venerdì 20 giugno 2025

Percival Everett - James (La Nave Di Teseo, 2025)


 

 

Ad Hannibal, una cittadina lungo il fiume Mississippi, lo schiavo Jim scopre che a breve verrà venduto a un uomo di New Orleans, finendo per essere separato per sempre dalla moglie e dalla figlia. Decide, quindi, di scappare e nascondersi nella vicina Jackson Island per guadagnare tempo e ideare un piano che gli permetta di salvare la sua famiglia. Nel frattempo, Huckleberry Finn ha simulato la propria morte per sfuggire al padre violento recentemente tornato in città, e anche lui si rifugia nella stessa isola. Come tutti i lettori delle Avventure di Huckleberry Finn sanno, inizia così il pericoloso viaggio – in zattera, lungo il fiume Mississippi – di questi due indimenticabili personaggi della letteratura americana verso l’inafferrabile, e troppo spesso inaffidabile, promessa di un paese libero. Percival Everett parte dal capolavoro di Mark Twain per raccontare la storia da un punto di vista diverso, quello di James, ma per tutti Jim, mostrando tutta l’intelligenza, l’amore, la dedizione, il coraggio e l’umanità di quello che diventa, finalmente, il vero protagonista del romanzo. Un uomo disposto a tutto pur di sopravvivere e salvare la propria famiglia, un uomo che da Jim – il nomignolo usato in senso spregiativo dai bianchi per indicare un nero qualsiasi, indegno anche di avere un nome proprio – sceglie di diventare James, e sceglie la libertà, a ogni costo.

 

Per affrontare, comprendere e rielaborare un monumento della lettura americana come Mark Twain bisogna essere degli autentici fuoriclasse, e Percival Everett, scrittore e professore di letteratura inglese alla University Of Southern California, noto per capolavori come Cancellazione (2007) e Telefono (2021), senza ombra di dubbio, lo è. L’impresa era di quelle da far tremare le gambe: riprendere Le avventure di Huckleberry Finn, uno dei capisaldi della letteratura statunitense, e riscriverlo dal punto di vista dello schiavo fuggiasco Jim, deuteragonista nel romanzo di Twain, e personaggio che il grande scrittore americano utilizzava come grimaldello per scardinare la coscienza di Huck e aprirlo a una nuova consapevolezza etica e anti razzista.

In James, nome che lo schiavo sceglie in contrapposizione a Jim (uno dei nomignoli che gli schiavisti davano alle persone di colore), la narrazione resta per buona parte fedele all’originale, ma viene integrata da tutto ciò che nel romanzo di Twain non si conosce, quando Jim esce di scena.

L’architettura è quindi quella del romanzo nel romanzo, del nuovo inserito in un nobile e antico canovaccio, con l’intento di ribaltare la prospettiva, e dare dignità a un personaggio, che, per quanto importante, nel romanzo di origine aveva una sola funzione specifica: redimere Huck.

Lo scopo in James è, dunque, duplice: omaggiare un grande classico, dandogli nuova energia, ed innestare nella trama profonde riflessioni, che fotografano l’allora per raccontare il presente, in modo da essere maggiormente comprensibile agli occhi moderni.

La premessa è d’obbligo: non è necessario aver letto Le avventure di Huckleberry Finn, per immergersi nelle pagine di James, anche se coloro che, magari durante l’adolescenza, hanno affrontato il capolavoro di Twain, si troveranno a vivere la piacevole sensazione di un deja vu perfettamente riuscito.

La trama è la medesima, alcuni luoghi (l’isola di Jackson) e alcuni personaggi ricorrono (Il re e Il Duca), e la narrazione mantiene intatte le sue peculiarità: James è un romanzo picaresco di avventura e di formazione.

La prosa è semplice, il ritmo è alto, il colpi di scena non mancano, il romanzo si legge agevolmente e alla velocità della luce. Attenzione, però: la scrittura di Everett, così essenziale, così asciutta e lineare, nasconde significati, che vanno al di là dei semplici intenti anti razzisti.

