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giovedì 29 febbraio 2024

Les Edgerton - Il Recidivo (Elliot, 2023)

 


Da tempo l’ex detenuto Jake Bishop si è lasciato alle spalle la sua ultima condanna e gli anni di galera. Ora è sposato, aspetta un bambino e sta per aprire un salone di bellezza. Una vita tranquilla è ciò che desidera più di ogni cosa e ha fatto di tutto per arrivarci. Poi un giorno un vecchio compagno di cella, Walker Joy, si presenta da lui per chiedergli un favore: ha bisogno della sua mano esperta per un furto con scasso perché lui è ancora il migliore su piazza, e poi, promette Walker, «sarà una passeggiata». Jake intravede subito i rischi di questa richiesta eppure si ritrova costretto ad accettare, per via di un vecchio debito di riconoscenza – Walker gli ha salvato la vita anni prima in prigione – e di un ricatto da parte del nuovo socio di Walker. Se non vuole perdere tutto, deve rischiare e sperare di uscirne vivo.

Jake ha messo la testa a posto. E’ stato in carcere due volte ed è un ex alcolista, ma adesso tutto va a gonfie vele. E’ uscito dal giro, ha smesso di bere, si è sposato con una donna bellissima, da cui aspetta un figlio, lavora come parrucchiere, sta sognando di aprire un’attività tutta sua e fa da “papà” al fratello minore Bobby, un adolescente irrequieto, divorato dai sensi di colpa per la morte dei genitori. Un giorno, mentre sta chiudendo il negozio, riceve una telefonata da Walker, un suo ex compagno di cella, che gli ha salvato la vita durante il periodo di detenzione. Walker gli chiede di aiutarlo a commettere un ultimo colpo, un colpo facile e redditizio, che farà svoltare entrambi. Jake inizialmente rifiuta, ma poi, ricattato, è costretto, suo malgrado, ad accettare. E la sua vita, quella vita normale e felice che aveva sempre sognato, inizia a sgretolarsi…

Autore di ben ventitre romanzi, il texano Les Edgerton, scomparso proprio lo scorso anno all’età di ottantun anni, esattamente come il più celebre Edward Bunker, è stato un ex galeotto che, ravvedutosi, ha abbandonato il mondo del crimine e si è ricostruito una vita. Ne Il Recidivo, Edgerton fa confluire, quindi, la sua esperienza di carcerato e di uomo che, lentamente, a fatica, ha trovato la strada per la redenzione attraverso la scrittura e l’amore della sua famiglia. Jake è, pertanto, un personaggio in parte autobiografico, e in parte rappresenta l’incarnazione di tutti coloro che, con alterne fortune, hanno cercato di riappropriarsi di un’esistenza normale, dopo un passato turbolento.

Jake sceglie di nuovo il crimine perché obbligato, certo, ma anche perché il suo vissuto, che non può essere cancellato, torna a bussare alla porta, e perché, in fin dei conti, il criminale è l’unico mestiere che sa fare veramente. Le stigmate del delinquente non si cancellano, e la genetica criminogena è sempre in agguato, un tarlo che rode dall’interno e che divora anche i sentimenti più nobili. Jake fa consapevolmente una scelta sbagliata, da cui discende una concatenazione di eventi sfortunati che si accaniscono su di lui, sprofondandolo sempre di più in un abisso, nel quale in gioco non ci sono solo la prigione e la vita, ma anche la sua stessa anima. Un vortice che lo risucchia, che lo spinge a commettere azioni sempre più aberranti, a rinnegare tutto quello per cui si è battuto, fino a trascinarlo in un drammatico, quanto inevitabile finale.

Il recidivo è una bomba a orologeria innescata fin dall’incipit, e il conto alla rovescia, il ticchettio che porta all’esplosione finale, lo si ascolta, inesorabile, pagina dopo pagina. Come scrive Anthony Neil Smith nella prefazione al romanzo: “Il noir è così. Ci rendiamo conto che il protagonista si farà male, continuiamo a leggere per scoprire quanto male si farà. Ci copriamo gli occhi con le mani, ma sbirciamo tra le dita”. Niente di più vero. Il recidivo è, infatti, un signor noir, uno dei migliori che mi sia mai capitato di leggere. I colpi di scena si sprecano, tengono incollati al libro generando tensione e ansia, e la scrittura di Edgerton, così asciutta, diretta e al contempo potente, arriva acuminata ed esiziale dritta al cuore del lettore, che non può non immedesimarsi in Jake, antieroe, sfortunato e malinconico, dal destino segnato. E se il linguaggio è crudo, ma mai inutilmente volgare, e le immagini sono violente e feroci, ma sempre funzionali alla trama, ciò che davvero stupisce sono la sfaccettata psicologia con cui vengono tratteggiati i personaggi e la profondità delle riflessioni di un uomo alla deriva di una sorte ineluttabile. Un must per i cultori del genere.

Blackswan, giovedì 29/02/2024

martedì 27 febbraio 2024

BLACK HOLE SUN - SOUNDGARDEN (A&M, 1994)

 


1 + 1 non sempre fa 2. Se è vero, infatti, che il nome della band si ispira all'opera A Sound Garden, installazione sonora dell'artista Douglas Hollis al NOAA Western Regional Center di Seattle, per lungo tempo, per un collegamento automatico, ma fallace, sì è pensato che Black Hole Sun prendesse il nome da un'altra scultura di Seattle chiamata "Black Sun" dell'artista Isamu Noguchi. Quest’opera, che si trova nel Volunteer Park a Capitol Hill, sembra un'enorme ciambella nera posizionata in modo da potervi vedere attraverso lo Space Needle (la torre simbolo della città).

La verità, però, è un’altra. Chris Cornell ebbe l'idea per questa canzone mentre tornava a casa dal Bear Creek Studio, vicino a Seattle, dove i Soundgarden stavano registrando una versione di "New Damage" per un album di beneficenza. L’idea per il brano gli venne ricordando qualcosa che aveva ascoltato distrattamente in televisione non comprendendone il significato. A Cornell era sembrato di sentire da un conduttore di un tg pronunciare una frase che suonava più o meno come "blah blah blah blackhole sun blah blah blah" e pensò subito che sarebbe stato un titolo fantastico per una canzone.

Cornell iniziò a pensare a quelle parole e decise di scriverci una canzone attorno, poiché sentiva che era un titolo stimolante. Così, appena a casa, prima scrisse i testi, poi compose la musica in base alle immagini che gli venivano in mente. Il risultato fu una canzone cupa, con riferimenti ai serpenti, al cielo morto e al fetore estivo, tanto oscura e visionaria da essere perfetta per giustificare il sillogismo fra grunge e depressione e angoscia. Cornell, tuttavia, non stava soffrendo, non era depresso, non era ancora schiacciato dal male di vivere. Aveva semplicemente l’idea di realizzare una canzone che giocasse sulla combinazione antitetica fra un buco nero e il sole, tra un vuoto immenso, un cerchio gigante di nulla, e la luce del sole, ciò che dona la vita. Semplicemente, trovava interessante il contrasto tra luce e oscurità, tra senso di speranza e malumore di fondo.

Black Hole Sun ebbe molti passaggi radiofonici, dal momento che l’alternative e il grunge erano assai popolari all'epoca, tanto che le prime 40 stazioni radio statunitensi trasmettevano quasi esclusivamente canzoni di artisti come Soundgarden, Pearl Jam e Stone Temple Pilots, per citare qualche band in auge. Tuttavia, il brano non entrò in classifica perché non fu mai pubblicato come singolo. A differenza di oggi, infatti, ai tempi si evitava di pubblicare un singolo via l’altro, uno strattagemma che incuriosiva e incoraggiava i fan ad acquistare gli album.

