Pagine

martedì 31 gennaio 2012

FLASHDANCE


Ci sono film che hanno un successo di pubblico assolutamente immotivato, o quantomeno motivato da ragioni che prescindono dalla caratura artistica della pellicola. Ieri, riascoltando casualmente una canzone che faceva parte della colonna sonora, mi è tornato in mente "Flashdance ". Ve lo ricordate ? Ovviamente si. "Flashdance" ebbe un successo planetario, fu una palpatina di Re Mida al culo di tutti i botteghini del mondo, tanto da diventare, nel corso degli anni, un vero e proprio ( trash?) cult per tutta la mia generazione ( il film  vive sullo stesso pianerottolo emozionale del condominio abitato da "Harry Ti presento Sally ", " Dirty Dancing " e "Ghost " ).Mi ricordo che quando il film uscì nelle sale andai a vederlo con la fidanzatina dell'epoca. Di "Flashdance", inutile dirvelo, non mi importava una ceppa. Erano anni in cui obbedivo solo a General Ormone, e la proiezione altro non era che un'occasione per pomiciare duro, avvantaggiandomi della promiscua oscurità dell'ultima fila. Ovviamente, avevo fatto i conti sbagliati e l'oste ( cioè la fidanzatina ) mi presentò un conto salatissimo: che tenessi le mani a posto perchè lei il film se lo voleva vedere davvero.Incassato il due di picche, feci buon viso a cattivo gioco e mi abbandonai a una suntuosa pennica, bolla al naso e russamento fischiato annesso. Rivisto ( anzi visto ) in età adulta, lontano dal clamore mediatico dell'evento e con gli occhi allenati da anni e anni di cinema frequentato senza più secondi fini dettati da prurigini adolescenziali, l'impressione è che "Flashdance " sia una mezza cagata.Trama esile, banalità assortite, una regia da videoclip patinata e inconsistente, e un finale così laccato da far apparire l'acconciatura di Raffaella Carrà frutto delle imperscrutabili e scapigliate trame del destino. Però...però, se hanno salvato il soldato Rayn, due o tre motivi per salvare il soldato Owens ( il nome della protagonista del film ) ci sono. Intanto, Jennifer Beals, riguardo alla quale mi trovo d'accordo con il buon Nanni ( Moretti ), che nel primo episodio di "Caro Diario " se la spupazza tutta, tessendone lodi sperticate. Fermi tutti ! Non ho intenzione di scrivere una retrospettiva su Jennifer, non temete. Mi limiterò, in modo molto prosaico, a evidenziarne l'indiscutibile talento recitativo: era, ai tempi, una grandissima gnocca. Alzi la mano chi, tra i maschietti che hanno visto il film, non ha provato un bell'effetto extrasistole durante la sequenza in cui Jennifer si toglie il reggiseno da sotto la maglia. Roba da salivazione azzerata, lingua di pile, mano umida ( di sudore ) e occhio da triglia in padella.Tuttavia, oltre alle bocce notevoli e a un fisico da standing arrapation, il personaggio di Alex Owens era meritevole per un altro aspetto. Sto parlando di Working Class Heroes, amici, mica pizza e fichi. Alex era una della legge, una che si spaccava il culo in fabbrica, con contorno di fiamma ossidrica e catena di montaggio, e coltivava i suoi sogni, con immensi sacrifici, la sera, dopo il lavoro. Ho sempre adorato quelle cose del tipo " la classe operaia va in paradiso" o " con l'impegno e la dedizione si arriva ovunque ", la vita vissuta come Bartali, insomma, a stringere i denti sulle salite, passando la borraccia a quel fighetto borghesuccio di Coppi. E poco importa se, in verità, Jennifer Beals non interpretò nemmeno una delle scene di ballo ( usò quattro controfigure ), dal momento che non conosceva un passo di danza che fosse uno, ed era agile e tonica come una stele funeraria. Il cazzo di messaggio sofferenza = vittoria era luminoso come una giornata di sole e tanto bastava.Che era poi anche un bel messaggio di sostanza per quegli anni di disperato edonismo reaganiano.Concludo l'arringa difensiva, con una doverosa citazione della colonna sonora. Niente per cui spellarsi le mani, ovviamente, ma un paio di canzoni con un bel tiro straccia-mutande c'erano ( lo dico soprattutto a voi, fratelli rockers, che avete appena alzato il sopracciglio in un'espressione a metà fra lo sgomento e il disgusto ). Una è " Flashdance...What a Feeling " di Irene Cara, tormentone inossidabile mai caduto in prescrizione e ancora oggi cavallo di battaglia di ogni dj vintage che non si rispetti.Lo so, a noi amanti dei riff duri e del growl questo pezzo può al massimo piaciucchiare, ma tutto sommato ha una sua dignità. 

L'altra, invece, è " Maniac ", di Michael Sembello, uno che, a dispetto del cognome da aperitivo,  se l'è smazzata con gente del calibro di Stevie Wonder e Diana Ross. Questa canzone è assolutamente strepitosa, e chi non è d'accordo con me, peste lo colga. Riascoltatela con attenzione e pensateci: accorciata, rallentata, ripulita dalla patina eighties e arrangiata per chitarra elettrica, schizzerebbe subito in vetta alla top ten di Virgin Radio.Se c'è qualcuno che sa suonare e vuole sfruttare l'idea, mi accontento di un 10% dei diritti dovuti a Sembello. E' una buona proposta.
Blackswan, martedì 31/01/2012

lunedì 30 gennaio 2012

TU SEI IL MALE - ROBERTO COSTANTINI

"Roma, 11 luglio 1982. La sera della vittoria italiana al Mundial spagnolo Elisa Sordi, giovane impiegata di una società immobiliare del Vaticano, scompare nel nulla. L'inchiesta viene affidata a Michele Balistreri, giovane commissario di Polizia dal passato oscuro. Arrogante e svogliato, Balistreri prende sottogamba il caso, e solo quando il corpo di Elisa viene ritrovato sul greto del Tevere si butta a capofitto nelle indagini. Qualcosa però va storto e il delitto rimarrà insoluto. Roma, 6 luglio 2006. Mentre gli azzurri battono la Francia ai Mondiali di Germania, Giovanna Sordi, madre di Elisa, si uccide gettandosi dal balcone. Il commissario Balistreri, ora a capo della Sezione Speciale Stranieri della Capitale, tiene a bada i propri demoni a forza di antidepressivi. Il suicidio dell'anziana donna alimenta i suoi rimorsi, spingendolo a riaprire l'inchiesta. Ma rendere finalmente giustizia a Elisa Sordi dopo ventiquattro anni avrà un prezzo ben più alto del previsto. Balistreri dovrà portare alla luce una verità infinitamente peggiore del cumulo di menzogne sotto cui è sepolta, e affrontare un Male elusivo quanto tenace , che ha molteplici volti uno più spaventoso dell'altro. "

Nella schiera dei personaggi legati all'immaginifico letterario che più amo, al fianco di Frankie Machine, Il Principe Minsk, Edmond Dantes e La Moglie Del Dottore, entra a far parte da oggi anche il commissario Michele Balistreri, frutto della fantasia di Roberto Costantini ( Tripoli, 1952 ), e protagonista di " Tu Sei Il Male ",uno dei migliori thriller uscito nelle librerie lo scorso anno. Se questo libro è una bomba, e lo è, ve lo assicuro, non lo si deve solo all'intreccio complesso ma sostenuto da un ritmo vertiginoso, alle attualissime digressioni sociologiche sul tema del razzismo e dell'integrazione, a una scrittura capace di trarre dalla cronaca dei giorni nostri una forza espressiva che manca a tanti giallisti nostrani ( uno per tutti, Giorgio Faletti ). Il motivo per cui ritengo " Tu sei Il Male " una lettura di genere superiore alla media, sta proprio nella maestria con cui Comandini costruisce la figura del suo protagonista, sviluppandone la crescita etica e psicologica ( la trama si svolge in un lasso di tempo di ventiquattro anni ) senza mai perdere il filo della credibilità, ma anzi con una coerenza di percorso praticamente perfetta.Se nella prima parte del romanzo, Balistreri è un giovane poliziotto con un torbido passato da estremista di destra, che non perde occasione per dimostrarsi cinico, violento e privo di qualsivoglia scrupolo morale, nella seconda parte, sfumate le intemperanze giovanili del personaggio, Comandini ne plasma il carattere attraverso lo sguardo consapevole della mezza età, trasformando la cieca arroganza di un tempo in un calvario umano di tormenti e rimorsi per colpe troppo gravi da espiare. Difficile davvero non innamorarsi di un personaggio così ben costruito, così umanamente credibile nei suoi eccessi e nelle sue debolezze, così lontano da abusati stereotipi di maledettismo. Basterebbe questo per fare di " Tu Sei il Male " un romanzo meritevole di attenzione anche per chi non ama il thriller. Eppure di carne al fuoco ce n'è ancora tanta, dal momento che la trama, a cui si perdona volentieri qualche snodo non adeguatamente motivato, racconta non solo lo sviluppo di un'indagine davvero appassionante, ma anche, e forse soprattutto, vent'anni di storia italiana fatta di torbidi intrighi, servizi deviati, politica d'accatto e perbenismo di facciata. Da non perdere.

