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martedì 30 aprile 2019

PREVIEW




Erik Paulson (voce, chitarra) spiega: “Two Bux parla del raggiungimento della maggiore età, del conflitto morale e della colpa. A un certo punto della vita, molte persone decidono che vorrebbero provare alcune cose che il libretto di istruzioni dell’infanzia non ha permesso. Queste esperienze hanno il potere di essere piacevoli ma anche di confondere. Più spesso, è una combinazione di piacere e confusione. The Grind, invece, parla delle tensioni che nascono in una band ed è scritta nello stile di una canzone d’amore. Creare musica, viaggiare ed esibirsi sono, nella loro essenza, attività identiche alle cose che rendono così impattanti le relazioni romantiche, famigliari e platoniche. Queste esperienze sono anche le stesse che rendono così difficili queste relazioni. Mi è sembrato naturale e catartico legare insieme queste idee per mezzo di una canzone.”
I fratelli Erik e Steven Paulson hanno girato il mondo sull’onda del successo del Greatest Hits del 2017 e dell’EP Pop Music del 2018. Tutto il tempo trascorso lungo le strade ha regalato loro infinite opportunità di pensare a quanto fossero arrivati lontani come band in così poco tempo – e pianificare il futuro. Il risultato è Natural, Everyday Degradation dove i due fratelli creano un indie-rock assai più robusto.
Prodotto da Joe Reinhart (Modern Baseball, Hop Along) e missato da Peter Katis (The National, Interpol), l’album mette in luce i veri punti di forza della band. I testi di Erik sono emozionalmente risonanti e universalmente riconoscibili, tuttavia risultano più diretti e precisi che in passato.
“Non ci sono canzoni selvagge come in passato,” afferma Erik, sottolineando che il titolo dell’album è in parte ispirato all’iconico dipinto di Salvador Dalí “The Persistence Of Memory”. Sarà anche vero, ma Natural, Everyday Degradation è la colonna sonora ideale per viaggiare attraverso le grandi domande della vita.





Blackswan, martedì 30/04/2019

lunedì 29 aprile 2019

BILLIE EILISH - WHEN WE ALL FALL ASLEEP, WHERE DO WE GO? (Darkroom/Interscope Records, 2019)

Non credo si possa parlare costruttivamente di questo disco, senza fare immediatamente una premessa: Billie Eilish ha solo diciassette anni. E spero ne conveniate, se hai solo diciassette anni, devi possedere un notevole talento per pubblicare quello che, non solo è uno dei dischi più chiacchierati dell’anno, nonostante siano passate poche settimane dalla sua uscita, ma che anche, il giorno stesso della sua uscita, ha realizzato su Spotify la bellezza di 55 milioni di ascolti. In un giorno solo.
Ha talento, Billie, su questo non ci piove, e ha al suo fianco il fratello Finneas O’Connell, coautore dei brani e produttore, che dimostra di avere un tocco paragonabile a quello di Re Mida. Tutto ciò che ruota intorno al fenomeno Billie Eilish, infatti, è qualcosa di realmente straordinario, frutto di una costruzione a tavolino assolutamente perfetta.
Eppure, questo When We All Fall Asleep, Where Do We Go?, non è solo un prodotto commerciale preconfezionato ed efficacissimo, perché in realtà possiede anche un’anima e una sua bellezza. Certo, Billie è indubbiamente furba. Ha costruito in poco tempo un hype incredibile, facendo crescere esponenzialmente l’attesa, singolo dopo singolo, concerto dopo concerto.
Ha intercettato le istanze del suo pubblico, creando un personaggio che riassume in sé l’affabulante influencer, la rockstar sfrontata e trasgressiva e una sorta di dark lady adolescente, un po' Lolita e un po’ maschiaccio. E ha forgiato il suo pop, perché di pop si tratta, imbellettandolo di malinconia emo e plasmandolo attraverso sonorità modernissime, tra elettronica, echi trap e dubstep. Insomma, ha riproposto, ritoccandolo con arguzia, tutto il repertorio che già aveva fatto schizzare alle stelle le quotazioni di altre giovani songwriter quali Lykke Li, Lorde e Lana Del Rey.
Ciò nonostante, Billie, pur non inventandosi nulla di nuovo, non si è nemmeno sputtanata, vendendo plastica un tot al chilo. Furba, si, ma non spudorata. When We All Fall Asleep, Where Do We Go? è, infatti, un buon disco, ricco di idee e di ottime canzoni, e lo è a prescindere dall’età dell’ascoltatore, sia esso un adolescente o uno scafato appassionato di musica.
Billie sa alternare beat ansiogeni e ritmiche dance a momenti decisamente più raccolti, arrangiamenti complessi e stratificazioni sonore a episodi di malinconico e scarno intimismo. Un songwriting non certo innovativo, ma senz’altro efficace, soprattutto quando si dipana attraverso ballate come la rarefatta Listen Before I Go o la struggente I Love You, due fra gli episodi più riusciti di un ottimo disco che, in tutta evidenza, certifica la nascita di una giovane stella.
Se saprà brillare con costanza, lo scopriremo solo a partire dal prossimo album, anche se questo When We All Fall Asleep, Where Do We Go? depone a favore di un futuro luminoso. Perché, non dimentichiamolo, Billie Eilish ha solo diciassette anni e talento da vendere.