La canzone è stata interpretata da Peter Frampton nel suo album strumentale Fingerprints del 2006. Questa curiosa versione non conteneva parti cantate, perché le liriche furono replicate da Frampton attraverso il talk box collegato alla chitarra, strumento che simulava l'intonazione della voce, ma non le parole. Le uniche parole distinguibili (suonate sempre attraverso il talk box) sono "Black Hole Sun, Won't You Come", che possono essere ascoltate nelle strofe dopo l'assolo. Per la cronaca, Fingerprints vinse il Grammy 2007 come miglior album strumentale pop.

 


 

 

Blackswan, martedì 27/02/2024

lunedì 26 febbraio 2024

The Pineapple Thief - It Leads To This (Kscope, 2024)

 


Quindici album in studio e venticinque anni di carriera, sono un traguardo straordinario, ancora più ragguardevole se si pensa che i Pineapple Thief, nonostante (o forse grazie a) diversi cambi di line up, hanno sempre mantenuto un livello artistico di spessore. Difficile, dunque, trovare un disco inascoltabile rilasciato dalla band britannica, che, dopo l’arrivo della leggenda Gavin Harrison dietro le pelli, ha ulteriormente ridefinito e perfezionato il proprio alt (art)-rock dalle inflessioni prog in qualcosa di ancora più suggestivo e affascinante.

L'ultima uscita dei Pineapple Thief, It Leads to This contiene otto canzoni relativamente concise per il target della band, a cui non manca certo la consueta urgenza ed efficacia emotiva dei lavori migliori, e, in un certo senso, questo nuovo album è una sintesi perfetta di tutti quegli elementi che fanno funzionare così bene la proposta del gruppo britannico da un quarto di secolo a questa parte.

Ovviamente, un musicista sensibile come Bruce Soord ha ben presente la dura e sconcertante realtà della vita degli ultimi anni, e, quindi, è inevitabile che un senso di profonda malinconia incomba su ognuna delle canzoni in scaletta, gettando uno sguardo penetrante sul mondo, con risultati toccanti e poetici. C’è disincanto, delusione, tristezza, tutti elementi che si insinuano nelle melodie e nelle liriche desolate, ma irresistibili, create dalla penna del leader.

Da un punto di vista squisitamente musicale, è quasi inevitabile sottolineare l’importanza e il valore di Gavin Harrison, già venerato come uno dei migliori batteristi del mondo grazie alla sua militanza nei Porcupine Tree e nei King Crimson: le sue eccezionali capacità di batterista e il suo approccio innovativo al ritmo hanno contribuito a elevare ulteriormente di livello la musica di The Pineapple Thief, e il suo drumming è stato fondamentale nel plasmare il suono della band, aggiungendo strati di complessità e profondità alle composizioni.

Se le fondamenta espressive sono ormai consolidate da tempo, It Leads to This mostra un suono ancor più raffinato e maturo, e dalle avvolgenti melodie alle ritmiche intricate, ogni canzone dell'album è definita meticolosamente, mettendo in mostra tanto le qualità tecniche del quartetto quanto la profondità emotiva del songwriting. Formidabili, poi, anche le digressioni strumentali, che trovano spesso un perfetto equilibrio fra prog vecchia e nuova scuola, aggiungendo un tocco di virtuosismo a una scaletta di per sé impeccabile e straordinariamente coerente nello sviluppo.

Tante ottime canzoni, a partire dall’iniziale Put It Right, incentrata sul pianoforte e la voce desolata di Soord, dalla splendida Rubicon, trainata dai groove fluidi e inarrestabili di Harrison, che mette in mostra una band coesa, che azzarda a metà canzone una deviazione dal sapore jammistico, e dalla title track che enuclea melodramma e pathos da un labirinto di art rock agile e muscoloso.

Una tripletta iniziale di altissimo livello che introduce un disco senza cedimenti, elegante e intenso, arrangiato in modo sublime, coeso in ogni suo parte, e in cui la scrittura ispirata di Soord si sviluppa in trame avvincenti, eseguite magistralmente da una band che non sbaglia un colpo. Ennesima riconferma di grande qualità.

VOTO: 8

GENERE: Progressive, Alternative Rock

 


 

 

Blackswan, lunedì 26/02/2024

giovedì 22 febbraio 2024

GREEN DAY - SAVIORS (Reprise, 2024)

 


In trentasette anni di carriera, vissuta tra alti e bassi, tra dischi leggendari e altri decisamente meno appetibili, piaccia o meno, i Green Day restano ancora oggi una delle band più amate del pianeta. Ogni loro uscita, caratterizzata da quel suono immediatamente distintivo, è destinata inevitabilmente a sollevare un polverone mediatico, a maggior ragione quest’anno, che probabilmente rappresenta uno dei momenti più importanti della loro storia. Oltre a questo nuovo Saviors, infatti, i Green Day celebreranno il trentesimo anniversario di Dookie, e poi, a settembre, arriverà il ventesimo anniversario della loro disco più celebre, American Idiot.

Un disco, quello, fortemente politico, in cui il trio convogliava la propria rabbia nei confronti dell’amministrazione Bush per quella folle guerra in Iraq che provocò un grave scontro culturale, dividendo il paese tra pacifisti e interventisti. Vent’anni dopo, sembra non essere cambiato nulla, e con Saviors, una sorta di fratello minore di American Idiot, i Green Day prendono nuovamente posizione, facendo loro il motto che rimanere in silenzio equivale a essere complici.

Il disco, dunque, rispecchia, inevitabilmente, ciò che gli Stati Uniti sono diventati nell’ultimo ventennio, e affronta questioni cruciali come le sparatorie di massa, il razzismo, l’epidemia di oppioidi, la crisi dei senzatetto, l’imperialismo degli Stati Uniti e persino la disconnessione intergenerazionale.

Nonostante l’aura scanzonata da eterni cazzoni, la band capitanata da Billie Joe Armstrong, facciamocene una ragione, è una band connotata politicamente, che non ha certo remore a esprimere ciò che pensa e a farlo in modo diretto. In tal senso, Saviors, a prescindere dal suo tiro sferzante e festaiolo, è uno dei dischi più impegnati di questo indomito trio, che riesce dire cose serie, senza, tuttavia, mai prendersi, musicalmente parlando, troppo sul serio.

Impossibile, quindi, non interpretare il singolo che apre il disco, "The American Dream is Killing Me", come una dichiarazione d’intenti sui contenuti della scaletta, né evidenziare come il brano mostri una stretta parentela con "American Idiot", che ne è una sorta di fratello maggiore. Come detto, però, l’impegno non si ferma al travolgente incipit, ma prosegue anche in altre canzoni come la vibrante "Coma City", che sembra sfottere la folle corsa verso lo spazio promossa da Elon Musk, l’irresistibile "Strange Days Are Here To Stay", che mette in luce, citando David Bowie (“Strange days are here to stay ever since Bowie died”), una società in cui dilagano il razzismo, la piaga del Fentanyl e una profonda disconnessione generazionale, o "Living in the 20's", che cita l’incendio di Cameron Peak (in Colorado), causato da piromani, e una sparatoria avvenuta in un supermercato, stigmatizzando così la follia di una società da troppo tempo alla deriva.

E non c’è poi da meravigliarsi che, in questo quadro tutt’altro che ottimista, attraverso la title track, Armstrong si chieda: “Qualcuno ci salverà stasera?”, perché in questo mondo, ormai "tutti dormono ma nessuno sogna".

Nonostante il vibrante impegno politico, tuttavia, non manca nel disco anche il divertito disimpegno di canzoni come "Look Ma No Brains" e "Bobby Sox", oltre ad alcune coinvolgenti ballate, come l’intensa "Father To Son", una sorta di continuazione di "Wake Me Up When September Ends", in cui Armstrong da ragazzino che ha perso il padre è diventato un papà che ama ogni singolo momento vissuto con i suoi figli.

