench (Frank Ocean, The xx, Let’s Eat Grandma) e da Marika stessa e mostra un sound più arguto ed emancipato di sempre. “hand solo”, “conventional ride” – questi sono solo alcuni degli esempi più audaci e sfacciati di Any Human Friend. “In questo album mi ritrovo a scavare nel mio io, esponendomi  completamente. Anche dal punto di vista sessuale,” Marika afferma. “È diretto, ma non offensivo. È malizioso.” Secondo Marika “Abbiamo tutti un lato luminoso e uno oscuro in noi.” Marika è una sorta di PJ Harvey del period Rid Of Me per una generazione inclusiva: lontana da qualsiasi genere, Marika è una cantante straordinaria che non ha paura di avventurarsi. La copertina dell’album ritrae Hackman quasi nuda intenta a cullare un maialino, si tratta di un richiamo al fotografo olandese Rineke Dijkstra e alle sue foto senza filtri di madri che hanno appena partorito.





Blackswan, giovedì 30/05/2019

mercoledì 29 maggio 2019

JUNGSTOTTER - LOVE IS (Pias, 2019)

Jungstotter è lo pseudonimo sotto cui si cela il cantautore tedesco Fabian Altstötter, nome già conosciuto nel panorama musicale teutonico per aver fatto parte della band post punk dei Sizarr (sotto il moniker di Deaf Sty). Questo Love Is è il suo primo lavoro da solista dopo lo scioglimento del gruppo di appartenenza, avvenuto lo scorso anno, ed è un disco che, pur portando in dote l’esperienza passata, si muove però sul terreno di una sensibilità votata a un cantautorato crepuscolare, in cui la voce da crooner di Altstotter disegna trame, ora languide, ora disperatamente malinconiche.
In scaletta, dieci canzoni che meritano di essere sviscerate attraverso due diversi piani di lettura, uno prettamente razionale, l’altro, squisitamente emozionale.
Da un punto di vista razionale, Love Is suona come un disco clamorosamente derivativo, i cui rimandi sono evidenti persino a un ascoltatore distratto: in queste canzoni, si colgono le sottigliezze compositive di un David Sylvian meno elusivo, il mood febbrile e la desolazione esistenziale di Nick Cave (a cui però manca lo scintillio luciferino) e certe astrattezze pop degli ultimi Talk Talk. Il timbro da crooner di Altstotter è impostato e melodrammatico, e talvolta può risultare forzato e artificioso. I brani, però, per quanto immediatamente riconducibili a chiarissime fonti di ispirazione, scartano spesso dal prevedibile, con alcune intuizioni negli arrangiamenti (soprattutto gli inserti elettronici mutuati, evidentemente, dall’esperienza con i Sizarr) che rendono il risultato finale meno ovvio di quanto si penserebbe.
Da un punto di vista emozionale, invece, il disco tiene meravigliosamente per tutti i quarantasei minuti di durata: lo sguardo di Jungstotter è costantemente rivolto verso un orizzonte di sole calante, lambisce le ombre dell’incombente notte, tratteggia affreschi di depressa malinconia (alla faccia della freddezza tedesca), suggerisce languori nostalgici, svela fragilità, trafigge il cuore col pungolo di dolorose amarezze, rapisce i sensi con soundscapes dal sapore cinematico.
La tristissima Silence apre il disco evocando lo spirito del compianto Mark Hollis, la struggente Wound Wrapped In Song è geneticamente derivativa da Secrets Of Beehive di Sylvian, Sally Ran è pervasa dal mood melodrammatico di Anthony Hegarty, la title track cita Into My Arms di Cave, ma trova un sussulto di originalità in un controcanto femminile e straniante e in una minacciosa coda elettronica, The Rain è una ballata al pianoforte che distilla lacrime e disillusione con pathos misurato.
Tuttavia, Love Is per quanto prenda in prestito sonorità appartenenti a marchi di fabbrica noti, riesce a rapire ed emozionare l’ascoltatore, e se si fa finta di non aver mai ascoltato prima queste ballate crepuscolari e dolenti, il disco risulta davvero buono. Altstotter deve solo trovare una propria originalità a livello di scrittura e appropriarsi dell’unicità di timbro vocale che, meno impostato, sarebbe davvero in grado di far battere il cuore. Il talento, comunque, c’è e, essendo un’opera prima, Love is è promosso a pieni voti.