Questa componente, ovviamente non manca: gli schiavi vengono trattati come bestie, gli schiavisti, anche quelli considerati “buoni”, sono fatti tutti della stessa ignobile pasta, e anche coloro che si professano anti schiavisti, alla fine dei conti vengono smascherati nella loro ipocrisia di facciata.

Everett, però, va oltre, creando un parallelismo fra lo schiavismo vero e quello odierno, in cui la libertà è spesso una parola senza più senso, e lo sfruttamento del lavoro, da qualunque punto di vista lo si guardi, impera con una ferocia non diseguale da quello raccontato da Twain.

Signore, io cerco solo di capire. Lei dice sta facendo una distinzione fra schiavitù di proprietà e schiavitù di contratto?” chiede James al musicista apparentemente liberal, che lo compra per duecento dollari, da restituire, però, dopo duecento spettacoli retribuiti un dollaro l’uno.

James è intelligente, sa leggere e sa scrivere, ma si fa passare per stupido e analfabeta, e parla il dialetto degli schiavi, perché il suo linguaggio forbito genera vero e proprio terrore nei suoi aguzzini e padroni. E’ questo il tema centrale dell’opera di Everett: riflettere sulla funzione della scrittura e della lettura non solo come abbrivio per poter accedere alla vera libertà (che è quella del pensiero autonomo, impossibile da contenere con catene e pastoie) ma anche come strumento identitario: se sai scrivere e leggere, non sei più Jim, un nessuno, un numero o una bestia, ma diventi James, mente pensate che sa riflettere, decidere, scegliere, diventando immediatamente pericolosa e sovversiva.

In quel momento il potere della lettura mi apparve chiaro, reale. Quando vedevo le parole, nessuno era in grado di controllarle, né di controllare ciò che ne ricavavo. Non poteva neppure sapere se le stavo solo vedendo o leggendo, se le stavo compitando o comprendendo. Era una faccenda privata e e totalmente libera, e di conseguenza totalmente sovversiva”.

Ecco il senso più alto del romanzo: con James, Everett ci porta in un viaggio emozionane attraverso la storia e la letteratura americana, per ricordarci, e ce n’è un gran bisogno, che oggi siamo tutti schiavi, a prescindere dal colore della pelle, ma che, come allora, abbiamo un grande potere per combattere le forze che ci voglio pecore ammansite di un gregge alla mercé del potere e del profitto: leggere e scrivere per scardinare la logica imperante della globalizzazione e della paura.    


Blackswan, venerdì 20/06/2025

giovedì 19 giugno 2025

Messa - The Spin (Metal Blade, 2025)

 


Sono passati tre anni da Close, un disco che aveva fatto circolare, e non poco, il nome dei padovani Messa, grazie a un accattivante ibrido di metal e hard rock, declinato, però, attraverso una coltre plumbea, e reso distintivo dall’originalità di scrittura e da una debordante creatività, la stessa che rende difficile incasellare un album entro gli steccati rigidi di un solo genere.

Questo nuovo The Spin si muove seguendo le stesse coordinate del suo predecessore, ma attraverso un tracciato meno tortuoso, più lineare e, in senso assolutamente positivo, meno ostico all’ascolto. Il calderone di influenze resta tutto sommato lo stesso (hard rock, blues, doom, prog, psichedelia, dark ambient), salvo per alcuni suggestivi ammiccamenti al goth rock di derivazione anni ’80, ma le canzoni suonano più dirette e meno elusive.