Se in passato i Green Day avevano palesato una certa stanchezza compositiva, mostrando la corda di un’ispirazione ai minimi termini (Revolution Radio) o procedendo con il pilota automatico inserito (Father Of All…), oggi, il terzetto guidato da Armstrong sembra aver ritrovato l’antico furore, e pur restando lontano dai capolavori citati a inizio articolo, Saviors risulta un disco attraversato da una freschezza che sembrava perduta. Divertente, divertito, militante.

VOTO: 7

GENERE: Pop, Punk

 


 

 

Blackswan, giovedì 22/02/2024

martedì 20 febbraio 2024

CLAIRE KEEGAN - PICCOLE COSE DA NULLA (Einaudi, 2022)

 


Sono giorni che Bill Furlong gira per fattorie e villaggi con il camion carico di legna, torba e carbone. Nessuno vuole restare al freddo la settimana di Natale. Sotto la neve che continua a scendere, tutto va come sempre in quel pezzo d'Irlanda. Poi, nel cortile silenzioso di un convento, Bill fa un incontro che smuove la sua anima e i suoi ricordi. Lasciar correre, girarsi dall'altra parte, sarebbe la scelta più semplice, di certo la più comoda. Ma forse, per Bill Furlong, è arrivato il momento di ascoltare il proprio cuore. «Mentre proseguivano e incontravano altre persone che conosceva e non conosceva, si ritrovò a domandarsi che senso aveva essere vivi se non ci si aiutava l'uno con l'altro. Era possibile tirare avanti per anni, decenni, una vita intera senza avere per una volta il coraggio di andare contro le cose com'erano e continuare a dirsi cristiani, a guardarsi allo specchio?».

Su queste pagine abbiamo già raccontato Un’estate, romanzo breve a firma Claire Keegan, un autentico gioiello di stile, sensibilità e introspezione, che ha acceso in chi scrive il desiderio di conoscere quanto più possibile pubblicato dalla cinquantaseienne autrice irlandese. Era inevitabile, quindi, approcciarsi a questo Piccole Cose Da Nulla, secondo romanzo pubblicato in Italia da Einaudi nel 2022 (l’opera è dell’anno precedente), e opera che ha ravvivato ulteriormente quello che, per il sottoscritto, è ormai devozione conclamata.

Un’inutile prolusione, questa, e me ne scuso, solo per dire che davvero ci troviamo di fronte a uno dei casi editoriali più interessanti degli ultimi anni, e che, se avete amato il romanzo precedente, perderete la testa anche per queste novanta pagine, a dir poco perfette. Less is more, direbbero gli inglesi, e mai come in questo caso avrebbero ragione, perché la Keegan ha l’indubbia capacità di condensare in poche righe un intero mondo, di essere profonda, usando un linguaggio semplice, diretto, quello fatto di parole, per parafrasare Hemingway, che valgono solo un centesimo, e di scandagliare l’animo umano attraverso immagine talmente vivide, da trasformare il lettore in un muto spettatore del dipanarsi della trama. Hic et nunc.

Anche questo Piccole Cose Da Nulla è ambientato nella provincia irlandese e negli anni ’80, in un mondo antico solo sfiorato dalla civiltà capitalista, in cui artigiani, contadini e piccoli imprenditori sono il motore economico della società, in cui pochi privilegiati si muovono in un contesto di sussistenza, mentre la povertà è pronto a bussare alla porta di chi sgobba per mantenere la propria famiglia, e il baratto e l’aiuto caritatevole fanno la differenza tra l’abisso e la sopravvivenza.

Bill Furlong è un uomo semplice e timorato di Dio, figlio illegittimo di una cameriera e cresciuto grazie alla bontà di una donna ricca, che l’ha accolto nella propria casa, nutrendolo ed educandolo. Vende carbone, Furlong, e lavora come un somaro per mantenere la sua numerosa famiglia. Un giorno, un giorno come tanti, mentre porta un carico di carbone al convento della cittadina in cui vive, scopre una giovane ragazza rinchiusa nella carbonaia. E il suo piccolo mondo, fatto di casa, chiesa e lavoro, inizia a vacillare. Perché quella ragazza, sporca e infreddolita, gli apre gli occhi sull’orrore delle Magdalene Laundry, apparentemente istituti per il recupero di giovani donne “difficili”, in realtà, veri e propri luoghi di segregazione e sfruttamento del lavoro, nei quali, si scoprirà successivamente, si attuò una sistematica carneficina, il cui computo dei morti, ragazze e neonati, non si è ancora oggi concluso.

Inizia, così, per Furlong un percorso di consapevolezza, che lo porterà, a dispetto delle conseguenze, a fare la scelta giusta. Una decisione difficile, che avrà inevitabili ripercussioni e che lo sottoporrà al giudizio di una società ipocrita, bigotta, in cui la fede in Dio prende spesso le sembianze di un do ut des con l’istituzione ecclesiastica. Così, Furlong, da uomo remissivo e tranquillo, diventa un piccolo grande eroe, che antepone al proprio tornaconto la pietas, che è sincera fratellanza e amore per il prossimo. Viene in mente, a tal proposito, quella meravigliosa poesia del grande poeta greco, Costantino Kavafis:

Arriva per taluni un giorno, un’ora
in cui devono dire il grande Sì
o il grande No. Subito appare chi
ha pronto il Sì: lo dice e sale ancora

nella propria certezza e nella stima.
Chi negò non si pente. Ancora No,
se richiesto, direbbe. Eppure il No,
il giusto No, per sempre lo rovina.

Ci vogliono molta forza e molto coraggio per saper dire di no, quando gli altri forse si aspetterebbero diversamente, quando la società ci vuole piccoli ingranaggi in un meccanismo ben oliato, quando il buon senso ci imporrebbe di tenere la testa bassa, e tacere, complici per convenienza. Furlong, però, non ci sta, ascolta la sua voce interiore e si ribella. La Keegan lo prende per mano e lo accompagna in questo percorso di redenzione, lo stesso che, seppur accidentato, percorrono tutte quelle persone che, quotidianamente, rinunciano a qualcosa di se stesse, per non rinunciare alla propria anima. E hanno il coraggio di dire, di gridare: no! Contro ogni logica.

 

Blackswan, martedì 20/02/2024

lunedì 19 febbraio 2024

MADDER MORTEM - OLD EYES, NEW HEART (Dark Essence Records, 2024)

 


Nata nel 1993 con il nome di Mistery Tribe (poi cambiato in Madder Mortem nel 1997) la band norvegese, composta da Agnete M.Kirkevaag (voce), BP M. Kirkevaag (chitarra e voce), Anders Langberg (chitarra), Tormod L. Moseng (basso) e Mads Solås (batteria), ha mantenuto in questi trent’anni un livello davvero alto d’ispirazione.

Otto album all’attivo, l’ultimo dei quali è questo Old Eyes New Heart, in cui il gruppo ha sviluppato un’espressività creativa assoluta, uscendo spesso e volentieri dallo steccato del genere metal, per esplorare, sperimentare, e mescolare attitudini diverse. Post metal o progressive metal poco importa; ciò che conta è che i Madder Mortem abbiano dato sempre pochi punti di riferimento all’ascoltatore, e plasmato la materia con un approccio tecnico ed eclettico che, nel corso degli anni, ha prodotto un suono meno inquietante e cupo degli esordi, in favore di una maggior accessibilità (da non confondersi con normalizzazione).

Cinque anni dopo il precedente Marrow (2018), la band torna con un nuovo album composto da dieci canzoni, ancora una volta non catalogabili in un unico genere, ancora una volta in grado di alzare l’asticella di un suono progressivo e sperimentale. Anche se c’è una grande varietà nell’album, però, Old Eyes, New Heart suona comunque totalmente coeso, i momenti più duri, quando la band alza il tiro elettrico delle composizioni, non oscurano alcuno degli intricati arrangiamenti, la produzione scintillante mette ben in risalto quegli scarti dalla normalità che rendono avvincente la narrazione, e le ballate sottolineano, invece, il lato più fragile e intimo della band, grazie anche al timbro versatile e poliedrico della Kirkevaag, la cui voce sa graffiare, percuotere e dolcemente accarezzare.