VOTO: 7





Blackswan, mercoledì 29/05/2019

martedì 28 maggio 2019

PREVIEW



Glitterer è un gruppo rock di Ned Russin, bassista ventinovenne di New York e cantante che si è fatto un nome suonando in un gruppo chiamato Title Fight. Fino ad oggi, Russin ha scritto, cantato e suonato ogni nota della musica dei Glitterer, ma ora con l’album di debutto Looking Through The Shades, che sarà pubblicato il 12 luglio su Anti-, si è avvalso di collaboratori: la batteria del fratello Ben Russin, un assolo di chitarra dell’altro fratello Alex Russin, e la produzione di Alex Gianniscoli e Arthur Rizk.
I Glitterer nascono nel 2017 e hanno pubblicato due EP: “Glitterer” e “Not Glitterer”. L’album di debutto è stato registrato nell’accogliente seminterrato della casa della famiglia Russin e co-prodotto dal prodigio dell’indie-rock Alex Gianniscoli, conosciuto anche come (Sandy) Alex G, e Arthur Rizk (Code Orange, Power Trip, Sumerlands). L’album contiene le migliori canzoni e sonorità dei Glitterer; è stato costruito in modo tale da evincere uno spirito – cooperativo, semi schizofrenico, più grande della somma delle sue parti – che è proprio delle rock band e inaccessibile ai rapper di Soundcloud e agli artisti da camera da letto. In parole povere, Looking Through The Shades è il suono di gruppo di persone che fanno musica assieme in una stanza. I testi sono ancora rigorosamente autoconsapevoli, i ritornelli sempre accattivanti e gli arrangiamenti non hanno un grammo di grasso in eccesso.





Blackswan, martedì 28/05/2019

lunedì 27 maggio 2019

LOUDNESS - LIVE IN TOKIO (earMusic, 2019)

Loudness. Un nome che agli appassionati con un po' di anni sul groppone, evoca quell’infuocata stagione degli anni ’80 che porta il nome di New Wave Of British Heavy Metal (NWOBHM). Di britannico, però, nei Loudness non c’era nulla, visto che la band arrivava da Oriente, e per la precisione, dalla terra del Sol Levante. Inseritisi per affinità di suono nell’onda lunga di band come Saxon, Iron Maiden, Motorhead, etc., il combo nipponico, pur suonando incredibilmente occidentale, appariva come una sorta di variabile impazzita, un’anomalia del sistema che lasciava noi giovani adepti al verbo del rock un po' perplessi e un po' stupiti.
In un’epoca in cui la globalizzazione e internet erano solo il miraggio di qualche visionario, era davvero difficile credere che dal Giappone potesse arrivare nei nostri stereo un heavy metal tanto cazzuto e ben suonato, solitamente prerogativa del mondo di lingua anglosassone; e ancora di più stupiva che certi dischi potessero giungere a noi dall’altro capo del mondo, in una terra di cui si conoscevano solo gli stereotipi, che nulla avevano a che fare con borchie e suoni estremi.
Invece, i Loudness, ebbero parecchi anni di gloria, diventando autentiche leggende in terra natia, creandosi un discreto seguito di fan sia in Italia che in Europa, e conquistando a suon di vendite anche il difficile mercato americano (a cui sacrificarono, per motivi di pronuncia, il cantante Minoru Niihara, oggi di nuovo nella line up, con Mike Vescera).
Oggi, la band capitanata dal chitarrista Akira Takasaki, è giunta quasi alla soglia del quarantennale di carriera, e può vantare una discografia ponderosa, composta da più di quaranta titoli, tra dischi in studio e album live. Questo nuovo lavoro, registrato durante il tour promozionale del precedente Rise To Glory (2018), aggiunge un nuovo tassello a una carriera solidissima, che tra alti e bassi, successi e fiaschi, decessi e cambi di formazione, conferma l’ottimo stato di forma di un combo ancora agguerrito, che non sembra aver perso la lucidità e lo smalto dei vecchi tempi.
La band fa il suo e continua a farlo egregiamente, con molto mestiere, certo, ma anche con un entusiasmo che a distanza di così tanti anni risulta davvero invidiabile. In scaletta brani dell’ultimo disco, che non era certo un capolavoro ma suonava comunque più che dignitoso, e i cavalli di battaglia di un repertorio pressoché infinito. Se la voce di Niihara ha perso un po' lo smalto del tempo, la chitarra di Takasaki tira ancora alla grande, dispensando riff e assoli con graffiante incisività e sapienza tecnica.
Niente di negativo da dire, insomma, se non, che questa musica, resta molto ancorata al suono classico di una stagione, e che nel corso degli anni, salvo qualche pessima svolta melodica ed elettronica, ha mantenuta intatta la propria essenza, i cui orizzonti, a dire il vero, erano, e restano, piuttosto limitati. Disco per nostalgici e fan.

