Avevano
un coro personalizzato allo stadio, un soprannome immaginifico, una
tifoseria devota. Hübner, Protti, Zampagna, Luiso, Flachi, Riganò...
Ognuno di loro è stato ed è tuttora oggetto di un culto diverso, ma
insieme esprimono un mondo dimenticato. Mentre il calcio è sempre piú
professionalizzato, questo libro è una frenata a mano sul cuore: un
omaggio appassionato a quei bomber che hanno fatto della provincia il
loro regno e della porta avversaria il loro destino.
Frombolieri
spietati, visionari della giocata impossibile, operai del goal voluto
con feroce determinazione: Hubner, Protti, Flachi, Riganò e Zampagna
sono solo alcuni dei nomi di quei bomber di provincia raccontati con
appassionata meraviglia da Emanuele Atturo, in questo libro emozionante e
godibilissimo.
Vite
semplici di uomini semplici, che sono stati straordinari attaccanti,
senza, tuttavia, entrare mai a far parte della storia che conta: per
scelta di vita, per amore di una maglia, per scelte esistenziali
incoerenti con le regole rigide dello sport, o per uno sgambetto del
fato, difensore più arcigno di qualunque stopper sia mai sceso in campo.
Giocatori
che, però, si sono conquistati un posto d’onore in quella mitologia da
bar fatta di aneddoti curiosi, di ricordi indelebili, di partite epiche,
di goal fotografati in un attimo eterno e da mandare a memoria ai
propri figli. I bar della Gazzetta letta sul frigorifero dei gelati,
delle chiacchiere sportive fugaci come un caffè e un saluto, o di quella
prosopopea calcistica, un po’ alticcia ed estenuante, accompagnata da
una teoria inarrestabile di bianchini spruzzati.
Grandi
campioni, spietati killer dell’aria di rigore, che le grandi squadre le
hanno solo incrociate, ambendo orizzonti troppo lontani per le loro
carriere sportive di piccolo cabotaggio, ma che Atturi rende vividi e
immortali, in questo libro di poco più di duecento pagine, che si legge
d’un fiato e che ha come fil rouge la nostalgia.
La
nostalgia per un calcio che non c’è più, risucchiato in un vortice
grigio dalla spietata logica del profitto, che ha duplicato all’infinito
il numero delle partite, troppe e una uguale all’altra, togliendo al
calcio la sua forza evocativa: quella legata alla commozione del
ricordo, dell’epicità dell’evento e della poesia dell’attimo.
Atteggiamenti da ticktocker, musica trap pompata come habitus culturale,
tatuaggi che nemmeno nella più sordida prigione venezuelana, abiti
ignobili sfoggiati con non curante e stolida arroganza da chi può
tutto, dall’alto di un contratto milionario. E alla prima spintarella,
tutti giù per terra, urlanti come agnelli al mattatoio. Questi, per
buona parte, sono i calciatori di oggi, questo il calcio che viviamo.
Come
si fa, allora, a non provare nostalgia per Darione Hubner, un bisonte
asfalta difese e refrattario al dolore, che nell’intervallo della
partita si fumava una sigaretta e non rifiutava mai un buon bicchiere di
grappa?
Troverete tutto questo, e molto altro, in Il Mito Dei Bomber Di Provincia,
un libro che intreccia storie di calcio al tessuto socio culturale del
momento, che snocciola gustosissimi aneddoti, che racconta i goal come
se li vedessimo in diretta, e che, oltretutto, è scritto benissimo da
chi, come noi, ama questo sport (un tempo) meraviglioso.
Tutto
nasce dalla grande passione per il classic rock della cantante,
chitarrista e flautista Francis Tobolsky, che nel dicembre del 2011,
pubblicò un annuncio su una rivista studentesca intitolato "Cercasi Blues Brothers",
con l'intenzione di formare una band. Risposero all’annuncio il
chitarrista Tim George e il batterista "Pätz", che iniziano a suonare
insieme per tutto il 2012, anno in cui la formazione fu completata
quando il bassista Patrik Dröge si unì alla line up a novembre. Nel
2013, con un bagaglio di canzoni già pronte per l’uso, i Wucan iniziano a
suonare nei locali di Dresda, loro città di origine, trovando
lentamente riscontri positivi anche su tutto il territorio nazionale.
