martedì 22 luglio 2025

Chiuso Per Ferie

 


Il Killer si prende qualche giorno di riposo. Buone vacanze a tutti i lettori che vanno e buona permanenza a quelli che restano. Ci si legge prestissimo! 

 


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Blackswan, martedì 22 luglio 2025

lunedì 21 luglio 2025

Hard To Say I'm Sorry - Chicago (Full Moon, 1982)


 

Una ballata zuccherina e romantica, un evergreen universalmente conosciuto, ma anche la canzone che ha segnato la rinascita per i Chicago, dopo un filotto di dischi commercialmente deludenti e la rescissione del contratto con la loro etichetta storica, la Columbia Records.

Chicago 16 (gli album dei Chicago non hanno titolo ma vengono distinti tra loro da un numero progressivo), il disco in cui è racchiusa Hard To Say I’m Sorry, è anche l’album che sancisce la definitiva influenza nel suono della band del produttore e compositore David Foster, che vede l’ingresso nella line up dell’abile polistrumentista Bill Champlin e che certifica il passaggio dei Chicago alla Full Moon, etichetta emanazione della Warner Bros.

Vero e proprio singolo azzanna classifiche, Hard to Say I'm Sorry, pubblicato il 27 maggio del 1982, raggiunse la prima piazza delle classifiche americane, portò la band, caso raro, al quarto posto delle charts inglesi, e conquistò anche la cima delle classifiche italiane, partecipando al Festivalbar del 1982.  

La formula per raggiungere il successo era collaudata, visto che fu la stessa che produsse l’altra straordinaria hit della band, If You Leave Me Now: una ballata d’amore, cantata dal bassista del gruppo, Peter Cetera, anche coautore delle musiche insieme a David Foster e al pianista Robert Lamm, e un utilizzo spregiudicato delle tastiere che fece scuola (vedi i Van Halen di Jump e gli Yes di Owner Of A Lonely Heart).

Il brano racconta di una storia d’amore al collasso, in cui la coppia, sul punto di separarsi, si prende una pausa di riflessione. Il protagonista del brano cerca disperatamente di tener in vita il rapporto, promettendo di rimediare ai suoi errori, e anche se è difficile chiedere scusa, si impegnerà perché i due possono continuare a stare insieme. Un testo decisamente banale, ma anche estremamente funzionale alla storia che la canzone racconta.

 

Stringimi ora

E' difficile per me dire che mi dispiace

Voglio solo che tu sappia

Stringimi ora

Voglio davvero dirti che mi dispiace

Non potrei mai lasciarti andare

 

Strano ma vero, nel brano suonano Steve Lukather (chitarra), David Paich (sintetizzatore) e Steve Porcaro (sintetizzatore), che non solo erano dei turnisti di classe sopraffina, ma anche membri dei Toto. La decisione di utilizzarli in Hard To Say I’m Sorry fu presa da David Foster, deciso a fare di tutto perché la canzone potesse sfondare in classifica. Ovviamente, ebbe ragione, e i tre contribuirono con le loro parti in un solo take; la scelta, tuttavia, fece infuriare gli altri componenti della band, che si trovarono a essere spodestati dai loro ruoli.  

Nonostante il fare dispotico, Foster era un abile compositore, che non lasciava nulla al caso, e riusciva a trasformare in oro ciò a cui metteva mano, grazie alla capacità di inserire numerose variazioni all’interno delle canzoni. In Hard To Say I’m Sorry, se ponete attenzione all’ascolto, scoprirete come le strofe occupino davvero poco spazio, per lasciarlo al ritornello, che in realtà sono due, quello che inizia con “hold me now” e quello che inizia con “after all that we’ve been through”.

La sezione degli archi fu arrangiata da Jeremy Lubbock, che in seguito avrebbe vinto un Grammy per il suo arrangiamento di "Hard Habit To Break", brano pubblicato sempre dai Chicago nel 1984.

La versione della canzone pubblicata come singolo, per ovvi motivi di fruibilità radiofonica, dura tre minuti e quarantotto secondi, mentre la versione contenuta nell’album, che è quella che la band ha sempre suonato dal vivo, supera di poco i cinque minuti, grazie a una coda con sezione fiati intitolata Get Away




Blackswan, lunedì 21/07/2025

venerdì 18 luglio 2025

Stephan Schafer - Ancora Venticinque Estati (Einaudi, 2025)

 


«Ero diventato una di quelle persone che mettono al centro della propria esistenza professione, riconoscimento e guadagno. Non volevo quello che avevo, volevo quello che non avevo. Poi qualcuno mi ha aperto gli occhi».

Travolti dagli impegni, dagli obblighi, non ci fermiamo mai a domandarci: quanta vita ci resta? Quante estati abbiamo ancora davanti? La storia di un incontro inatteso e rivelatorio tra un manager che conosce solo il lavoro e un contadino. Il racconto toccante di un'amicizia che è anche un'iniziazione.

 

Durante un fine settimana nella propria tenuta di campagna, un manager rampante si sveglia come sempre all’alba e decide di concedersi una passeggiata fino a un laghetto li vicino. Qui, incontrerà Karl, un contadino di mezza età con cui instaura subito una spontanea e sincera amicizia. Un incontro inaspettato che si dimostrerà ben presto rivelatorio.

