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sabato 23 luglio 2022

CHIUSURA ESTIVA

 


Il Killer va in vacanza per un paio di settimane. Ci rivediamo ad agosto. Passate dei giorni belli. Un abbraccione a tutti.

 

Blackswan, sabato 23/07/2022

venerdì 22 luglio 2022

BACHMAN - TURNER OVERDRIVE - YOU AIN'T SEEN NOTHING YET (Mercury, 1974)

 


Quando i canadesi Guess Who sono all’apice del successo grazie alla pubblicazione dell’album American Woman, il chitarrista Randy Bachman saluta tutti e se ne va. Un allontanamento progressivo, dovuto in parte a una malattia epatica che lo tiene lontano dai palchi, ma soprattutto per i tesissimi rapporti con il cantante Burton Cummings, ulteriormente inaspriti dalla conversione di Bachman al mormonismo, religione poco compatibile con lo stile vita decisamente rock’n’roll della band.

Dopo una breve avventura a capo dei Brave Belt, Bachman insieme a C.F. Turner forma i Bachman-Turner Overdrive, con cui scalda i motori con un paio di omonimi album, per poi pubblicare, nel 1974, Not Fragile, un best seller che conquista la prima piazza di Billboard 200. Il disco è animato da uno spirito orgogliosamente blue collar, reazionario fin dal titolo nei confronti dell’imperante suono progressive del momento (Not Fragile sbertuccia Fragile degli Yes) e da un pugno di canzoni ruspanti, semplici e buone come un piatto di carne e patate.

A trainare l’album, facendolo diventare un classico resistente all’usura del tempo, una splendida canzone scritta da Bachman, You Ain't Seen Nothing Yet, che raggiunge la prima piazza di Billboard e conquista addirittura la seconda nella lontana Inghilterra. Un brano melodico e divertente, di quelli che fanno venir voglia di cantare a squarciagola, la cui genesi è, peraltro, ricca di aneddoti.

Il brano è caratterizzato dalla voce balbettante di Randy Bachman “(B-b-b-baby, you just ain't seen n-n-nothin' yet”), anche se, in realtà, il chitarrista non aveva alcuna intenzione di pubblicare la canzone nella versione che tutti conosciamo. Un giorno, durante la lavorazione del disco, Randy si mise davanti al microfono e per sfottere il fratello Gary, affetto da un problema del linguaggio, registrò per gioco una versione del brano facendo la voce balbuziente. Dal momento che si doveva trattare di una semplice prova, un momento di cazzeggio durante il lavoro, la band neanche accordò gli strumenti e si mise a suonare in assoluta libertà, senza prestare alcuna attenzione al risultato finale. Anzi, il brano non avrebbe nemmeno dovuto essere inserito nel disco, e fu Charlie Fach, manager della Mercury, ha intuirne il potenziale commerciale e a farlo infilare, all’ultimo momento, nella scaletta dell’album, suscitando non poche rimostranze da parte di Bachman.

La canzone, inoltre, contiene nel titolo un errore grammaticale: You Ain't Seen Nothing Yet, infatti, è un doppio negativo, e la frase corretta avrebbe dovuto essere You Haven't Seen Anything Yet. L’errore, però, fu mantenuto perché così la canzone aveva una musicalità che altrimenti si sarebbe persa.

Un’altra chicca. Stephen King ha citato la canzone nel suo libro di racconti Notte Buia, Niente Stelle (2010) per omaggiare una band che ha sempre visceralmente amato. Al punto che, quando a inizio carriera il suo editore gli proibiva di pubblicare più di un libro all’anno, King aggirò il divieto, inventandosi uno pseudonimo, quello di Richard Bachman. Se non è amore questo…

 


 

 

Blackswan, venerdì 22/07/2022

giovedì 21 luglio 2022

JOURNEY - FREEDOM (Frontiers, 2022)

 


La storia dei Journey inizia a San Francisco nel lontano 1973, ha un picco straordinario di gloria negli anni ’80, con la pubblicazione di tre bestseller che sono diventati leggenda (Captured del 1981, Escape dello stesso anno e Frontiers del 1983), poi, una lenta scomparsa dalle scene, complice l’abbandono del cantante Steve Perry, punteggiata, qua e là, da qualche nuova uscita, non certo memorabile. In tutto questo tempo, la band capitanata da Neal Schon, ha, comunque, mantenuto dritta la barra di un suono immediatamente riconoscibile: anche quando è passata dalla fusion iniziale di scuola Santana (Schon ne era il chitarrista) a un più avvincente arena rock o anche quando ha perso il suo straordinario frontman, il cambiamento non è mai stato così stridente come si sarebbe potuto immaginare. Insomma, i Journey sono rimasti per sempre i Journey.

Non è, quindi, una sorpresa, che questo nuovo Freedom, il loro primo album dopo undici anni, suoni, più o meno, come ce lo saremmo potuto espettare: tecnico, melodico, familiare e prevedibile. Il disco non è certo attraente come Escape, il momento clou della loro carriera, e, in realtà, qualsiasi tentativo di assimilare o riscrivere il loro passato, negli ultimi decenni, non ha mai sortito gli effetti voluti, perché, è quasi inevitabile, che la scrittura abbia perso di smalto e lucentezza. O forse, semplicemente, quel loro suono, immutabile nel tempo, ha dilapidato tutto l’appeal che possedeva quarant’anni fa.

Eppure, Freedom, con i suoi limiti e i suoi difetti, in fin dei conti, è un lavoro riuscito. La formazione è sostanzialmente quella che aveva suonato su Eclipse del 2011 (compreso il cantante filippino Arnel Pineda, scommessa stravinta da Schon), con il bassista co-fondatore Ross Valory sostituito dal turnista Randy Jackson, apparso in due album dei Journey negli anni '80, e un paio di sessionisti a dare manforte al quintetto. A produrre, insieme a Schon e Cain, anche Narada Michael Walden (quello della colonna sonora di Nove Settimane e Mezzo e The Bodyguard), che ha rispettato in pieno il suono Journey, anche se forse, una produzione più asciutta avrebbe giovato, e non poco, all’efficacia della scaletta.

Il cantante Arnel Pineda, con la band dal 2007, è il vero asso nella manica dei Journey, l’unico che ha saputo sostituire Perry, mantenendo lo stesso tasso tecnico, ed è in grado di interpretare, con successo, le complesse linee vocali di canzoni che, molto spesso, ricordano da vicino i giorni di gloria dell'era classica (ascoltate le acrobazie sul tambureggiare e le chitarre stridenti di "You Got The Rest Of Me", ne cito una, per rendervi conto della bravura di questo ragazzo).