Il fatto che riesca a mettere insieme queste componenti alchemiche mantenendo un così alto grado di coesione e di fruibilità, alternando momenti di adrenalinica intensità ad altri di toccante intimismo, è la prova di quanto la band sia cresciuta in maturità e consapevolezza in dieci anni di carriera. Con The Spin i Messa abbandonano, in parte, certe architetture ardite e quei puzzle creativi contenenti svariate contaminazioni e divagazioni, per abbracciare un’espressività più nitida e pulita, meno enigmatica ma satura comunque di sedimenti emotivi, messi a fuoco da un minutaggio decisamente inferiore rispetto a quello di Close. Il risultato è un disco più bilanciato, un perfetto compendio di sezioni rarefatte, atmosfere avvolgenti, momenti ad alta densità di struggente blues/doom e muscolari sportellate elettriche, tutte componenti che convivono nello stesso nucleo di febbrile trasporto.

Pur in un contesto più convenzionale rispetto a Close, i Messa non smettono però di esplorare, di cercare nuove strade in territori apparentemente già noti, spingendo sull’impeto di assalti frontali, e cercando, riuscendoci, di contrapporre (e fondere) al metallo suggestioni eteree e inquietanti digressioni ossianiche.

A rendere unica questa conturbante amalgama è la voce versatile di Sara Bianchin, egualmente abile nel discendere attraverso i declivi più impervi e oscuri, sedurre con delicata dolcezza o aggredire con furioso ardore.

Nonostante le differenze fino a qui evidenziate, i Messa restano i Messa, e certe canzoni (l'elettronica di "Void Meridian", le volute psichedeliche e ascensionali e la digressione jazzy della splendida "The Dress", fino al passo doom che convive con le atmosfere meditabonde di "Thicker Blood"), dimostrano che la tavolozza sonora in costante mutamento continua però ad attingere a paesaggi sonori familiari.

Allo stesso tempo, come dicevamo, in The Spin la formula canzone è più rispettata, senza che ciò pregiudichi la qualità della proposta, visto che brani come "Fire on the Roof", con la sua ruvida aggressione doom, le strofe fumose e ipnotiche, il ritornello immediato e l’assolo di chitarra frastornante, o "Immolation", bluesy e fluttuante, sono belli da capogiro.

È questo che distingue leggermente The Spin dal precedente album dei Messa, che aveva un flusso organico: in questo caso la struttura è episodica, dovuta al fatto, probabilmente, che, a differenza di Close, il gruppo ha scelto di registrare l’album separatamente, in diverse location e periodi.

Comunque sia, la band padovana ha colpito nuovamente il centro del bersaglio, ed è evidente che qualunque cosa faccia, sia in grado di mantenere una propria precisa identità, pur evitando di replicare formule vincenti. The Spin non fa eccezione: è meno impegnativo e più immediato dei dischi precedenti, ma non per questo meno bello. Come raggiungere la vetta utilizzando il sentiero meno tortuoso: quel che conta è il paesaggio, anche in questo caso decisamente incantevole. 

Voto: 8

Genere: Doom, Goth Rock




Blackswan, giovedì 19/06/2025

martedì 17 giugno 2025

(Looking For) The Heart Of Saturday Night - Tom Waits (Asylum, 1974)

 


Questa è la sesta e ultima traccia del lato A di The Heart Of Saturday Night, secondo disco in studio di Tom Waits, pubblicato nell’ottobre del 1974. La canzone, se si dà un’occhiata alla scaletta, risulta essere speculare a Ghosts Of Saturday Night, che è la traccia finale dell'album. Questa collocazione non è stata casuale, dato che Heart vede Waits alla ricerca del cuore del sabato sera, mentre Ghosts lo vede spazzare via i suoi resti. Entrambe le canzoni, poi, hanno parte del titolo tra parentesi tra parentesi (nessuna delle altre nove canzoni dell'album li ha): (Looking For) The Heart of Saturday Night e The Ghosts of Saturday Night (After Hours at Napoleone's Pizza House).

Il brano è il racconto in terza persona di un giovane che guida nelle vie della città alla ricerca del cuore del sabato sera, attraverso il quale Waits sembra significare l'essenza della vitalità che i fine settimana hanno avuto per i giovani lavoratori di ogni generazione. Trovare il "cuore" di questo sentimento è un concetto poeticamente ambiguo, che probabilmente costituisce l’attrattiva principale della canzone, perché ciò che non può mai essere veramente trovato, non può nemmeno mai essere veramente perso, quindi la ricerca per trovarlo può dare un senso all’esistenza per tutto il tempo che desideriamo.