VOTO: 7





Blackswan, lunedì 29/04/2019

sabato 27 aprile 2019

PREVIEW




MARK LANEGAN annuncia il suo undicesimo album solista Somebody's Knocking, in uscita il 18 ottobre su Heavenly Recordings [PIAS].
L’artista statuinitense condivide  il primo singolo “Stitch It Up” accompagnato da un divertente video con la partecipazione dell’attore Donal Logue nelle vesti del leggendario personaggio di MTV degli anni 90’ Jimmy the Cab Driver.
Quasi alla fine dell’ultimo brano di Somebody’s Knocking, c’è un verso che rimane impresso nella memoria dell’ascoltatore:

I felt its sound/down to my darkest, deepest root

Somebody’s Knocking è un album composto da qualcuno profondamente ossessionato da come la musica riesca veramente a penetrare nell’anima con tutti i suoi poteri spirituali e curativi.  Di conseguenza, la musica è gioiosa, come se fosse stata creata da una vasta gamma di ispirazioni prese dal negozio di dischi di Dio. Alcune influenze sono trasversali, altre dirette e rispettose. In un certo senso, questo mostrare le proprie ispirazioni serve a cambiare la percezione che abbiamo del Lanegan artista: quest’album non è la storia di un veterano meditabondo del rock’n’roll , bensì il racconto di qualcuno consumato dall'eterno amore per le parole e i suoni fusi assieme.

Come i migliori lavori di Lanegan, l’album racconta le sue storie, tesse le meraviglie evocando febbrili visioni allucinogene accompagnate da un rock ruvido e da un elettronica brillante e luminosa, per poi penetrare nelle nostre radici più profonde e più oscure.

Da maggio Mark Lanegan sarà in tour negli Stati Uniti. Alla fine di ottobre invece, Lanegan partirà per un tour europeo che lo porterà in italia per un’unica imperdibile data il 27 NOVEMBRE 2019 @ FABRIQUE – MILANO (info: www.livenation.it) Per la lista completa delle date, visita: www.marklanegan.com






Blackswan, sabato 27/04/2019

venerdì 26 aprile 2019

MICK HERRON - IN BOCCA AL LUPO (Feltrinelli, 2019)

Se sei stato uno sbirro una volta, lo sarai per sempre.  Vale per Jackson Lamb e i suoi uomini, “i Brocchi”: un branco di agenti segreti che l’intelligence ha allontanato perché avevano commesso qualche errore imperdonabile o coltivato un vizietto di troppo, senza però riuscire mai ad azzopparli del tutto. E vale per Dickie Bow. Un vecchio leone, per giunta cresciuto allo “zoo” di Berlino in piena Guerra fredda. Un’ombra capace di infiltrarsi ovunque, di stare alle calcagna del suo target per mesi e carpirne i segreti. Almeno finché non viene trovato morto su un autobus vicino a Oxford. Jackson Lamb è stato a Berlino con Dickie prima della caduta del Muro. E ora possiede il suo cellulare e il suo ultimo segreto, oltre a sospettare che qualcuno stia escogitando un’operazione in vecchio stile sovietico proprio nella tana del lupo, in piena Londra e sotto al naso dei servizi segreti.  La perfetta occasione di riscatto per i Brocchi.