In un territorio musicale già ben calpestato, la band si muove a proprio agio, alternando brani più muscolari ("All Day And All The Night", "Let It Rain"), a ballate dall’irresistibile retrogusto zuccherino ("Still Believe In Love", "After Glow"). E quando l’ispirazione dei giorni migliori torna a luccicare, i Journey riescono ancora a piazzare qualche canzone che può tranquillamente convivere, gomito a gomito, con il meglio della loro produzione ("Together We Run", "Life Rolls On", "Don’t Give Up On Us", "The Way We Use To Be").

Il vero problema del disco è, però, l’eccessiva lunghezza: quindici canzoni per circa un’ora e un quarto di minutaggio sono veramente troppe. E troppo spesso, anche le singole tracce, sono tirate per le lunghe. E’ evidente che la caratura tecnica dei protagonisti li porti a stare molto sugli strumenti, ma è altrettanto evidente che certi brani perdano di efficacia, e l’intero contesto, alla fine, si faccia un po' troppo verboso. Detto questo, Freedom è un ottimo ritorno sulle scene, che non deluderà i fan di lungo corso della band. A cui, probabilmente, gioverebbe una più accorta gestione in fase di produzione: eliminati gli orpelli e asciugate da qualche eccesso di manierismo, queste canzoni avrebbero una resa diversa e ora, probabilmente, ci staremmo spellando le mani dagli applausi.

VOTO: 7

 


 

 

Blackswan, giovedì 21/07/2022

martedì 19 luglio 2022

MICHAEL MONROE - I LIVE TOO FAST TO DIE YOUNG (Silver Lining Music, 2022)

 


Il paragone con un viro rosso, strutturato e complesso, è scontato, ma quasi inevitabile. Perchè Michael Monroe, come un barolo d’annata, migliora ogni anno che passa, e il suo secondo album per la Silver Lining Music va ad aggiungersi a una scintillante discografia, iniziata decenni fa a capo dei favolosi Hanoi Rocks. Sono passati addirittura treantacinque anni dal suo primo album solista, Nights Are So Long, e Monroe non solo non ha praticamente sbagliato un colpo, ma continua a scrivere canzoni all’altezza delle cose migliori del proprio glorioso passato.

I Live Too Fast to Die Young è un disco di una potenza espressiva e di una freschezza che lascia a bocca aperta: undici canzoni di punk rock vibrante, i cui spigoli vengono appena smussati da melodie innodiche e ballate dolci amare ricolme di nostalgia. L’opener "Murder the Summer of Love" è una devastante sciabolata rock, un brano che vibra ancora come le prime cose degli Hanoi Rocks, le chitarre spiegate in favore di vento, l’adrenalina che scorre a fiumi. La successiva "Young Drunks Old Alcoholics" non è da meno, sfodera un maligno ghigno punk e schizza a velocità ipersonica per le strade della città, contravvenendo a tutte le norme del codice della strada.

E siamo solo all’inizio di un disco che ha tantissime carte da giocare e una varietà espressiva davvero terrificante. Il mood lunatico di "Derelict Palace" fa pensare addirittura a dei Cure vestiti di borchie e con la sigaretta che pende dal labbro, "All Fighter" è un’esiziale raffica punk ad altezza uomo trascinata da un assolo di chitarra sfrigolante, mentre "Everybody’s Nobody" è melodica e nostalgica quanto basta per inumidire l’occhio con una lacrimuccia.

Monroe si porta dietro tutto il suo bagaglio musicale, continuando, però, a stupire l’ascoltatore, perché quegli abiti vintage sono tutt’altro che logori, e possiede una classe da autentico fuoriclasse, oggi nutrita da quarant’anni di esperienza. Così, Monroe si può permettere anche di piazzare a metà disco una romantica ballata per pianoforte e voce ("Antisocialite"), di quelle da cantare tutti insieme sotto il palco, accendino alla mano, salvo, poi, tirar fuori nuovamente la grinta rock’n’roll con una irresistibile "Can’t Stop Falling Apart" dai contorni sonori stonesiani. La successiva "Pagan Prayer" ti sbatte in faccia alla velocità della luce un indomito retroterra punk, mentre l’ariosa e malinconica "No Guilt" sposta nuovamente la direzione del disco verso altri lidi, forse più rassicuranti ma non meno incisivi. La title track, basso e batteria in apertura ad introdurre grintosissimi riff di chitarra, vede come ospite il grande Slash, che assesta come colpo da ko un assolo dei suoi. Chiude il disco l’ombrosa "Dearly Departed", una canzone fuori sincrono rispetto al mood della scaletta, eppure, nonostante ciò, stranamente magnetica e affascinante.

Quando l’album finisce, il desiderio è quello di rimettere nuovamente la puntina sul primo solco e riascoltare tutto da capo. Perché I Live Too Fast To Die Young non è solo un disco riuscito e zeppo di belle canzoni, ma è anche l’ennesima straordinaria prova di uno di quegli eroi che, a coloro che hanno l’età del sottoscritto, non può che evocare i giorni belli della gioventù. Se è vero che molti vecchi rocker, che si ostinano a suonare la propria musica nonostante il tempo che inesorabilmente passa, suscitano talvolta un po' di tristezza, al contrario, Michael Monroe continua, invece, a incarnare l’immagine di uno spavaldo ventenne, perché il suo punk rock, nonostante qualche ruga di troppo, è ancora vibrante e intenso come te lo ricordi nei primi album degli Hanoi Rocks, comprati, ormai, la bellezza di quattro decenni fa.

VOTO: 8,5

 


 


Blackswan, martedì 19/07/2022

lunedì 18 luglio 2022

SURRENDER - CHEAP TRICK (Epic, 1978)

 


Una macchina che punta l’orizzonte, il finestrino abbassato, il vento che spettina i capelli, nel cuore un’illogica allegria e in testa zero pensieri. Provate ad ascoltare Surrender, prima traccia da Heaven Tonight, disco dei Cheap Trick datato 1978, magari proprio mentre vi fate un giro in auto, in una bella giornata di sole, e le sensazioni che proverete saranno quelle di una fluttuante leggerezza e di uno straripante ottimismo. E provate a trattenervi dal cantare il ritornello, se siete capaci, perché è un’impresa che rasenta l’impossibile.

D’altra parte, Surrender è un inno per teenager, una canzone che parla di adolescenti, nello specifico dei rapporti fra un ragazzo e suoi genitori, e che inevitabilmente riconduce l’ascoltatore all’inconsapevolezza di quegli anni semplici, in cui i problemi più gravi si riassumono quasi tutti in uno scazzo con mamma e papà. Per scrivere la canzone, Rick Nielsen, chitarrista e mente pensante della band, ha più volte raccontato di aver fatto un incredibile sforzo di immedesimazione per tornare a pensare e ragionare come il quattordicenne protagonista delle liriche.