VOTO: 6 





Blackswan, lunedì 27/05/2019

sabato 25 maggio 2019

PREVIEW




Il cantautore R&B di Minneapolis Velvet Negroni condivide “CONFETTI”, il primo singolo tratto dal suo nuovo album NEON BROWN in uscita il 30 agosto su 4AD.
Velvet Negroni è l’alter ego  di Jeremy Nutzman. Cresciuto nei sobborghi delle Twin Cities (Minneapolis e Saint Paul), Jeremy – un ragazzino di colore adottato da una famiglia cristiano evangelica – si divise tra lezioni di piano classico e jam session notturne. Un dualismo costantemente presente in tutta la sua musica, così come in NEON BROWN, un album in bilico tra indie rock e R&B. Dopo aver partecipato al tour del caro amico Bon Iver, Nutzman ha scritto per Kanye West e Kid Cudi prima della pubblicazione del suo singolo di debutto sull’etichetta newyorkese b4 nel 2018. Con il prolifico co-produttore Psymun (Young Thug, Juice WLRD, The Weeknd), il nuovo album di Nutzman trascende i confini delle sue influenze, portando lente jam R&B, atmosfere alla Prince, chitarre e l’energia di un’intera band.
Primo singolo estratto, “CONFETTI” è un brano R&B lento e riflessivo con synth ambient caldi, percussioni downtempo e una performance vocale inquieta. Il singolo esce oggi ed è accompagnato da un video diretto da Isaac Gale & Velvet Negroni. Questa settimana  Nutzman suonerà al Baby’s All Right di Brooklyn, mentre il 20 giugno sarà a Londra al Bermondsey Social Club  e il 24 giugno al 1999 di Parigi.





Blackswan, sabato 25/05/2019

venerdì 24 maggio 2019

WHITESNAKE - FLESH + BLOOD (Frontiers Music, 2019)