Tutte vivide sensazioni che nascono dal mood doloroso che permea l’album, composto dopo la morte del padre della cantante e del chitarrista (ricordato nelle note di copertina), trasformandolo in un condensato di disarmante sincerità e di emozioni vivide e intense.

La prima cosa che si nota, già con la canzone di apertura, "Coming From the Dark" (probabilmente, il brano più progressive in scaletta), è la presenza di un maggior numero di dinamiche e momenti imprevedibili rispetto al precedente Marrow. Un inizio che la dice lunga sul livello d’ispirazione che permea la scaletta, punteggiata di grandi canzoni, quali la grintosa e aggressiva "The Head That Wears the Crown", la lunatica e cupa "Cold Hard Rain" e il singolo "Towers", in cui la band trae ispirazione dal grunge, dal post-metal (Tool) e dal rock degli anni '70.

"È stata una strada lunga e lenta, ma finalmente siamo a casa. Sono stati alcuni anni difficili, ma ora ne siamo fuori". Con questo messaggio di speranza, contenuto nell’emozionante e conclusiva Long Road, termina l’ennesimo disco di livello di una band, a cui il tempo ha concesso in dono un’identità che, per quanto immediatamente riconoscibile (la voce della Kirkevaag è un marchio di fabbrica), sfugge a facili etichettature ed è capace di rinnovarsi, album dopo album, senza perdere un briciolo del proprio misterioso fascino. Esattamente come suggerisce il titolo del disco.

VOTO: 7,5

GENERE: Prog Metal, Post Metal 




Blackswan, lunedì 19/02/2024

giovedì 15 febbraio 2024

LUCIFER - V (Nuclear Blast, 2024)

 


Un nome inquietante dai richiami satanisti, i continui ammiccamenti alla morte, i rimandi all’occultismo e una mise en place tenebrosa, potrebbero far pensare che quello degli svedesi Lucifer sia un rock dai forti connotati gotici. In realtà, a parte un album d’esordio virato verso il doom, la band capitanata da Johanna Sadonis possiede un approccio molto meno oscuro di quanto si possa pensare, e il nuovo disco, come quelli che lo hanno preceduto, è semmai un lavoro indirizzato a far rivivere la golden age dell’hard rock, quegli anni ’70, cioè, che vedevano protagonisti della scena gruppi leggendari quali Black Sabbath, Led Zeppelin, Deep Purple e Blue Oyster Cult. Un’evoluzione, questa, che ha reso più accessibile la proposta di una band evidentemente alla ricerca di un bacino sempre più ampio di consensi.

In tal senso, il nuovo V, pur in una veste formale che ammicca all’horror (la copertina, i titoli delle canzoni, i rimandi cimiteriali) è un disco brillante, piacevolissimo anche per orecchie non abituate ai suoni più estremi, e soprattutto attraversato da un’inclinazione melodica di facilissima presa, in cui il sole illumina più di quanto ghermiscano le spire della notte.

Il disco si apre con la classicissima "Fallen Angel", ritmica galoppante, riff che paga debito ai Black Sabbath, brano che aggancia l’ascoltatore con assoli brevi ma incisivi e la voce splendida della Sadonis, che forgia con grinta un ritornello dall’immediato appeal melodico. "At The Mortuary" testimonia l’abilità della band svedese di giocare con una materia antica, resa però appetibile da uno slancio moderno e idee intriganti. La partenza è evidentemente l’ennesimo omaggio ai Black Sabbath, l’atmosfera è doom, catacombale, ma poi il brano si sviluppa tra rock classico e pop, il suono delle chitarre è vintage che più vintage non si può, e i vapori sulfurei che emergono nella parte centrale trovano il perfetto contrappunto in un ritornello dalla melodia irresistibile.

Se "Rider Reaper" omaggia fin dal titolo i Blue Oyster Cult, quelli più lineari e melodici, "Slow Dance In A Crypt" è una ballata bluesy a volute discendenti, un brano ammantato da oscuro romanticismo e segnato da un bel interplay tra chitarre e qualche nota sgocciolante di piano. A seguire, "A Coffin Has No Silver Lining" torna ad accelerare e sprizza energia hard rock attraverso un ritornello che cita gli Scorpions di "No One Like You", mentre l’arpeggio acustico con cui si apre "Maculate Heart" introduce un rock diretto e orecchiabile, dal retrogusto anni ’60 (il tiro ricorda vagamente i Jefferson Airplane più scatenati) e strattonato da un assolo infuocato che cattura l’aura di un epoca in cui questa musica usciva quotidianamente dalle radio di mezzo mondo.

Il disco fila verso la conclusione attraverso le maglie del rock blues rugginoso di "The Dead Don’t Speak" e le accelerazioni di "Strange Sister", brano intervallato brevemente da un rallentamento doom e scartavetrato da una graffiante prova vocale della Sidonis. Chiude la scaletta "Nothing Left To Lose But My Life", una ballata oscura che avvampa in uno splendido assolo blues a lenta combustione.  

Sarebbe semplicistico e riduttivo parlare di V come di un semplice album derivativo, perché sebbene sia evidente il patrimonio genetico ereditato da queste nove canzoni, l’approccio compositivo della band è scintillante, soprattutto nella capacità di amalgamare tanti ingredienti conosciuti con una forza espressiva appassionata e stimolante. Niente di nuovo, certo, ma nemmeno la solita zuppa vintage, tutta nostalgia e frusta riproposizione di abusati clichè. Se, quindi, i vostri vecchi dischi di hard rock si stanno consumando a furia di ascoltarli, dategli una spolverata e rimetteteli al loro posto: i Lucifer sapranno farvi godere nello stesso modo.

VOTO: 8

GENERE: Classic Rock 




Blackswan, giovedì 15/02/2024

martedì 13 febbraio 2024

ANTHONY DOERR - TUTTA LA LUCE CHE NON VEDIAMO (Rizzoli, 2017)


 

È il 1934, a Parigi, quando a Marie-Laure, una bambina di sei anni con i capelli rossi e il viso pieno di lentiggini, viene diagnosticata una malattia degenerativa: sarà cieca per il resto della vita. Ne ha dodici quando i nazisti occupano la città, costringendo lei e il padre a trovare rifugio tra le mura di Saint-Malo, nella casa vicino al mare del prozio. Attraverso le imposte azzurre sempre chiuse, perché così impone la guerra, le arriva fragorosa l'eco delle onde che sbattono contro i bastioni. Qui, Marie-Laure dovrà imparare a sopravvivere a un nuovo tipo di buio. In quello stesso anno, in un orfanotrofio della Germania nazista vive Werner, un ragazzino con i capelli candidi come la neve e una curiosità esuberante per il mondo. Quando per caso mette le mani su una vecchia radio, scopre di avere un talento naturale per costruire e riparare questi strumenti di fondamentale importanza per le tattiche di guerra, un dono che si trasformerà nel suo lasciapassare per accedere all'accademia della Gioventù hitleriana, e poi partire in missione per localizzare i partigiani. Sempre più conscio del costo in vite umane del suo operato, Werner si addentra nel cuore del conflitto. Due mesi dopo il D-Day che ha liberato la Francia, ma non ancora la cittadina fortificata di Saint-Malo, i destini opposti di Werner e Marie-Laure convergono e si sfiorano in una limpida bolla di luce.