C’è una tempo in cui le spy story andavano di moda; poi, con la distensione dei rapporti fra occidente e Russia e con lo spostamento del focus sul Medio Oriente, il genere ha perso progressivamente appeal. Quando però trovi autori come Mick Herron, che sanno attualizzare temi ormai desueti come quello della guerra fredda, ti verrebbe quasi voglia di non leggere altro.
In una Londra in subbuglio a causa di una serie di manifestazioni di protesta contro il sistema bancario, lo scorbutico Jackson Lamb e la sua squadra di spie, costrette a mansioni secondarie, indagano sulla strana morte di un ex agente dell’MI5. Si troveranno ben presto a fare i conti con un pericolosissimo complotto operato da cellule dormienti dei servizi segreti sovietici.
Mick Herron crea un intreccio pressoché perfetto, dimostrando di saper gestire i tempi narrativi e di saper piazzare i colpi di scena in modo tale da carpire con continuità l’attenzione del lettore, conducendolo, in un crescendo rossiniano, verso un finale convulso e appassionante.
La miglior freccia all’arco di Herron, però, resta la scrittura, essenziale ma al contempo ricca di immagini, e attraversata da un sottile filo di ironia, che non viene mai meno nemmeno nei passaggi più drammatici del romanzo. Ne derivano, quindi, personaggi credibili, vivi e meravigliosamente tratteggiati sotto il profilo psicologico (Jackson Lamb prenderà lentamente forma davanti ai vostri occhi) e una serie di dialoghi arguti e intelligenti, e soprattutto, mai banali.
Insomma, se il genere vi appassiona e siete alla ricerca del nuovo John Le Carrè, In Bocca Al Lupo è il libro che fa per voi.

Blackswan, venerdì 26/04/2019

mercoledì 24 aprile 2019

PREVIEW



Dopo averlo pubblicato in limited edition su vinile in occasione del Record Store Day, The Flaming Lips annunciano oggi King’s Mouth, il loro quindicesimo album in studio, in uscita il 19 luglio su Bella Union.
King’s Mouth vede la band percorrere territori inesplorati. Queste 12 tracce originali sono collegate fra loro dalla narrazione cinematica di Mick Jones dei The Clash. Inoltre la musica è affiancata dall’istallazione artistica del front man Wayne Coyne.
Presentata nel 2015, l’istallazione ha mostrato i suoi visual e i suoi paesaggi sonori psichedelici nel Nord America, presso musei quali Meow Wolf di Santa Fe, NM, l’ American Visionary Art Museum di Baltimora, MD, il Pacific Northwest College of Art Portland, OR e lo spazio creativo di Wayne, The Womb, in Oklahoma City, OK. Una vera e propria meraviglia artigianale, l’istallazione consiste in una gigantesca testa di metallo che accoglie gli spettatori al suo interno. Una volta entrati, uno spettacolo di LED inizia, accompagnato dalle musiche dell’album. L’album accompagna l’esibizione dal punto di vista sonoro, consentendo ai fan di ascoltarlo in qualsiasi momento.
Ampliando ulteriormente questo mondo sfaccettato e mostrando i dettagli di questo affascinante mito della creazione, il tomo letterario che lo accompagna, King’s Mouth: Immerse Heap Trip Fantasy Experience racconta la storia di King’s Mouth attraverso parole e visual di Coyne, aggiungendo così una nuova dimensione al progetto, tra i più ambiziosi di sempre per la band.
Coyne afferma, “Le qualità immersive e infantile di King’s Mouth nascono dalla stessa scintilla e dallo stesso utero delle live performance dei The Flaming Lips. Le avventure di The King’s Mouth sono adatte a tutte le persone, di qualsiasi età, grandezza, cultura o religione.”