Blackswan, lunedì 30/01/2012

NADA SURF - THE STARS ARE INDIFFERENT TO ASTRONOMY

Il bel titolo di questo cd la dice lunga sulla filosofia artistica dei Nada Surf. Se è vero che le stelle se ne infischiano dell'astronomia, è altrettanto vero che la band newyorkese se ne fotte bellamente di tutte le mode, riproponendo dal 1996 sempre la stessa idea di pop-rock. Melodie solari che si alternano a nostalgici straniamenti acustici da fine estate, muri di chitarre elettriche alla Teenage Fanclub e il timbro fragile e adolescenziale di Matthew Caws sono da sempre l'indelebile marchio di fabbrica di un gruppo che, pur non avendo mai raggiunto il grande pubblico, è stato capace negli anni di costruirsi una schiera di fedelissimi aficionados. Perchè i fans dei Nada Surf sanno sempre che musica li attende e non vedono l'ora di ascoltarla: non capolavori, ma sinceri dischi di un rock totalmente fuori dal tempo presente perchè stabilmente ancorato agli anni '90. Sponda alternative, ovviamente. " The Stars Are Indifferent To Astronomy " è probabilmente il miglior disco della band dai tempi di " Let Go " del 2002 ( una piccola gemma di indie-rock che andrebbe recuperata ) e si lascia ascoltare con lo stesso piacevolissimo trasporto che mi aveva fatto consumare, due anni fa, " If I Had a Hi-Fi ", disco interamente di cover, nobilato da una versione strepitosa di " Enjoy The Silence " dei Depeche Mode ( cercatela, non ve ne pentirete ), trasformata da malinconica e ombrosa dichiarazione d'amore in un accecante bagliore chitarristico dal sapore byrdsiano. Questo nuovo lavoro non contiene brani memorabili, e probabilmente nessuno se lo sarebbe mai aspettato. Eppure, le dieci canzoni in scaletta, tutte di livello, sono pervase da una bella tensione che mantiene vivo l'ascolto fino alla fine, e da soluzioni melodiche che tradiscono un approcio compositivo forse ingenuo ma visceralmente sincero. Segnatevi, quindi, il power pop dell'iniziale " Clear Eye Clouded Mind ", l'acustico a pastelli di " When I Was Young ", che nel finale prende in un'inaspettata deriva di solennità, e lo sfarzo zuccherino di " The Moon Is Calling ", probabilmente il miglior pezzo del lotto. Canzoni che, ne sono certo, sapranno regalarvi attimi di spensierata leggerezza estiva, anche se fuori il cielo è plumbeo e i nuvoloni incombono.
 
VOTO : 6,5
 
 
Blackswan, lunedì 30/01/2012

domenica 29 gennaio 2012

VIC CHESNUTT – NORTH STAR DESERTER

Amo Vic Chesnutt non solo per le sue bellissime canzoni, per la sua voce fragile e seducente, per il suo particolarissimo modo di suonare la chitarra. Lo amo soprattutto per la forza con cui ha affrontato la sorte beffarda e una vita a metà, per il coraggio di non arrendersi, di trasfigurare il proprio dolore in un'arte che fosse universale, sincera e, in qualche modo, salvifica. Chesnutt viveva dall'età di diciotto anni inchiodato a una sedia a rotelle a causa di un gravissimo incidente stradale. Ciò non gli ha impedito però di percorrere la propria strada attraverso la musica, di camminare e di correre, metaforicamente, come tutti gli altri, sospinto dalla forza di una passione artistica in grado di forgiare una musica in perenne movmento fra spiritualità e azzardo sperimentale. 
Probabilmente, fu proprio quella tragedia a renderlo l'artista sensibile e impegnato che abbiamo imparato a conoscere nel corso degli anni. Una vicenda artistica, quella di Vic, che ricorda da vicino il cammino intrapreso dal grande Robert Wyatt : la paralisi come soglia dell’abisso e successiva resurrezione, come baratro di dolore e nel contempo prossimità al cielo stellato. Anche le canzoni di Chesnutt prendevano forma da una gestione  assolutamente anarchica del pentagramma, erano figlie di una fantasia sbrigliata e anticonvenzionale,che pescava sì dalla tradizione, ma rielaborava i moduli e le note attraverso coordinate spesso indecifrabili, apparentemente ostiche, mai prive tuttavia di una, seppur defilata, sostanza melodica foriera di struggimenti. La musica  del cantautore georgiano  aveva il respiro dell'epica rock ( meglio,post-rock ), le sembianze dimesse di un folk aspro e dissonante, i palpiti trattenuti dell'intimismo più colloquiale, e una ricchezza di suoni non lineare e a tratti addirittura scorbutica, come a voler celare il trasporto melodrammatico di una tragedia esistenziale mai completamente rielaborata. 
Vic Chesnutt
North Star Deserter", prodotto dalla casa discografica canadese " Constellation " ( la stessa di Carla Bozulich e dei Godspeed You Black Empereor!, per intenderci ) , è l'opera malinconica e visionaria di un uomo che cerca nella scrittura lo spazio per quei movimenti  che la vita gli ha tolto. Fin dalle prime note vi accorgerete che le canzoni di Chesnutt sono prive di connotati spazio-temporale, hanno un’anima brada, scapigliata, puntano direttamente l’orizzonte, in un susseguirsi, quasi ansiogeno, di lente ma inesorabili dilatazioni, di improvvise e furiose accelerazioni.
" Warm " è un inizio che solo i grandissimi possono permettersi: chitarra acustica e contrabbasso a scavare nella dura pietra il diamante grezzo di una melodia apparentemente fragile, eppure ricca di sinuosi ammiccamenti.
"Glossolalia " è una corale sinfonica, in cui il contrappunto d'archi, dall’andamento quasi ritmico,e la voce sdoppiata di Vic si schiudono in una dolorosa litania dal sapore vagamente balcanico.
"Everything I Say" si gioca la carta della dicotomia chiaro-scuro, stasi-ripartenza : un incipit scarno e notturno  accelera improvvisamente in un fragore post core, in cui il chitarrismo destabilizzante e sgraziato di Guy Picciotto ( leader fondatore dei Fugazi, qui ospite fisso ) crea derive di un'intensità elettrica a dir poco adrenalinica.
"Splendid " è una di quelle canzoni che cambiano la vita: distorsioni e riverberi di pinkfloydiana memoria preparano il terreno a una serie di strofe che ricordano da vicino la resa emotiva  cantata da Jonny Cash in “ Hurt “, per poi sfociare in un ritornello di bellezza così fulgida da sembrar plasmato dalle mani di un angelo.Tutto è perfetto: la voce di Chesnutt, tristissima ma non arresa, e la ieratica scansione metrica del testo, che racconta malinconicamente di una giovinezza che non c’è più ( " On the beach we had fun,by the rocks in the sun,we were young we were free,we were wild as the weeds below cliffs " ).
Il livello compositivo del disco resta ispirato per tutte e dodici le tracce, con due picchi altissimi nel vibrante finale: "Debriefing ", post-hardcore incendiario, nel quale le distorsioni noise di Picciotto e una ritmica primigenia e tribale, fanno da contraltare a una melodia tanto claustrofobica da apparire malevola, e " Marathon ", minimalismo acustico che ci abbandona indifesi nel cuore della notte, interrompendo il flusso regolare del nostro respiro.
I pochi che si sono confrontati con questo disco ( Chesnutt nel nostro paese è, purtroppo, autore di nicchia ) avranno trovato in “ North Star Deserter" un motivo in più per “disertare" dalla solita musica, rapiti dalla magia di un songwriting forse ostico e difficilmente omologabile, ma della cui nitida bellezza è impossibile dubitare.Una musica, quella di Chesnutt, che chiede all’ascoltatore una maggiore partecipazione, uno sforzo osmotico, un patto do ut des che ci libera dal giogo dell’ovvia convenzione, per trasformarci in disertori in fuga con lo sguardo rivolto al cielo, alla ricerca della stella del Nord e di un sogno di libertà.

