venerdì 27 dicembre 2024

Cemetery Skyline - Nordic Gothic (Century Media, 2024)

 


Più esplicito di Nordic Gothic è difficile. Se poi al titolo dell’album aggiungi anche una copertina livida e catacombale, è evidente quale sia il genere musicale sviscerato dagli scandinavi Cemetry Skyline (un nome, un programma). Questo è l’esordio, difficile dire se episodio estemporaneo o progetto duraturo, di un supergruppo svedese/finlandese che annovera fra le sue fila nomi notissimi del panorama metal: Mikael Stanne (Dark Tranquillity, The Halo Effect) alla voce, Markus Vanhala (Insomnium, Omnium Gatherum) alla chitarra, Santeri Kallio (Amorphis) alle tastiere, Victor Brandt (Dimmu Borgir) al basso e Vesa Ranta (Sentenced) alla batteria.

Una line up dal pedigree nobilissimo, musicisti tecnicamente inappuntabili e con una solida esperienza di songwriting alle spalle, dai quali ci si aspetterebbe un disco molto più pesante di quello che, in realtà, Nordic Gothic è. Ciò perchè l'idea principale che anima questo album era quella di fare qualcosa di diverso rispetto a ciò che ciascuno dei componenti della band ha fatto in passato, e il risultato finale è una scaletta lunatica, melodica e malinconica, in cui le sonorità estreme sono residuali in favore di un goth rock di facile fruizione, cantato (sorpresa delle sorprese) da Mikael Stanne con timbro tanto pulito quanto profondo e sensuale.

La band aveva attirato l'attenzione di tutti questa primavera al momento della pubblicazione del primo singolo, "Violent Storm", una canzone lontana anni luce da ogni clichè metal, un brano dall’incedere minaccioso, le cui atmosfere malinconiche e quelle tastiere dal suono vintage anni ’80 facevano semmai pensare a musica presa in prestito  dal songbook di Billy Idol. La linea melodica del brano è semplice eppure efficacissima, caratteristica, questa, comune alla maggior parte delle canzoni in scaletta, che guardano al cuore della notte, senza però mai rinnegare un tiro dritto e diretto decisamente rock, che richiama alla mente band come Cult, Mission o i più recenti Unto Others, e ritornelli uncinanti, che evocano i Ghost e, in alcuni casi, anche gli Him.  

Un ottimo esempio in questo senso è il secondo singolo, "In Darkness", il cui incedere aggressivo, chitarre potenti e ritmica quadrata, lascia spazio alla consueta vena melodica che lo rende un brano piacione e di immediata fruizione. Le cose cambiano un po' con il terzo singolo, "The Coldest Heart", la cui introduzione di basso, lo scintillante riff di pianoforte e il cantato da crooner di Stanne fanno pensare ai Simple Minds di "Once Upon a Time", mentre "Torn Away" è un evidente omaggio ai Sister Of Mercy e a quelle sonorità che spopolavano negli anni ‘80, così come l’incalzante "The Darkest Night", caratterizzata da un impressionante lavoro di Markus Vanhala alla chitarra.

Tra le cose migliori del disco, poi, occorre segnalare "When Silence Speaks", una ballata dolcemente malinconica, segnata dall’interplay fra pianoforte e violoncello e dalla prova vocale maiuscola di Stanne, mentre la lunga e ondeggiante "Alone Togher" chiude il disco con sentimento, ma minore efficacia e molta prevedibilità.

Nel complesso, Nordic Gothic è un disco assolutamente riuscito, testimonianza del fatto che anche musicisti con un diverso background, se animati da una visione comune, possono creare opere coese e ispirate. In tal senso, l’esordio dei Cemetry Skyline raggiunge l’obbiettivo di offrire all’ascoltatore cinquanta minuti di musica nebulosa, atmosferica e lunatica, capace di conquistare con canzoni dirette, prive di artifici, ma estremamente godibili.