La band recentemente si è unita alla The Colorado Symphony Orchestra per una performance del loro album The Soft Bulletin del 1999, alla Denver’s Boettcher Concert Hall. Questa esibizione segue quella originale del 2016 al Red Rocks Amphitheatre – considerata dalla critica come una delle più importanti esibizioni mai tenute al Red Rocks in 75 anni.
DATA UNICA IN ITALIA
01 settembre – Piazza Duomo, Prato





Blackswan, mercoledì 24/04/2019

martedì 23 aprile 2019

CLAYPOOL LENNON DELIRIUM - SOUTH OF REALITY (Ato Records, 2019)

Presi singolarmente Les Claypool e Sean Lennon non hanno certo bisogno di grandi presentazioni. Il primo, ha attraversato due decenni alla guida dei Primus, proponendo una miscela sperimentale e azzardatissima di rock, funk e hardcore; il secondo, come è intuibile dal cognome, è il figlio di John e di Yoko Ono, e ha alle spalle un pugno di album segnati in modo evidente dai cromosomi di papà, da cui ha preso il timbro vocale e il gusto per la melodia.
Insieme, invece, rappresentano più o meno una novità, visto che hanno iniziato quasi per caso nel 2016, pubblicando un primo album sotto l’egida Claypool Lennon Delirium, che molti avevano ritenuto una bizzarria estemporanea senza alcun futuro. Invece, Monolith Of Phobos (questo il titolo del loro primo disco) ha funzionato così bene che il carrozzone si è rimesso in marcia, regalando ai fan un secondo, splendido lavoro.
Spiegare cosa contenga South Of Reality non è compito semplice: ci sono le esperienze di entrambi, ovviamente, c’è il nume tutelare Zappa, ci sono i Beatles più psichedelici, c’è una musica ricca di sperimentazione e intuizioni, suonata magistralmente (Les Claypool è senza ombra di dubbio uno dei più grandi bassisti rock, a cui bastano poche note per definire uno stile) e, particolare non di poco conto, irresistibili melodie di derivazione lennoniana, che rendono l’ascolto piacevolissimo anche a orecchie non particolarmente allenate.
Rispetto al primo disco, le canzoni sono più lunghe e meglio definite nei dettagli, ma concettualmente i contenuti sono i medesimi, come evidente dallo straniante opener Little Fishes, costruita sul basso elastico e potentissimo di Claypool (Mamma mia che suono!), che funkeggia sulle aperture melodiche e sognanti di Sean. Tutte le canzoni sono firmate da entrambi, ma appare chiarissimo chi ha avuto maggior influenza nella costruzione dei singoli brani: Boriska, ad esempio, risente maggiormente dell’influenza di Lennon e nonostante l’architettura ardita del pezzo, è una melodia di chiara matrice beatlesiana a fare la parte del leone, mentre Easily Charmed By Fools spinge potentissima su un groove funky (e una chitarra acidissima) che richiama alla mente l’approccio surreale e ironico alla composizione che ha sempre segnato la produzione Primus.
Ogni strumento è suonato dal duo, che ha curato anche la produzione del disco, lavorando di cesello sui suoni e arricchendo i brani con sovra incisioni e tocchi bizzarri che trasformano ogni singola canzone in una cornucopia di sorprese da scoprire ascolto dopo ascolto (consiglio l’utilizzo delle cuffie per una resa massimale).
Nove canzoni bellissime, seducenti e complesse, che trovano il loro zenith nella splendida Blood And Rockets, nipotina di A Day In The Life, che suona esattamente come suonerebbero oggi i Beatles di Sgt. Pepper.
Quindi, non drogatevi, non serve. Per viaggiare e viaggiare benissimo ascoltatevi Claypool e Lennon: a sud della realtà il delirio è garantito.