Ancora Venticinque Estati, che l’anno scorso è stato un grande successo editoriale in Germania, patria del suo autore, Stephan Schafer, è un racconto lungo, un libricino di poco più di cento pagine, che si legge in mezza giornata. La prosa è semplice ma sicura, il mood è dimesso, gli intenti apprezzabili e condivisibili: fotografare due mondi opposti (quello del protagonista e del contadino Karl) nel momento in cui vengono a contatto, quando le reciproche traiettorie si intersecano, e riflettere sui veri valori dell’esistenza.

Lo scopo di Schafer è decisamente meritorio, l’approccio è entusiasta e ottimistico, le pagine si sfogliano con leggerezza, risucchiati da un’ambientazione agreste nitida e dolcemente bucolica.

Nonostante ciò, però, la scoperta da parte del manager che un diverso modo di vivere è possibile, non riesce a districarsi da una fitta trama di ovvietà. Mi spiego. Chi vive con consapevolezza, chi conosce il potere edificante della lettura e dell’arte, chi si tiene lontano dalle logiche del profitto, chi crede che mangiare sia una gioia e non un sacrificio per tenersi in forma, chi usa i social con moderazione e conserva gelosamente i momenti di silenzio e solitudine, chi rispetta la natura e i suoi cicli, troverà scontata l’epifania di Schafer. Pochi, ma buoni.

Chi sono, allora, i possibili destinatari di questo libricino che, ripeto, è assolutamente encomiabile per il fine che si propone? Probabilmente i giovani, che troveranno nel racconto spunti interessanti per consolidare le proprie intuizioni e per riflettere sul proprio futuro.

Una lettura piacevole, ma che potrebbe rivelarsi superflua.

 

Blackswan, venerdì 18/07/2025 

giovedì 17 luglio 2025

Sparks - Mad! (Transgressive, 2025)

 


Tra le poche le certezze nella vita, una si riconferma da più di mezzo secolo: i fratelli Sparks (ovvero Ron e Russel Mael) non sbagliano un disco. Maestri dell’art pop da quando il genere art pop non era ancora stato classificato, il duo losangelino continua ad abbeverarsi a una fonte creativa che sembra non esaurirsi mai. Date un occhio alla loro ponderosa discografia e provate a cercare un disco che non sia all’altezza della loro fama. C’è l’imbarazzo della scelta: chiudete gli occhi e pescatene uno a caso. Dal leggendario Kimono My House (1974) fino ai più recenti A Stedy Drip, Drip, Drip (2020) e The Girl Is Crying In Her Latte (2023), la loro proposta, tanto anticonformista e sovversiva, quanto raffinata, continua a essere incredibilmente attuale.

Gli Sparks hanno spaziato tra bubblegum, art-rock, dance, vaudeville, rock ed elettronica, creando un amalgama unico, che suona come null’altro in circolazione. Mad! è il loro ventottesimo album, una raccolta audace di musica come sempre impossibile da catalogare dentro un unico genere, tanto che le dodici canzoni in scaletta conducono l’ascoltatore in mondo eclettico, eppure incredibilmente spontaneo, in cui ogni singola nota vive tra richiami classici e modernità, in un insieme caotico, orecchiabile e irresistibile.

La traccia di apertura, "Do Things My Own Way", è un gioiello pop/wave: il riff di chitarra è scorbutico, i sintetizzatori sono dolci come caramelle, l’intreccio delle voci calibratissimo, le reiterazioni ritmiche spingono la tensione emotiva. Ogni elemento è al servizio della canzone, l’equilibrio è perfetto, e il risultato tanto frizzante che l’hook melodico si pianta al centro del cervello, come un trampolino da cui lanciarsi nel resto dell’album.

C’è un casino organizzato nella musica degli Sparks, una confusione che genera inizialmente spaesamento, che fa girar la testa, ma poi è puro godimento per le continue sorprese che s'incontrano sul cammino. Ecco allora "JanSport Backpack", figlia dell’ecclettismo distintivo del duo, un brano sballottante ma ricco di fascino, mentre il synth pop scarno di "Hit Me, Baby" vira verso la dance anni ’80, e "Running Up A Tab At The Hotel For The Fab" (un titolo fuori di testa) con quel incalzante arrangiamento d’archi spinge verso atmosfere da film di serie B.

La melodia zuccherina di "My Devotion" è di quelle che fanno balzare sulla sedia, grazie a una linea di synth zampillante e le sezioni vocali sovrapposte, mentre un allegro fischiettare crea spazi ariosi e leggerissimi.

"Don’t Dog It" è l’esempio di canzone per cui gli Sparks sono destinati all’eternità: la ritmica incalzante, le linee vocali ipnotiche, alcuni inserti pianistici portentosi, e una melodia semplice ma inesorabile.

Le trame sottili di "Daylight" utilizzano un synth polverosi, una campana finta, tom-tom, battiti di mani ritmici e un ritornello orecchiabile per evocare la luce del giorno da cui Russell sembra fuggire: "Non posso avvicinarmi a te, perché la luce del giorno mi rivela, quindi aspetterò solo che la notte mi nasconda". 

La folle eterogeineità dell'album è ulteriormente evidenziata dagli archi frenetici e dal clima da operetta di "I-405 Rules", un'ode distorta alla San Diego Freeway. È un classico degli Sparks, fin nei testi ambivalenti su un'autostrada che ti aiuta ad arrivare dove vuoi, anche se la musica suggerisce qualcosa di più vicino a un incubo. Gli Spaks alzano la tensione anche nella successiva "A Long Red Light": il brano si basa su archi febbrili, synth confusi e un collage vocale ripetuto e sovrapposto con ulteriori linee di synth mutanti e inquieti.