Il quale si lamenta del fatto che i genitori siano iperprotettivi, perché continuano a metterlo in guardia a proposito delle ragazze (“Me l'ha detto la mamma, sì, me l'ha detto. Incontrerei ragazze come te”), dalle quali potrebbe prendersi chissà quale malattia (“Mi ha anche detto di stare lontano, Non saprai mai cosa catturerai. Proprio l'altro giorno ho sentito Di un soldato che sta morendo, (a causa di) un po' di spazzatura indonesiana”). Tuttavia, se è vero che i suoi genitori sono un po' troppo asfissianti, è altrettanto vero che sono anche simpaticamente strani, dal momento che il ragazzo, una notte, li scopre a rotolarsi sul divano, mentre ascoltano i suoi dischi dei Kiss (una citazione, questa, inserita nel testo come ringraziamento alla band di Gene Simmons per aver supportato i Cheap Trick quando erano agli esordi).

Insomma, papà e mamma fanno quello che devono fare, e cioè proteggere e raccomandarsi, ma alla fine non sono altro che degli adolescenti un po' cresciuti, che riescono a rimanere connessi con le nuove generazioni grazie alla musica, un collante che non ha età.

L’ultimo inno per teenager degli anni ’70, così la definì Rolling Stone USA, inserendola alla posizione 471 della sua lista delle 500 canzoni più belle di sempre, Surrender fu tiepidamente accolta negli States, dove arrivò solo alla sessantaduesima piazza di Billboard 100, mentre fece sfracelli in Giappone, paese nel quale i Cheap Trick registrarono il loro album più famoso, At Budokan, uscito l’anno successivo, nel 1979). 

 


  


Blackswan, lunedì 18/07/2022

venerdì 15 luglio 2022

VATICAN - ULTRA (UNFD, 2022)

 


Americani, originari di Savannah, i Vatican posso essere tranquillamente inseriti nella folta e decisamente saturata schiera di gruppi metalcore. Tuttavia, questa giovane band, giunta oggi alla seconda prova in studio, riesce a distinguersi dalla massa grazie a una potenza di tiro realmente devastante, che evoca il puro caos dell’hardcore primigenio, solo in parte ravvivato da quegli elementi (deathcore, post-hardcore e qualche spunto elettronico) che hanno ridefinito il genere nel periodo a cavallo fra gli anni 2000 e 2010.

Rispetto al precedente Sole Impulse del 2019, non ci sono sostanziali cambiamenti e Ultra, con il suo minutaggio compresso (solo trentacinque minuti), suona esattamente come se fosse un fratello maggiore, più maturo e curato negli arrangiamenti, del già ottimo esordio.

L'opener "Slipstream Annihilation" stabilisce subito uno standard ferocemente aggressivo, che uniforma gran parte della scaletta, innescando una tripletta da ko, che continua con le successive "I Am Above" e "Reverence". Tutti e tre i brani hanno uno sviluppo selvaggio e pesantissimo, rappresentando alla perfezione quel suono a cui la maggior parte delle persone pensa quando sente la parola "metalcore". "Reverence", il singolo di punta del disco, vede anche per la prima volta in scaletta l’utilizzo di voci pulite, caratteristica già presente in alcuni episodi di Sole Impulse, e che ritorna svariate volte anche in quest’album, insieme a qualche tocco etereo, che può richiamare alla memoria i Deftones.

La prima vera svolta di Ultra giunge, però, alla quarta traccia, "Where Heavens Collide", un brano decisamente più morbido, levigato di elettronica e con le voci ancora più pulite. Una buona prova, che abbassa però il livello di ferocia che caratterizza la maggior parte delle canzoni del disco. E per fortuna, perché i Vatican quando mordono alla giugulare, palesano un istinto killer che poche band possiedono.

"[ULTRAGOLD]" ricomincia a far tremare le vene dei polsi con un devastante assalto all’arma bianca, esattamente come "Decemeta" e "Uncreated Waste", la cui potenza tellurica è circoscritta a un minutaggio inferiore ai due minuti, circostanza, questa, che mantiene altissimi i ritmi dando al disco un impatto fortemente dinamico, anche grazie all’ottima produzione di Randy LeBoeuf. Da citare anche "By Your Love", che è un inno post hardcore travolgente, le voci pulite e un ritornello che si manda subito a memoria, "Mirror Dream" che evoca il caos matematico e ritmato dei Dillinger Escape Plan, e "Did You Ever Notice I Was Gone", anomalia che si discosta dal complessivo mood dell’album, un brano atmosferico costruito su pianoforte, voce femminile e qualche elemento di elettronica.

Nonostante sia un disco rapido, come molte delle composizioni in scaletta, l’unico problema di Ultra è che è composto di quattordici canzoni, un po' troppe perché la proposta suoni veramente efficace. Detto questo, ce ne fosse di band metalcore come i Vatican: quando decidono di menare, lo fanno davvero con il sangue agli occhi e con quella violenza bruta che manca a molte band coeve. Riuscissero a eliminare completamente le parti più melodiche e gli inserti di elettronica, che oggi vanno tanto di moda, e avrebbero davvero pochi rivali al mondo.

VOTO: 7 




Blackswan, venerdì 15/07/2022

giovedì 14 luglio 2022

ICONIC - SECOND SKIN (Forntiers, 2022)

 


Il supergruppo è quella figura mitologica che ha attraversato la storia del rock, decennio dopo decennio, con risultati altalenanti, A volte, il gusto per il divertimento, la volontà di uscire dalla propria confort zone per tentare altre strade, più spesso, per motivi di opportunità, progetti di natura squisitamente commerciale, che hanno lasciato il tempo che hanno trovato per pochezza di ispirazione e forza espressiva. Ce n’è per tutti i gusti insomma, anche per chi ha la bocca buona e poche pretese.

Ultima, in ordine di apparizione, è la creatura, plasmata da Frontiers, che porta il nome di Iconic, band dal nobilissimo pedigree, che annovera tra le sue fila alcuni autentici eroi della scena metal e hard rock: Michael Sweet (Stryper) alla chitarra e alla voce, Joel Hoekstra (Whitesnake) alla chitarra, Marco Mendoza (Thin Lizzy, Twisted Sister, Black Star Riders) al basso, Tommy Aldridge (Whitesnake, Ozzy Osbourne) alla batteria e Nathan James alla voce.

Considerato il background dei singoli musicisti, è logico che l'album possieda una clamorosa aura anni '80, corroborata, oltretutto, dal fatto che la voce di James suoni vagamente come quella di David Coverdale, il che potrebbe essere anche il motivo per cui alcuni componenti si siano sentiti a loro agio nel suonare queste undici, pimpantissime canzoni. D’altra parte, avere nello stesso progetto artisti di cotanta caratura, trasmette a Second Skin un livello qualitativo che abbraccia tutti gli aspetti del disco, dall’ispirazione per le composizioni allo straordinario approccio tecnico, con cui il quintetto fa propria ogni singola canzone della scaletta. Non è un caso, quindi, che l’album rappresenti l’essenza stessa della storia dei suoi cinque protagonisti e sia un disco ricco di irresistibili riff, assoli folgoranti e, come da copione, anche di ritornelli orecchiabile e di facile presa.  