VOTO: 8





Blackswan, martedì 23/04/2019

sabato 20 aprile 2019

PREVIEW




Una volta conosciuti, è praticamente impossibile non amare i PUP. Ma chi sono i PUP? E perché dovrebbero starvi così simpatici? Iniziamo con il dire che sono un gruppo rock canadese formatosi a Toronto nel 2010 e che il loro nome è stato ispirato dalla nonna di Stefan Babcock, il cantante della band. La trovate una cosa dolce? Bene, perché PUP è un abbreviazione per Pathetic Use of Potential. La nonna di Stefan, non appena saputo che suonava in una rock band, gli ha detto che era “un uso patetico del suo potenziale”.
Il mood è quello degli sfigati di periferia, che conoscono bene cosa significa il disprezzo, l’ansia e la sensazione di perenne inadeguatezza nei confronti degli altri e del mondo. Ma i PUP hanno anche un grandissimo senso dell’umorismo, spesso nero, condito di ironia e annegato nell’auto-ironia.
E i quattro canadesi saranno anche dei perdenti, ma sanno come far suonare i loro strumenti, come buttare fuori emozioni e pensieri nei testi e come far vibrare i cuori di chi li ascolta. Con i loro primi due album (PUP, 2013 e The Dream Is Over, 2016) si sono fatti amare dalla critica musicale, hanno ricevuto i più vari riconoscimenti (Juno Awards, Polaris Music Prize, CBC Radio Awards, Best Breakout Rock Act per Rolling Stone, Prism Prize, etc.) e, soprattutto, si sono fatti largo nei cuori dei fan di tutto il mondo.
Con Morbid Stuff, prodotto, registrato e mixato da Dave Schiffman (Weezer, The Mars Volta), i PUP hanno creato una sintesi perfetta di tutto quello che i fan hanno imparato ad amare di loro in sole 11 tracce e 38 minuti totali. Tantissimi cori da cantare a squarciagola abbracciati sotto il palco, con le lacrime agli occhi e la voglia di divertirsi e buttare fuori qualsiasi cosa si pensi non vada della propria vita o nella propria persona, tante armonie di chitarra e attenzione all’intarsio degli strumenti nella struttura delle canzoni, tanto umorismo e auto-ironia, e tanti testi cupi e deprimenti, cantati e suonati con una gioia e un’energia dalla quale non si può che uscirne coccolati e rinvigoriti. E a livello musicale? Un suono che va dal rock al punk, fino a raggiungere i migliori picchi hardcore con “Full Blown Meltdown” e le valli del folk con l’inizio di “Scorpion Hill”.
Quattro migliori amici, tante emozioni negative e tanta rabbia da deridere insieme, per ritrovare insieme la giusta prospettiva e la giusta speranza, nell’affrontare questo pazzo e assurdo mondo e i problemi che ci arreca.
Scavando al di sotto della dolcezza e del divertimento del lato sonoro, troviamo dei testi come quelli di “Scorpion Hill”, in cui il disgusto e l’inquietudine si trasformano in tristezza e nella necessità di metabolizzare i contrasti, richiamandosi all’esperienza che la band ha vissuto in tour, quando, trovandosi a dover soggiornare in casa di uno sconosciuto, tra aghi usati, mozziconi di sigaretta e macchie di piscio e sudore, notano la fotografia del figlio dell’uomo, sorridente per il suo primo giorno di scuola.
“Sibling Rivalry”, invece, è una canzone dedicata alla sorella di Stefan, per i loro viaggi annuali pieni di disastri, mentre “Kids” è una canzone d’amore da un depresso all’altro, perché quando trovi qualcuno che comprende e condivide le tue peggiori paure, alla fine ti senti meno solo e puoi tornare a sperare almeno un po’, sentendo l’animo un po’ più leggero. Non pensate che si possa rendere gioioso tutto questo? Provare per credere.
Un assaggio dai testi della bella “See You At Your Funeral”, in cui Stefan urla “Spero che il mondo esploda, spero che moriremo tutti e che potremo vedere i momenti salienti dell'inferno. Spero che siano trasmessi in televisione”.
Oltre ai testi, i PUP danno del loro meglio nei video e nel rapporto con i fan. Per la bellissima “Free At Last” (una delle canzoni migliori dell’album, di cui il ritornello “solo perché sei di nuovo triste, ciò non ti rende affatto speciale” rimane impresso nella mente così tanto che vi ritroverete a canticchiarlo sovrappensiero senza rendervene nemmeno conto) i PUP hanno condiviso testi e accordi del brano con i fan qualche settimana prima dell’uscita del singolo, chiedendo loro di realizzarne una cover. Senza aver mai sentito prima la canzone. L’aspettativa della band era di ricevere al massimo una decina di video, peccato che invece i fan abbiano spedito loro ben 253 cover, di cui incredibilmente nessuna sembrava la loro e, ancora più sorprendentemente, nessuna era uguale all’altra. La sintesi di tutta la creatività e l’amore per i PUP la trovate nel video che hanno girato in una notte (link alla fine della recensione), per la modica cifra di 25 dollari.
Volete già andare a vederli dal vivo? Bene, un dollaro per ogni biglietto venduto in prevendita andrà al Trevor Project, un’organizzazione che fornisce consulenza e servizi di prevenzione del suicidio ai giovani LGBTQ.
Preferite pensare intanto a comprare il cd o il vinile? Se volete, i PUP hanno preparato per voi il Kit in preparazione all’annientamento: include cd o lp in edizione limitata, una camicia a maniche lunghe, uno zaino con su cucito un cerotto, dei cerotti personalizzati, un contenitore impermeabile e un multi-utensile con forchetta, cucchiaio, ecc. Una versione in edizione limitata del kit, invece, fornisce un vero e proprio gommone (di dimensioni normali, mica una miniatura).
Come si diceva all’inizio, come si fa a non amare i PUP?
Morbid Stuff è la coperta di Linus per quando sei triste, depresso o stanco, il disco che ti aiuta a versare e poi asciugare le lacrime, gettandole via assieme alla voce, che perderai cantando a squarciagola i loro cori. È l’album che ti fa ritrovare il sorriso, che ti fa divertire e che riesce a farti ritrovare speranza ad ogni verso urlato insieme, facendoti solo venire voglia di abbracciare la prima persona che ti capita a tiro.
Che entri a far parte delle vostre vite è possibile, ma che lo ritroviate tra le migliori uscite del 2019 è praticamente certo.