Da urlo la tripletta finale. In "Drowned In A Sea Of Tears" l’inquietudine si scioglie lasciando spazio alla componente malinconica di un'ottima canzone pop, che viaggia al ritmo di archi galoppanti, synth evocativi e una inesorabile linea di basso, "A Little Bit Of Light Banter" è un’allegra marcetta che accelera il ritmo fino alla conclusiva "Lord Have Mercy", un altro gioiellino pop raffinato, marchiato Beatles, che si conclude con un festante interplay vocale e un inaspettato assolo di chitarra.

Un finale perfetto per l’ennesimo grande disco degli Sparks, in cui lo stupefacente dinamismo e il senso per la melodia definiscono, come da oltre mezzo secolo, un suono unico al mondo.

Voto: 8 

Genere: Pop, Elettronica, Alternative




Blackswan, giovedì 17/07/2025

martedì 15 luglio 2025

Natural Blues - Moby (V2 Records, 1999)


 

Quinto album in studio del cantautore statunitense Moby, Play, pubblicato il 17 maggio del 1999, annovera numeri impressionanti. Considerato dalla critica uno dei dischi più seminali degli anni ’90, l’opera ha venduto più di dodici milioni di copie in tutto il mondo, ha vinto più di venti dischi di platino, è stato nominato a un Grammy Award e a un Brit Award e, soprattutto, ha generato la bellezza di ben nove singoli, che divennero tutti delle hit e che vennero usati in modo massiccio come colonne sonore per film, serie Tv e spot pubblicitari.

Uno di questi, per la precisione il quinto estratto dall’album, è Natural Blues, che si basa su un campionamento di una registrazione del 1937, effettuata dal folklorista americano Alan Lomax, di Trouble So Hard, un brano cantato dalla musicista folk Vera Hall.

Vera Hall era una cantante country blues degli anni '30 e la sua produzione registrata è stata in gran parte preservata grazie proprio alle registrazioni dal vivo effettuate da Lomax. Moby si imbatté per la prima volta in questa canzone ascoltando raccolta di Lomax intitolata Alabama: From Lullabies to Blues.

Natural Blues rischiò seriamente di non finire sul disco. Una sera, Moby, aveva, infatti, invitato degli amici a cena per fargli ascoltare alcuni dei brani che sarebbero finiti in scaletta, e quando toccò a Natural Blues, gli amici storsero il naso, perché sembrava troppo strana e suonava decisamente male rispetto al resto del materiale. Moby era in crisi perché non riusciva dare al brano una forma definitiva che si adattasse ai contenuti di Play, e si risolse a pubblicarla, solo quando ci mise mano il duo inglese 1 Giant Leap, che eseguirono il mixaggio del brano così come compare su disco.

Il celebre video che accompagna Natural Blues (e che vinse l'MTV Europe Music Award del 2000) nacque da un’idea del regista David La Chapelle, che era cresciuto frequentando la casa di cura dove sua madre lavorava come infermiera, e dove aveva stretto amicizia con una donna che era una famosa pianista, ma che è stata dimenticata in vecchiaia. L’intuizione fu corroborata anche da un brutto incubo che il regista fece poco prima di dirigere la clip: immobilizzato su una sedia a rotelle, vecchio e con la barba, La Chapelle sognò di essere immobilizzato in un corridoio in compagnia di altri vecchi e di non potersi muovere in alcun modo.

Ecco, dunque, il tema che ispirò il video: un Moby anziano viene trasportato in sedia a rotelle in una casa di cura. Mentre gli altri pazienti anziani fissano sconsolati la TV, Moby tira fuori un album di ritagli dei suoi giorni più giovani, quando era felice e in salute. Alcune delle immagini appaiono sullo schermo della TV, comprese quelle con una ragazza interpretata dall'attrice Fairuza Balk. Christina Ricci appare alla fine del video come un angelo che porta Moby in paradiso.

Moby ha ri-registrato Natural Blues con Gregory Porter e Amythyst Kiah per il suo album del 2021, Reprise, un disco che vede il songwriter e la Budapest Art Orchestra reinterpretare alcune delle sue canzoni classiche con nuovi arrangiamenti per orchestra e strumenti acustici. Con risultati sorprendenti.

 


 

 

Blackswan, martedì 15/07/2025

lunedì 14 luglio 2025

Avkrvst - Waiving At The Sun (InsideOut, 2025)

 


Quando nel 2023 uscì The Approbation, esordio dei norvegesi Avkrvst (nome quasi impronunciabile, a meno che non si sostituisca una U alla seconda V), in molti, tra cui il sottoscritto, tessettero le lodi di questo quintetto fondato dagli amici d’infanzia Simon Bergseth e Martin Utby, abilissimi nel rigenerare il prog classico (King Crimson, Genesis) insufflandolo dell’energia prog metal derivante da band come Opeth e Dream Theater.

Quasi esattamente due anni dopo, la band torna con Waving At The Sky, un tentativo, riuscitissimo, di rivisitare e dare un seguito al successo del loro album di debutto.