A dispetto dell’età anagrafica (quest’anno sono sessantotto), del tempo inesorabilmente foriero di acciacchi e dell’usura di anni passati a calcare i palchi di mezzo mondo, David Coverdale, è un dato di fatto, gode ancora di ottima salute. Tanto che, ad ascoltare questo Flesh & Blood, primo album di inediti dall’ormai lontano (e convincente) Forevermore del 2008, stupisce come i Whitesnake siano ancora in possesso di una classe e una potenza di tiro che tante giovani band possono solo sognarsi di notte.
Certo, i tempi gloriosi di Come ‘n Get It e 1987 difficilmente possono, e potranno, essere replicati; ma chi si aspettava di essere di fronte a un ritrovo di bolliti misti pronto a replicare una formula frusta allo scopo di racimolare quattro lire in vista di una confortevole pensione, ha capito proprio male.
I Whitesnake tornano con una prova cazzuta e pimpante, indubbiamente la migliore rilasciata nel nuovo millennio, e tutto si può dire tranne che questa sia il prodotto di un gruppo di dinosauri in disarmo. Ovviamente, la formula è quella di sempre, ormai consolidata nello svolgimento, indirizzata da tempo verso un suono decisamente più “americano” e priva di picchi di originalità che facciano gridare al miracolo. E diciamolo pure, senza remore: Coverdale ha perso un po' del suo smalto, non è più in grado di grandi estensioni e si affida più alla gola che al petto quando deve affrontare le note più alte. Però, quel timbro sanguigno da bluesman, lo stesso che, personalmente, me lo faceva preferire a Gillan durante la sua militanza nei Deep Purple, è rimasto intatto e soprattutto nei brani più lenti continua a emozionare come ai bei tempi.
Flesh & Blood, al netto di quanto appena scritto, è un signor disco, di quelli da passare a tutto volume dalle casse dello stereo o da ascoltare a palla in macchina, finestrini abbassati e capelli al vento, in cerca di un sogno di rock ‘n’ roll. Il repertorio consueto è più scintillante che mai: i riff potenti e immediati, i ritornelli e coretti a facile presa, e gli assoli dispensati con gusto, tecnica e fantasia (un plauso va alla potenza di fuoco di due straordinari chitarristi come Joel Hoekstra e Reb Beach) sono un marchio di fabbrica evidentemente inossidabile.
La band gira al massimo, sta sul pezzo con incredibile determinazione e sostiene Coverdale per tutta la durata di un disco che ha davvero pochi cali di tensione. Tirate come Good To See You Again (che apre il disco), Shut Up And Kiss (lanciato come singolo), la portentosa Hey You o Get Up, sono sventagliate di pura adrenalina che suggeriscono che qui le percentuali di testosterone sono ancora altissime.
Se Always & Forever rilascia addirittura fragranze ammiccanti al pop e When I Think Of You possiede le sembianze di un virile ballatone Aor dal furbissimo appeal radiofonico, la band si gioca le carte migliori quando irrompe in territori rock blues, forgiando con straordinaria classe una gemma come Heart Of Stone, millesimato del Whitesnake sound, con Coverdale in gran spolvero e un assolo di chitarra col pedale wah wah in fiamme che si divora il cuore del brano.
C’è anche spazio per After All, pausa acustica dal sapore seventies, in cui Coverdale si concede il tempo per una lectio magistralis canora da autentico fuoriclasse. Il punto esclamativo, questo, su un disco che tiene splendidamente per tutta l’ora di durata (un’ora e ventitre nella versione deluxe) e che ci restituisce una band che non abdica di fronte ai gloriosi anni, gli ottanta, in cui faceva sfracelli a ogni disco pubblicato. I Whitesnake sono tornati alla grande, zittiscono i detrattori e regalano ai loro fan un disco che togliere dal piatto sarà un problema. Rock On!