Non si tratta, quindi, della cosa che stiamo cercando, ma piuttosto del cercare la cosa. In tal senso, viene immediatamente da pensare a Jack Kerouac e al suo iconico romanzo On The Road, in cui tali concetti sono il fil rouge della narrazione:

“Dobbiamo andare e non fermarci finché non siamo arrivati. - Dove andiamo? - Non lo so, ma dobbiamo andare.”

E ancora:

“Qual è la tua strada amico?… la strada del santo, la strada del pazzo, la strada dell'arcobaleno, la strada dell'imbecille, qualsiasi strada. È una strada in tutte le direzioni per tutti gli uomini in tutti i modi.”

Fu lo stesso Waits a citare Kerouac durante un’intervista alla stazione radio KFPK, presentando la prima esecuzione assoluta del brano. Waits sostenne che la canzone era un tributo ai "Kerouacians", intendendo così i fan del romanziere americano Jack Kerouac. Lo stile sconclusionato e semplice di Kerouac, che a volte incorporava elementi di improvvisazione jazz, conferiva uno splendore mistico agli aspetti più semplici della vita americana. E a parte Charles Bukowski, nessun'altra influenza letteraria è più evidente nel lavoro di Waits, specialmente nei suoi primi lavori.

Se questo è il significato della canzone, si può cercare, allora, di approfondire maggiormente il ragionamento. Perché è evidente un rovescio della medaglia nel concetto di “andare, non importa dove”. La ricerca fine a se stessa, infatti, può diventare un'attività inutile che ci lascia correre in tondo finché un giorno non ci svegliamo e realizziamo che abbiamo sprecato tutta la nostra vita. In The Heart Of Saturday Night non è chiaro quale risultato abbia ottenuto la ricerca del personaggio centrale. Il protagonista della canzone guida per i viali durante un sabato sera, abbracciato alla sua innamorata. Non succede nulla di esplosivo, c’è solo l’attesa di ciò che potrà essere. La canzone è, quindi, il ritratto della vita in tutta la sua mistica semplicità, e le note si srotolano con una placida disinvoltura.

Ti fermi al rosso

Riparti al verde

Perché stanotte sarà qualcosa

Di mai visto prima

E poi corri lungo il viale

Stai cercando il cuore del sabato sera 

 

Poi, all’improvviso, verso la fine del brano, alcuni versi ribaltano completamente la prospettiva:

 

Una lacrima di malinconia scende magica dai tuoi occhi

E fremi fino al midollo

Perché ora sogni di quei sabato che furono

E poi inciampi

Stai inciampando nel cuore del sabato sera

E inciampi

Inciampi nel cuore del sabato sera

 

Non c’è nulla di triste in The Heart Of Saturday Night, che sembra avere solo ed esclusivamente connotati positivi di vitalità. Eppure, il verso è messo lì per una ragione, tanto che all’improvviso il luminoso sentimentalismo della musica inizia ad assumere un'aria cupa. Ecco, dunque, la svolta, la pugnalata al cuore, il momento del dubbio, quello che suggerisce la vacuità di certe esistenze, o, più probabilmente, la sconfitta nel cuore di un giovane, o di una generazione, che non trova uno scopo per vivere. 

Così, alla fine, la canzone sembra riferirsi a coloro che sono intrappolati in una ricerca priva di senso di qualcosa che non li soddisfa. Sta all'ascoltatore decidere.

 


 

 

Blackswan, martedì 17/06/2025

lunedì 16 giugno 2025

OAK - The Third Sleep (Karisma, 2025)

 


 

Tre anni fa, i norvegesi Oak avevano pubblicato The Quiet Rebellion Of Compromise, un disco che, avvolto da una coltre di plumbea tristezza, era finito nel porta gioie degli album più suggestivi e interessanti dell’anno.