Svariati
cambi di formazione, non hanno fermato l’ascesa del progetto, sempre
saldamente in mano alla frontwoman Tobolsky e arrivato oggi al quarto
album in studio, intitolato Axioms, cioè assiomi. Principi
indiscutibili come quelli su cui si è sempre basata la musica del gruppo
tedesco, i cui piedi son ben piantati nell’hard rock di derivazione
settantiana, riletto però con accenti che vanno dal prog, allo stoner e
al doom. Eppure, questo nuovo album, alla faccia degli assioni, pur
mantenendo invariate le fonti d’ispirazione, esce dalla comfort zone
proponendo eleganti e incisive variazioni sul tema.
La
proposta è, dunque, stratificata e richiede tempo per essere esplorata,
i brani si fanno strutturalmente più complessi avvicinandosi parecchio
al mondo progressive, senza che tuttavia vengano meno le sciabolate hard
e la consueta dose di melodia.
Il
brano di apertura, "Spectres of Fear", offre un primo entusiasmante
assaggio dell'album, è una cavalcata rapida, quasi rabbiosa, la voce
della Tobolsky è tirata al limite e quel flauto che imperversa ovunque
rimanda inevitabilmente ai Jethro Tull, ma a dei Jethro Tull strafatti
di anfetamine.
Una
bella botta, seguita dall’incandescente derapata intitolata "Irons in
the Fire" in quota NWOBHM, con una parte centrale sostenuta da un basso
impetuoso su cui si muovono vertiginose le scorribande della sei corde.
L'inizio
del funky "Wicked, Sick and Twisted" è caratterizzato dalla volontà
della band di sperimentare con l'elettronica, il groove è contagioso e
mette in mostra la versatilità del gruppo tedesco, che gira intorno alla
linea di basso con eleganti tessiture jazzy.
La
volontà di uscire dai soliti schemi è ben evidente anche nella
successiva e sorprendente "KTNSAX", in cui l’elettronica è messa al
servizio di una sezione ritmica quadrata e di una melodia ipnotica, le
cui chitarre nervose chiamano in causa addirittura i Blondie.
"Holz
auf Holz", cantata in tedesco, è uno dei brani più complessi
dell'album, sottolineando le qualità tecniche della band e la volontà di
uscire dall’ovvio, il piede sempre pigiato sull’acceleratore, ma in
direzione prog rock.
L'inizio
evocativo di "Pipe Dreams" è solo uno specchietto per le allodole,
perché la canzone parte poi rapidissima tirando fuori una propensione
quasi metal e mettendo in evidenza la strabiliante estensione della
Tobolsky, la cui voce si eleva altissima in mezzo a uno sferragliare di
chitarre agguerrite. Una corsa a rotta di collo che evapora di fronte
alle iniziali trame evanescenti e ai colori pastello della title track,
che si immerge lentamente nel prog rock anni ’70, richiamando ancora
alla mente i Jethro Tull.
Chiude
la scaletta "Fountain of Youth", arpeggio di chitarra, la voce
straordinaria della frontwoman, traboccante soul, e un’improvvisa
accelerazione che aumenta l’intensità di un brano sempre più vibrante e
travolgente. In un certo senso, "Fountain of Youth" riunisce in sette
minuti tutti gli elementi della musica dei Wucan, formando un capitolo
finale in cui convivono rock, folk, prog e propensione alla jam,
declinati con la consueta eleganza tecnica e dirompente energia.
Con Axioms,
i Wucan, pur non rinnegando completamente le proprie fonti
d’ispirazione, prendono una direzione diversa, rendono la loro musica
più versatile e, in certi casi, meno immediata, guadagnandone però in
fascino e, dopo quasi tre lustri, aprendo a una seconda fase di carriera
decisamente intrigante.
La risposta americana alla britannica Band Aid e a "Do They Know It’s Christmas" (1984): "We Are The World" degli
USA For Africa fu pubblicata l’anno successivo come iniziativa benefica
per le vittime della carestia in Etiopia, raccogliendo oltre cento
milioni di dollari devoluti tutti alle popolazioni afflitte dal disastro
climatico.