VOTO: 7





Blackswan, venerdì 24/5/2019

giovedì 23 maggio 2019

PREVIEW




Ezra Furman è orgoglioso di annunciare Twelve Nudes, il suo nuovo album in uscita il 30 agosto su Bella Union. Il 2018 è stato un anno grandioso per Furman, ha ricevuto lodi dalla critica sia per il suo album Transangelic Exodus, che per la colonna sonora della serie Netflix Sex Education (lui e la sua band appaiono in un episodio). Twelve Nudes, il suo nuovo album punk e “spiritualmente queer”, continua sulla stessa lunghezza d’onda dimostrandosi un  seguito provocatorio e stimolante. Nel corso dell’album Furman incanala l’energia repressa caratterizzata da osservazioni, confessioni e proclamazioni taglienti e laceranti.
Twelve Nudes è stato registrato velocemente a Oakland nell’autunno del 2018 ed è stato mixato dal produttore John Congleton (Sharon Van Etten, St. Vincent). L’album ha due eroi spirituali – il grande musicista punk Jay Reatard e la scrittrice e filosofa canadese Anne Carson. “È una delle mie tre scrittrici viventi preferite”, dice. “Anne ha avuto queste visioni, o meditazioni, per affrontare il dolore della sua vita, che lei chiama 'nudes', e allo stesso modo queste canzoni sono delle meditazioni sul dolore e su quello che trovi quando vai a scavare nella tua rabbia e paura e ansia. Per questo il mio album si chiama Twelve Nudes."
Nel corso di Twelve Nudes Furman usa sia esperienze personali che collettive per comunicare una frustrazione intensa. Nel brano punk rock “Rated R Crusaders” esplora le sua radici ebree e il conflitto arabo-israeliano, mentre “Trauma” ribolle nel malessere spirituale provocato dai bulli benestanti che dopo essere stati accusati di violenza sessuale,  salgono al potere. Furman è consapevole che l’equilibrio americano è in bilico tra la supremazia dell’uomo bianco e i sogni di opportunità universali; da qui, i riferimenti al Messico, alla schiavitù e al padre fondatore degli Stati Uniti  Ben Franklin di “In America”. “Uno dei miei obiettivi nel fare musica, è quello di far sembrare il mondo più vasto e la vita più grande,” spiega Furman. “Voglio essere una forza che cerca di far rivivere lo spirito umano al posto di schiacciarlo, che lascia aperte le possibilità e non le chiude. A volte una negatività appassionata è il miglior modo per fare tutto ciò.”
Un esempio è “Calm Down.” Il brano, molto catchy e limitato a due minuti e 22 secondi, è un pianto di panico e disperazione. “Tempi disperati per canzoni disperate,” afferma Furman. “ La scrissi durante l’estate del 2018, un periodo terribile. È il suono di me che fatico ad ammettere che non sono d’accordo con l’attuale stato di civilizzazione umana, nel quale uomini cattivi ci schiacciano e ci sottomettono. Una volta che ammetti quanto sia brutto vivere in una società corrotta, puoi iniziare a opporti ad essa  e ad immaginarne una migliore.” Il video che accompagna il singolo è diretto da Beth Jeans Houghton e segue le tematiche e le atmosfere dei precedenti video, ma con uno stile vibrante, colorato e simile ad un fumetto.
“Questo è il nostro album punk”, afferma Ezra Furman, “Lo abbiamo fatto velocemente a Oakland. Abbiamo bevuto e fumato. E poi abbiamo fatto le parti forti ancora più forti. Mi sono fatto male alla gola a furia di urlare. Questo è successo nel 2018, quando le cose non andavano affatto bene. Le canzoni sono nude, non hanno nulla da nascondere.”





Blackswan, giovedì 23/05/2019

mercoledì 22 maggio 2019

CAROLINE SPENCE - MINT CONDITION (Rounder, 2019)