 

Ci sono libri che hanno il potere di riportare il lettore agli anni dell’adolescenza, a quelle letture rubate al sonno, ai romanzi letti nel cuore della notte, sotto le coperte, la luce di una piccola pila a illuminare un mondo. Letture formative, avvincenti, indispensabili, che forgiavano l’immaginazione, che creavano un immaginario di sentimenti, un habitus etico, nutrendo la fantasia dell’astrazione e la profondità del ragionamento. Questi romanzi li chiamiamo classici, e sono quei libri di cui Italo Calvino diceva che “non hanno mai finito di dire quel che hanno da dire”.

Tutta La Luce Che Non Vediamo assolve nel migliore dei modi a questa funzione, è un piccolo classico, un’emozionante storia di formazione, capace di appassionare un adulto e, al contempo, di toccare l’anima di un giovane lettore, che verrà rapito da una trama ammaliante, e si troverà a confrontarsi con temi decisivi per il suo cammino verso la maturità.

Doerr, che per questo romanzo ha vinto il premio Pulitzer per la letteratura nel 2015, sorprende per la sua prosa dal sapore antico, quasi ottocentesco, che si tiene però lontana da paludamenti aulici, scegliendo, invece, la strada di un’esposizione snella e di un ritmo che, pur senza esasperazione, mantiene desta l’attenzione per tutte le oltre cinquecento pagine di durata del libro. Una scrittura che, pur nella sua immediatezza, si presenta, comunque, sempre densa e avvolgente, aprendo a vari piani di lettura: dal più subitaneo e palpitante, quello, cioè di due drammatiche traiettorie esistenziali che il destino porterà a incrociarsi, a quello più sotterraneo e più riflessivo, che affronta temi complessi, senza banalizzazioni, ma con lucida profondità.

E’ questa stratificazione, questo scandagliare l’animo umano di fronte alle avversità della vita, questo raccontare una tragedia, tanto universale quanto personale, a rendere il romanzo di Doerr un istant classic, una lettura emotiva ed emozionante, un vademecum etico ad ampio raggio, attualissimo nell’esporre la stretta connessione tra l’uomo di oggi e quello di ottant’anni fa, tra l’insensata follia della guerra e l’altrettanto insensata deriva etica degli anni terribili che stiamo vivendo.

La storia non ha insegnato nulla, facciamocene una ragione. La guerra, il nazismo, la persecuzione delle minoranze, sono il duro pane quotidiano delle nostre esistenze, oggi come allora. E se il tema dell’efferatezza della guerra, dell’indottrinamento ideologico, della prevaricazione nei confronti dei più deboli, occupa pagine dolorose e di cruda violenza, Doerr dimostra, in egual modo, straordinaria sensibilità nel raccontare i raggi di sole di un’umanità che, pur messa alle strette, è ancora capace di atti di coraggio e di compassione.

Ecco allora, il papà di Marie-Laure che si prende amorevole cura della figlia non vedente, creando un mondo alternativo alla disabilità, in cui è il tatto a generare emozioni, la fantasia e la lettura il grimaldello per scardinare la porta di una vita imprigionata nel buio, e la consapevolezza di sé il carburante nobile per sopravvivere alle avversità e alla malvagità altrui. Ecco, Etienne, lo zio di Marie – Laurie, un fantasma che si nasconde al mondo, vittima degli incubi vissuti durante il primo conflitto mondiale, che grazie alla nipote, trova nuovamente la forza di lottare e il coraggio di fare ciò che è giusto. E poi, Werner, la cui anima, prima piegata dall’indottrinamento nazista, trova la forza di ribellarsi, dopo un percorso di dolorosa comprensione, ricongiungendosi alla pietas e all’amore.

L’amore per noi stessi e per il prossimo. E’ questa tutta la luce che non vediamo, la sola luce che conta, quella che è sempre presente a illuminare il cammino, a farci scegliere il bene e combattere il male. E c’è anche un’altra luce, non meno importante, che Doerr omaggia con pagine di straordinaria bellezza: quella che nasce dal potere evocativo della radio, uno strumento che anche oggi non ha perso un grammo del suo misterioso fascino, e che è capace di far volare l’immaginazione, esattamente come quei romanzi di Jules Verne che Marie-Laurie legge, con vorace e appassionato trasporto. Pennellate di colore che liberano l’anima dal gioco alienante dell’oscurità.

Dal libro è stata tratta una miniserie Tv, che potrete guardare su Netflix, e che vanta un cast d’eccezione, visto che tra gli interpreti ci sono Mark Ruffalo e John Laurie. Una visione piacevole, ma ben lontana dall’intensità e dalla profondità del libro, la cui trama è stravolta dall’adattamento cinematografico e da una sceneggiatura che tende a semplificare il testo e ad aggiungere personaggi, arrivando persino a modificare il finale.

 

Blackswan, martedì 13/02/2024

lunedì 12 febbraio 2024

THE GEMS - PHOENIX (Napalm Records, 2024)

 


Un tempo erano un quartetto e si chiamavano Thundermother. Poi, dissapori interni, hanno portato a una vera e propria diaspora, che ha visto tre quarti della line up, la cantante Guernica Mancini, la batterista Emlee Johansson e la chitarrista/bassista Mona Lindgren, mollare la fondatrice Filippa Nässil, per proseguire la carriera con un altro progetto.

Nascono così le Gems, power trio la cui proposta resta assolutamente in linea con quella della precedente band: dare lustro al classic rock che affonda le proprie radici negli anni ’70 e ’80. Phoenix, titolo quanto mai azzeccato, che evoca la resurrezione dalle ceneri e un nuovo esaltante inizio, è un disco decisamente derivativo, che plasma il suono di quei gloriosi decenni senza inventare nulla di nuovo. Eppure, la scaletta è varia e coinvolgente, trasuda passione ed energia, e gli arrangiamenti, efficacissimi, invece di inasprirlo, levigano il suono, dandogli un taglio mainstream, e a tratti piacevolmente radiofonico. Ciò, però, non toglie nulla all’impatto di quindici brani, più una bonus track acustica, che filano prevalentemente a velocità supersonica, tra riff grintosi e ritornelli acchiapponi, vera e propria goduria per tutti gli appassionati del genere.

L’iniziale "Aurora – Interlude" è uno specchietto per le allodole, che apre il disco con un minuto e mezzo di cadenzato folk blues, che non avrebbe sfigurato in un disco della prima Adele. E’ un inganno, però, perché appena finito di apprezzare la bella linea vocale della Mancini, parte serratissimo il riff di Queens, che fa pensare immediatamente a "Tie Your Mother Down", guarda caso, proprio dei Queen. Da questo momento in poi, a parte un episodio e qualche breve intermezzo, il tiro del disco si fa indemoniato, e la successiva "Send Me To The Wolves", che cita spudoratamente i Led Zeppelin, mette ben in chiaro quali siano le frecce migliori all’arco del trio: aggressività e melodia, assoli rapidi e inseriti con gusto in un contesto spesso innodico, grazie a ritornelli che entrano in testa fin dal primo ascolto.

Le tre ragazze svedesi ci sanno fare benissimo anche quando rallentano il tiro, come accade nel cuore dell’album, con il breve strumentale per archi "Maria’s Song – Interlude" che introduce "Ease Your Pain", una ballata da pelle d’oca, avvolta nelle spire calde di un malinconico blues, che mette in mostra il versatile timbro vocale della Mancini.

Le altre canzoni, come si diceva, per quanto rifinite da una produzione scintillante, sono fucilate ad alzo zero. Difficile, quindi, non abbandonarsi all’headbanging quando parte in sgommata "Running", brano il cui riff richiama i primi Iron Maiden, o quando l’assalto all’arma bianca di Like A Phoenix (fantastico il ritornello) palesa la propria consanguineità con l’heavy dei Motorhead, tanto che viene da chiedersi perché non ci sia Lemmy a cantare. Non c’è tempo, però, per tirare il fiato, perché la successiva "P.S.Y.C.H.O." è una fiammata contigua al punk, in cui le Gems danno prova di una sguaiata spavalderia da riot grrrl, mentre "Force Of Nature", se possibile, spinge ancora più decisamente il piede sull’acceleratore di un’hard rock di matrice settantiana.