A
scriverla furono Michael Jackson e Lionel Richie, mentre Quincy Jones
la produsse. Questo talentuoso trio era perfetto per il lavoro: Quincy
Jones era il produttore più in voga del momento, Richie aveva scritto
canzoni che erano arrivate al primo posto della Hot 100 in ciascuno dei
sette anni precedenti, mentre Michael Jackson aveva pubblicato l'album
di maggior successo del 1984 con Thriller (prodotto da Jones) ed era la star più in voga del momento.
Il progetto USA For Africa (United Support of Artists for Africa),
tuttavia, nacque da un'idea del cantante calypso Harry Belafonte, che
aveva l’intenzione di organizzare un concerto di beneficenza
coinvolgendo solo musicisti neri. Alla fine di dicembre del 1984, alla
ricerca di artisti da arruolare, Belafonte chiamò Ken Kragen, che
gestiva un impressionante gruppo di talenti, tra cui Lionel Richie.
Kragen convinse Belafonte che avrebbero potuto raccogliere più fondi e
avere un impatto maggiore con una canzone originale invece che con un
singolo concerto. Belafonte accettò e Richie si unì immediatamente ai
due per dare una mano. Kragen, allora, chiese a Quincy Jones di produrre
il brano, e Jones arruolò Michael Jackson. Richie coinvolse anche
Stevie Wonder, una scelta che fu l’abbrivio decisivo per rendere
partecipi molti membri dell'industria musicale, che accettarono di
collaborare.
Il
progetto, dall'ideazione alla registrazione, durò circa un mese e, come
accennato, fu modellato sui Band Aid, il gruppo britannico formato da
Bob Geldof l'anno prima per registrare "Do They Know It's Christmas?".
I Band Aid, che includevano Bono, Phil Collins, David Bowie, Paul
McCartney e Sting, furono d’ispirazione, dimostrando come un gruppo
eterogeneo di artisti famosi potesse riunirsi in un giorno per
registrare una canzone ed avere un incredibile successo.
Il
singolo fu registrato agli A&M Studios di Los Angeles il 28 gennaio
1985, la sera degli American Music Awards, che si tennero al vicino
Shrine Auditorium. Dato che gli artisti erano tutti in città per la
premiazione, fu molto più facile riunirli per registrare il singolo.
Le
star che cantarono da solisti furono, nell'ordine, Lionel Richie,
Stevie Wonder, Paul Simon, Kenny Rogers, James Ingram, Billy Joel, Tina
Turner, Michael Jackson, Diana Ross, Dionne Warwick, Willie Nelson, Al
Jarreau, Bruce Springsteen, Kenny Loggins, Steve Perry, Daryl Hall,
Michael Jackson (di nuovo), Huey Lewis, Cyndi Lauper e Kim Carnes. Anche
Bob Dylan e Ray Charles parteciparono al brano e vennero ripresi in
primo piano nel video. Harry Belafonte, che aveva avuto l'idea originale
del progetto, cantò nel ritornello ma non ottenne un assolo, unendosi,
invece, a Bette Midler, Smokey Robinson, The Pointer Sisters, LaToya
Jackson, Bob Geldof (unico non americano a partecipare al progetto),
Sheila E. e Waylon Jennings come corista.
A
Prince fu chiesto di unirsi al progetto e Quincy Jones si aspettava la
sua presenza, ma il genio di Minneapolis non si presentò, non perché non
fosse d’accordo con gli intenti benefici ella canzone, ma in quanto
restio a collaborare con altri artisti. A ogni modo, diede il suo
contributo, donando un brano esclusivo intitolato "4 The Tears In Your Eyes" che venne inserito nel successivo 33 giri, anch'esso intitolato "We Are The World" e pubblicato il mese successivo.
Il
singolo da 7 pollici (la versione radiofonica) dura 6 minuti e 22
secondi, ma fu pubblicato anche un singolo da 12 pollici di 7 minuti e
19 secondi. Michael Jackson e Lionel Richie dovettero rendere la canzone
così lunga per poter ospitare il maggior numero possibile di cantanti:
si trattava di trovare un equilibrio tra l'inserimento di più assoli di
star e il mantenimento di una durata sufficiente per la trasmissione
radiofonica.