Recensire Mint Condition, terzo lavoro a firma Caroline Spence, giovane songwriter di stanza a Nashville, potrebbe sembrare la cosa più semplice del mondo, tanto sono dirette e sincere le undici canzoni che compongono il disco. In realtà, c’è invece molto da dire su questi brani, le cui perfette melodie entrano nel sangue alla velocità della luce, facendo circolare, dalla testa al cuore, emozioni vere e una musica dalle radici evidenti, ma collocata a mezz’aria in una dimensione di atemporale bellezza.
Caroline Spence è un talento puro, una cantautrice nel senso stretto della parola, che cura, con attenzione, tanto la musica quanto i testi, entrambi componenti essenziali della sua musica. L’equilibrio perfetto di ogni singolo brano, la ricerca della melodia in purezza, gli arrangiamenti discreti e minimali, eppure tutti decisivi, e le liriche pervase da un ingenuo romanticismo e da uno spleen contemplativo, producono come risultato un pugno di canzoni più adulte della giovane età di chi le ha scritte.Canzoni, che la Spence addomestica grazie a un soprano dolcissimo, all’apparenza delicato ed esile, ma che alla resa dei conti suona potente per estensione e incisivo per espressività.
Mint Condition è il seguito ideale dello splendido, Spades & Roses (2017), ma rispetto al precedente, come avviene in ogni processo di crescita, c’è una maggiore consapevolezza delle proprie indubbie doti e un più articolato lavoro in fase di produzione, curata con efficace eleganza dal polistrumentista Dan Knobler (Lake Street Drive, Erin Rae, etc.).
Il risultato è una raccolta di canzoni di fattura artigianale, intime e introspettive, ma capaci di parlare un linguaggio universale che evita accuratamente ogni sdolcinatezza per arrivare dritto e diretto al bersaglio. Caroline indaga sui propri sentimenti, scruta all’interno del proprio cuore che è anche il cuore di ogni donna, e intreccia storie di amori, spesso tanto dolorosi, da ritenere preferibile la solitudine (“A volte una donna sta da sola, perché trasformeranno la sua gioia in dolore” canta nella lenta, struggente Sometimes A Woman Is An Island).
Ci sono un paio di episodi elettrici in Mint Condition, e nonostante non sia la dimensione preferita dalla Spence, entrambi suonano meravigliosamente, sia l’iniziale What You Don’t Know che l’accattivante Who’s Gonna Make My Mistakes, che ricorda la Sheryl Crow più ispirata. La maggior parte del disco è però segnata da ballate che coagulano echi del Tom Petty più morbido intorno a un melange appassionato di folk, country e pop.
Non c’è un solo filler in scaletta e ogni canzone è così buona che non smetteresti mai di ascoltarla. E poi, quella voce, unica, vibrante, dolcemente malinconica, trova la via del cuore con incredibile facilità, sia quando canta l’amore per l’amore in Sit Here And Love Me (I don’t need you to solve any problems at all, i just need you to sit here and love me) sia quando, nella title track, posta a chiusura del disco, celebra una relazione che dura tutta la vita, commovendo alla lacrime con quel verso sublime: “some things they last and some things they won’t/ But nothing about you ever gets old”. 
Mint Condition non è solo un disco splendido ed emozionante, ma è un’opera indispensabile per chi ama il cantautorato femminile proveniente dagli States, genere di cui, Caroline Spence, non solo incarna con freschezza e sincera ispirazione il presente, ma, in tutta evidenza, ne traccia anche la strada per il futuro. Imperdibile.

VOTO: 9





Blackswan, mercoledì 22/05/2019

martedì 21 maggio 2019

PREVIEW



Nell’ottobre del 1980 tre musicisti salirono sul palco della loro città natale di Bradford per suonare qualche pezzo col nome di New Model Army. Guidati dal frontman Justin Sullivan, fu l’inizio di un viaggio straordinario che, quasi quarant’anni dopo, ha visto i New Model Army sviluppare una fervida fanbase mondiale raggiungere multipli di traguardi di successo commerciale e artistico.
Nel corso degli anni i membri sono cambiati e gli stili musicali si sono evoluti ma al cuore della band è rimasto Justin, assieme a una chiara e sincera convinzione nel potere della musica di ispirare ed effettuare cambiamenti su scala personale e politica, sia a livello locale che globale. Dopo il rinnovato riconoscimento critico e al successo degli apprezzatissimi album Between Dog And Wolf (2013) e Winter (2016), i New Model Army tornano nel 2019 con uno dei migliori dischi della loro carriera.
From Here è stato registrato all’inizio di quest’anno sulla piccola isola norvegese di Giske agli Ocean Sound Recordings Studios e riflette lo spettacolare isolamento di quel luogo, ma ha messaggi profondi per il mondo e i tempi che stiamo vivendo.
“Noi tutti abbiamo vite e gusti diversi in quasi ogni cosa, compresa la musica,” dice la band. “Una cosa che abbiamo in comune è l’amore per i paesaggi desolati, aperti, freddi e aspri – acqua, neve, roccia. Quindi questo era il luogo perfetto per lavorare collettivamente su qualcosa – in ogni momento, mentre lavoravamo, potevamo guardare in alto e vedere il cielo, il mare e la neve che si scioglieva sulle montagne, il tutto in un costante stato di cambiamento. Perciò questo album ha un feeling diverso rispetto agli altri, ma contiene ancora tutti gli elementi che caratterizzano la nostra musica peculiare e non identificabile – forse oggi più che mai. E From Here è un titolo ovvio. Il disco appartiene a un luogo e a un tempo molto speciali – quello che sta accadendo nel mondo, dove siamo in quanto band e dove siamo in quanto persone.”