Voto: 7

Genere: Goth Rock

 


 


Blackswan, venerdì 27/12/2024

giovedì 26 dicembre 2024

In My Place - Coldplay (Parlophone, 2002)

 


Una canzone d’amore disperata, la presa di coscienza di un rapporto che è finito perché lui ha commesso troppi errori (“I was scared, I was scared, tired and under prepared”). In My Place racconta, infatti, di un ragazzo che ama una donna che non lo ricambia più. Lui le chiede di tornare e le dice che l’aspetterà per sempre, anche se ormai non sa più se quel posto in cui attende sia il posto giusto per lui. Fu lo stesso Chris Martin a spiegare il significato della canzone a Billboard Magazine: "Riguarda il posto in cui ti trovi nel mondo, il modo in cui ti viene assegnata la tua posizione, il modo in cui appari e come devi andare avanti".

In My Place è stata scritta poche settimane prima che i Coldplay pubblicassero il loro album di debutto, Parachutes, ed è stata la prima canzone che la band ha registrato per A Rush of Blood to the Head. I Coldplay in seguito le attribuirono il merito di aver dato loro la fiducia necessaria per continuare dopo il travolgente successo dell’esordio. Martin ha ricordato a Q Magazine, nel 2002: "Dopo aver registrato Parachutes ci era rimasta una canzone: In My Place. A parte questo brano, eravamo a secco e ho pensato: "Ecco, abbiamo finito". Ma quando Jonny (Buckland, ndr) mi ha suonato con la chitarra quell’ultima canzone rimasta, ho pensato: "Bene, dobbiamo registrarla". E quella è stata la canzone che ci ha salvato."

Fu decisamente curioso ciò che avvenne il giorno in cui i Coldplay si trovarono in studio per registrare la versione definitiva di In My Place. Chris Martin è da sempre un grande fan di Ian McCulloch, cantante e fondatore della band originaria di Liverpool, gli Echo And The Bunnymen, di cui il frontman conosce a mena dito tutta la discografia.  E indovinate un po'? Mentre la band è pronta a suonare quel brano, McCulloch si presenta in studio per salutare i quattro giovani colleghi e, ciliegina sulla torta, per dare coraggio a un emozionatissimo Chris Martin, presta al cantante il suo caratteristico trench.

Anche se, come detto, il brano risale ai tempi di Parachutes, la band ha provato diverse versioni di questa canzone prima di decidere quella che sarebbe stata inserita nel loro sophomore, A Rush of Blood to the Head. Ciò accadde semplicemenrte perché la band aveva eseguito molte volte dal vivo In My Place, introiettando come definitiva quella versione, replicata per due anni sul palco, che, però, non sembrava adatta alla scaletta dell’album.

Gli sforzi delle numerose prove furono adeguatamente premiati: In My Place vinse Grammy Award per la migliore performance rock di un duo o gruppo, raggiunse la seconda piazza nelle classifiche del Regno Unito e conquistò il disco d’oro anche in Italia.

 


 

 

Blackswan, giovedì 26/12/2024

martedì 24 dicembre 2024

Juan Gomez - Jurado - Tutto Torna (Fazi, 2024)


 

Tutto ciò di cui Aura Reyes ha bisogno è rimanere viva altri dieci minuti. Non è un compito facile. Le altre sono quattro, sono più forti e lei - una figura accerchiata, nel cortile del carcere - non è mai stata brava a difendersi. O forse sì. Perché Aura deve riprendersi le sue figlie. E anche le sue amiche. È per questo che ha elaborato un piano che inizierà tra dieci minuti. Quindi no. Non ha intenzione di morire oggi. Fuori dal carcere la aspetta una nuova sfida: dovrà vedersela con i Dorr, una potente famiglia che nasconde molti segreti, la cui ultima erede, Irma, regge le fila di un misterioso Circolo. E c'è una preziosa valigetta da recuperare. Non si sa che cosa contenga, ma di certo il suo contenuto è potenzialmente esplosivo...

E’ evidente fin dal titolo, che Tutto Torna sia un’emanazione del precedente Tutto Brucia (2022), e sia, quindi, il seguito della storia di Aura, Mari Paz e Sere, di nuovo alle prese con l’universo Regina Rossa e i personaggi ricorrenti che ne fanno parte. Abilissimo nel creare interconnessioni tra il presente e il passato e tra quasi tutti i romanzi pubblicati fino a oggi, Gomez - Jurado crea un palpitante intreccio narrativo che vede le tre amiche misurarsi con un nemico apparentemente invincibile e un’avventura che sembra destinata a un epilogo esiziale.