PS : Vic Chesnutt si è suicidato il giorno di Natale del 2009, all’età di 45 anni.




Blackswan, domenica 29/01/2012

sabato 28 gennaio 2012

THE MUSICAL BOX- THE LAMB LIES DOWN ON BROADWAY

Definire i The Musical Box  solo una cover band, sarebbe riduttivo assai. Questi cinque ragazzi canadesi sono semmai la perfetta clonazione dei Genesis anni '70 e girano il mondo riproponendo i live set dei tour che hanno accompagnato l'uscita di mitici album quali " Foxtrot " "Selling England By The Pound "e " The Lamb Lies Down On Broadway ". Vederli all'opera è un appuntamento imperdibile per i fans del gruppo di Gabriel : sia per quelli più giovani che, come me, non hanno mai potuto vedere dal vivo le straordinarie esibizioni dell'Arcangelo Gabriele, sia per quelli che invece vissero quei magici anni in diretta. In questi giorni i The Musical Box sono in Italia e presentano il tour di "The Lamb " ( la recensione del disco potete trovarla QUI )  e vi posso garantire che lo spettacolo ( visto ieri sera al Teatro degli Arcimboldi di Milano ) è davvero emozionante, anche perchè i nostri sono l'unica band al mondo ad aver ottenuto da Peter Gabriel in persona e dai Genesis la licenza di eseguire dal vivo lo spettacolo, e quindi l’accesso agli archivi, alle tracce audio, alle slideshow originali di The Lamb Lies Down On Broadway, per rappresentare integralmente il concerto originale in tutti i minuziosi dettagli: i costumi, le maschere, il trucco, il palco, gli effetti speciali, la scenografia, le luci. Con il supporto di oltre 1000 slides originali e la scaletta dal concerto del 1974/1975, grazie alla collaborazione dei Genesis stessi e dei tecnici che hanno collaborato allo show all’epoca. L'occasione è tanto più ghiotta se si pensa che in circolazione si trovano solo spezzoni di filmati e pochissimi dvd ufficiali della c.d.Gabriel Era, e quasi nulla di relativo a The Lamb   ( segnatevi questo : Genesis - In The Beginning, Ed.Show, con performance del 1973 ( "Selling England" Tour ), interessante ma modestissimo per qualità audio e video ).
Ultima data italiana :


* 28 gennaio 2012 ore 21 – Padova, Gran Teatro Geox


Biglietti da 40,50 € a 57,50 €

Un assaggio dello spettacolo :



Blackswan, sabato 28/01/2012

venerdì 27 gennaio 2012

MEMENTO




Se questo è un uomo

Voi che vivete sicuri
Nelle vostre tiepide case,
voi che trovate tornando a sera
Il cibo caldo e visi amici:
Considerate se questo è un uomo
Che lavora nel fango
Che non conosce pace
Che lotta per mezzo pane
Che muore per un sì o per un no.
Considerate se questa è una donna,
Senza capelli e senza nome
Senza più forza di ricordare
Vuoti gli occhi e freddo il grembo
Come una rana d'inverno.
Meditate che questo è stato:
Vi comando queste parole.
Scolpitele nel vostro cuore
Stando in casa andando per via,
Coricandovi alzandovi;
Ripetetele ai vostri figli.
O vi si sfaccia la casa,
La malattia vi impedisca,
I vostri nati torcano il viso da voi.


(Primo Levi, Se questo è un uomo, 1947)

WHEN I'M SIXTY FOUR

A volte esiste anche una cronaca minore, quasi personale, che permette comunque di parlare ad ampio raggio.
Qualche giorno fa un mio amico mi racconta che la madre gli ha telefonato mentre lui era a Londra per lavoro e gli ha detto di avere pagato lei i 1800 Euro che lui doveva a quei suoi due amici per il computer nuovo.
Lui non aveva mai comprato alcun computer e sentiva la voce della madre alterata, quindi le chiede dove si trova in quel momento, ma lei di preciso non lo sa.
Le chiede cosa vede intorno a se, lei descrive un luogo a lui noto, fortunatamente vicino a casa, lui chiama un amico che lavora lì vicino e lo prega di recuperare la madre e di portarla al pronto soccorso.
Era stata avvicinata da due truffatori, ingannata, derubata della somma in questione e poi seminarcotizzata perchè loro potessero fuggire più tranquilli.
Un paio di settimane fa una cosa analoga era accaduta in Brianza, in quel caso 3000 Euro a ristoro di un inesistente sinistro auto.
Il figlio capisce subito l'accaduto e rassicura la madre, ma il problema è che a quel punto anche lei capisce.
Capisce di non avere più difese verso gentaglia che un tempo avrebbe divorato, e si vergogna.
Si vergogna a tal punto che va in cucina e trangugia una bottiglia di Niagara liquido per sturare i cessi.
Il marito la sente rantolare ma ora che arriva l'ambulanza lei è già grave, e muore in ospedale.
Muore di vergogna.
Come altri anziani muoiono di fame e di stenti, o almeno vivono male, perchè quando ero piccolo non c'erano vecchi che chiedevano l'elemosina e invece adesso ci sono.
Un giorno sì e uno no vengo avvicinato da anziani dignitosi, che con vergogna mi chiedono un Euro per poter fare un po' di spesa.
E allora penso a che cosa sia diventato ormai l'essere vecchi.
Quando ero piccolo i nonni erano figure mitiche, punti di riferimento assoluti, e anche se non li si frequentava molto erano comunque circondati di un'aura di rispetto intangibile, che sembravano avere conquistato sul campo nel corso dei loro molti anni.
Ed oggi?
Oggi c'è questa pseudo lunghissima età di mezzo, per cui dai venti ai settanta si è almeno in apparenza tutti uguali, tutti in jeans e tutti scialli.
Ma il tempo esiste, e io cedo il posto in metropolitana sapendo che nessuno lo cederà a me quando farò fatica a stare in piedi, perchè conterò poco agli occhi degli altri.
Secoli di cultura intrisi di venerazione per i più anziani, i seniores, da cui senatores, e non era la sclerotica adorazione del passato bensì la memoria, che è poi la storia e quindi la coscienza.
Tutto bruciato in favore di un giovanilismo d'accatto che è solo un alibi per l'indifferenza di una società morente.
I Beatles l'avevano capito per primi, e se lo chiedevano.
Avrai ancora bisogno di me, mi preparerai ancora da mangiare quando avrò sessantaquattro anni?

giovedì 26 gennaio 2012

ROCK WORLD CHAMPIONSHIP : ENGLAND !!!!!