Second Skin si apre con una bomba NWOBHM che porta il nome di "Fast As You Can" in cui Sweet e James intrecciano abilmente la loro voci attorno a una linea di batteria adrenalinica e riff di chitarra potentissimo, prima che parta un duello da pelle d’oca, lungo e intricato, fra le sei corde di Sweet e Hoekstra. "Ready for Your Love" è un’altra straordinaria traccia dalla forte influenza '80, con un cambio tempo vertiginoso a metà brano, assolo di hammond in odore Deep Purple e uno di chitarra da lasciare a bocca aperta, mentre "Second Skin", incarna perfettamente il mood innodico di queste canzoni dal ritornello irresistibile e mette l’accento sulla consueta performance tecnica dei cinque fenomeni.

Ci sono anche momenti più intimi, come "All I Need" e "Worlds Apart", due power ballad che tradiscono forse un eccesso di miele, nonostante le belle melodie. Ma sono due episodi in un contesto di corse a cento all’ora. "Nowhere to Run", "All About" e "This Way", spaccano alla grande, con quei riff rocciosi, gli assoli che tolgono il fiato e una sezione ritmica che non fa prigionieri, precisa e martellante.

Second Skin è senza dubbio una raccolta di canzoni di prim'ordine forgiate nel metallo da musicisti che sanno il fatto loro, complice anche l’incredibile esperienza e il fulgido passato. Retrò, certo, ispiratissimo agli anni ’80 (qui i fan dei Whitesnake faranno festa), ma lontano da certi stereotipi di genere e attraversato da genuino entusiasmo. Una vivace combinazione di vintage e modernità, che farà godere gli appassionati di vecchia data, come il sottoscritto, ma anche le nuove generazioni, che sanno ancora eccitarsi per il potere corroborante delle chitarre elettriche.

VOTO: 7

 


 


Blackswan, giovedì 14/07/2022

martedì 12 luglio 2022

EVERY LITTLE THING SHE DOES IS MAGIC - THE POLICE (A&M, 1981)

 



Prima in classifica in Inghilterra e terza negli Stati Uniti, Every Little Thing She Does Is Magic fu inserita dai Police in Ghost In The Machine al solo scopo di alleggerire l’atmosfera di un album che, a fine registrazione, suonava un po' troppo sobrio per gli standard della band. Serviva qualcosa, infatti, che stemperasse il mood della scaletta e che facesse da traino all’intero disco. Every Little Thing…era perfetta, suonava leggera e accattivante, e come Sting ha sempre sostenuto, era una canzone molto romantica, nata in un momento della sua vita in cui si sentiva decisamente felice. In realtà, le liriche, per quanto attraversate da un brioso mood sentimentale, hanno come protagonista un personaggio, per così dire, un po’ disfunzionale. Il quale, è del tutto evidente, ama follemente, senza darle tregua, una ragazza che non lo corrisponde. Anzi, si spinge ancora più in là, lambendo i territori dello stalking quando decide di chiamarla “mille volte al giorno” per chiederle di sposarla. Non certo dei versi rassicuranti, soprattutto se riletti alla luce della società odierna, molto sensibile a temi di questo tipo.

La canzone, che originariamente suonava come una ballata acustica, fu scritta da Sting nel 1976, l'anno in cui si era trasferito a Londra, e non aveva soldi, nessuna prospettiva, nessun posto dove vivere, ma solo il numero di telefono di Stewart Copeland e una vaga idea di formare una band.  Sting, poi, incise un nuovo demo di questa canzone all'inizio del 1981, insieme al tastierista franco canadese, Jean Roussel, sfruttando lo studio di quest’ultimo, situato in Montreal.

Quando i discografici dei Police, sentirono il demo, colsero subito il grande potenziale della canzone e chiesero alla band di mettersi subito all’opera per registrane una versione definitiva. Ma ottenere la magia che c’era in quella registrazione si rivelò impresa titanica, e i Police dovettero faticare non poco per ottenere un apprezzabile risultato finale. In particolar modo, era Copeland ad avere serie difficoltà a trovare un drumming adatto al pezzo. La band cercò di venirne a capo, approcciando la canzone in modi diversi, suonandola veloce e poi lenta, reggae, punk e bossanova. Niente da fare, però: ogni volta che tentavano di suonarla diversamente da come suonava nella demo, il pezzo perdeva la sua forza espressiva. A quel punto, l’unico modo per venirne a capo, invece di tentare ogni volta uno stile diverso, era che Copeland suonasse sopra la registrazione fatta da Sting e Roussel. E così fecero, con il cantante nelle vesti di direttore d’orchestra, che guidava passo per passo il batterista durante lo sviluppo del brano.

In questa versione definitiva, che venne poi inserita nell’album, la canzone, come già detto, ottenne un incredibile successo di vendite, divenendo insieme King Of Pain il secondo singolo dei Police più venduto negli Stati Uniti (il primato, spetta ovviamente, a Every Breath You Take).

Una curiosità. I versi “Do I have to tell the story, Of a thousand rainy days since we first met?, It's a big enough umbrella, But it's always me that ends up getting wet” contenuti nella canzone, furono riutilizzati da Sting per altre due composizioni: O My God da Synchronicity e Seven Days dal suo album solista Ten Summoner's Tales.

 


 

 

Blackswan, martedì 12/07/2021

lunedì 11 luglio 2022

JUST MUSTARD - HEART UNDER (Partisan Records, 2022)

 


Quando, nel 2018, uscì Wednesday, l’album di debutto dei Just Mustard, la band originaria di Dundalk, in Irlanda, si muoveva entro i confini di riconoscibili tropi shoegaze. Niente male, a dire il vero, ma nonostante qualche deragliamento nel noise rock, il disco suonava ancora acerbo e decisamente derivativo. Sono passati cinque anni, e tanta acqua sotto i ponti, un lasso di tempo abbastanza lungo perché i Just Mustard riflettessero sul loro progetto e sviluppassero nuove idee. Così, Heart Under, secondo album della band e il primo per la Partisan Records, si colloca proprio su un altro pianeta, sia da un punto di formale che di sostanza. I cinque ragazzi irlandesi hanno avuto un’evoluzione incredibile, sono usciti dagli stretti confini entro cui si muovevano con passo sicuro, ma prevedibile, ed hanno esplorato. Laddove il debutto pagava debito alla scena che li ha preceduti, Heart Under è, invece, un viaggio coraggioso in un nuovo territorio sonoro, tanto che, etichette e confronti, oltre che meno plausibili, sarebbero anche riduttivi nei confronti di una musica davvero innovativa.