Rispetto al suo splendido predecessore, questo nuovo lavoro ripropone la stessa formula vincente, spingendo però un po’ di più sull’aggressività dei suoni, senza tuttavia abbandonare il seducente impianto melodico ed evitando accuratamente ogni orpello virtuosistico. Se il concept di The Approbation era incentrato su un uomo isolato, solo in una baita, che perde lentamente la ragione, Waving At The Sky diventa tematicamente ancora più cupo, traendo ispirazione dagli eventi reali di un caso di abuso su minore avvenuto oltre un decennio prima, e perpetrato da due famiglie che vivevano vicino alla vittima (il volto sofferente in copertina spiega tutto).

La scaletta inizia con "Preceding", una dichiarazione d'intenti interamente strumentale che si muove attraverso gli ingranaggi che ci si aspetterebbe da un'ouverture di un concept album, mettendo in mostra le qualità principali della band. Un'apertura di synth slavati e un drumming feroce lasciano il passo a una linea di basso vigoroso e distorto e a un riff di chitarra ipnotico e glaciale di estrazione prog metal. La sezione centrale si apre a una melodia ariosa che profuma di Genesis, con le chitarre pulite e arpeggiate che creano spazio, mentre la linea di chitarra solista di Bergseth suona indulgentemente sulle note alte. Infine, la batteria martellante di Utby si combina con pesanti linee di chitarra in minore, inquietanti spoken word e sferzate d'organo. Un brano straordinario e di grande impatto.

L'impeto non rallenta conil singolo "The Trauma", che rimane su un binario strumentale che mi ha ricordato tanto i Mastodon, soprattutto per il tentacolare lavoro alla batteria a doppia cassa e i riff di chitarra ascendenti e armonicamente discordanti. Non manca, ovviamente, il consueto intermezzo melodico, che dà al brano un andamento altalenante, tra atmosfere minacciose e derive dolorosamente malinconiche. Un brano tecnicamente superbo e costruito con sapienza, soprattutto quando entrano le linee vocali, pulite e avvolgenti, nei momenti più morbidi, e in growl, quando nel finale la canzone si riaccende di ferale urgenza.

Il tema proposto dal concept emerge in "Families Are Forever", brano dal ritmo più lento (e in leggero controtempo) e immerso in una foschia sinistra, in cui chitarre e synth s’intrecciano, così come il cantato pulito e un luciferino growl. Anche "Conflating Memories" si muove più lentamente, le trame sono eteree, la voce pulita allunga le sillabe sull’impianto strumentale, in cui tra gli arpeggi armonizzati si insinua d’improvviso un flauto, che sembra essere preso in prestito dall’estro di Mel Collins (King Crimson).

Il primo singolo, "The Malevolent", deflagra come una bomba prog metal, pesante e veloce, trascinato da un memorabile riff di chitarra dai connotati orrorifici accentuato da spunti d'organo altrettanto inquietanti. Il brano vede la presenza di Ross Jennings degli Haken come ospite. Una mossa astuta, perché la sua estensione vocale eleva brillantemente la melodia del ritornello, davvero ben congegnata.  

Per quanto oscuro possa essere Waving At The Sky, quando gli Avkrvst sono in modalità riff cattivi, l’ascolto diventa elettrizzante, come avviene nella prima parte di "Ghosts Of Yesteryear", che sfiora il djent prima di immergersi in un’atmosfera bucolica e verdeggiante (anche qui ho trovato echi dei Genesis) per poi ricominciare a spingere sull’acceleratore.  

L'album si chiude con la title track lunga ben dodici minuti, un brano sinuoso e intriso delle plumbee atmosfere che prevalgono in scaletta. Si torna alle cupe sezioni di spoken word tratte dai notiziari contemporanei, il brano inizia morbido ma poi cresce e ringhia letteralmente quando il riff di chitarra si fa più aggressivo (anche il lavoro alle tastiere è memorabile), salvo poi spegnersi su una nota di ottimismo nelle battute finali.

Nonostante la cupezza del concept (scritto e registrato, come il loro debutto, in una baita isolata nella remota Alvdal, in Norvegia), Waving At The Sky è chiaramente il frutto della forza creativa della band, amici d'infanzia, entusiasti di creare lo stile musicale che amano e di suonarlo con straordinario trasporto. Manca forse l’elemento sorpresa dell’esordio, e l’impianto melodico che aveva fatto gridare al miracolo in The Approbation è qui meno marcato, favorendo un tiro più aggressivo. Ciò premesso, siamo comunque di fronte a un grande disco di progressive, che non inventa nulla di nuovo, ma maneggia la grande tradizione con freschezza, idee e un tocco di originalità.

Voto: 8

Genere: Prog Metal

 


 

 

Blackswan, lunedì 14/07/2025

giovedì 10 luglio 2025

Colin Walsh - Kala (Fazi, 2025)

 


Che fine ha fatto Kala? A Kinlough, una cittadina irlandese che si affaccia sul mare, è l'estate del 2003. Un gruppo di amici quindicenni sta vivendo il momento più bello della vita: i primi amori, le prime sbronze, l'amicizia viscerale come può esserlo solo a quell'età. È un'estate vissuta come se dovesse durare in eterno. È l'estate che cambierà per sempre le loro vite. Kala Lanann, carismatica leader del gruppo, trasgressiva e spericolata, al culmine di quella stagione scomparirà senza lasciare traccia. Quindici anni dopo, tre dei vecchi amici si ritrovano nella cittadina. Helen, Joe e Mush, un tempo inseparabili, ormai hanno preso strade diverse e si sono lasciati tutto alle spalle. Negli stessi giorni, però, vengono ritrovati dei resti umani nel bosco di Caille, lo stesso bosco dove Kala viveva con sua nonna. È l'inizio di un nuovo incubo. Mentre passato e presente cominciano a sovrapporsi, i tre amici sono costretti a confrontarsi ancora con la tragedia che li lega, cercando di mettere fine a quella storia una volta per tutte. Sullo sfondo di una città soffocata dai suoi stessi segreti, Kala descrive il costo a volte brutale dell'appartenenza, ma anche il contrasto tra vendetta e perdono, condanna e redenzione.