Si è conclusa 3 a 2 per l'Inghilterra la bellissima finale che ha visto fronteggiarsi la compagine britannica e quella a stelle e strisce. Un partita emozionante e combattutissima, giocata a viso aperto e senza esclusione di colpi da parte di due squadre in salute e ben organizzate. L'inghilterra è passata subito in vantaggio con un bel colpo di tacco di Lennon imbeccato da una spizzata di testa di Robert Smith sugli sviluppi di un calcio d'angolo battuto da Paul Morrissey. Un goal che ha acceso gli animi dei contendenti per un presunta posizione di fuorigioco del leader dei Beatles, poi smentita dalle immagini. Gli Stati Uniti non si danno tuttavia per vinti, e nonostante il goal a freddo iniziano ad attaccare con vibrante ardore. Fino a quando, un ispiratissimo Zappa, dopo un secco dribbling a centrocampo che lascia sul posto due avversari, con un preciso diagonale smarca Hendrix, che a tu per tu con Keith Moon non sbaglia. Il secondo tempo, si apre all'insegna dell' Inghilterra che passa in vantaggio con un preciso colpo di testa di Robert Plant imbeccato da un morbido drop di Mick Jagger, il quale, dopo poco, a seguito di una travolgente azione personale, segna il terzo goal, lasciando di sasso la disattenta retroguardia americana. A cinque minuti dalla fine, è Springsteen ad accorciare le distanze con una gran botta dal limite, anche se ormai è troppo tardi. L'ultimo disperato forcing della compagine statunitense, infatti, produce un'altra bella occasione, malamente sciupata da un evanescente Iggy Pop, che non ottimizza un bell'assist di Johnny Cash . E' festa grande per l'Inghilterra che alza una coppa strameritata, figlia di un gioco spumeggiante e, nel contempo, estremamente efficace.
Il Capitano della formazione inglese,Lennon, esulta per la vittoria finale
UN DOVEROSO OMAGGIO AI CAMPIONI  :



Un grazie di cuore a tutti quelli che hanno partecipato. Alla prossima.
Let's Rock !

THE ROOTS - UNDUN


Lassù a nord est, appena valicati i confini del pianeta rock, esiste un territorio hip-hop abitato dalla tribù dei The Roots, popolo di archeologi, che declinando il verbo rap con originalità, dedicano la propria esistenza alla riscoperta delle radici della black music. Venticinque anni di attività, tredici album pubblicati, di cui alcuni di grandissimo livello ( " Things Fall Apart " e " Phrenology " ), singoli bomba ( "Got Me " ), collaborazioni eccellenti ( Erykah Badu, D'angelo, Mos Def, John Legend, Booker T. ), e soprattutto un'originalità espressiva che manca a molti colleghi di genere.Frutto di questa febbrile creatività, "Undun " si presenta con un'anomala struttura da concept album, dal momento che i testi raccontano la storia di Redford Stephens ( personaggio nato dalla fantasia di Sufjan Stevens, che qui compare in un campionamento ), giovane che per emergere da una vita ai margini sceglie la strada della violenza e della criminalità. Un tema tanto impegnativo quanto cupo, sviluppato però in un contesto musicale che cerca percorsi alternativi alla cruda essenzialità del rap ( che tante gangster story ha raccontato ). Se la struttura portante, e non potrebbe essere altrimenti, è quella di un hip hop raffinato ( ma in un'accezione positivamente tecnica ), l'architettura d'interni genera un art work in cui la grande anima nera del gruppo ( soul, r'n'b, gospel ) si fonde con marcati accenti di derivazione rock, curiose, ma efficacissime, partiture orchestrali e bizzarri inserti free jazz ( "Will To power" ). Un disco, " Undun ", a cui fa difetto solo un pò di solare sensualità per poter essere accostato a " Fly Or Die " dei N.e.r.d., ma a cui non manca invece qualche picco compositivo che per intuizione e fascino raggiunge il medesimo livello compositivo di quell'inarrivabile capolavoro.Tra le canzoni davvero di livello giova ricordare la struggente e corale " I Remember ", la malinconica e rassegnata  "Tipe The Scale " ( una sorta di "7 Seconds " in chiave hip hop ) e il soul sfacciatamente melodico di "The Otherside ".




VOTO : 7
Blackswan, giovedì 26/01/2012

mercoledì 25 gennaio 2012

BIKO - PETER GABRIEL

Nel 1973 le Nazioni Unite votano all'unanimità una convenzione con cui l'apartheid viene proclamato crimine contro l'umanità.E' un passo avanti fondamentale per il riconoscimento dei diritti dei neri, che viene recepito in tutto il mondo.Tranne in Sudafrica, dove il razzismo è così radicato che quella convenzione vale meno della carta straccia. A Pretoria, vive un giovane attivista di colore che si da un gran da fare per combattere la segregazione.Si chiama Stephen Biko e lo conoscono tutti, perchè nel 1970, a soli 24 anni, ha fondato il Black Consciousness Movement ( Il movimento per la coscienza nera ), tramite il quale opera a livello politico, sindacale e studentesco, coagulando intorno a sè anche i consensi dell'opinione pubblica internazionale e, quel che più conta, le simpatie dei sudafricani bianchi e progressisti.E' un personaggio scomodo, Stephen, inviso ai nazionalisti del National Party  non solo perchè è nero, ma perchè è colto, pacifista, determinato. Biko è uno che non molla mai, organizza manifestazioni e comizi, visita le bidonville, fa proseliti ovunque. Ma soprattutto scrive, e le sue parole sanno convincere, toccano il cuore della gente, distribuiscono consapevolezza. La sera del 18 agosto 1977, Stephen sta tornando a casa dopo una giornata passata nella sede del movimento. A un posto di blocco viene fermato dalla polizia sudafricana.Forse aspettano proprio lui, o forse lo fermano quando lo riconoscono dai documenti. Perchè quel nome, Biko, per un bianco razzista suona come il nome di un eversore, di un criminale. Lo arrestano con la scusa di un controllo di routine e lo traducono nella prigione di Walmer Street a Port Elisabeth. Qui c'è una stanza, la numero 619, dove la polizia interroga i sospettati. Con Stephen ci vanno pesante: per più di venti giorni lo torturano, lo picchiano a sangue, lo privano del sonno e del cibo. Lui non si arrende, anche perchè non ha nulla da nascondere, niente da confessare: non è un terrorista ma un attivista, quello che fa, lo fa alla luce del sole, pacificamente.L'incubo tuttavia non cessa e le torture continuano, in un'escalation di privazioni e violenze, che ha un tragico epilogo. Perchè Biko morirà il 12 settembre del 1977 durante il trasferimento dal carcere di Port Elisabeth verso un'altra prigione. Ha la teca cranica sfondata, probabilmente da un colpo di spranga o di manganello. Le fonti ufficiali della polizia parlano di decesso dovuto a un volontario sciopero della fame, ma tutti conoscono la verità, tutti sanno che Biko è stato torturato a morte. Lo sa il popolo nero sudafricano, che trasforma il suo funerale in una manifestazione epocale di sfida al regime e di protesta; lo sa l'opinone pubblica internazionale, che condanna duramente il governo di Pretoria; e lo sa Peter Gabriel, che oltre a essere un raffinato musicista è anche un uomo che si spende in prima persona a favore dei diritti civili.Quando nel 1980, l'Arcangelo Gabriele pubblica il suo meraviglioso terzo album, il cuore pulsante del disco è una canzone intitolata proprio " Biko ". Non usa mezzi termini, Gabriel, perchè vuole che il ricordo di ciò che è successo all'attivista sudafricano si imprima in modo indelebile nella testa e nel cuore di chi ascolta.Cita le date, parla della stanza 619, racconta le torture, inserisce nel testo un'invocazione in xhosa, la lingua di Nelson Mandela :Yihla Moja, Yihla Moja ! ( "Vieni spirito! " ). E soprattutto, dal vivo, esegue la canzone a chiusura della scaletta, in modo che il pathos del racconto e lo struggimento della memoria siano l'ultima sensazione che il pubblico porti con sè prima di tornare a casa. In piedi, tutti in piedi, il pugno chiuso rivolto verso il cielo, e un'unica voce che canta :

“You can blow out a candle
But you can't blow out a fire
Once the flames begin to catch
The wind will blow it higher
Oh Biko, Biko, because Biko
Yihla Moja, Yihla Moja !
The man is dead”