Nelle dieci canzoni in scaletta, potrete cogliere chitarre post-punk travolgenti e graffianti, estatiche ed eteree digressioni dream pop, ritmiche industrial, corrosive e ipnotiche derive post rock e claustrofobiche atmosfere trip hop. In un mix altamente suggestivo. Il segno realmente distintivo, però, è dato dalla voce angelica e dolcissima di Katie Ball, che passa a volo d'uccello su territori desolati e oscuri, su plaghe di buio che inghiottiscono ogni spiraglio di luce, sulle macerie di un’umanità post atomica, le cui uniche forme di vita comunicano attraverso vibrazioni noise, schianti industriali e letali scariche elettriche. Un disco per certi versi dicotomico, strutturato sul gioco degli opposti che si attraggono e che creano una simbiosi perfetta: in cielo, melodie celestiali, in fondo, sulla terra, un mondo di vertiginosi sprofondi.

"23" apre la scaletta, impostando perfettamente il mood che attraverserà tutto il resto del disco. Le chitarre sibilano e stridono come violoncelli scordati, la voce di Katie Ball suona dolce e minacciosa allo stesso tempo, mentre tutto intorno è fredda desolazione. La peculiarità di questa musica sta anche nel lavoro fatto in fase di mixaggio, con la voce che suona decisamente più alta di tutto il resto. La voce della Ball è la vera protagonista del disco: a volte, possiede un timbro infantile, altre volte, angelico, spesso è usata per trasmettere una malinconica sensazione di noia, che accentua le astrazioni al centro delle canzoni. In questo brano, come in tutti gli altri, le frasi vengono ripetute in modo ipnotico, ancora e ancora, e quando nel ritornello la Ball canta "Did I Know You?", la corda dell’inquietudine vibra a causa di quel timbro malignamente apatico. La natura ripetitiva dei testi è un aspetto avvincente del disco, ogni canzone si presenta come un mantra e non come vera e propria narrazione. Non ci sono storie in quanto tali su Heart Under, e le canzoni sono emotive ed espressive senza avere bisogno di essere chiaramente definite o lineari sotto la veste testuale.

"Seed" inizia con un muro di rumori aspri ed stridenti, un ritmo di batteria in stile militare e una linea di basso minimal aprono lo spazio per l'assalto delle due chitarre, cariche di effetti, di David Noonan e Mete Kalyon, che pigiano furiosamente sul tremolo per instillare una sensazione di paura. La voce di Ball brilla tra flussi e riflussi cacofonici, e la stasi a metà canzone è solo la calma prima della tempesta, prima che le chitarre scatenino un’elettricità solenne, decadente, lacerante. "Blue Chalk" mette in evidenza sia la natura sperimentale dei Just Mustard, ma anche la loro capacità di creare canzoni accattivanti che sembrano entità libere, lontane da ogni forma di progettualità elaborata a tavolino. La traccia prende vita con un suono di batteria profondo, lontano, che è totalmente in contrasto con la natura eterea e mistica della melodia. Questa sensazione di suoni come contrappunti, alla fine innegabilmente complementari, mette in evidenza una band coesa e in palla, le cui idee si combinano con effetti artistici straordinari.

In un contesto alieno e disconnesso, forse la sola "Mirror" assume connotati famigliari e si offre come tributo, sic et simpliciter, alla melodia. Ma la conclusiva "Rivers" mette nuovamente in evidenza tutto ciò che è fantastico nel disco: le linee di basso, semplici e pulsanti, di Rob Clarke, fanno da metronomo, la batteria di Shane Maguire è sepolta nelle profondità del mixer, le chitarre lacerano il velo serico della voce di Ball, e mentre senti che la canzone sta andando in una certa direzione, all’improvviso ti porta da qualche altra parte.

La grandezza di Heart Under e dei Just Mustard risiede proprio in questo, nel conoscere, cioè, le regole per scrivere canzoni e volerle sfidare a tutti i costi piuttosto che conformarsi. Il risultato è uno dei dischi più avvincenti dell’anno, che mette in riga molte delle band che si cimentano in quel genere che definiamo post punk. L’hanno capito anche gli iconici Fontaines Dc, che hanno voluto i Just Mustard ad aprire i loro concerti. Chissà, magari, un giorno, i rapporti di forza si ribalteranno. Questi ragazzi se lo meriterebbero.

VOTO: 9

 


 

 

Blackswan, lunedì 11/07/2022

venerdì 8 luglio 2022

THUNDER - DOPAMINE (BMG, 2022)

 


Immarcescibili e tetragoni di fronte all’avanzare del tempo e delle mode, i Thunder sono uno dei gruppi rock più conosciuti e popolari della Gran Bretagna, rinomati per la qualità dei loro dischi e per la straordinaria potenza dei loro concerti. Tredici album in studio, tra cui l’iconico debutto del 1990 Back Street Symphony, uno iato di sette anni, tra il 2008 e il 2015, e poi, la ripresa con Wonder Days, e una seconda giovinezza scandita da un album ogni due anni, esattamente come nella prima parte di carriera.  

Che la band londinese goda di ottima salute, lo si era capito dal precedente, scintillante, All The Right Noises, uscito poco più di un anno fa. Ed è anche evidente come la pandemia, e il conseguente lockdown, non abbiamo bagnato le polveri di un’ispirazione che continua a essere al top, grazie a un armamentario classic rock tirato a lucido e capace di colpire sempre il centro del bersaglio.

Tanto che, per questo quattordicesimo album in studio, il gruppo londinese si è superato, sfornando un doppio disco composto da sedici canzoni e lungo ben 71 minuti. Troppo? Forse, se non ti chiamassi Thunder, lo sarebbe. Invece, Dopamine, è un’opera riuscita ed ispirata, che non mostra punti deboli o cedimenti nonostante il ponderoso minutaggio, e che dispiega tutto il consueto retroterra di vibranti canzoni dal tiro hard rock e di ballate intense e melodiche.

Si parte a cento all’ora con "The Western Sky", un brano che strattona l’ascoltatore, trascinandolo per il bavero coi suoi riff pesanti, la ritmica possente e la voce scintillante di Danny Bowes, la cui ugola non sembra aver subito le angherie del tempo. "One Day I'll Be Free Again" è strutturata per accumulo, parte il riff di Morley, in quota Ac/Dc, e poi si aggiungono voce, basso e batteria, per un secondo episodio davvero elettrizzante. "Even If It Takes a Lifetime" rallenta, invece, il passo, è un blues sornione dagli accenti country e dal ritornello irresistibile, mentre la successiva "Black" rispolvera il glam anni ’70, e "Unraveling" è il classico lento alla Thunder, melodico e radiofonico, il cui pathos è accentuato da un breve, ma intenso assolo di Luke Morley. 