Blackswan, sabato 20/04/2019

venerdì 19 aprile 2019

FONTAINES D.C. - DOGREL (Partisan, 2019)


A voler utilizzare alcune espressioni tanto care alla stampa anglosassone, si potrebbe parlare a proposito degli irlandesi Fontaines D.C. di best new thing o di new sensation. D’altra parte, l’hype nei confronti della band di Dublino è stato costruito ad arte in questi mesi, grazie a una narrazione orchestrata ad hoc e alla pubblicazione di singoli (praticamente tutto il disco d’esordio) che hanno creato una crescente attesa nei confronti di questa pubblicazione.
Tuttavia, il clamore generato da questa opera prima non risiede solo nell’ottima comunicazione che ha permesso di conoscere la band con ampio anticipo, ma soprattutto dal valore artistico di un disco, per certi versi sorprendente. Che la musica dei Fontaines D.C. sia clamorosamente derivativa è un dato di fatto su cui nemmeno si dovrebbe discutere: queste canzoni, infatti, hanno i piedi immersi fino alle caviglie nella fanghiglia post punk di inizio anni ’80, raccontano Dublino e l’Irlanda nello stesso modo in cui facevano alcune band di combat rock del periodo, e hanno come numi tutelari, citati spesso smaccatamente, alcuni gruppi hanno fatto la storia del genere, Joy Division su tutti.
Ciò nonostante, sarebbe ingiusto parlare di mera operazione di copia-incolla, perché questi ragazzi sono riusciti, in pochissimo tempo a forgiare un suono tutto loro. C’è un piglio garagista che identifica le loro performance, una veemenza tutta sangue e sudore che da sempre identifica quelle rock’n’roll band che fanno dell’immediatezza il loro punto di forza. E ci sta, quindi, che la tecnica e l’attenzione agli arrangiamenti passino in secondo piano, cosa abbastanza evidente all’ascolto di questo Dogrel. C’è, poi, il timbro vocale di Grian Chatten, un crooner, monocorde e monotono, che ricorda un incrocio ansiogeno fra Ian Curtis e Kele Okereke dei Bloc Party, a marchiare a fuoco queste canzoni di grintosissimo post punk.
Tutto funziona a meraviglia in Dogrel, a partire della splendida Big (godetevi il video, ne vale la pena) brano che apre il disco con una dichiarazione d’amore nei confronti di Dublino. Non ci sono momenti di stanca, e ogni singola canzone in scaletta regge alla grande il confronto con band che di recente hanno imboccato la stessa strada dei Fontaines D.C. (Shame e Idles, soprattutto): i tamburi battenti di Sha Sha Sha, che ruba un giro di chitarra ai Clash (London Calling), lo sconquasso noise di Too Real, la melodia scartavetrata di Roy’s Tune, gli echi Joy Division di The Lotts o la conclusiva Dublin City Sky, che evoca l’anima sfilacciata e alcolica di Shane MacGowan dei Pogues, sono tutti episodi che rendono Dogrel un esordio appassionato ed emozionante.
Non so dire se i Fontaines D.C. siano destinati a durare nel tempo: l’andamento monocorde del cantato e una certa ortodossia stilistica alla lunga potrebbero anche imboccare il tunnel della ripetitività e finire per stancare. Tuttavia, c’è da scommetterci, almeno per quanto riguarda il 2019, che il loro esordio comparirà in vetta a tutte le classifiche di fine anno.