Aura, che si trova reclusa in un carcere di massima sicurezza a causa di Ponzano, riesce a evadere grazie a un misterioso benefattore, che le chiede, però, di recuperare una preziosa valigetta. Non certo un’impresa facile, dal momento che quella valigetta è nel mirino di forze oscure e senza scrupoli, che mettono a repentaglio la vita delle due figlie di Aura. A difenderle e a prendersene cura, c’è Mari Paz, la quale, per salvare le due bambine, si trova ad affrontare dei killer spietati, durante una rocambolesca fuga attraverso una Spagna arroventata dalla canicola. Quando le cose precipitano, non resta che attuare un piano disperato, le cui possibilità di riuscita sono ridotte al lumicino.

Chi già conosce la prosa di Juan Gomez Jurado sa esattamente cosa aspettarsi da un suo romanzo. Per chi, invece, si approccia per la prima volta a un libro dello scrittore spagnolo (ogni storia vive di vita propria, ma sarebbe meglio leggere i romanzi in ordine cronologico), si troverà di fronte all’ennesimo thriller dall’elevato tasso di adrenalina, in cui i ritmi sono serrati e i colpi di scena si susseguono senza soluzione di continuità. Ciò, tuttavia, senza che venga mai meno la qualità della scrittura, che suona clamorosamente pop ed estremamente dinamica, ma che non è mai sciatta o banale, che sa restare in superficie per rendere più agili i tanti momenti d’azione, ma che sa anche rallentare il passo, per soffermarsi sull’introspezione psicologica dei personaggi o, come nello specifico, raccontare attraverso un brillante escamotage, la torbida storia della famiglia Dorr.

La buona notizia per i fan di Regina Rossa e di Aura, Mari Paz e Sere, è che il finale del libro apre a un nuovo capitolo, che si preannuncia emozionante come i primi due.

 

Blackswan, martedì 24/12/2024

lunedì 23 dicembre 2024

Jack White - No Name (Third Man Records, 2024)

 


Jack White è un musicista di successo, eppure, nonostante ciò, se ne fotte bellamente dell’industria discografica e dei tempi e delle modalità che ne regolano gli ingranaggi. Lui continua a essere un artista che fa le cose alle sue condizioni, quando ne ha voglia e in base all’ispirazione del momento. Non ha freni né pastoie, e galoppa libero negli sconfinati territori del rock, sperimentando a suo esclusivo piacere.

La storia di questo No Name è ormai nota. Il 19 luglio, nei negozi della Third Man Records, la piccola casa discografica indipendente di sua proprietà, ad alcuni clienti che acquistavano un album in vinile, venne regalato un album gratuito, non contrassegnato, con una copertina bianca su cui era semplicemente stampata la parola “No Name”: nessun credito e nemmeno il titolo dei brani. Poi, finalmente, dopo lo streaming, la versione fisica del disco, a beneficio di coloro che ancora ascoltano musica tramite supporto.

Sarò un boomer, anzi lo sono, ma questo album sparato a mille dalle casse dello stereo ha tutto un altro sapore, lo stesso che provai, tempo fa, ad ascoltare i dischi dei White Stripes. Un suono simile, e lo stesso approccio furente, spigoloso, slabbrato, sanguigno: un rock blues grezzo, declinato in modo schietto e diretto, attraverso una selvaggia inclinazione garage, che riporta alle radici di quel suono nato negli anni ’60. I White Stripes, dunque, ma con una maggiore consapevolezza compositiva: riff di chitarra come se piovesse, e un drumming primitivo che ricalca quello di Meg.