Blackswan, mercoledì, 25/01/2012

martedì 24 gennaio 2012

NON C'ERO, E SE C'ERO,NON ME NE SONO ACCORTO


Non ho assolutamente intenzione di entrare nel merito di una vicenda, quella che riguarda il naufragio dell'isola del Giglio, che sta diventando giorno dopo giorno una sorta di reality a base di sensazionalismo d'accatto e piccole o grandi storie di dolore.Tuttavia, c'è una dichiarazione surreale del comandante Schettino che mi ha dato lo spunto per qualche  riflessione. Dice, infatti, il capitano, che lui non ha volontariamente abbandonato la nave, come gli viene imputato dai pm in base alle intercettazioni telefoniche e a svariate testimonianze, ma si è trattato invece di un caso fortuito, di una fatalità. Mentre coordinava le operazioni di soccorso, un brusco movimento dello scafo gli avrebbe fatto perdere l'equilibrio e sarebbe così caduto in una scialuppa, arrivata poi a terra prima delle altre. Un pò come dire che gli asini volano, la terra è piatta e il Lecce vincerà lo scudetto.Chi di noi si sognerebbe mai di sostenere una di tali avventurose ipotesi ? Nessuno,credo. Nella vita a tutti è capitato di sbagliare e tutti abbiamo pagato le conseguenze dei nostri errori. Magari ci siamo difesi, abbiamo protestato, ma alla fine, bene o male, abbiamo ammesso di aver fatto una cazzata e chiesto scusa. E' una questione di buon senso e di dignità. Eppure, se ci fate caso, una certa Italia cialtrona, che fa e disfa senza rispetto alcuno per le regole e la morale, trova altrettanto facile, una volta pizzicata a violare la legge, deresponabilizzarsi, inventando scuse dai connotati farseschi, forse nella convinzione che tutti finiscano davvero per bersele. Mi viene in mente quello pseudo studente, assurto agli onori delle cronache con il nome di " Er pelliccia ", che durante i sommovimenti romani dell'autunno scorso, fotografato nell'atto di lanciare un estintore, si giustificò dicendo che cercava di spegnere un incendio. Così come mi torna alla mente quel Ministro che abitava un attico vista Colosseo a sua insaputa o quel sottosegretario che, sempre a sua insaputa, si faceva pagare le vacanze da un noto corruttore. O ancora, è l'esempio più surreale di tutti, quello di un capo di gabinetto che, accusato di sfruttare una giovane prostituta, si difese dicendo che si, la pagava, ma solo perchè non si prostituisse. Un tempo questa gente, avrebbe cercato di discolparsi con un laconico, ma rispettabilissimo : " Sono innocente, non ho fatto nulla ! " . Oggi, invece, quando li portano via ammanettati, nel migliore dei casi lamentano un complotto mediatico ordito dalla "solita" stampa o suggeriscono di essere state vittime di un inesplicabile allineamento di asrtri.. In questo paese, di sua spontanea volontà, nessuno sbaglia mai, nessuno è responsabile, nessuno ha il buon gusto di scusarsi. Così, quando il malfattore viene messo con le spalle al muro, il meglio che sa fare è ammettere :" Si, è vero, c'ero, ma non me ne sono accorto". Quasi quasi è più dignitoso quel trafficone che, una volta associato alle patrie galere per uno svariato numero di reati, cercava di suicidarsi con dei cerotti, applicati al naso. Il che è tutto dire.
Blackswan, martedì 24/01/2012

lunedì 23 gennaio 2012

THE UNTHANKS - DIVERSIONS VOL. 1 ( THE SONGS OF ROBERT WYATT AND ANTONY & THE JOHNSONS )

Rachel e Becky Unthanks sono le voci sublimi di uno dei gruppi folk più interessanti in circolazione.Folk inglese, naturalmente, dal momento che la band proviene dal Northumberland ( regione del nord est dell'Inghilterra ), ma rivisatato in modo leggiadro, cameristico, lontano mille miglia dai suoni un pò caciaroni che vivacizzano le serate di un pub. Le due ragazze, che godono di un background musicale non indifferente, oltre a rilasciare album originali ( il seducente " Last ", uscito la scorsa primavera ), si divertono, e non poco, con le cover, tanto da aver avuto l'intuizione di questo progetto, chiamato " Diversions ", in cui  propongono serate a tema, reinterpretando il repertorio di artisti più o meno noti. Il cd di cui si stiamo parlando fotografa per intero una di queste serate, tenutasi alla Union Chapel di Londra una notte di dicembre del 2010, in cui le Unthanks, si esibiscono in due diversi set, il primo relativo alle canzoni di Antony Hegarty, al secolo meglio conosciuto come Antony and The Johnsons, e il secondo nel quale rivisitano alcuni dei più noti brani di un mostro sacro quale Robert Wyatt. Un disco ambiziosissimo nei contenuti, e quindi rischioso ai limiti dell'incoscenza nella realizzazione. Perchè se è vero che queste quindici canzoni sono tanto belle che avrebbero una resa pazzesca anche se interpretate da Toto Cotugno, è anche vero che il paragone con gli originali è come una spada di Damocle che pende sul capo di chiunque si cimenti nel reintepretarle. Poteva, insomma, venirne fuori un pasticcio o un lavoro esclusivamente referenziale di clonazione senz'anima. Invece, le Unthanks sfornano un live act da brividi, regalando alcuni momenti di musica davvero celestiali, in cui a un'indiscutibile eleganza formale si affiancano palpiti di commossa partecipazione. E' il caso di una struggente " Man Is The Baby " di Antony, tutta giocata sull'esasperazione del tema pianistico, e di una lentissima " Sea Song " di Wyatt, che non perde un briciolo della sua intrinseca drammaticità. E' interessante notare anche il diverso approcio ai due distinti repertori : Rachel e Becky si accostano a Antony con un piglio di voluttoso sperimentalismo nella costruzione delle melodie, mentre nei confronti di Wyatt, si percepisce in ogni nota una religiosa devozione e una cura quasi filologica dell'interpretazione. Il risultato è comunque un disco seducente, vibrante e a tratti commovente che, considerato  il nitore della registrazione, merita ripetuti ascolti in cuffia. Da non perdere.



VOTO : 8
Blackswan, lunedì 23/01/2012

domenica 22 gennaio 2012

GUITAR HEROES : EDDIE COCHRAN

Eddie è un ragazzino con un carattere forte, uno che non si da mai per vinto. Ama la musica più di ogni altra cosa e il suo sogno è quello di suonare la batteria nell’orchestra della scuola. Ma per poter suonare la batteria, gli impongono di studiare pianoforte. A Eddie il piano proprio non piace, e decide pertanto di cimentarsi con il trombone. Ma dopo un paio di lezioni viene scartato : la conformazione delle sue labbra  non è compatibile con gli strumenti a fiato. Sconsolato, il piccolo Cochran torna a casa e chiede al fratello, che strimpella la chitarra, di insegnargli qualche accordo. In pochi mesi Eddie diventa un chitarrista tanto provetto che a sedici anni fonda, con un altro ragazzino suo omonimo, i “Cochran Brothers”. I due suonano country, hanno un discreto successo locale, incidono qualche 45 giri. Tuttavia Eddie non è soddisfatto : ha un pallino per Elvis The Pelvis,  gli piace il rock’n’roll, non ne può più dei melensi suoni tradizionali, lui si sente nero nell’anima. Molla l’amico e prosegue la carriera in solitaria, arrivando subito al successo con una bella cover di “Twenty Flight Rock “ di Presley. Nel 1957, pubblica il suo unico album, “Singin ‘ To My Baby “, e diventa una stella di prima grandezza, tanto da guadagnarsi anche delle comparsate in qualche pellicola dell’epoca. Ma il meglio deve ancora venire, perchè Eddie nel giro di un paio d’anni ( tra il 1958 e il 1959 ) sforna singoli a ripetizione, tre dei quali diventano veri e propri classici del rock’n’roll : “ C’Mon Everybody “, “Somethin’ Else “ e la micidiale “ Summertime Blues “. La sua figura è ormai leggendaria, tanto che lo vogliono a suonare in ogni angolo del globo. Nel 1960, vola, quindi, in Inghilterra, dove la sua popolarità è alle stelle e dove annovera, fra le numerose schiere di fans, anche giovani musicisti del calibro di Paul Mc Cartney, John Lennon e Pete Townsend. Durante il tour in terra d’Albione, Eddie si accompagna a un altro rocker americano, Gene Vincent, e si esibisce spesso anche con una stella locale, Billy Fury. Il successo è enorme, ogni data registra il tutto esaurito. La turnee  si conclude a metà aprile : Eddie è stanchissimo, logorato dai ritmi frenetici di quel vagabondare da un lato all’altro dell’isola. Decide così di anticipare il ritorno a Londra, dove lo aspetta l’aereo che lo riporterà in patria, e la notte del 16 aprile 1960 sale in auto insieme a Gene Vincent, alla fidanzata Sharon Sheeley, al manager Pat Thompkins e all’autista George Martin.L’auto percorre la strada statale A4 ad una velocità folle.L’autista si accorge all’ultimo momento di aver sbagliato strada, sterza repentinamente per imboccare una laterale, ma perde il controllo del veicolo, che completamente impazzito si schianta contro un lampione. Se la cavano tutti, tranne Eddie, che viene sbalzato fuori dal tettuccio e ricade  sull’asfalto battendo la testa. Morirà alle prime luci dell'albra del 17 aprile, all’età di soli 21 anni. Eppure, nonostante la brevissima carriera, il modo di suonare di Cochran lascerà un’impronta indelebile nella storia del rock. Suonava duro, Eddie, scarno e senza fronzoli, e pur non possedendo una tecnica sopraffina, introdusse alcune novità che parecchi, negli anni a venire, cercarono di copiare : l’uso di linee armoniche equivalenti per il basso e la chitarra, contaminazioni country nei suoni rock’n’roll, l’utilizzo dello slap bass.La sua prima chitarra in assoluto fu una Gibson, ma nell’immaginario collettivo, Cochran se ne sta lì, in mezzo al palco, con a tracolla una Gretsch rossa fiammante.