La peculiarità di Phoenix è racchiusa in pochi, ma perfettamente amalgamati ingredienti: il grande amore per il rock degli anni d’oro, riletto però senza soggezione, ma con disinibita freschezza, e suonato con tecnica da veterane del genere. Il risultato è un disco diretto, gioioso, selvaggio, svincolato da inutili fronzoli, e per questo estremamente semplice da assorbire. Una nuova partenza per tre musiciste che hanno quel talento e quella personalità necessarie per fare molta strada verso un futuro di successi.

VOTO: 8

GENERE: Classic Rock, Hard Rock

 


 

 

Blackswan, lunedì 12/02/2024

venerdì 9 febbraio 2024

YES, ANASTASIA - TORI AMOS (Atlantic, 1994)

 


Epici e drammatici, i nove minuti e mezzo di Yes, Anastasia, ultima traccia da Under The Pink, secondo album solista di Tori Amos, sono stati ispirati da Anastasia Romanov, la figlia più giovane dello zar Nicola II di Russia, e da Anna Anderson, la donna che si spacciò per la diciassettenne granduchessa, che per lungo tempo si ritenne l’unica sopravvissuta al massacro della famiglia reale.

Questi, in soldoni, i fatti. Nel 1918, Anastasia e la sua famiglia furono giustiziati dai rivoluzionari bolscevichi, ma circolarono insistenti voci secondo cui Anastasia e suo fratello Aleksey fossero sopravvissuti al massacro. Pochi anni dopo, una donna di nome Anna Anderson affermò di essere la granduchessa scomparsa da tempo. Per decenni, la Anderson ha combattuto una battaglia legale, poi persa, per dimostrare la sua “vera” identità, fino a quando morì di polmonite nel 1984, continuando a sostenere di essere Anastasia.

Secondo Amos, l'idea per la canzone è venuta direttamente dal fantasma di Anderson/Anastasia, che la visitò durante una notte, mentre si trovava a letto, sofferente per un’intossicazione alimentare presa durante una tappa del tour in Virginia, dove, peraltro, la Anderson viveva quando morì. 

La cantante raccontò che, durante il delirante dormiveglia, dialogò con il fantasma che le suggerì il verso "Vedremo quanto sei coraggiosa", una frase, questa, che compare nel testo della canzone, ma che fu anche sprone di creatività per la composizione delle canzoni di Under The Pink.  Quel verso per la Amos significava più o meno “se vuoi davvero una sfida, affronta te stesso", un pungolo che la spinse ad azzardare in fase creativa, tanto che la prima parte di Yes, Anastasia, fu scritta di getto, come un unico flusso di libera ispirazione, così sperimentale che, una volta registrata la canzone, la Amos impiegò ben sei settimane per imparare a memoria quanto aveva composto. Inizialmente, poi, la pianista si scontrò con la casa discografica che voleva sulla canzone un arrangiamento d’archi (come, poi, fu). La Amos non era assolutamente d’accordo perché il brano era ispirato a un terribile fatto di sangue e riteneva che l’utilizzo degli archi creasse un disallineamento con la brutalità degli eventi che avevano influenzato la composizione.

Questa è la genesi di una delle più intense canzoni scritte da Tori Amos, che contribuì a portare Under The Pink a vendere due milioni di copie solo negli Stati Uniti, ottenere una candidatura ai Grammy come miglior album alternativo e a conquistare la prima piazza delle classifiche inglesi. 

Resta un solo aspetto da chiarire: la Anderson era davvero Anastasia? All'inizio degli anni '90, il blocco sovietico iniziò a sgretolarsi e furono così rivelate informazioni su dove si trovava la famiglia reale massacrata. I loro corpi furono riesumati da una fossa comune e le loro identità furono confermate attraverso il test del DNA: erano lo zar Nicola, la zarina Alessandra e le figlie Olga, Tatiana e Maria. Nel 1994, venne, quindi, estratto un campione dai resti della Anderson, deceduta qualche anno dopo e si scoprì che la donna era in realtà Franziska Schanzkowska, un'operaia polacca che soffriva di malattie mentali. In seguito, nel 2007, furono ritrovati i corpi dei due bambini scomparsi, Anastasia e Aleksey e il rinvenimento dei resti mise fine a ogni ulteriore speculazione sull’esistenza in vita di Anastasia.

 


 

 

Blackswan, venerdì 09/02/2024

mercoledì 7 febbraio 2024

JEREMY - PEARL JAM (Epic, 1991)

 


E’ la mattina dell’8 gennaio del 1991, una giornata come tante, alla Richardson High School di Richardson, in Texas. I cancelli della scuola si aprono, gli studenti entrano e sciamano schiamazzando verso le rispettive classi. Il quindicenne Jeremy Delle, però, arriva con un’ora di ritardo, e l’insegnate d’inglese che si è appena seduta alla cattedra, lo invita ad andare in presidenza per giustificarsi e farsi dare l’autorizzazione a proseguire le lezioni. Jeremy esce dall’aula e rientra quasi subito. In mano impugna una pistola. Guarda la classe sorridendo, poi si gira verso l’insegnante e le dice: “Signorina, ho ottenuto quello che volevo davvero.” Subito dopo, alza la pistola, se la infila in bocca e fa fuoco.

Jeremy non era uno psicopatico, ma un ragazzo solare, simpatico, gentile. Era tormentato, questo sì, perchè non sopportava più di essere preso in giro dai compagni, di essere considerato lo zimbello della classe.

Eddie Vedder apprende del suicidio leggendo il Dallas Morning News e resta profondamente turbato dalla tragedia. Anche lui da ragazzo ha pensato spesso al suicidio, a farla finita con la sua giovane vita. Identificarsi con Jeremy è inevitabile, tanto che alla premiazione per la clip della canzone, premiata per il miglior video dell’anno, il cantante dei Pearl Jam afferma:” Se non fosse stato per la musica, penso che mi sarei sparato davanti alla classe. È davvero ciò che mi ha tenuto in vita, quindi questo premio chiude un cerchio”. I ricordi degli anni scolastici, però, si affastellano nella mente di Vedder, che ripensa anche a un suo compagno con le stesse inclinazioni di Jeremy. Quel ragazzo, di cui il cantante aveva scordato il nome, era completamente fuori di testa, tanto che un giorno si presentò in classe con una pistola e si mise a sparare a un acquario.

Nacque così l’idea di scrivere una canzone che si soffermasse sul disagio dei giovani, sul bullismo, sull’indifferenza dei genitori, troppo occupati dai problemi della vita, per rendersi conto del dolore che affligge i propri figli, una canzone che puntasse il dito su un sistema scolastico troppo rigido e severo, incapace di accogliere davvero le istanze dei più fragili.

Jeremy, fin dal suo concepimento, era un brano destinato a creare polemiche, e, infatti, attirò sulla band parecchie critiche. Anche da coloro che quella tragedia l’avevano vissuta in prima persona. La prima a puntare il dito contro i Pearl Jam fu Brittany King, una compagna di classe di Jeremy, presente quando il ragazzo premette il grilletto: “Quando ascoltai la canzone, mi arrabbiai molto con Vedder. Ho pensato: non lo sai. Non eri lì. Questo racconto non è accurato”. Più tardi, a esprimersi contro le liriche di Vedder fu Wanda Crane, la madre della giovane vittima:”Sebbene Jeremy si sia sparato davanti alla sua classe, non era il ragazzo silenzioso e asociale ritratto nella canzone. Quel giorno in cui è morto non ha definito la sua vita (questa è la frase che trovate sul sito dedicato a Jeremy). Era un figlio, un fratello, un nipote, un cugino. Era un amico. Aveva talento."