Per i fan della band e del Jack White più elettrico e aggressivo questo è un disco che sembra troppo bello per essere vero, e che riconnette il chitarrista alla sua originaria natura, grazie a tredici canzoni implacabili e furenti, ma al contempo orecchiabili e divertenti. Tutto semplice, diretto, figlio di una filosofia lo-fi, per cui altro non serve se non un riff spacca ossa, una ritmica ossessiva, una voce grintosa e pochi e spartani abbellimenti (qualche assolo, qualche cambio di tonalità, estemporanee armonie vocali). Tutto impastato da un mixaggio basico, quasi amatoriale, che mette in risalto sporcizia e distorsione, favorendo l’impeto a discapito della pulizia del suono e dell’appeal commerciale. Insomma, Jack è davvero tornato alle origini e sembra che non sia passato un solo giorno dal 1999, anno domini dell’esordio del fenomeno White Stripes.

Basta la prima traccia, "Old Scratch Blues" e tutto è subito chiaro: blues a tutto volume, riff garage annichilente, voce viziosa, e un assalto sonoro che morde alla giugulare senza che la tensione venga mai meno per tutta la durata della scaletta. Un’attitudine che diventa ancora più pesante nella successiva "Bless Yourself" (ironica presa di posizione nei confronti della religione e della polizia), brano che scortica la pelle, nonostante non manchi, nel deliro sonoro, anche un discreto piglio melodico.

Ogni canzone è spigolosa, sporca, figlia di una garage rock senza compromessi ("That's How I'm Feeling"), di urticante punk lo-fi ("Bombing Out"), di espliciti echi del passato White Stripes ("What’s The Rumpus?"), di furia iconoclasta e sarcastica ("Archbishop Harold Holmes") e slide blues audaci e, tutto sommato, orecchiabili ("Underground").

No Name possiede un’anima sfacciatamente aggressiva, non ci sono trucchi o alchimie, e tutto è dannatamente diretto, immediato, quasi purificatorio nella sua urgenza di riappropriarsi delle radici, dell’essenza di quel sacro fuoco che, sempre, dovrebbe animare il rock. Eppure, questi tredici brani, sono molto di più di un furente sfogo, ma sono figlie della visione di chi, nel corso del tempo, non è mai stato alle regole del gioco, ha plasmato una materia nota con intelligenza, idee e passione, e ha saputo rendere fruibili suoni antichi a un pubblico giovane. Qui, soprattutto, ci sono grandi canzoni, che riaccendono un fuoco che, con dischi come No Name, mai si spegnerà. 

Voto: 8

Genere: rock, garage, blues




Blackswan, lunedì 23/12/2024

giovedì 19 dicembre 2024

Michael Kiwanuka - Small Changes (Polydor, 2024)

 


Piccoli cambiamenti, nessuna rivoluzione. Il nuovo album di Michael Kiwanuka, londinese di origini ugandesi, è meno avventuroso del suo predecessore (Kiwanuka, 2019) e meno originale del celebrato Love & Hate (2016), più vicino, semmai, per certe delicatezze sonore, al suo esordio Home Again (2012). Small Changes, però, è un gran disco, che dimostra, semmai ce ne fosse ulteriormente bisogno, la capacità del songwriter britannico di creare musica tanto emotivamente coinvolgente quanto tecnicamente sofisticata.

Non manca il mestiere, ovvio, la capacità di cesellare e rifinire ogni singola nota, di azzeccare melodie avvincenti, fruibili anche da coloro che si accostano per la prima volta alla sua musica; ma continua a stupire, tuttavia, la capacità di creare un legame intimo con l’ascoltatore, innervando le canzoni di autentico pathos, di condivisa malinconia. La miscela miele e liquerizia di soul, folk e rock, che l’ha reso celebre, accompagna così gli ascoltatori in un viaggio riflessivo che parte dall’intimo, ma diventa, ascolto dopo ascolto, universalmente riconoscibile. Un viaggio attraverso territori avvolti in un'ambientazione lussureggiante, quasi cinematografica, ma che non perde mai quel calore tracimante di sentimento e quella profondità introspettiva che sono diventati i tratti distintivi della sua musica.

Un suono caratterizzato da un'atmosfera retro-soul screziata da influenze blues e folk, in cui emerge un’abilità unica nel catturare emozioni veraci, stratificate, però, attraverso una strumentazione complessa, una ricerca melodica mai banale e testi colloquiali ma potenti, che, in questo specifico caso, parlano di crescita interiore e amore (la paternità di Michael ha influito non poco). 