Blackswan, Domenica 22/01/2012

sabato 21 gennaio 2012

TRACY CHAPMAN - TRACY CHAMPMAN

Talvolta la musica rock è fatta di una sostanza diversa dal puro divertimento, può essere infatti veicolo di cultura, di pensieri nobili, di riflessioni decisive. Ci sono musicisti che tramite le loro canzoni hanno rivoluzionato il mondo, consegnando a intere generazioni uno strumento semplice e comprensibile per aprire gli occhi sul degrado di una società, sull’ abominio della guerra, sulle logiche profittatorie del potere, sulla violenza cieca che sottende il razzismo. Si pensi al folk militante di Dylan, alla "Macchina che uccide i fascisti " di Guthrie, all’epica dei perdenti narrata da Springsteen, al cantautorato colto del nostro De Andrè, al rap-metal  politicizzato dei Rage Against the Machine, al funky bianco e barricadero dei Gang of Four, al punk internazionalista e rivoluzionario dei Clash. In questa lista, incompleta per ovvi motivi di spazio, ha un ruolo di primissimo piano Tracy Chapman, che nel 1988 esordisce con un disco che lascia a bocca aperta il mondo. Timida, gentile, riservata ai limiti della misogenia, Tracy ha solo ventiquattro anni  quando decide di prendere una chitarra in mano e trasformare in note la propria visione anticonformista della società e del mondo.
Personalmente, devo molto all'esordio della folker di Cleveland, alle sue parole dure e senza fronzoli, alla rabbia usque ad finem delle sue composizioni. Ero giovane, studiavo, leggevo, ma ero ancora confuso, non riuscivo a dare forma compiuta a i miei pensieri, non riuscivo a collocare politicamente le mie azioni, le mie emozioni, le mie passioni. Sentivo crescere in me la voglia di cambiare il mondo, di sconfiggere il sistema e le ingiustizie, senza tuttavia sapere da che parte iniziare. Mi professavo di sinistra, ma era più una reazione al mondo borghese in cui crescevo, che una vera e propria scelta dovuta a un ragionamento politico. Per chi, come me, ha avuto un'educazione rigidissima, cattolica, consevatrice, non è facile, durante la crescita, scrollarsi di dosso i pregiudizi e le banalità concettuali di un apparato familiare reazionario e soffocante. E' come vivere con un muro erto innanzi agli occhi, sapere che dietro questo muro c'è un mondo diverso. Intuirne i suoni, i colori, le pulsioni e la vitalità, ma non riuscire a vederlo e ad assaporarlo.La bambagia cela, ottunde, e la vita non aspetta. Le letture di Pasolini, di Pavese, di Orwell, la musica dei Clash e di Dylan, la mia onnivora passione per il cinema, stavano erodendo sistematicamente, ma anche troppo lentamente, questo muro. Poi, successe qualcosa, un evento apparentemente insignificante, che  però mi regalò la pienezza della vista, dopo un lungo periodo di quella confusa cecità così ben descritta da Saramago, riuscendo  a distruggere in un attimo ciò che anni e anni di assiduo lavorio erano riusciti solo a danneggiare ma non ad abbattere. Ascoltai " Talkin'About A Revolution " e fu la picconata fatale, decisiva, a quella distanza che ancora mi mancava per raggiungere la consapevolezza. Questa giovane ragazza di colore, la sua rabbia senza compromessi, la sua delicata e discretissima decisione, cambiarono per sempre la mia vita. Mi rammento addirittura il frangente. Un mattino di tanti anni fa, a passeggio su una spiaggia di sassi della Liguria, complice un walkman e le parole :"...Poor people gonna rise up, and get their share..".In un lampo compresi perfettamente da che parte stare, che la mia barricata sarebbe stata per sempre quella della gente comune, degli oppressi, degli infelici. Vivere sapendo che non esistono altre ricchezze al mondo che non siano la cultura, l’azione coerente e la parola cristallina, l'amore per gli altri. Mi parve subito tutto chiaro. Tornai da quelle breve gita con in dono una giovinezza diversa e con l’imperativo morale di non venir mai meno al senso di quell’intuizione. Ecco perché adoro questo pugno di canzoni fragili ma dirette,  costruite intorno alla voce vibrante della Chapman e a melodie che fanno della semplicità il loro punto di forza.Quanto mi piace questo folk che presidia, come sentinella intransigente, il crocevia fra America e Africa, che richiama alla mente la Joni Mitchell di "Blue ", la sua scrittura intimista, leggera( eppure potentemente evocativa), e il crossover politicizzato di Joan Armatrading. Tracy Chapman spazia dal mondo degli oppressi alle malinconie del cuore, è universale quando denuncia, ma conosce anche i romiti più inaccessibili in cui si nascondono i languori dell’anima. Tracy canta il razzismo ( " Across The Lines " ), canta di poveri che si ribellano ( la citata " Talkin’ About A Revolution " ), canta delle violenze sulle donne ( il tormentato a capella di " Behind The Wall " ), di bimbi che muoiono di fame e di guerre che ci devastano ( " Why " ), di macchine veloci che, in un'immedesimazione springsteeniana,  possono portare altrove, a un'altra ipotesi di vita ( " Fast " ). Eppure, la cantautrice dell'Ohio, così attenta al sociale, è capace anche di dipingere acquarelli leggiadrissimi di amori in costruzione ( " If Not Now " ), di amori che fanno perdere il controllo ( "For You " ), di amori che sanno scalare le mura di un carcere solo per seguire l'istinto del cuore ( " For My Lover " ). Tracy commuove, ti prende la gola, ti rende partecipe, ti fa sentire protagonista delle storie che racconta. Perchè  il merito di  questo disco non è solo la vibrante poesia metropolitana di un pugno di canzoni meravigliose. Sopra ogni cosa, ciò che davvero fa la differenza, è quel moto dello spirito che avvicina l’arte alla vita, che trasforma l’immaginifico del racconto in esperienza reale.La dote che ha trasformato “ Tracy Chapman “ in un capolavoro si chiama sincerità. 