 

Tre amici di lunga data si ritrovano a Kinlough, ridente cittadina irlandese dove sono cresciuti e, quindici anni prima, erano amici inseparabili. Joe ha coronato i suoi sogni musicali, è diventato una rockstar di successo, ma affoga il proprio vuoto interiore nell’alcool. Helen si è trasferita in Canada, dove è diventata una giornalista freelance, squattrinata e disillusa. E poi, c’è Mush, il bel ragazzo dal volto sfigurato, che da Kinlough non è mai partito e, sconfitto dalla vita, lavora come commesso nella caffetteria di mamma. Joe, dopo un brutto infortunio, torna nella cittadina natale per tenere un concerto, mentre Helen fa ritorno a casa dopo anni per partecipare al matrimonio del padre. Nello stesso momento, vengono ritrovati dei resti umani che, si scopre, appartengono a Kala, ex fidanzata di Joe e amica del cuore sia di Helen che di Mush, scomparsa misteriosamente nel 2003.

Il ricongiungimento dei tre amici e la macabra scoperta, sono l’innesco per un romanzo esplosivo, che indossa gli abiti del thriller, sotto i quali, però, si nasconde molto di più. Narrata dal punto di vista dei tre protagonisti, la storia di Kala oscilla fra passato e presente, fra gli anni della spensierata adolescenza e dell’amicizia assoluta, e l’oggi, specchio di un fallimento generazionale che non fa sconti. Siamo a metà strada, dunque, fra romanzo di formazione, un percorso di luci e ombre che conduce alla perdita dell’innocenza, e la critica sociale di una società che ha perso i suoi valori, sostituiti dall’effimero dei social, dall’apparire a tutti i costi, e dall’egoismo e l’isolamento come unici scudi di difesa alla violenza del mondo.

Nella cornice bucolica di Kinlough, nell’apparente tranquillità di una piccola cittadina fotografata sul finire dell’estate, prende forma un dramma che è tanto personale quanto universale. Perfetto crocevia fra Dio di Illusioni di Donna Tartt e Ohio di Stephen Markley, Kala affronta i temi della perdita, dell’amicizia, del perdono, e soprattutto dei conti che tutti dobbiamo fare con il nostro passato, cercando, se possibile, una sorta di pacificazione tra ciò che eravamo e ciò che siamo diventati.

C’è una violenza strisciante nella pagine di Kala, un affastellarsi crudo e ustionante di rimorsi, di rimpianti, di non detti, di omissioni, che si gonfia pagina dopo pagina fino all’esplosione finale, un redde rationem che rimette in ordine le tessere del puzzle, lasciando molti cuori spezzati, ma suggerendo anche che la perdita, per quanto definitiva, può essere sanata con la forza catartica del perdono (in tal senso il finale è di una bellezza tanto semplice quanto emozionante).

Walsh scrive benissimo, regala momenti di riflessione esistenziali profondi e si prende cura di ogni sfaccettatura psicologica dei suoi personaggi, vivi e vividi ben oltre l’ultima pagina del romanzo. Su tutti, Kala, l’involontaria protagonista della tragedia, l’assente/presente, il fantasma che chiede giustizia, la molla che fa scattare nei tre amici il meccanismo della consapevolezza e un bisogno ineludibile di pietas, di comprensione, di condivisione, di pacificazione. Kala, bellissima e imperfetta (l’occhio storto che attenua l’incantevole simmetria del viso), perfetta icona di ogni gioventù, così testarda, ribelle e voluttuosa, eppure fragile, ingenua, malinconica e disperatamente sola. Kala, che è tutto questo, ma che simboleggia anche un’umanità empatica, che non si arrende, che lotta, che cerca la verità, costi quel che costi.

E c’è di più. Questo straordinario romanzo d’esordio è anche, limitandosi a un primo e più superficiale piano di lettura, un palpitante thriller, addirittura impetuoso nella seconda parte, in cui il lettore verrà accompagnato da Walsh, pagina dopo pagina, tra colpi di scena e accelerazioni adrenaliniche, a svelare il mistero della scomparsa di Kala.

Romanzo dell’anno? Probabilmente, si.

 

Blackswan, giovedì 10/07/2025

martedì 8 luglio 2025

Kadavar - I Just Want To Be A Sound (Clouds Hill, 2025)


 

La formula alchemica di queste canzoni rispecchia, a prescindere dall’ambientazione fosca e vagamente sepolcrale, la stessa di sempre: un mix di hard rock, space, psichedelia e doom che guarda principalmente agli anni ’70.”