Quincy
Jones, oltre a produrre, era anche il responsabile della gestione di
tutte le star coinvolte, alcune, come immaginabile, con un ego
smisurato. Eppure, andò tutto liscio, nonostante alcuni artisti molto
famosi non riuscirono a cantare nemmeno una strofa. Prima dell'inizio
della sessione, Jones decise dove tutti si sarebbero piazzati. Mise del
nastro adesivo sul pavimento con il nome di ogni cantante. C'era una
politica di "niente ego", ma Jones elargì alcune cortesie, come, ad
esempio, mettere Diana Ross in prima fila.
La
canzone ha solo due strofe e segue una struttura base:
strofa-ritornello-strofa-ritornello-bridge-ritornello. Ci sono sette
cantanti nella prima strofa, ma solo tre nella seconda; la maggior parte
degli assoli avviene durante le linee del ritornello.
Il
brano vinse il Grammy Award come miglior canzone dell'anno, e superò le
aspettative in termini di vendite. Pubblicato il 7 marzo 1985,
inizialmente furono date alle stampe 800.000 copie, che andarono
esaurite nel primo fine settimana. Grazie all'ampia gamma di star, le
stazioni radio misero il brano in heavy rotation e MTV diede ampio
spazio al video. Il singolo raggiunse, così, il primo posto negli Stati
Uniti il 13 aprile, dove rimase per quattro settimane. Nel Regno Unito,
raggiunse la vetta il 20 aprile e vi rimase per due settimane.
La
sessione di registrazione per le parti vocali (Quincy Jones aveva
registrato in precedenza le tracce strumentali) durò circa 12 ore, il
che è quasi un miracolo, considerando la portata del progetto e un po’
di tensione che serpeggiò in studio. Molti artisti, infatti, ritenevano
la canzone artisticamente modesta, tanto che, per fare un esempio, Cyndi
Lauper, la definì, in uno scambio di vedute con Billy Joel, “uno spot per la Pepsi”.
La cantante non smise di polemizzare e, anzi, continuò a creare
disturbo durante la registrazione facendo tintinnare i suoi braccialetti
vicino al microfono, facendo perdere la pazienza a un solitamente
compassato Quincy Jones, che le disse, senza mezzi termini, che era
libera di andarsene dallo studio.
Fu
Bruce Springsteen a fare da collante alla serata e a convincere tutti
della bontà del progetto, dando prova di spirito altruistico. Il Boss,
infatti, concluse la tappa nordamericana del suo tour Born In The U.S.A.
la sera prima a Syracuse, New York, e volò a Los Angeles il giorno
dopo, recandosi in studio di registrazione in auto, saltando gli
American Music Awards. Secondo Ken Kragen, Springsteen contribuì a
placare le tensioni in studio, poiché i rocker non erano soddisfatti del
brano e temevano per la propria credibilità. Springsteen diede
l'esempio con la sua partecipazione incondizionata, convincendo tutti
che lo scopo meritorio dell’operazione fosse più importante del valore
artistico della canzone.
Ci è voluto un po' di tempo prima che le royalties di "We Are The World"
arrivassero a destinazione, il che ha dato a Kragen e al suo staff il
tempo di pianificare come usufruirne. Si concentrarono così sulla
fornitura di cibo e di beni di prima necessità a quelle organizzazioni
che avevano dimostrato impegno per la causa e la capacità di saper
utilizzare le donazioni in modo efficace. E poco importa se la canzone
fu bistrattata dalla critica specializzata: le vendite del singolo e
dell’album salvarono la vita a migliaia di bambini affamati.
“Deve essere bello essere un uomo e fare musica noiosa solo perché puoi"
Con questo verso contenuto in "One of the Greats", seconda traccia tratta da questo nuovo Everybody Scream,
Florence Welch ribadisce l’inclinazione femminista della sua musica,
che è anche uno dei temi portanti e più sfacciatamente esibiti
dell’album. D’altra parte, in tal senso, la copertina è abbastanza
esplicita: la foto mostra la Welch inquadrata in un tipico atteggiamento
maschile (e machista) con le gambe aperte e lo sguardo spavaldo, in una
posa che suggerisce un bel dito medio mostrato agli innumerevoli
concetti patriarcali della società odierna.