Nel 1993, il video di "Jeremy" vinse quattro MTV Video Music Awards: video dell'anno, miglior video di gruppo, miglior video metal/hard rock e miglior regista. Quest’ultimo era Mark Pellington, noto anche per aver diretto il video di Alice in Chains per Rooster, il film Arlington Road e diversi episodi della serie TV Cold Case.

Quando Pellington ricevette il nastro della canzone, il brano gli piacque poco, e inizialmente si rifiutò di lavorarci, perché non sentiva le vibrazioni necessarie. Poi, convinto dal suo produttore e dallo stesso Vedder, che gli spiegò che quella cantata in Jeremy era una storia vera, si rimise all’ascolto e rimase conquistato.

Anche il video, girato a Londra, causò qualche problema alla band, che ancora una volta si trovò al centro di polemiche. Alla fine della clip, infatti, si vede Jeremy entrare, a torso nudo, nella sua classe, lanciare una mela all'insegnante e fare un gesto come se estraesse qualcosa dalla tasca. Successivamente vediamo i suoi compagni di classe scioccati e spruzzati di sangue, il che farebbe pensare che Jeremy abbia sparato verso di loro. In origine, invece, questa parte del video mostrava esplicitamente il ragazzo infilarsi in bocca la pistola, ma MTV ne ordinò la rimozione. Ciò creò una grande confusione, perché sembrava che il protagonista avesse portato la pistola per colpire i suoi compagni di classe. Un cortocircuito che fece sì che l’opinione pubblica americana spesso, erroneamente, associò la canzone alle tante successive sparatorie avvenute nelle scuole. Un esempio? Nel 1996, Barry Loukaitis, uno studente di scuola media dello Stato di Washington, sparò e uccise due studenti e un insegnante mentre andava a scuola. La difesa sostenne, durante il processo, che il giovane assassino era stato condizionato dalla visione del video dei Pearl Jam, che fu esibito in aula come prova a discarico. 

Oggi, il video è riproposto su youtube nella sua veste originale, ma le parolacce sono censurate e prima di guardarlo dovete confermare di essere adulti.

La clip fu oggetto di ulteriori strali da parte della censura. Se si fa molta attenzione, al minuto 3:30 del video, si può notare un rapido cambio d’inquadratura: i bambini in piedi con le mani sul cuore per il giuramento di fedeltà, si trasformano per qualche secondo in ragazzi che fanno il saluto nazista. Apriti cielo. La band fu, quindi, anche accusata di avere simpatie di estrema destra, quando invece l’intento era semplicemente quello di mettere al berlina il sistema scolastico americano.

Il protagonista del video era un aspirante attore, Trevor Wilson, che aveva 12 anni quando la clip fu girata. Wilson ottenne la parte battendo la concorrenza di altri 200 ragazzini, perché girò il provino mentre era malato di influenza, e quindi aveva un aspetto emaciato, che lo faceva apparire dissociato, e che ben si adattava allo stato psichico del protagonista della canzone. Il video attirò molta attenzione sul giovane attore, che, però, si ritirò immediatamente dalla ribalta e smise di recitare, per diventare in età matura un funzionario delle Nazioni Unite.

Wilson è morto nel 2016, all’età di trentasei anni, annegato nelle acque di Porto Rico.

 


 

 

Blackswan, mercoledì 07/02/2024

lunedì 5 febbraio 2024

EARTHSIDE - LET THE TRUTH SPEAK (Mascot Records, 2023)

 


Quella degli Earthside, band proveniente dal New England, sarebbe stata una storia perfetta per Chi L’ha Visto?, storico programma televisivo in onda su Rai3. Quando, infatti, la band americana pubblicò il suo album di debutto, A Dream In Static (2015), sembrava l'inizio di una carriera travolgente, di quelle accompagnate da rulli di tamburo e squilli di tromba. Quel disco, infatti, offriva all’ascoltatore una raffica diabolicamente complessa, ma anche estremamente accessibile, di canzoni che frullavano con eleganza prog metal moderno, post-djent e digressioni atmosferiche, catturando l’attenzione di pubblico e critica, che unanimemente vedevano nella band la next big thing del prog.  

Nessuno mai avrebbe pensato che ci sarebbero voluti ben otto anni, solo in parte a causa della pandemia e del lockdown, perché gli Earthside tornassero a far parlare di sè, con un seguito di quell’acclamato primo album. Tanto tempo, certo, ma speso benissimo, per affinare il loro suono e limare un filotto di canzoni a dir poco strepitoso.

Se A Dream In Static fu un fulmine a ciel sereno, potremmo definire questo nuovo lavoro un arcobaleno, i cui splendidi colori sono declinati attraverso una visione ambiziosa, aperta alla contaminazione tanto da essere quasi omnicomprensiva, ricca di suggestioni opulente, equilibrata nel fondere perfettamente atmosfere cinematografiche e la potenza del metal. Arricchito da una scintillante line-up internazionale di guest star, quali il frontman dei Tesseract, Daniel Tompkins, e Larry Braggs, cantante dei leggendari Tower Of Power, solo per citare i più noti, Let The Truth Speak è uno di quei dischi che trascende i più ovvi riferimenti stilistici e si distingue, invece, per la ricerca di una creatività sfacciata e una tensione “progressista” svincolata dai tropi di genere.

Ispirato dai tempi bui e dai cambiamenti che negli ultimi anni hanno coinvolto l’umanità intera, Let The Truth Speak è un lavoro profondamente emozionante, attraversato da onde di dolorosa malinconia. E’ un disco, anche, meticolosamente arrangiato e riccamente stratificato, composto da una scaletta di canzoni sontuose e clamorosamente melodiche, ognuna delle quali offre all’ascoltatore un microcosmo musicale autonomo, in cui nulla si sviluppa mai in modo convenzionale.

Chi è appassionato al genere, che nell’anno appena trascorso ha visto la pubblicazione di autentici gioielli (Haken, Ne Obliviscaris, Tesseract, Prophecy), finirà per soccombere anche al fascino di questo incredibile sophomore. Che si tratti di chitarre ribassate, di incursioni nel post rock o di digressioni atmosferiche, gli Earthside, infatti, hanno puntato alla perfezione, creando un universo vorticoso e multiforme che rapisce a ripetuti ascolti.

La delicatezza della traccia di apertura, "But What if We are Wrong", scivola dolcemente su un reflusso di marimba (opera degli ospiti Sandbox Percussion), prima che nel brano si insinuino oscure correnti sotterranee di chitarra e batteria, che si accumulano lentamente verso un crescendo avvolgente e maestoso. Il rullo ossessivo della batteria e aspri riff di chitarra spingono tensione nell’urgenza struggente dell’epica "We Who Lament", mentre la voce Keturah (ospite come lead singer), si posiziona a metà strada tra rabbia e struggimento malinconico, accompagnando il brano in una seconda parte decisamente post rock. In questo uno due iniziale si comprende immediatamente che le frecce migliori all’arco degli Earthside sono l’audacia e la complessità espositiva, quantunque, poi, ogni singola nota è assolutamente fruibile, anche da chi è refrattario ai momenti più contigui al metal.

E’ quello che succede, ad esempio, in "Tirrany" (alla voce c’è Pritam Adhikary della band metalcore degli Aarlon), una ballata monumentale e grandiosa, che scivola dolcemente, attraverso lusinghe pop, in un scintillante territorio post-rock, prima di cambiare nuovamente strada attraverso una straordinaria rete di riff, ritmica in controtempo e melodie oblique, mentre archi celestiali perforano la facciata fragorosa, aggiungendo un tocco di inquieto romanticismo.