Niente di nuovo sul fronte occidentale, certo, ma nella loro confort zone, i Thunder difficilmente abbassano l’asticella qualitativa. "The Dead City" ringhia e sbuffa sopra un riff duro come la pietra e conquista con un ritornello acchiappone che fa venire in mente i Buckcherry, "Last Order's" è un brano in crescendo e bluesy, che vede Luke Morley alla voce in una prima parte lenta, che accelera, poi, in una seconda parte scossa dal consueto assolo di poche note ma tutte centrate. Il cd si chiude con "All The Way", una poderosa sassata hard rock (la cui matrice evidente è "We Will Rock You" dei Queen), che lascia la bocca buona per approcciarsi al secondo dischetto.

Riusciranno i nostri eroi a mantenere alta l’ispirazione o le cartucce migliori sono già state sparate? Il tempo di porsi la domanda, e Dopamine ricomincia con "Dancing In The Sunshine", un rock cadenzato, rimbalzante e traboccante di gioia. Ancora meglio la successiva "Big Pink Supermoon", sei minuti blues swingati, in cui la band giostra alla grande intorno alla voce da califfo di Bowes e agli assoli scintillanti di Morley, sempre più efficace. "Across The Nation" è un tiratissimo rock da stadio, di quelli che messi in apertura di show rendono gli animi incandescenti, "Just A Grifter" apre una parentesi dalle atmosfere folk, con un retrogusto dolce amaro da caffè parigino, evocato da fisarmonica e violino.

Un sali e scendi continuo, una formula collaudata, certo, ma che rende vario e divertente l’ascolto, e non stanca mai. Così, la seguente "I Don't Believe The World" è un brano ritmato, insaporito dal cantato soul di Bowes e dall’ennesimo prodigio di Morley, che piazza a metà brano un’unghiata delle sue, grazie a un assolo stranamente stridente rispetto al mood della canzone. C’è ancora spazio per la tambureggiante Disconnected, brano che evoca i giorni della pandemia, la ballata pianistica "Is Anybody Out There?" e la conclusiva "No Smoke Without Fire", un momento cupo e lunatico, che esplode in una rabbiosa e martellante parte centrale per poi rallentare nella sei corde di Morley in un inquietante outro dal sapore blues.

E’ un vero e proprio viaggio attraverso il mondo e la storia dei Thunder, quello che si affronta con l’ascolto di Dopamine, un altalena di emozioni, in cui convivono, uno vicino all’altro, ringhi rock e carezzevoli ballate, senza che la band snaturi il proprio stile, ormai consolidato nel tempo. E’ davvero incredibile come i Thunder riescano a tenere la barra dritta per così tante canzoni, e non rischino mai la deriva, esibendo uno straordinario bagaglio tecnico, ed evitando, tuttavia, di perdere quel fuoco ardente, rappresentato dalla voglia di continuare a divertirsi, nonostante tutto. Saranno prevedibili, forse, ma non tradiscono mai. E questo, a prescindere da ogni altra considerazione, è un buon motivo per continuare ad amarli.

VOTO: 8

 


 

 Blackswan, venerdì 08/07/2022

giovedì 7 luglio 2022

HEY YA! - OUTCAST (LA Face, 2003)

 


Nel 2021, Rolling Stone USA ha definito Hey Ya! la decima miglior canzone di tutti i tempi. Si potrà essere d’accordo o meno con questo giudizio, ma a prescindere da ogni valutazione sullo spessore artistico del brano, è indubbio che la canzone degli OutKast (la trovate su "The Love Below", seconda parte dell'album doppio "Speakerboxxx/The Love Below") non sia passata inosservata al grande pubblico, avendo raggiunto la top ten di quasi tutte le classifiche che contano.

Hey Ya! ha fatto cantare e ballare mezzo mondo, è un pezzo dalla melodia contagiosa al quale è davvero impossibile resistere. Ciò nonostante, dietro l’apparente allegria del brano, al ritornello ruffiano, al testo semplice, anche se non immediatamente comprensibile, e al video un po' caciarone e festaiolo, si cela in realtà una riflessione non proprio accomodante.

Su un primo piano di lettura, restando in superficie, Hey Ya! suona, soprattutto nella seconda parte, come un invito a ballare, a divertirsi per scrollarsi di dosso la fatica del quotidiano e ritrovare l’energia perduta. Un’interpretazione non del tutto sbagliata, certo, ma comunque un po' frettolosa, che non tiene conto di un significato meno evidente e più profondo.

La prima parte della canzone è, infatti, incentrata su una storia d'amore travagliata, della quale né il protagonista né la sua partner sono felici. E’ indubbio che fra i due ci sia anche del sentimento, ma l’impressione trasmessa è che la coppia rimanga insieme per abitudine, per evitare di dover affrontare una separazione e la conseguente vita da single.

E’ come se avessero paura di stare da soli, motivo per cui tengono in vita un rapporto tutt'altro che ideale e ormai esausto. Il senso, in realtà, potrebbe essere anche meno circoscritto, e riferirsi più genericamente a tutte quelle relazioni tenute in piedi ipocritamente, per non dover affrontare il giudizio altrui e quello della società. Un tema, questo, forse più attuale vent’anni fa di quanto non lo sia oggi, e che, forse, è stato ispirato dall’esperienza personale di Andre 3000 con i suoi genitori.

Una riflessione amara, dunque, che serve a introdurre, però, un gancio ludico. Se una relazione fa soffrire, l’unico modo per alleviare l’ansia di sentirsi intrappolati in un rapporto senza senso è quello di non pensarci e ballare. Non esiste, infatti, al mondo miglior antidepressivo della musica.   

 


 

Blackswan, giovedì 07/07/2022

martedì 5 luglio 2022

PORCUPINE TREE - CLOSURE/CONTINUATION (Music For Nations/Sony, 2022)

 


Nati dalla fantasia del talentuoso Steven Wilson, come una sorta di divertito esperimento domestico, i Porcupine Tree, grazie anche al supporto del pubblico italiano (il primo a sposare il progetto e a riconoscerne la validità), hanno lentamente acquisito popolarità e successo commerciale, rilasciando dieci dischi in un arco temporale di diciassette anni. Poi, nel 2009, dopo la pubblicazione di The Incident, tutto improvvisamente si ferma e la band sparisce dai radar, instillando il sospetto, anche a causa di alcune dichiarazioni piccate di Wilson, che non ci sia più spazio per un nuovo disco.