Blackswan, martedì 21/05/2019

lunedì 20 maggio 2019

IL MEGLIO DEL PEGGIO




Rosa Maria Dell'Aria ha 63 anni e da quaranta svolge l'attività di insegnante di italiano all'istituto industriale Vittorio Emanuele III di Palermo. Fino a qualche tempo fa era una docente come tante, una cittadina italiana che svolge con passione il proprio mestiere, senonche' l'ufficio scolastico provinciale decide di sospenderla per due settimane sanzionandola con il dimezzamento dello stipendio. Il motivo? Secondo certi "soloni" la professoressa avrebbe omesso di vigilare su una attività didattica presentata in classe dai propri studenti di 14 anni in occasione della Giornata della Memoria. Il video incriminato, realizzato dalla scolaresca, accostava le leggi razziali fasciste approvate nel 1938 al decreto sicurezza del ministro dell'Interno Matteo Salvini. Apriti cielo: al segnale degli organi scolastici provinciali si è scatenato l'inferno. "Se è accaduto realmente, andrebbe cacciato con ignominia un prof del genere e interdetto a vita dall'insegnamento. Già avvisato chi di dovere" precisa con puntiglio la sottosegretaria leghista ai Beni culturali Lucia Borgonzoni. Interviene, come da prassi, il ministro degli Interni e Dintorni: "Non so chi sia stato a proporre, a controllare, a ordinare, a suggerire, però che qualcuno equipari il ministro dell'Interno, che può stare simpatico o antipatico, a Mussolini o addirittura a Hitler, mi sembra assolutamente demenziale". Per dovere di cronaca, aggiungo che la Digos (nientemeno!) si è recata presso la scuola dove insegna la "reietta" per verificare l'accaduto con il preside e i professori. Fantascienza, roba da Corea del Nord potrebbe pensare qualcuno. Eppure è accaduto in Italia e accadrà ancora se il libero pensiero verrà percepito come un pericolo e non come un'occasione di crescita. Comunque la si pensi sui fatti, si impone una riflessione: impedire di avere un'opinione contraria all'indirizzo adottato da un governo, veicola un messaggio di intolleranza e di repressione della libertà altrui. In un clima di profonde mutazioni sociali come quello che stiamo vivendo, la progressiva disaffezione verso i valori essenziali come la dignità umana, la solidarietà, il rispetto delle regole e dei diritti deve essere arginata con l'impegno civile e la partecipazione di tutti "restando umani".