Coinvolgere diversi cantanti come ospiti nelle tracce ha consentito alla band di concentrarsi solo sulla musica, e questo conferisce individualità alle canzoni, aggiungendo una varietà che non sarebbe stata possibile ottenere se avessero utilizzato sempre lo stesso singer. Ciò è evidente in svariati episodi, come quando AJ Channer dei Fire From The Gods presta le sue corde vocali per "Pattern of Rebirth", portando un timbro più caldo mentre riff rapidi e infuocati spingono verso territori più contigui al metal, o quando Larry Braggs appare nell’incredibile "The Lesser Evil", un sorprendente crossover fra soul e funk, prog e metal, strutturato inizialmente su dinamiche impalpabili e poi su una serie vorticosi di crescendo, in cui compaiono scintillanti e vigorosi ottoni e un drumming agile e sincopato come nella miglior tradizione del funk anni '70.

Difficile oggi trovare in giro qualcosa di più originale e eccitante, tanto che, quando nella seconda parte della canzone compaiono il flauto e il sax in una sospensione quasi jazzata prima che il brano torni a mostrare i muscoli, è quasi istintivo riascoltare la traccia ancora, ancora, e ancora. Puro genio.

E non è finita, perché c’è ancora tanta carne al fuoco. "Denial’s Aria" vede il ritorno della voce meravigliosa e seducente di Keturah, che in coppia con Vikke duetta in questa mestissima ballata, in cui le arpe suonate del Duo Scorpio (Katie Andrews e Kristi Shade) aggiungono un tocco etereo all'armonizzazione delicata e struggente. Vikke si cimenta anche in "Vespers", insieme al cantante russo Gennady Tkachenko-Papizh, creando una traccia oscura e ambient, e usando le voci come strumenti per un risultato surreale e ipnotizzante.

E se Daniel Tompkins (Tesseract) offre una magistrale performance vocale nella title track, un brano totalmente folle nella sua costruzione ansiogena e multiforme, il disco si chiude con l’epica coda strumentale di "All We Knew and Ever Loved", un finale claustrofobico e gravido di pathos che sfuma in un silenzio palpabile e smarrito.

Difficile rimanere insensibili di fronte a questo ascolto, un’opera colossale (quasi settanta minuti di durata), in cui non si apprezza solo la genialità delle composizioni o la caratura tecnica di una band davvero fuori dalla norma, ma anche, e soprattutto, la straordinaria tensione che permea ogni nota del disco. Una tensione che è capace di farsi furore, struggimento, estasi mistica, contemplazione malinconica e vibrante romanticismo. Un album talmente emozionante, che saremmo disposti ad attendere altri otto anni per poter provare lo stesso, intenso piacere. 

VOTO: 9

GENERE: Progressive Metal




Blackswan, lunedì 05/02/2024

giovedì 1 febbraio 2024

RUFUS WAINWRIGHT - FOLKOCRACY (BMG, 2023)

 


Artista estroverso, coraggioso e sperimentatore, Rufus Wainwright, partendo da un coloratissimo background art pop, ha esplorato, nella sua lunga carriera, svariati generi, accostandosi con egual ispirazione al musical, alla classica, e plasmando, con appassionato trasporto, financo un dolente, e riuscito, connubio fra musica e letteratura, attraverso l’inconsueto Songs For Lulù, album in cui rileggeva al pianoforte i sonetti di Shakespeare.

Giunto al traguardo dei cinquant’anni, il musicista canadese ha deciso di festeggiare regalandosi un album tributo alla musica folk, quel genere che lo ha plasmato e con cui è cresciuto fin da bambino (suo papà è Loudon Wainwright III, mentre sua mamma era Kate Mc Karrigle).

Nel rispetto dello spirito della tradizione, Wainwright ha riunito i membri della sua famiglia, le sorelle Martha Wainwright e Lucy Wainwright Roche, la zia Anna McGarrigle, la cugina Lily Lanken, oltre ad amici di lunga data, tra cui Madison Cunningham, Brandi Carlile, Susanna Hoffs, Chris Stills, Andrew Bird e Van Dyke Parks, a citarne solo alcuni, per affrontare, con la complicità di questo variopinto parterre, alcuni grandi classici folk, oltre a una rilettura di della sua "Going To A Town" e a un’aria di Schubert.

L'ambientazione di molte delle canzoni dell'album è sobria, minimale, priva di inutili orpelli, seppur punteggiata da quel tocco vagamente melodrammatico che è da sempre una delle caratteristiche peculiari della musica di Wainwright.

In scaletta, svariati traditional, veri e propri pilastri della tradizione folk americana, tra cui la ninna nanna "Hush Little Baby", interpretata insieme alle sue due sorelle, Martha e Lucy, e "Wild Mountain Thyme", anche questa un affare di famiglia (oltre alle sorelle c’è anche la zia Anna McGarricle alla fisarmonica), a ben rappresentare quella “folkocrazia” che il cinquantenne canadese ha scelto di celebrare.

Wainwright, però, non si limita a fare un viaggio nella memoria, ed evita pedisseque riproposizioni, vestendo di originalità, ad esempio, un classico del folk sudista come "Cotton Eyed Joy", trasformata in una ballata soul con il contributo di Chaka Khan, e dando vita a un duetto emozionante in "Heading for Home" (la canzone originale è di Peggy Seeger, la sorella di Pete), scambiando le linee vocali con John Legend, sopra un tappeto di banjo e orchestra.

L'album si apre con "Alone", una vecchia e mesta canzone folk scozzese, scritta da Ewan McColl, interpretata insieme alla cantante e chitarrista americana Madison Cunningham, che suona la chitarra anche in altre canzoni della scaletta. La murder ballad "Down in the Willow Garden" è cantata nel modo più dolce possibile in duetto Brandi Carlile, e le splendide armonie riescono a far dimenticare il mood oscuro della canzone. "High on a Rocky Ledge" è una canzone originale di un musicista di strada cieco di New York, chiamato Louis Hardin, alias Moondog, ed è qui riletta con la complicità di David Byrne.

Ci sono un paio di cenni intelligenti anche ai movimenti folk pop e rock della fine degli anni '60 e dei primi anni '70, davvero degni di nota: una scarna e bellissima versione di "Harvest" di Neil Young, presentata in condominio con Andrew Bird, che suona anche il violino, e Chris Stills, nientemeno che il figlio di Stephen, e "Twelve-Thirty (Young Girls Are Coming to the Canyon)" dei Mama's & The Papa's, con Susanna Hoffs e Sheryl Crow, un brano, questo, che cattura la gioia e l’innocenza dell’epoca Laurel Canyon.

Poi, per ricordare a tutti quale immenso musicista sia, Wainwright rilegge insieme ad Anohni, una delle sue composizioni più intense, "Going to a Town", progressione armonica spettacolare e liriche dal contenuto politico e sociale. Il musicista canadese raggiunge anche i confini più remoti dell'America, e regala ai nativi delle Isole Hawaii, dove ora vive, "Kaulana Na Pua", in cui è fiancheggiato da un'altra nativa, Nicole Scherzinger, che è anche la cantante delle Pussycat Dolls. 

Nei brani rimanenti Wainwright propone classici come "Shenandoah" e "Arthur McBride", e poi in qualche modo riesce a canticchiare una sua versione di Nacht und Traume di Schubert, mentre "Black Gold" riceve il contributo di Van Dyke Parks, con un suggestivo arrangiamento orchestrale.

Non c'è dubbio che Rufus Wainwright, in questo appassionato omaggio, faccia molto di più che pagare il suo debito al mondo musicale e culturale che lo ha indirizzato sulla strada che percorre ormai da venticinque anni; ciò che ha fatto in Folkocracy, in realtà, è sviluppare ed espandere la formula tradizionale della musica roots, dimostrando che non ha solo un valore come ricordo romantico di ciò che una volta era, ma che, rimodellata, può trovare il modo per continuare a essere vitale e rilevante anche oggi. Grande disco.

VOTO: 8

GENERE: Folk

 


 


Blackswan, giovedì 01/02/2024