Non solo. Alla base del disco c’è un dramma personale, l’aborto spontaneo avvenuto durante il tour per la promozione di Dance Fever nel 2023. In Everybody Scream,
però, la Welch fa molto più che descrivere dettagliatamente il trauma e
dare forma al dolore attraverso le note. La riflessione è profonda e
lacerante, ma, come evidente nel titolo, c’è anche un implicito invito a
se stessa e all’ascoltatore a reagire, a liberare, attraverso un urlo
catartico, la rabbia e la tristezza represse.
Questo
disco è, dunque, un'opera in cui la Welch raggiunge il punto di
ebollizione estrema e condensa questo mondo di dolore e confusione in
dodici canzoni che non si risparmiano mai dal punto di vista emotivo.
Qui ci sono alcune delle sue musiche più sincere composte fino ad oggi
e, anche se il mondo sembra crollarle addosso, la songwriter londinese
sembra uscirne più saggia e audace, consapevole come non mai.
Everybody Scream
è anche un disco che si sviluppa in alternanza fra luci (poche) e
ombre, mettendo ancora una volta sul piatto l’alone di mistero e il lato
gotico che sono due elementi distintivi dell’artista anglosassone.
Quell’estetica stregonesca alla Stevie Nicks, su cui la Welch ha sempre
giocato, e non solo da un punto di vista estetico, emerge più che mai in
questo disco, che, come detto, nasce in un momento buio e traumatico
per la cantante.
Anche
se la sua stella brilla sempre più luminosa ogni volta che viene
menzionato il suo nome, quell’episodio traumatizzante e l'inevitabile
tumulto emotivo che ne è conseguito, hanno gettato un'ombra oscura sulla
sua vita. La vicinanza con la morte ha fatto scattare una molla
decisiva, e quella strega che è sempre stata un sotto testo delle sue
canzoni, emerge con forza e diventa protagonista della title track e
della clip che l’accompagna, in cui la musicista accompagnata dal Deep
Throat Choir, ensemble tutto al femminile (il suo "coro delle streghe", come lei stessa lo definisce), costruisce un mondo sonoro intriso di ritualità e liberazione: “La
stregoneria, la medicina, gli incantesimi e le iniezioni / Il raccolto,
l’ago, proteggimi dal male / La magia e la miseria, la follia e il
mistero”.
Qui, la
Welch personifica un'estetica che i suoi fan, e non solo, hanno sempre
associato alla musica dei Machine, quella di una strega che scappa nei
boschi per maledire coloro che le hanno fatto del male.
Per quanto ammantato di un alone crepuscolare, Everybody Scream
è, comunque, ben lontano dall'essere solo un flusso di coscienza,
un’immersione nel buio del dolore, un'analisi delle insidie che si
celano nel realizzare i propri sogni, e, soprattutto, si tiene lontano
dal tentativo di ripetere i successi passati.
La
scaletta rappresenta semmai il momento in cui Welch si distingue dai
suoi colleghi pop e si tuffa senza paura in un art-pop spazioso plasmato
con il folk anni ‘70, sostenuto da percussioni incalzanti e levigato da
una produzione che gioca per sottrazione, lasciando che siano
l’immaginario vivido e sentimenti senza filtri a guidare i brani.
La
strumentazione del disco, anche nei suoi momenti più esplosivi, come
nella trascinante traccia che dà il titolo all'album e nella struggente
"You Can Have It All", s’incentra su percussioni a cascata e
incandescenti crescendo, lasciando però che la stella più luminosa sia
sempre la Welch, il suo inarrivabile vibrato, la sua emotività
trascinante.
Traumatica
e incredibilmente sincera, la musica di Florence continua a muovere
l'ago della bilancia in una cultura pop che è stata ridotta a canzoni
abbastanza brevi da diventare virali in un video di TikTok. Lo stile
barocco e la passione per l’art pop dei Florence + the Machine
potrebbero sembrare in qualche modo anacronistici e fuori luogo in un
contesto musicale attuale, eppure questa proposta ha mantenuto un certo
livello di rilevanza in un'industria satura di inautenticità. E questo
urlo, catartico e liberatorio, rende onore al genere, irrorandolo di
sangue, bagnandolo di lacrime e pervadendolo di emozioni
contraddittorie, ma mai così vere e totalizzanti.