The Third Sleep riprende il discorso esattamente da dove si era interrotto il precedente album degli Oak, offrendo un’altra prova di progressive rock molto orecchiabile e densamente melodico. Il lavoro della band suona familiare: passaggi malinconici che traggono chiara ispirazione dai Katatonia e da Steven Wilson sono evidenti ovunque, e si sentono anche accenni ai lati più soft di Opeth e Ulver. Eppure, gli Oak fondono le loro influenze in uno stile inconfondibilmente personale, in parte grazie alla loro abilità nell'intrecciare l'elettronica con un sound prog-rock più classico.

Il cantante Simen Valldal Johannessen possiede un caratteristico ed emotivo baritono che colora la musica di una tonalità più scura, e si cimenta anche con il pianoforte, strumento che gioca un ruolo significativo come principale motore melodico dell'album. Tutto, poi, funziona benissimo, grazie a una band che ha mandato a memoria un formula densa di pregi.

Meditabondo ma dall’anima sottilmente pop, The Third Sleep sviluppa un prog ricco di sfumature, ma che rimane straordinariamente accessibile fin dall'apertura "No Such Place", in cui il riff di chitarra acustica accompagna lo strumming del pianoforte di Johannessen in un dipanarsi sempre più ricco, sorvolato, verso la fine, da un assolo di sax denso di languori.

"Run Into the Sun", avvolta in un manto di traslucida malinconia, è un vero tormentone: il ritornello è contagioso, qualcosa di adatto alla radio, anche se un ascolto più approfondito rivela un'impressionante interazione tra la chitarra solista e la melodia di pianoforte sottostante. Anche "London" possiede un ritornello altrettanto cantabile e decisamente pop, ma incorpora elementi di cupa elettronica, graffi di chitarra ritmica e un drumming decisamente più dinamico e complesso. La strofa del brano è un altro esempio in cui l'esecuzione complessa incontra l'ascoltabilità, con una linea di basso fuzzy vagante e texture di synth che guidano il canto di Johannesen.

Sebbene The Third Sleep si appoggi a strutture di canzoni convenzionali, ogni traccia presenta almeno una lunga deviazione strumentale, spesso di sapore post-rock. Il singolo principale "Shimmer" ne è un esempio lampante: dopo aver seguito principalmente uno schema strofa-ritornello per la prima metà (con delle percussioni davvero fantastiche), il brano si avvia alla conclusione con una coda strumentale di delicate chitarre acustiche, basso, batteria e pianoforte. Poi, l’aggiunta dei synth stratifica pazientemente la trama acustica prima che il tutto si gonfi dolcemente e si risolva.

"Shapeshifter" ricorre a un trucco simile nella seconda metà, ma concentra il pathos su una batteria marziale e un drive di pianoforte cupo e ossessivo. "Borders", invece, possiede un bridge più rumoroso e pesante nel punto centrale, a tratti includendo tastiere distorte e facendo abbondante uso di elettronica. 

La capacità degli Oak di combinare strutture musicali convenzionali con queste esplorazioni strumentali dettagliate e variegate rende The Third Sleep incredibilmente piacevole da ascoltare e abbastanza appagante da meritare di essere rivisitato. Il mix caldo e limpido dell'album contribuisce a fondere il tutto, lasciando ampio spazio a ogni strumento, reale o programmato, per respirare, senza che la proposta risulti sterile.

Nonostante le varie tessiture e la limpida costruzione dell'album, tuttavia, mancano passaggi eccezionalmente memorabili o avvincenti, nessun vero picco. Prevale una bellezza organica, fluida, avvolgente.

L’unica eccezione à la conclusiva, oscura e lunga "Sensory Overload", che chiosa l’album con un assolo di sax cacofonico, in un crescendo destabilizzante che sfocia in un minuto circa di qualcosa al limite del black metal puro: doppia cassa, un riff non lontano da un tremolo annerito e growl demoniaci.