Cleopatra, lunedì 20/05/2019

sabato 18 maggio 2019

THE CRANBERRIES - IN THE END (BMG, 2019)

A poco più di un anno dalla scomparsa di Dolores O’Riordan, esce In The End, capitolo finale di una carriera che, al lordo del lungo iato intercorso tra il 2003 e il 2009, è durata quasi trent’anni. Un disco, ovviamente postumo (almeno, rispetto al decesso della cantante e leader della band irlandese), ma non per questo prescindibile; anzi, In The End è probabilmente la miglior realizzazione dai tempi, ormai lontanissimi, di To The Faithfull Departed (1996).
Chi temeva le solite speculazioni necrofile a fini commerciali, può tirare un respiro di sollievo: le canzoni in scaletta sono tutte decisamente buone, alcune davvero bellissime. Nessuna profanazione, dunque, né assemblaggi di scarti o di incompiuti che avrebbero potuto ledere alla memoria di una delle artiste (e delle band) più amate degli anni novanta. Questo disco, semmai, suona come un canto del cigno, un epitaffio con cui rendere omaggio a Dolores e ricordarla con la qualità di un lavoro iniziato nel 2017 e, poi, portato a termine solo dai tre membri superstiti con l’aiuto di Stephen Street, che già in passato aveva lavorato con il gruppo, contribuendo non poco al suo successo (fra gli altri, No Need To Argue del 1994).
Il risultato finale è davvero di livello. Se da un lato, c’è il rammarico di non sapere come Dolores avrebbe perfezionato le parti vocali del disco, alcune delle quali, se non proprio in fase embrionale, sarebbero state probabilmente arricchite nel corso delle registrazioni, dall’altro, il lavoro fatto dal gruppo e da Street non poteva essere migliore. Il suono, quel suono, che, immutabile nel tempo e legatissimo agli anni ‘90, è diventato un marchio di fabbrica, torna a rilucere come non era accaduto nei due precedenti capitoli, Roses (2012) e Something Else (2017). Le rombanti chitarre elettriche, i riff croccanti delle acustiche, le melodie di facile presa, ma mai scontate, e in sottofondo, i profumi famigliari che evocano Limerick e il cuore dell’Irlanda, si coagulano intorno al cantato singhiozzante, appassionato e inconfondibile di Dolores.
C’è tristezza, e nostalgia, e sconforto, e tutto ciò è quasi inevitabile: sono pochi i momenti leggeri del disco, mentre la maggior parte delle canzoni, concepite da Dolores, che ha scritto tutti i testi, e portate a termine dai tre compagni di una vita, sono attraversate da un mood malinconico che spesso afferra la gola e non lascia scampo. D’altra parte, negli undici brani in scaletta, la O’Riordan rifletteva sulle difficoltà della propria vita, sui suoi disturbi psichici, sulla separazione dal marito e sulla battaglia che giornalmente combatteva per tornare a riappropriarsi della propria esistenza.
Ed è indubbio, che alcuni passaggi delle liriche, così mesti, così cupi, così tristemente profetici (nell’iniziale All Over Now, Dolores canta: “ Do You Remember? Do You Remember The Place? In a Hotel In London. A Scar On Her Face”) abbiano influito sulla realizzazione finale dei brani. Che sono tutti convincenti, soprattutto nella prima parte del disco, che è anche la più marcatamente nostalgica e triste: canzoni come la citata All Over Now, la drammatica e crepuscolare Lost, l’amara invocazione di Wake Me When It’s Over, una sorta di Zombie del nuovo millennio, o la morbidezza dolente della melodia di A Place I Know, sono alcune delle cose migliori mai incise dai Cranberries. Resta, dunque, forte il rimpianto per una ritrovata ispirazione che avrebbe potuto dare ulteriori frutti, se Dolores non fosse prematuramente morta.
Vorrei cercare, ora, il modo di chiudere degnamente questa recensione, di scegliere le parole giuste che servono a sigillare non solo un album, ma anche la storia di una band e, per quanto mi riguarda, essendo fan della prima ora, un pezzettino del mio cuore. Tuttavia, come spesso accade, quando le canzoni si intrecciano con la vita privata, i ricordi e i gusti personali, il rischio è sforare nell’enfasi e nella retorica. Meglio evitare, allora, lasciando che tutti i rimpianti e le emozioni, le vostre, le mie, prendano forma durante l’ascolto del disco. Dolores apprezzerà comunque, ne sono sicuro. 

VOTO: 7,5





Blackswan, sabato 18/05/2019