Scrivevo così, solo sei anni fa, a proposito di For The Dead Travel Fast, l’ultimo album rappresentativo dei teutonici Kadavar, così come li avevamo sempre conosciuti fin dal loro omonimo esordio del 2012. Poi, qualcosa è iniziata a cambiare con Isolation Tapes (2020), un disco meno vibrante e rumoroso, più influenzato dal progressive e dalla psichedelia, un’opera atmosferica, intensa e struggente, e dal grande impatto emotivo. A distanza di un lustro, arriva, dunque, questo nuovo I Just Want To Be A Sound, che i fan di vecchia data, gli stessi che non avevano gradito la svolta del suo predecessore, attendevano, ponendosi numerosi interrogativi su cosa avrebbe fatto l’amata band.

In tal senso, se un album come Isolation Tapes aveva destabilizzato che si attendeva il solito turbinio elettrico, questo nuovo album si presenta come un definitivo taglio con il passato, è qualcosa che forse nessuno si sarebbe mai aspettato. E questo perché le dieci canzoni in scaletta rappresentano non solo un cambiamento, ma addirittura uno stravolgimento. Dei vecchi Kadavar, infatti, è rimasto ben poco, e l’album sembra davvero concepito lungo coordinate agli antipodi di quei territori che erano frequentati con tanto successo.

E’ evidente che chi ha amato la band fin dalla prima ora si troverà spiazzato e, diciamocelo, anche un filo incazzato: I Just Want To Be A Sound è un disco orecchiabile e aperto al mainstream, in cui la rabbia, l’energia e il sudore di un tempo vengono sostituiti da un approccio pop rock melodico. L’album è colorato e cangiante, la psichedelia è presente, non è certo quella che apriva a travolgenti cavalcate lisergiche, semmai un ingrediente più leggero e volatile.

Se come recita il titolo, dunque, lo scopo di quest’album era quello di centrare un suono, in tal senso il risultato è pienamente raggiunto, e sotto questo punto di vista il disco suona coeso. Ma non sono più i Kadavar.

L’ariosa title track apre il disco, mostrando subito la nuova mano di carte: è melodica in modo solare, il ritornello è da acchiappo e qualcuno coglierà nell’incedere volatile qualche fragranza riconducibile agli U2 più pop. 

Il riff ruvido di Hysteria è un tranello, perchè il brano, una sorta di filastrocca elettrica, si muove in modo prevedibile e un po’ scialbo. Un piccolo ringhio, ma senza corpo e anima. Non meglio, il sabba psichedelico di "Regeneration", che tra battiti di tamburi e tastiere space cerca la melodia vincente senza però trovarla.

E’ questo un po’ il trend dell’album: i suoni sono spettacolari, ma le canzoni restano prevalentemente insipide, una sorta di vorrei, ma non posso ("Let me Be A Shadow").

Non mancano, tuttavia, momenti decisamente convincenti: "Sunday Mornings" è una ballata d’atmosfera avvolta di synth e di malinconia che dopo qualche minuto decolla in una convulsa deriva space rock, mentre "Star" è languida psichedelia che cita i Pink Floyd e si libra nell’etere sulle note di una melodia, questa volta, davvero notevole.

I Just Want To Be A Sound rappresenta un nuovo capitolo nella carriera dei Kadavar, è l’inizio di una svolta che porta la band berlinese a esplorare territori fino a oggi sconosciuti. Come tutte le prime volte, il passo è incerto. Se da un lato, la volontà di abbracciare un nuovo suono è perfettamente soddisfatta, dall’altro, le canzoni non sono tutte all’altezza dell’idea che sta alla base. Mancano grandi brani, di quelli da mandare a memoria, e non sempre l’aspetto melodico, che è il grimaldello necessario per aprire le porte al grande pubblico, riesce a essere pienamente convincente. Il risultato è un disco che sta in una terra di mezzo e sembra destinato a scontentare un po’ tutti. Il coraggio, però, va premiato e la sufficienza è, pertanto, piena.

Voto: 6,5

Genere: Rock, Pop

 


 


Blackswan, martedì 08/07/2025

lunedì 7 luglio 2025

Landslide - Fleetwood Mac (Reèrise, 1975)

 


Una delle canzoni più famose dei Fleetwood Mac, una ballata senza tempo, introspettiva e struggente. E’ il settembre del 1974, Stevie Nicks vuole a tutti i costi sfondare nel mondo della musica, ma le cose non vanno esattamente come aveva immaginato. Da anni, la cantante lavora come cameriera e donna delle pulizie per mantenere in vita il suo sogno, e si sente vecchia, nonostante i suoi ventisette anni, e terribilmente stanca. Un sera, nella casa di Phoenix, dove vivono i suoi genitori, il padre la prende da parte e le dice che le vuole bene, che non smette di credere in lei, ma che forse è passato troppo tempo senza che la musica abbia ripagato tutti i suoi sforzi. “Prenditi altri sei mesi” la incalza” “e se le cose non dovessero andare come vuoi, puoi sempre tornare a studiare, pagheremo tutto noi, non devi preoccuparti”.

Poco dopo, la Nicks insieme al fidanzato e pigmalione artistico Lindsey Buckingham se ne va ad Aspen, in Colorado, a casa di un amico. Affascinata dal panorama di montagne innevate, la songwriter prende la sua chitarra, si siede in soggiorno e compone Landslide in cinque minuti netti, dopo aver pensato: “tutta questa neve potrebbe semplicemente crollarmi addosso e non c'è niente che io possa fare al riguardo”. Un pensiero che confluisce nei versi iniziali del brano.

 

Ho scalato una montagna e mi sono voltata

E ho visto il mio riflesso sulle colline coperte di neve

Finché la frana non mi ha portato giù

Oh, specchio nel cielo, cos'è l'amore?