Invece, dopo tredici anni di attesa, vede la luce, per la gioia di migliaia di fan sparsi in tutto il mondo, Closure/Continuation, il cui titolo ambiguo, esprime molto bene il senso che sottende alla pubblicazione dell’album: da un lato, la chiusura di un cerchio, il completamento di una storia gloriosa; dall’altro, il senso di continuità con un passato ricco di soddisfazioni, e l’apertura, forse, di un nuovo ciclo.

Sette canzoni, per la durata di quarantotto minuti, che, con qualche aggiustamento di tiro, rispecchiano perfettamente l’anima di una musica fascinosa, capace, nel tempo, di evolversi, pur rimanendo fedele a concetti imprescindibili: assimilare contenuti da più generi (progressive, alt metal, pop, elettronica) e creare un suggestivo melting pot con caratteristiche peculiari, un marchio di fabbrica non derivativo, ma distintivo e originale. In tal senso, Closure/Continuation è la summa del Wilson pensiero, l’espressione di un’anima artistica mutevole e sperimentale, che ha saputo esplorare territori diversi da loro, ogni volta con la stessa consapevolezza e con continue illuminanti intuizioni.

Al suo fianco, per chi si approcciasse per la prima volta al gruppo, due musicisti dal nobile pedigree, che, ben lontani dall’essere meri comprimari, hanno contribuito con il loro bagaglio artistico a dare profondità e lucentezza alle composizioni: Richard Barbieri, tastierista dei leggendari Japan, il cui tocco, lontano dai più bolsi paludamenti progressive, arricchisce le canzoni di atmosfere cinematiche e misteriose, e Gavin Harrison, straordinario batterista, dal drumming sincopato e rutilante, con un passato artistico sviluppatosi prevalentemente in Italia (Alice, Claudio Baglioni, Eugenio Finardi, Franco Battiato), e oggi militante nelle fila, oltre che dei PT, anche dei King Crimson.

Come accennato, Closure/Continuation racchiude in sé l’essenza della band, quel suono meticcio, che non dà punti di riferimento, che plasma suggestiva elettronica, sferzate di elettricità, gentilezza acustica e accattivanti melodie, abbinando immediatezza e profondità.

La porta sul mondo Porcupine Tree si apre con l’iniziale "Harridan" e il basso suonato da Wilson, che introduce una struttura molto dinamica, groovy, dall’architettura funky in 5/4, ma dal respiro ansioso, cupo, pronto ad esplodere in un’anfetaminica deriva alt metal, che evoca la ruvidezza cerebrale dei Tool. Una canzone simbolo, che però non esaurisce la grana espressiva di una band, che si muove a proprio agio anche quando condensa irresistibili e dolcissime melodie in atmosfere umbratili ("Of The New Day"), trasfigura sonorità pinkfloydiane attraverso una struggente patina malinconica ("Dignity") o spinge la tensione al parossismo, forgiando nel metallo riff ansiogeni, che si dissolvono in scenari claustrofobici ("Rats Return").

Qualcuno potrà obbiettare che Closure/Continuation sia un disco cerebrale e privo di pathos, un’opera autocelebrativa costruita con furbizia a tavolino. In parte, forse, è vero, ma non è scritto da nessuna parte che per comporre grandi canzoni sia anche necessaria la mediazione del cuore. Questo ritorno, pur nella sua complessa architettura tecnica e nell’approccio intellettuale e razionalista, riesce a veicolare suggestioni intense: il talento compositivo di Wilson, le sonorità elusive ed enigmatiche di Barbieri, e il drumming istintivo di Harrison, formano un connubio artistico a cui è impossibile resistere. Ed è quasi inevitabile concludere che, nonostante il lunghissimo iato, i Porcupine Tree restino ancora la migliore espressione possibile di quel genere che, nello specifico, forse un po' artatamente, definiamo progressive rock.

VOTO: 8

 


 

 

Blackswan, martedì 05/07/2022

domenica 3 luglio 2022

VARIOUS ARTISTS - LEGACY: A TRIBUTE TO LESLIE WEST (Provogue, 2022)

 


Formatisi a New York, nel 1969, su iniziativa del chitarrista Leslie West (complice il bassista e produttore dei Cream, Felix Pappalardi), i Mountain sono stati uno dei fiori all’occhiello del suono americano degli anni ’70, acquisendo con il primo, splendido album Climbing (1970) lo status di pionieri dell’hard rock a stelle e strisce. A capitanarli, come detto, Leslie West, chitarrista funambolico, il cui suono distintivo era dato da una Gibson Les Paul Jr., a cui aveva rimosso il pick up per sostituirlo, udite udite, con un…portacenere.

Prima di morire, nel dicembre del 2020, all’età di settantacinque anni, per un attacco cardiaco, West aveva avuto l’idea di registrare alcuni classici dei Mountain e dei West, Bruce & Laing (super gruppo power rock con Jack Bruce dei Cream e Corky Laing, batterista dei Mountain), e un pugno di nuove canzoni, coinvolgendo nell’operazione svariati ospiti di diversa estrazione. West, come detto, se ne andò poco dopo, ma il progetto rimase in vita e gli ospiti che aveva contattato portarono avanti quello che, a tutti gli effetti, è oggi un appassionato omaggio al grande chitarrista americano.

Il disco inizia con una scintillante versione di "Blood Of The Sun" (dall’esordio solista di West) tirata a lucido da Zakk Wylde, accompagnato da Bobby Rondinelli e Rev Jones (in passato, entrambi al servizio della band), ed è davvero emozionante riscoprire un riff che ha fatto scuola e comprendere quanto lo stile di West fosse unico, tanto che un chitarrista affermato come Wylde si mette al servizio della canzone, cercando di replicare proprio quel suono leggendario.

Personalmente, non mi sarei mai aspettato di assistere al giorno in cui il frontman dei Twisted Sister, Dee Snider, e l'ex colosso della batteria dei Dream Theater, Mike Portnoy, sarebbero apparsi nella stessa canzone, oltretutto dalle sonorità southern rock, e invece, i due convivono in perfetta simbiosi nella convincente reinterpretazione di "Theme For An Imaginary Western", tratta da Climbing. Il cuore anche in questo caso, per chi è stato fan della band americana, batte forte, ed è una sensazione che si prova spesso e volentieri, nel corso di una scaletta che annovera un parterrre de roi da urlo: oltre ai musicisti citati fino ad ora, fanno parte della crew anche Robby Krieger, Yngwie Malmsteen, Slash, Joe Lynn Turner, Steve Morse e Marty Fiedman, solo per citarne alcuni.