VOTO: 7,5




Blackswan, venerdì 19/04/2019

giovedì 18 aprile 2019

PREVIEW


Formatisi sulla chimica tra i due compositori – nonché fratello e sorella - Jack e Lily Wolter, la miscela DIY di splendente dreampop, chitarre fuzz e ondate indie-psych del quartetto viene immersa in squisite armonie e melodie brillanti: una combinazione talmente intuitiva da far pensare che si trovi nel loro sangue.
Per celebrare l’annuncio, i Penelope Isles condividono un video accattivante per il singolo “Chlorine”, che incorpora vecchi filmati in bianco e nero e animazione. La band ha anche annunciato un cospicuo numero di concerti per la primavera e l’autunno, assieme ad apparizioni in molti festival estivi.
Fresco e ubriacante, etero e mordace, Until The Tide Creeps In è un album di esperienze condivise, come spiega Jack: “lasciare casa, andare via, affrontare le transizioni della vita e crescere. Ci sono sei anni di differenza tra noi due, perciò abbiamo esperienze differenti ma condividiamo un’ispirazione simile quando scriviamo musica.”
Questi temi sono in primo piano già nell’opener “Chlorine”, un racconto esuberante ma pungente di quello che Jack definisce “un divorzio di famiglia”. Tra la sua beata calma di superficie e le mareggiate emotive, chitarre “choppy” e armonie fluttuanti, è un invito coinvolgente: il primo di molti in un album che crea il proprio mondo e lo naviga fluentemente, trascinando l’ascoltatore nella corrente.
Quel fluire prende la forma di malvage maniere melodiche su “Round”, un riff scattante su una compulsione romantica. “Not Taking” assomiglia a un tuffo nelle acque indie-psych di Perth, e si lega coi primi Tame Impala; nel frattempo, metafore costiere e romanticismo indie-rock si fondono in un effetto lussureggiante e struggente su “Underwater Record Store”, scritta da Lily.
“È bello avere due compositori nella band perché io amo molto le canzoni di Lily,” dice Jack.
Nati nel Devon e cresciuti sull’Isola di Man, il loro legame si saldò grazie alla separazione, quando Jack andò via di casa per studiare arte all’università all’età di 19 anni. “Quando me ne andai, Lily non era più una sorellina noiosa e rompiscatole, era cresciuta e aveva iniziato a suonate e scrivere canzoni. Ci avvicinammo molto. Avevo scritto alcune canzoni, perciò fondammo una band chiamata Your Gold Teeth. Abbiamo fatto qualche concerto e poi Lily parti per Brighton per studiare composizione. Un paio d’anni dopo mi sono trasferito anch’io e abbiamo dato vita ai Penelope Isles.”
Il quartetto è completato da Jack Sowton e Becky Redford, che hanno già suonato in trio con Lily a Brighton. Quando Lily tornò a casa per le vacanze, l’idea di formare una band si sviluppò molto in fretta. Anche se Jack e Lily scrivono separatamente, le canzoni vengono condivise ed è questo che ha dato vita ai Penelope Isles, il tutto alimentato dalla passione per l’alt-rock DIY: Pavement, Deerhunter, Pixies e Tame Impala su tutti, assieme a Radiohead e The Thrills.
Prodotto da Jack, l’album è stato co-mixato da Iggy B (i cui crediti includono The Duke Spirit, John Grant, Spiritualized e Lost Horizons) nei Bella Studios di Londra.