 

Landslide è una canzone triste, su questo non ci piove, che può essere interpretata come un brano che racconta i cambiamenti che influiscono su una storia d’amore, creando dubbi, perplessità, paure. Di sicuro, è una canzone che parla del tempo che passa, di come le persone affrontino i cambiamenti, di come la crescita modifichi la percezione che abbiamo della realtà e degli affetti che ci circondano. In tal senso, il brano ha molto a che vedere con il rapporto tra la Nicks e il proprio padre.

 

Può il bambino dentro il mio cuore elevarsi?

Posso navigare attraverso le mutevoli maree dell'oceano?

Posso gestire le stagioni della mia vita?

Beh, ho avuto paura di cambiare

Perché ho costruito la mia vita attorno a te

Ma il tempo ti rende più audace

Anche i bambini crescono

E anch'io sto invecchiando

 

Il cordone ombelicale inevitabilmente si allenta, la bambina deve trovare la sua strada, non può più dipendere dal padre, e anche se il distacco fa paura, l’esistenza chiama altrove, la montagna della vita deve essere scalata con le proprie gambe.

Qualche tempo dopo, la notte di Capodanno del 1974, Mick Fleetwood chiamò la Nicks chidendole se lei e Buckingham volessero unirsi ai Fleetwood Mac. Dei sei mesi che il padre aveva concesso a sua figlia ne restavano ancora tre, e il traguardo, finalmente, era a un passo. Lindsey Buckingham e Stevie Nicks, ai tempi, stavano registrando come duo usando il nome Buckingham-Nicks, avevano già pubblicato un album e stavano progettando di includere Landslide nel prossimo, che invece finì nell’omonimo album dei Fleetwood Mac datato 1975.

Quando nel 1997 la band pubblicò il disco dal vivo The Dance, Lindsey Bickingham, che aveva mollato i Fleetwood Mac per dieci anni, si riunisce al gruppo e partecipa al tour di promozione dell’album. Stevie Nicks e Lindsey Buckingham eseguivano la canzone da soli sul palco, spesso con gli occhi lucidi di emozione. Queste intense esibizioni diventarono una costante anche nei tour successivi, poiché i fan erano sempre ansiosi di vedere gli ex amanti condividere quel momento toccante, che poteva variare in intensità, da un semplice sfiorarsi delle mani a un appassionato sguardo colmo di sottintesi.

La Nicks ha sempre insistito sul fatto che quelle erano emozioni vere, e non una semplice recita. A tal proposito, durante un’intervista per la rivista Rolling Stone, disse: "Sali sul palco e la fiamma dell’antico amore si riaccende. Poi, quando torni nei tuoi camerini, è finita. Ma finché sei sul palco, tutto è reale".

 


 

 

Blackswan, lunedì 07/07/2025

giovedì 3 luglio 2025

Buckcherry - Roar Like Thunder (Earache, 2025)

 


Sarà anche una banalità, ma talvolta si ha la prova provata che il rock’n’roll fa bene alla salute, e mantiene giovani nonostante il tempo che passa inesorabilmente. E’ il caso dei losangelini Buckcherry, che festeggiano i trent’anni di carriera, ma suonano ancora come dei ventenni divorati dal sacro fuoco della musica.

Formatisi in California nel 1995, nel corso degli anni, la band ha superato rotture, cambi di formazione e le sabbie mobili del lockdown e della pandemia. Josh Todd, cazzutissimo frontman, nonostante abbia acquisito di recente lo status di grandfather, è ora l'unico membro originale, affiancato da Stevie Dacanay (chitarra), Billy Rowe (chitarra), Kelly LeMieux (basso) e Francis Ruiz (batteria).

L'undicesimo album della band, Roar Like Thunder, esplode di energia pura e di una spavalderia che ha pochi eguali, è un disco che si rifiuta di invecchiare, mostrando i muscoli, alzando il volume, e incarnando lo spirito selvaggio del quintetto, gagliardo e traboccante d’entusiasmo come se si fosse appena affacciato sulla scena.

I Buckcherry hanno registrato l'album ai Sienna Recording Studios di Nashville, collaborando nuovamente con il produttore di vecchia data, Marti Frederiksen (Aerosmith, Mötley Crüe e Ozzy Osbourne) e con il tecnico del suono Anthony Focx, noto per il suo lavoro con Metallica e Aerosmith. Il risultato è un disco moderno e incisivo, ma saldamente radicato nella tradizione hard rock, che sfrutta i punti di forza della band: riff audaci e vertiginosi, ritornelli di facile presa e, soprattutto, la voce di Josh Todd, sempre potente e grintosa, nonostante i cinquantacinque anni indicati dall’anagrafe.

La title track, "Roar Like Thunder", chiarisce subito che da queste parti non si fanno prigionieri, scatta travolgente con un ritmo da treno in corsa e piazza un ritornello che ti rimane in testa per giorni. Mettete le cinture e tenetevi forte, perché l’alta velocità rischierà di farvi capottare. "When The Sun Goes Down" è pura adrenalina punk rock, è arrabbiata e sporca, quel che basta per lasciarvi l’unto sotto le unghie, mentre "Come On" richiama i classici AC/DC con il suo groove martellante e le chitarre che friggono di spavalda elettricità.