Blackswan, sabato 21/01/2012

venerdì 20 gennaio 2012

LITFIBA – GRANDE NAZIONE

Lo ammetto : nei confronti di questo disco ero fortemente prevenuto per due ordini di motivi. Il primo, che ha ben poca importanza, è che i Litfiba non mi hanno mai convinto abbastanza, per colpa, ritengo, di una mia personalissima antipatia istintuale nei confronti di Piero Pelù e del suo modo un po’ gigione di cantare. Capita. La seconda, maggiormente suffragata da elementi oggettivi, è che nella musica, come nella vita, le minestre riscaldate spesso e volentieri sanno di poco, e se sanno, il gusto difficilmente  entusiasma come la prima volta. Pertanto, ho mandato in loop il cd per 24 ore, cercando di non pensare al passato, di infischiarmene dei pregiudizi e di concentrarmi esclusivamente sulla musica, come se a suonarla fosse una band esordiente e non un'italica leggenda rockettara. Il risultato è stato quanto meno curioso. Perché su questo disco, per quanto uno cerchi di obiettivizzare, è impresso il marchio di fabbrica del gruppo : le undici canzoni del lotto suonano smaccatamente Litfiba ( si pensi a “ Terremoto “ e il gioco è fatto ), da qui non si scampa. L’album è compatto, omogeneo, ruvido al punto giusto e i brani filano via in scioltezza, senza picchi particolari , ma fortunatamente senza trucchi e senza inganni. Eppure, nonostante un’ovvia sensazione di deja vù, quello che davvero intriga è lo spirito. Nessuno stanco tentativo di rispolverare l’antica gloria ( “17 Re “ è lontano mille miglia ), ma un onestissimo approcio energetico ed  energizzante. Perché “Grande Nazione “ è un disco fottutamente rock, intriso, se mi si consente l’espressione poco ortodossa, di un cazzodurismo ad oltranza, senza se e senza ma. Ghigo Renzulli sfodera riff in produzione seriale,e non cerca mai il compromesso piacione da classifica. E anche Pelù, abbandonate le inascoltabili derive poppettare, sembra aver riscoperto un’anima rock che, da solista, sembrava aver perduta per sempre. Peraltro, a mio avviso, canta anche meglio, è più composto, meno teatrale, e perciò più efficace. Se poi è vero che i testi  non risultano essere particolarmente brillanti, non dispiace tuttavia lo sguardo, forse un po’ tranchant, ma sincero, sull’irreversibile depauperamento etico e culturale del nostro paese. Il che, considerato come sta messo il mainstream nostrano in fatto di rock ( il meglio che possiamo annoverare sono Ligabue e Vasco Rossi, vedete un po’ voi come stiamo messi ), è tutto grasso che cola.

VOTO : 6,5



Blackswan, venerdì 20/01/2012

giovedì 19 gennaio 2012

MY WAY - FRANK SINATRA


Florida, 1968. Paul e Frank, amici di vecchia data, sono a cena. E' una serata uggiosa, di quelle che immalinconiscono gli animi. I due mangiano, bevono, e soprattutto parlano. Frank è un fiume in piena : è stanco, depresso, vuole lasciare il mondo della musica da cui non trae più le soddisfazioni di una volta. Paul cerca di consolare l'amico e di ricondurlo a più miti propositi, ma non c'è verso. Quando si salutano, Paul, seriamente preoccupato, torna a New York, dove risiede e lavora abitualmente.Cerca di riprendere la propria vita, ma un pensiero, un sottofondo di disagio, continua a tormentarlo. Nei giorni successivi a quell'incontro, continua a ripensare a Frank, alla sua angoscia, ai quei mesti propositi d'abbandono. In particolare, prendono incessantemente forma nel suo cervello, quasi fossero un ipnotico mantra, alcune parole : " And now, the end is near...". C'è qualcosa di struggente in quelle parole, un presagio di sconfitta, di morte,qualcosa che si adatterebbe benissimo al testo di una malinconica canzone. Già, ma la canzone ? Paul ci pensa e si ricorda che l'estate precedente, durante un breve soggiorno nel sud della Francia, aveva acquisito gratuitamente i diritti di un brano dal titolo " Comme D'Habitude ", composto da Jacques Raveaux  e portato al successo Claude Francois. La canzone, nella versione francese, era il racconto disperato di un amore finito, di un uomo sconfitto nei propri affetti, per cui la vita, privata della fiamma della passione, si era trasformata in una routine banale e senza senso. Paul ascolta la canzone una decina di volte. Sembra perfetta. Ma lui sta pensando a Frank, e il testo dev'essere diverso, deve parlare d'altro, non d'amore. E' tardi, ma si mette al lavoro egualmente. Scrive di getto, le parole vanno sulla carte rapidamente, si incastrano alla perfezione l'una con l'altra." For what is man, what has he got, if not himself, then he has not... ". Paul racconta la storia di Franck, la storia di un uomo che, giunto al limitare della vecchiaia, ripensa a ciò che ha fatto, tanto agli errori quanto alle gioie e ai successi, senza tuttavia rinnegare nulla, anzi ribadendo orgogliosamente le proprie scelte. Alle 5.00 del mattino il testo è completato. Paul prende in mano il telefono e chiama Frank, che alloggia a Las vegas, al Ceasar's Palace, e che in quel momento sta dormendo. Frank si sveglia di soprassalto, e ancora mezzo addormentato, ascolta incredulo la voce dell'amico che gli racconta della canzone, e di come sia perfetta per lui. Ha scelto anche il titolo, molto breve perchè composto da due sole parole inserite nel ritornello, che Paul, ne è sicuro, diventeranno un vero e proprio inno per intere generazioni. Frank ascolta con attenzione, è lusingato ma anche perplesso: lui vuole mollare tutto, è stanco di mettersi in gioco, stanco di quella vita vagabonda fra un palco e l'altro che lo sta logorando. Tuttavia, finisce per accettare la sfida, convinto soprattutto dalle insistenze di sua figlia Nancy, che vede in quel brano non solo una possibilità  per il padre di rilanciarsi in grande stile ma anche un probabile boom commerciale.E ha ragione. Perchè " My Way " diventerà una delle più famose canzoni della storia, un ever green fra i più coverizzati di sempre, e una vera e propria miniera d'oro per tutti e tre i protagonisti di questo racconto : Claude Francois, Paul Anka e Frank Sinatra.

Le circostanze riportate nel racconto sono autentiche, anche se mi sono permesso, senza stravolgere i fatti, di arricchire la storia di qualche particolare frutto della mia fantasia.Tra le cover più famose di " My Way " sarebbe un gravissimo reato d'omissione non citare la versione dissacrante e destrutturata che ne ha fatta Sid Viciuos, bassista dei Sex Pistols.
Blackswan, giovedì 19/01/2012

martedì 17 gennaio 2012

UN UOMO

Adriano Sofri è libero.
Non per chissà quali machiavellici istituti di diritto penale o penitenziario ma per il puro e semplice decorso della pena.
Ventidue anni di carcere per una condanna tutto sommato emessa all'esito di un processo indiziario, perchè senza le dichiarazioni del pentito e parrebbe ben remunerato Marino, Sofri sarebbe con ogni probabilità stato prosciolto per insufficienza di prove (come in un paese civile avrebbe dovuto accadere anche dopo le dichiarazioni di Marino).
Tuttavia non mi interessa qui discettare sul se ed in quale misura Sofri possa essere considerato il mandante, effettivo o morale, dell'omicidio del commissario Calabresi.
A mio modesto avviso, effettivo no, morale probabilmente sì, ma non è questo il mio tema.
Mi interessa invece evidenziare l'anomalia, l'antiitalianità di Sofri nel momento in cui per coerenza con la sua storia e con le sue idee ha sempre rifiutato di chiedere la grazia.
Non solo di pentirsi, ma anche di chiedere la grazia.
Se uno si pente, è un suo percorso su cui non c'è molto da dire in bene o in male.
Nemmeno la domanda di grazia è di per sè censurabile, perchè da nessuno si può pretendere la forza di soffrire a lungo.
Detto questo, e quindi senza giudicare in negativo storie diverse da quella di Sofri, non nego che vedere uno che resta se stesso e non si rinnega ogni tanto fa bene al cuore.
E come uomo di sinistra mi rende anche un po' fiero, di quella fierezza minore che ha a che fare con gli errori di ciascuno di noi e del modo in cui si decide di conviverci.
Il confronto, impietoso, è con quell'orrenda figura che risponde al nome di Cesare Battisti.
Un delinquente efferato, che ha compiuto gesti ignobili dietro la giustificazione fasulla di una lotta politica di cui non era degno nè capace, che ha goduto per anni della vergognosa protezione di certa intellighenzia della sinistra italo-francese (vergogna, vergogna!) e che è infine riparato in Brasile vincendo l'ennesima lotteria della sua bieca vita grazie all'incomprensibile posizione assunta dall'ultimo Lula.
Di quella persona non riesco neppure a parlare a lungo, perchè mi viene l'orticaria.
Sofri non è un angelo e non è un eroe.
E' stato maestro, non so quanto consapevole, di migliaia di adepti che tendevano ad applicare acriticamente i suoi precetti, ed in tale veste ha contribuito alla tragedia degli anni di piombo.
Che erano comunque anni confusi, ancora oggi di non facile interpretazione e nei quali una vasta parte della società (quorum ego) si riteneva chiamata ad una lotta di liberazione che non faceva sconti e non prevedeva il galateo.
Però Sofri è un uomo, per dio, con la dignità delle sue posizioni mai rinnegate (anche se certamente rimeditate) e soprattutto di un prezzo, non lieve, richiestogli e da lui pagato fino in fondo.
Lo saluto quindi, nella sua ritrovata libertà, e con lui saluto tutti quelli che hanno lottato credendo di far bene.