Non c’è una traccia debole in Small Changes, ma una scaletta coerente e coesa nel suono, nella quale spiccano per bellezza e intensità alcune delle canzoni migliori scritte dal musicista londinese. La title track si muove lenta su una ritmica trattenuta, quasi sussurrata, gli archi avvolgono, le tastiere accarezzano, l’assolo di chitarra si concede un tocco di morbida psichedelia, il ritornello è sublime melodia.  La voce di Kiwanuka, densa di velluto soul, riflette sui cambiamenti graduali che definiscono le nostre vite, esortandoci a riconoscere come piccoli aggiustamenti possano portare a una profonda trasformazione. È una testimonianza dell'abilità di Kiwanuka nel scrivere canzoni: si concentra spesso su temi universali, ma la sua interpretazione è così personale che sembra una conversazione diretta con l'ascoltatore. Un riff di chitarra e una splendida linea di basso guidano il groove di "One and Only", ballata il cui morbido srotolarsi fra percussioni, archi e sgocciolanti note di pianoforte parla di amore e lealtà, sprigionando un calore e una sincerità che offre un messaggio di speranza sull’importanza dei rapporti affettivi.

"Rebel Soul", a parere di chi scrive uno dei vertici del songbook di Kiwanuka, segna il momento più sperimentale nell’album, con un ritmo trascinante, un avvolgente drive di pianoforte, circolare e discendente, e pochi, misurati tocchi di chitarra che evocano trame soul dal sapore settantiano. La canzone possiede un'energia innegabile che contrasta con le tracce più morbide e introspettive dell'album, dandole un tocco più avventuroso che si riconnette al precedente disco del 2019.

"Lowdown (Part I)" presenta una miscela armoniosa di blues e soul, e la voce di Kiwanuka porta con sé una sincerità che sembra quasi catartica. C'è un tono riflessivo qui, quasi sognante, esaltato poi da "Lowdown (Part II)", le cui tessiture psichedeliche rimandano immediatamente ai Pink Floyd e all’iconico suono di chitarra di Gilmour. 

Come dicevamo, pur senza concedersi particolari azzardi e navigando in acque sicure, Kiwanuka non sbaglia un colpo, e la scrittura è sempre ispiratissima, sia nel midtempo di "Follow Your Dreams" (brano più vicino a certe cose di Love & Hate), che invita a non temere alcuna paura inseguendo i propri sogni, sia quando si cimenta in un’altra ballata stellare come "Live For Your Love", canzone che cattura perfettamente la vulnerabilità che si prova ad amare qualcuno profondamente, e che si muove lentamente, fra la stratificazione d’archi orchestrali e qualche accenno jazzy, creando un paesaggio sonoro lussureggiante, che sembra al contempo moderno e senza tempo.

"Stay By My Side" è l’ennesima canzone che fa breccia nel cuore, grazie a una melodia che persiste a lungo anche dopo la fine di tre minuti e mezzo che rendono omaggio alla forza di un amore duraturo, e se "The Rest Of Me" racchiude la profondità e le sfumature che definiscono il talento artistico di Kiwanuka, grazie a un arrangiamento ricco e stratificato e una linea di basso spaziale che spinge un groove tanto morbido quanto seducente, "Four Long Years" chiude la scaletta con un tocco elegiaco e appassionato, che porta indietro nel tempo, agli anni sessanta e a certe meraviglie targate Motown.

Piccoli cambiamenti, nessuna rivoluzione. E forse di rivoluzioni nemmeno sentivamo il bisogno, ma di certezze, quelle, si. Small Changes non innova un songbook senza cedimenti, ma ne conferma l’assoluto valore, e testimonia della crescita artistica di un musicista che sa creare canzoni che risuonano a un livello profondo ed emotivo, che sa plasmare con intelligenza le influenze di svariati generi, pur mantenendo un suono distintivo, e non perde di vista uno degli obbiettivi principali che la musica si prefigge: toccare il cuore della gente ed emozionare.

Voto: 8

Genere: Soul, Folk, Rock

 


 


Blackswan, giovedì 19/12/2024