Blackswan, giovedì 18/04/2019

mercoledì 17 aprile 2019

LA DISPUTE - PANORAMA (Epitaph, 2019)

Il mare d’inverno, soprattutto. Un cielo livido, freddo come l’acciaio: i nembi si addensano, ribollenti di pioggia e di oscuri presagi, che si materializzano proprio là in fondo, dove l’orizzonte sfiora con le dita il filo sottile dell’acqua e un ultimo barbaglio di sole svanisce. Gli smeraldi rilucenti del mare trasmutano la propria gioia in un’afflizione torbida, sgranando gli ultimi verdi riflessi nel grigio opalescente della nostalgia. Un’increspatura, un breve mulinello, e poi gorghi sempre più ampi, la marina ribollente, l’impeto sempre più feroce della risacca e, quindi lo schianto di un’onda, rumoroso e brutale, come solo la natura sa essere.
C’è il mare in inverno nel quarto disco dei La Dispute, quel mare che accerchia il Michigan, paese di provenienza della band. Il panorama, però, non è quello che trovi sulle cartoline: lo sguardo, semmai, è pervaso da un romanticismo febbrile e disperato, uno sturm und drang musicale che ha lo stesso suono del mare: il monotono sciabordio dell’acqua, l’errante vagabondare delle onde, e poi, grido nella notte, improvviso arriva il fragore, che spezza il cuore, come un dolore inaspettato e definitivo.
E’ questo lo sviluppo sonoro delle dieci canzone che compongono Panorama, full lenght che sublima la poetica di Jordan Dreyer, leader, cantante e paroliere di una band che ha sempre messo al centro della narrazione un lirismo duro e disperato: l’incedere morbido, talvolta avvolgente e amniotico, che all’improvviso deraglia, trasfigurando lo spoken word del cantante (il cui timbro ricorda quello di un Robert Smith alle prese con attacchi di panico) in improvvisi accessi di rabbia belluina.
Ecco allora le montagne russe emotive di Fulton Street I, il cui dipanarsi monotono del drive di chitarra progredisce ciclicamente verso improvvisi crescendo, come se un pensiero, prima dolcemente malinconico, prendesse lentamente le sembianze di uno sconforto gonfio di lacrime sapide di ineluttabile consapevolezza. Una consapevolezza, che permea di voluptas dolendi le chitarre slintiane di There You Are (Hiding Place), spazzate via da una disperazione urlata, urgente e repentina, come solo la disperazione sa esserlo, quando tocca le corde dell’anima.
E’ un saliscendi senza freni, Panorama, una giostra impazzita, che ci costringe a fare i conti con un’emotività insistente e invasiva. Si potrebbe parlare di emo-core, ma facendo ben attenzione a non travisare la definizione. In Panorama la melodia non serve a compensare l’impeto, non è il contraltare alla forza bruta, come succede in certe band bimbominchia, che non hanno coraggio di essere cattive fino in fondo, e hanno bisogno di escamotage radiofonici per non spaventare e essere plausibili verso un vasto pubblico. In queste canzoni, l’impianto melodico è, invece, strutturato come una tappa di un percorso emotivo che porta, sempre, inevitabilmente, a un’angosciosa afflizione. Canzoni che hanno un nobile pedigree, grazie a quel costante richiamo delle chitarre agli Slint, e che guardano in faccia senza timore reverenziale un capolavoro dell’emo-core, come The Devil And The God Are Raging Inside Me dei Brand New. Disco emozionante ed emozionato: godetevi il Panorama.

VOTO: 8




Blackswam, mercoledì 17/04/2019