THE BEACH BOYS - SMILE SESSIONS


Nel mondo onnivoro del music businnes, che tutto mastica e rimastica alla velocità della luce senza un minimo di spirito critico, si rischia di dare come scontate alcune presunte verità dogmatiche, finendo così per incappare in equivoci clamorosi. I Beach Boys, ad esempio, resi celeberrimi da alcune canzoni di straripante impatto melodico ( vi ricorderete immediatamente della loro cover di "Barbara Ann", o di quel tormentone senza tempo che porta il nome di "Surfin' Usa"  ), finiscono normalmente per essere archiviati, sic et simpliciter, come una band  di bubble-gum music, come cioè dei veri e propri maestri nel confezionare orecchiabilissimi singoli trita-classifica, che oggi si ascoltano con nostalgico trasporto per ricordare i bei tempi andati in cui la vita sembrava tutta surf, spiagge di sabbia fina, belle ragazze e feste al chiaro di luna. Una definizione, questa, solo parzialmente vera, e quindi approssimativa, fuorviante e grandemente inesatta. Perchè, che ci crediate o no, se ci si tiene  lontani da consumati luoghi comuni, si scoprirà che i Beach Boys sono stati, al pari dei Beatles, il gruppo più importante, innovativo e seminale della storia del rock ( vi ricorda qualcosa il punk tutto bollicine dei Ramones ? ). Anzi, la rivalità tra Beatles e Beach Boys ( molto più di quella leggendaria  fra Beatles e Rolling Stones ) fu davvero una singolar tenzone senza esclusione di colpi, combattuta a distanza fra i due geni straripanti di Brian Wilson e John Lennon. Nel maggio del 1966, Wilson, stimolato e "indispettito" dall' uscita di "Rubber Soul ", accetta l'implicita sfida e compone quello che nelle intenzioni avrebbe dovuto essere il più grande disco rock di tutti i tempi , dando così alle stampe " Pet Sounds ". Risultato raggiunto agevolmente ( "Pet Sounds" è davvero il suono nuovo ), ma solo per pochi mesi, perchè i Beatles ad agosto rilanciano con " Revolver ", il primo di una serie inarrivabile di capolavori. Uno a uno, e palla al centro. Lennon e McCartney, al top del loro trip creativo,  iniziano allora a scrivere le canzoni di " Sgt. Pepper " ( che uscirà nel 1967 ed è tutt'oggi considerato il disco più importante della storia ) , mentre Wilson, di rimando, inizia a comporre  quella che lui stesso definisce " una sinfonia adolescenziale diretta da Dio ", un'opera tanto ambiziosa, che negli intenti dovrebbe rivoluzionare in modo definitivo le coordinate musicali del secolo. I Beach Boys si mettono a lavorare alacremente al disco tra l'aprile del 1966 e il maggio del 1967. La leggenda narra di ottanta interminabili sessioni di registrazione ( per registrare i tre minuti di " Good Vibrations " ci vollero 70 ore di lavoro e l'utilizzo di tre studi diversi ), di veri e propri deliri da ipercreatività visionaria (  il pianoforte suonato in una cassa piena di sabbia, la musica composta sul fondo di una piscina vuota, takes ripetute all'infinito aumentando sempre più le dosi di LSD ) e del febbricitante quanto maniacale perfezionismo di Wilson, che compromise definitivamente  i rapporti già traballanti con gli altri componenti del gruppo. Il disco, leggendario ancor prima di uscire, si sarebbe dovuto chiamare " Smile " e l'artwork per la copertina venne affidato a un giovane illustratore, Frank Holmes, appena uscito dalla scuola d'arte. Ma quando tutto sembrava pronto per la pubblicazione, il buon Brian uscì completamente di testa. Paranoia ( obbligava i musicisti a indossare elmetti da pompieri perchè temeva che la musica di Smile potesse essere causa di incendi- sic ! ), depressione, una sorta di regressione allo stato infantile, i contrasti sempre più duri con Mike Love e l'abuso di LSD indussero il cantante, prima a cercare di dar fuoco ai nastri delle registrazioni, poi ad abbandonare definitivamente il progetto, che quindi ( salvo qualche singola canzone ) non vide mai la luce. Almeno fino al 2004, quando Wilson, rielaborando le vecchie partiture, presentò, prima in tour, e poi su cd, la scaletta originaria di Smile. Il disco, che si aggiudico tre nomination ai Grammy Awards  ed ebbe un notevolissimo successo di critica e pubblico, non contribuì tuttavia a placare la curiosità intorno a quello che qualcuno ha sapientemente definito il Santo Graal del rock. La riedizione del 2004, infatti, per quanto fedele, resta comunque un'opera clonata, una filiazione che, seppur attendibile, suona più come un'artificiosa operazione filologica che non come il rinvenimento di un tesoro sepolto troppo a lungo sotto l'impolverata coltre del tempo. E' per questo che il box set di cui si sta scrivendo rappresenta un vero e proprio documento storico, la matrice originale di quasi mezzo secolo di mito e la prova provata dell'esistenza di un disco che, se avesse potuto vedere la luce allora, avrebbe definitivamente cambiato il corso degli eventi. " The Smile Sessions " è un cofanetto contenente diverse versioni dell'album ricostruite per mezzo delle registrazioni originali dell'epoca, insieme a molti provini e brani scartati. Un'opera indispensabile e preziosa non solo per fans accaniti del gruppo americano, ma soprattutto per coloro che amano così tanto la musica da voler fantasticare, come se fosse possibile aprire la porta di una dimensione parallela, quali sviluppi avrebbe potuto avere la storia del rock se un album del genere fosse stato pubblicato nel 1967. Un lavoro così complesso, ricco, visionario e avanguardistico, che riascoltato ora, mette in seria difficoltà anche le capacità di critica di chi, come noi, si può avvantaggiare di ben 44 anni di postuma obiettività. In queste canzoni troverete tutto e il contrario di tutto: connubi tanto azzardati da apparire ( anche oggi ) addirittura bizzarri, intuizioni melodiche dall'imprimatur divino e futuristiche declinazioni in salsa psichedelica di quasi ogni genere musicale ricompreso nello scibile umano. Un ascolto che può essere leggero con lo sbatter d'ali di una farfalla o impegnativo come lo studio approfondito di mezzo secolo di storia. Personalmente, dopo aver assimilato per sette anni la versione del 2004, ora, che sono immerso in queste versioni originali, mi pare di aver perso il bandolo della matassa.Ogni ascolto infatti è totalizzante, ma mai definitivo; ogni ascolto è un viaggio fra dimensioni spazio temporali non correlate e quindi destabilizzanti. Per raccapezzarmi, son costretto a tornare sempre lì, a " Good Vibrations ", l'unica certezza che ho. 70 ore di registrazione per tre minuti di musica che mi fanno pensare al volo psichedelico di un gruppo d'angeli in gita fuori porta, alla ricerca di visioni lisergiche da raccontare col sorriso sulle labbra una volta tornati in cielo. E' il mio biglietto d'ingresso per quel paradiso chiamato Smile e me lo tengo stretto.
 
VOTO : 10
 
 
Blackswan, martedì 17/01/2012