Marty Friedman (Megadeth) e Joe Lynn Turner (Rainbow, Deep Purple) si cimentano con "Nuntacket Sleighride", e basta lo straordinario assolo del chitarrista a portare a casa un voto altissimo. "Why Dontcha" (dal repertorio di WB&L), con Steve Morse alla chitarra e Ronnie Romero (Rainbow) alla voce (praticamente il sosia vocale di Ronnie James Dio), è un cazzutissimo hard rock che risuona dalle casse come se non fosse passato solo un giorno dal 1972. Romero fa meraviglie anche in "The Doctor", dove inaspettatamente compare anche Robby Krieger, che scatena la slide da vero maestro qual è, mentre Yngwie Malmsteen, funambolico come al solito, onora West con una superba interpretazione di "Long Red".

A chiusura dell'album, come la ciliegina sulla torta, compare la canzone più iconica dei Mountain di tutti i tempi, ovvero "Mississippi Queen", che vede il cantante dei Dirty Honey, Marc Labelle, alla voce, e Slash alle chitarre. Ancora una volta, la scelta degli ospiti probabilmente non avrebbe potuto essere migliore, in quanto il caratteristico stile di Slash si adatta alla canzone come un guanto.

Come la maggior parte degli album tributo, questa disco farà senza dubbio felici i fan dei Mountain e di West, ma è evidente che la qualità della proposta e delle canzoni in scaletta sarà gradita anche da tutti coloro che, pur non conoscendo questo straordinario musicista, sono comunque appassionati di hard rock vintage, southern e, più in generale di tutto quel rock il cui segno distintivo è dato dal suono dardeggiante delle chitarre, visto che, in questa raccolta, sono racchiusi alcuni dei riff più goduriosi di sempre.

VOTO: 7,5

 


 

Blackswan, lunedì 04/07/2022

venerdì 1 luglio 2022

FANTASTIC NEGRITO - WHITE JESUS, BLACK PROBLEMS (Storefront Records, 2022)

 


Sul fatto che Xavier Amin Dphrepaulezz, al secolo meglio noto come Fantastic Negrito, sia un artista straordinario, è un’evidenza inconfutabile. Se è vero, infatti, che tre indizi fanno una prova, i tre Grammy vinti consecutivamente per i suoi ultimi tre album in studio (miglior disco di blues contemporaneo nel 2016, 2019 e 2020) collocano il non più giovane Dphrepaulezz (a gennaio ha compiuto 54 anni) fra gli artisti più influenti e seminali di musica nera del nuovo millennio. Non parliamo, ovviamente, di successo commerciale (FN era e resta un artista quasi di nicchia), ma di caratura artistica, che ha conquistato la critica grazie a un progetto musicale legatissimo al passato, ma in grado di rileggere la grande tradizione, rinnovandola. Ogni volta.

In tal senso, Fantastic Negrito è un artista non convenzionale, che potrebbe collocarsi all’interno di una confort zone ricca di soddisfazioni, se solo non fosse per quell’animo inquieto che lo porta a sperimentare, creando canzoni che suonano al contempo vintage e modernissime. Retromaniaco, certo, ma sempre imprevedibile nell’approcciarsi e nell’interpretare le radici. Al quinto album in studio, però, Dphrepaulezz azzarda ancora più del solito, e tira fuori il suo disco più sperimentale, che dispiega una vastissima grana espressiva (dalla psichedelia al funky, dal rock al pop, dal gospel al soul), in un gioco di rimandi complesso e in un intreccio musicale nevrotico, stralunato e decisamente bizzarro.

Xavier Dphrepaulezz è un sacco di cose, ma prevedibile non è certo una di queste. Se si pensa ai citati tre Grammy, vinti per il miglior disco di blues moderno, stupisce, allora, che il suo album numero cinque lo veda alle prese con un groove musicale e tematico che spinge la sua musica più lontano da qualsiasi cosa anche il blues, anche il più contemporaneo, comprenda. Chi segue Fantastic Negrito da sempre, forse non resterà spiazzato dal suo approccio anticonformista e innovatore, un elemento che ha comunque caratterizzato ogni sua opera passata; ma è fuor di dubbio che in White Jesus, Black Problems l’elemento sorpresa è di gran lunga superiore che in passato.

Un set musicale approntato con astuzia e coraggio, un viaggio instabile, irregolare, ardito, che fonde le radici con le intuizioni che avevano fatto brillare la musica di artisti quali Frank Zappa o Prince, un’opera che confonde, che non dà punti di riferimento, e che nel momento in cui si fa accomodante, prende immediatamente traiettorie apparentemente illogiche. Non capita spesso di ascoltare dischi di questo livello, e anche se ci vuole più di un ascolto per entrare in sintonia con questo mondo incredibilmente cangiante, la sensazione finale è quella di trovarsi di fronte a un discone, probabilmente il migliore di una discografia inappuntabile.

Non una scaletta semplice da affrontare, a partire da quel titolo, che suona come uno slogan politico, e da liriche che ammiccano a temi sociali e razziali (titoli come "You Don’t Belong Here", "You Better Have A Gun" e "Register of Free Negros" sono abbastanza espliciti in tal senso) ma che hanno anche una funzione di riscoperta del passato dell’artista, che recupera le storie dei suoi avi riportando alla luce vite lontanissime nel tempo.

Musicalmente, il disco inanella una serie di azzardi perfettamente riusciti, come appare evidente fin da "Venomous Dogma", il brano che apre la scaletta, fondendo orchestrazioni beatlesiane, languori psichedelici ed echi space rock, per virare improvvisamente verso sonorità gospel tradizionali, che evocano un immaginario fatto di paludi, fango e sudore. Echi di Sly & the Family Stone nel risuonano nel riff di apertura di "Nibbadip", che si trasforma quasi immediatamente in coloratissima chincaglieria pop anni '60. Se il frenetico rock di Trudoo scivola adrenalinico su un groove funky e dispensa fragranze Motown, in "In My Head" le acrobazie vocali doo-woop si schiantano contro un muro di funky alla James Brown, in cui un’eccitazione sudata viene tamponata dal velluto sotterraneo di brevi tocchi jazzati.

In questo percorso accidentato ma altamente suggestivo, riveste un ruolo importante anche la voce espressiva di Dphrepaulezz, in bilico perenne tra carezzevoli falsetti e ringhio nervoso, inafferrabile come la sostanza di cui sono fatte queste tredici, splendide canzoni.

White Jesus, Black Problems, giova ribadirlo, non è un’opera di facile assimilazione. Restare aggrappati al filo logico che sottende questa musica è come mantenere l’equilibrio dopo aver fatto un frenetico giro di giostra: si barcolla un po', prima di ritrovare stabilità e comprendere quanto ci si sia divertiti, tanto da voler ripetere immediatamente l’esperienza. Come si suol dire, il gioco vale ampiamente la candela. Aprite, dunque, il cuore e la mente, senza preconcetti, all’ecclettismo di Fantastic Negrito, e probabilmente vi ritroverete per le mani uno dei dischi più significativi ed eccitanti del 2022.

VOTO: 9

 


 

Blackswan, venerdì 01/07/2022