Ci sono momenti in cui la band si attiene un po' troppo alla stessa formula e se sperate qualche cambio di rotta, qui non la troverete. Alcuni testi sfiorano i cliché (beh, che vi aspettate, che Josh Todd smetta di parlare di donne e alcol?), e un paio di brani sembrano già ascoltati decine di volte, ma, ciononostante, l'energia e la convinzione tengono alto il livello. Insomma, i Buckcherry fanno sempre lo stesso disco, ma lo sanno fare benissimo.

Poi, ogni tanto aggiungono qualche nuova spezia, e allora ben vengano canzoni come "Blackout", evidente omaggio ai Rage Against The Machine, o "I Got Bloom", che gira dalle parti degli Aerosmith più incazzati e tira bordate alzo zero grazie a un arrangiamento di ottoni sputa fuoco.

Nel lotto c’è anche "Hello Goodbye", un midtempo telefonatissimo ma egualmente centrato nel ritornello e la conclusiva "Let It Burn" tiratissimo shock rock, che entra in derapata nei padiglioni auricolari facendoli sanguinare.

Stilisticamente, Roar Like Thunder è puro Buckcherry sound: riff incalzanti, ritmi adrenalinici e un mood orgogliosamente ancorato allo sleaze e alla spavalderia dell'hard rock classico. La band, inoltre, porta con sé, esibendole come una medaglia, le sue influenze, dagli AC/DC agli Aerosmith, ma possiede la consapevolezza e la grinta per farle proprie.

Insomma, Josh Todd non cerca di inseguire le mode, e non ha mai smesso di essere coerente al proprio credo, che è quello di offrire un rock’n’roll diretto, sudatissimo e fiero delle proprie origini. Quindi, se avete voglia di zompare come grilli tra il salotto e il soggiorno, alzate il volume dello stereo e scatenatevi al suono di Roar Like Thunder. Con buona pace dei vicini e, se siete anzianetti come il sottoscritto, anche della cervicale. 


Voto: 8

Genere: Hard Rock




Blackswan, giovedì 03/07/2025

martedì 1 luglio 2025

It's Been Awhile - Staind (Elektra, 2001)

 


Entrare nel tunnel della dipendenza, smarrirsi nel buio dell’anima, allontanare tutti coloro che posso aiutarti a riprendere fiducia in te stesso, a combattere il male di vivere. Fare un passo avanti verso la disintossicazione, e due indietro, e perdersi, ogni volta, in un loop vizioso, che risucchia verso l’abisso, togliendo ogni speranza alla resurrezione. In questa canzone, il cantante Aaron Lewis si sta fustigando, in quello che è lamento misto a rabbia e autocommiserazione. Il motivo è che ha perso l'unica donna che avrebbe potuto curare le sue dipendenze, donargli la giusta serenità per rimettersi in piedi e ripartire. E ha perso il supporto del padre, che ha fatto di tutto per aiutarlo.  Così, il ciclo autodistruttivo continua, mentre il tempo passa inesorabilmente e il baratro è sempre lì pronto ad accoglierlo, per un definitivo ed esiziale sprofondo.

 

And it’s been awhile

Since I can say that I wasn’t addicted

And it’s been awhile

Since I can say I love myself as well

And it’s been awhile

Since I’ve gone and f**ked things up

just like I always do

And it’s been awhile

But all that shit seems to disappear

when I’m with you

 

A leggere le liriche della canzone, sembra quasi impossibile che, ai tempi, Lewis vivesse una delle relazioni più sane e stabili della storia del rock. Il cantante degli Staind, infatti, aveva iniziato a frequentare la sua Vanessa nel 1997, prima che la band diventasse famosa. La coppia si è poi sposata l’anno successivo, e quando gli Staind hanno iniziato ad accumulare successi, Vanessa è stata una fonte incrollabile di supporto per Lewis, gestendo, spesso da sola, anche la crescita dei loro tre figli. 

Perché, allora, questa canzone è così cupa, così disperatamente arresa? Il motivo risiede esclusivamente nella personalità del cantante e nella sua visione pessimista e malinconica della vita: le parole di Lewis sono sempre state espressione di un dolore e di una depressione profondamente radicate nel suo animo. Così, a prescindere da ogni giudizio sulla qualità artistica della loro musica, è stato quasi inevitabile che queste rappresentazioni frontali dell'angoscia abbiano colpito nel segno molti ascoltatori, creando un legame emotivo strettissimo fra la band e il suo pubblico.

Senza girarci troppo intorno, se Aaron Lewis non era un allegrone, i suoi fan non erano da meno. Le parole del cantante avevano un peso, soprattutto perché condivise con molte anime fragili che provavano il suo stesso male di vivere. Così, quando nel 2001, un fan della band si suicidò mentre ascoltava una registrazione della sua stessa voce che cantava la canzone degli Staind Outside, Lewis cadde in un periodo di profonda prostrazione.

It's Been Awhile fu scelta come primo singolo da Break The Cycle, il terzo album in studio della band, ed è di gran lunga il più grande successo commerciale degli Staind, quello che diede loro visibilità internazionale. Trainato dalla canzone, Break The Cycle arrivò al primo posto in America e vendette oltre 5 milioni di copie (di cui 767.000 nella prima settimana). Il disco ebbe un discreto successo anche in Italia, dove Break The Cycle si affacciò quasi alla top ten, raggiungendo la tredicesima piazza in classifica.

 


 

 

Blackswan, martedì 01/07/2025