Anche se The Third Sleep non ha, come accennato, momenti così sorprendenti, è decisamente coinvolgente nella sua varietà espressiva e nei suoi dettagli, è splendidamente prodotto, ben eseguito e abbastanza accessibile anche per un pubblico non abituato a confrontarsi con il prog. Qualche incursione nel metal in più renderebbe, a parere di chi scrive, tutto più elettrizzante, ma è questione di gusti. Il disco è ottimo anche così.

Voto: 7,5

Genere: Progressive, Rock 




 

Blackswan, lunedì 16/06/2025

venerdì 13 giugno 2025

Ricky Warwick - Blood Ties (Earache, 2025)

 


Un rocker di razza, uno di quelli duri e puri, insensibili alle mode e coerenti fino all’integralismo, convinto che per scrivere una buona canzone non esiste altro modo se non azzeccare un riff graffiante, un assolo supersonico e un ritornello accattivante. Ricky Warwick è un musicista consumato, con trent’anni di carriera alle spalle, vissuti a capo degli Almighty, quartetto che ha messo a ferro e fuoco gli anni ’90 con un hard rock d’impronta classica (cercatevi almeno quella bomba a mano che porta il nome di Powertrippin’) e nella line up degli storici Thin Lizzy, trasformatisi nel 2013 in Black Star Riders.

Questo Blood Ties, ottavo disco solista che fin dal titolo sottolinea l’indissolubilità del chitarrista con la sua storia e con quell’hard rock di matrice britannica che da sempre è il piatto forte della casa, non tradisce di certo le attese dei tanti fan del musicista nord irlandese.

Descritto come uno degli album più personali che abbia mai realizzato, Blood Ties è un disco attraversato da ottimismo, le cui liriche, semplici ma dirette, parlano di come la propria forza interiore riesca a combattere i demoni personali, rifiutando di farsi risucchiare in un gorgo di tristezza e depressione. In tal senso, l’opener "Angels Of Desolation" apre un immediato spiraglio alla speranza, è un hard rock tirato e arioso, che vanta uno dei migliori ritornelli dell’album e che invita tutti a non mollare di fronte alle difficoltà della vita, ma a rimboccarsi le maniche e reagire con le proprie forze.  

Warwick non si è lasciato sfuggire l’occasione, poi, di avvalersi anche di qualche ospitata di rilievo, come avviene nel rock più cupo, ma non meno elettrizzante, di "Rise And Grind", in cui Charlie Starr dei Blackberry Smoke offre una gran prova alla sei corde, nella successiva "Don’t Leave Me In The Dark", che a dispetto del titolo vede la solare presenza di Lita Ford (Runaways) in un duetto dalla melodia irresistibile, e in "The Hell of Me and You", in cui l’iconico Billy Duffy dei Cult si unisce a Ricky Warwick per un brano che trova il giusto equilibrio tra orecchiabilità e pesantezza e che fa battere il piede dall’inizio alla fine.

In generale, la seconda metà di Blood Ties ha un'atmosfera rock più dinamica, che si ritrova in "Crocodile Tears" e nel ringhio di "Wishing Your Life Away", mentre l’asticella si alza ulteriormente nella conclusiva "The Town That Didn't Stare", un altro esempio di come costruire una buona canzone rock, tra melodia di facile presa e volute di polvere sollevate dalla strada.

Sebbene la produzione sia levigata e manchi un po’ di sporco sotto le unghie, Warwick allestisce una scaletta compatta che si nutre della consueta autenticità e di quella passione di fondo che fa da collante tra momenti più morbidi e sferzante rock’n’roll. E anche se manca la canzone che fa girar la testa, l’ascolto fila via liscio e divertito, rendendo omaggio a tutti quei rocker che sentono indissolubile il legame di sangue con il proprio background musicale.

Voto: 7

Genere: Rock 




Blackswan, venerdì 13/06/2025