venerdì 27 dicembre 2024

Cemetery Skyline - Nordic Gothic (Century Media, 2024)

 


Più esplicito di Nordic Gothic è difficile. Se poi al titolo dell’album aggiungi anche una copertina livida e catacombale, è evidente quale sia il genere musicale sviscerato dagli scandinavi Cemetry Skyline (un nome, un programma). Questo è l’esordio, difficile dire se episodio estemporaneo o progetto duraturo, di un supergruppo svedese/finlandese che annovera fra le sue fila nomi notissimi del panorama metal: Mikael Stanne (Dark Tranquillity, The Halo Effect) alla voce, Markus Vanhala (Insomnium, Omnium Gatherum) alla chitarra, Santeri Kallio (Amorphis) alle tastiere, Victor Brandt (Dimmu Borgir) al basso e Vesa Ranta (Sentenced) alla batteria.

Una line up dal pedigree nobilissimo, musicisti tecnicamente inappuntabili e con una solida esperienza di songwriting alle spalle, dai quali ci si aspetterebbe un disco molto più pesante di quello che, in realtà, Nordic Gothic è. Ciò perchè l'idea principale che anima questo album era quella di fare qualcosa di diverso rispetto a ciò che ciascuno dei componenti della band ha fatto in passato, e il risultato finale è una scaletta lunatica, melodica e malinconica, in cui le sonorità estreme sono residuali in favore di un goth rock di facile fruizione, cantato (sorpresa delle sorprese) da Mikael Stanne con timbro tanto pulito quanto profondo e sensuale.

La band aveva attirato l'attenzione di tutti questa primavera al momento della pubblicazione del primo singolo, "Violent Storm", una canzone lontana anni luce da ogni clichè metal, un brano dall’incedere minaccioso, le cui atmosfere malinconiche e quelle tastiere dal suono vintage anni ’80 facevano semmai pensare a musica presa in prestito  dal songbook di Billy Idol. La linea melodica del brano è semplice eppure efficacissima, caratteristica, questa, comune alla maggior parte delle canzoni in scaletta, che guardano al cuore della notte, senza però mai rinnegare un tiro dritto e diretto decisamente rock, che richiama alla mente band come Cult, Mission o i più recenti Unto Others, e ritornelli uncinanti, che evocano i Ghost e, in alcuni casi, anche gli Him.  

Un ottimo esempio in questo senso è il secondo singolo, "In Darkness", il cui incedere aggressivo, chitarre potenti e ritmica quadrata, lascia spazio alla consueta vena melodica che lo rende un brano piacione e di immediata fruizione. Le cose cambiano un po' con il terzo singolo, "The Coldest Heart", la cui introduzione di basso, lo scintillante riff di pianoforte e il cantato da crooner di Stanne fanno pensare ai Simple Minds di "Once Upon a Time", mentre "Torn Away" è un evidente omaggio ai Sister Of Mercy e a quelle sonorità che spopolavano negli anni ‘80, così come l’incalzante "The Darkest Night", caratterizzata da un impressionante lavoro di Markus Vanhala alla chitarra.

Tra le cose migliori del disco, poi, occorre segnalare "When Silence Speaks", una ballata dolcemente malinconica, segnata dall’interplay fra pianoforte e violoncello e dalla prova vocale maiuscola di Stanne, mentre la lunga e ondeggiante "Alone Togher" chiude il disco con sentimento, ma minore efficacia e molta prevedibilità.

Nel complesso, Nordic Gothic è un disco assolutamente riuscito, testimonianza del fatto che anche musicisti con un diverso background, se animati da una visione comune, possono creare opere coese e ispirate. In tal senso, l’esordio dei Cemetry Skyline raggiunge l’obbiettivo di offrire all’ascoltatore cinquanta minuti di musica nebulosa, atmosferica e lunatica, capace di conquistare con canzoni dirette, prive di artifici, ma estremamente godibili.

Voto: 7

Genere: Goth Rock

 


 


Blackswan, venerdì 27/12/2024

giovedì 26 dicembre 2024

In My Place - Coldplay (Parlophone, 2002)

 


Una canzone d’amore disperata, la presa di coscienza di un rapporto che è finito perché lui ha commesso troppi errori (“I was scared, I was scared, tired and under prepared”). In My Place racconta, infatti, di un ragazzo che ama una donna che non lo ricambia più. Lui le chiede di tornare e le dice che l’aspetterà per sempre, anche se ormai non sa più se quel posto in cui attende sia il posto giusto per lui. Fu lo stesso Chris Martin a spiegare il significato della canzone a Billboard Magazine: "Riguarda il posto in cui ti trovi nel mondo, il modo in cui ti viene assegnata la tua posizione, il modo in cui appari e come devi andare avanti".

In My Place è stata scritta poche settimane prima che i Coldplay pubblicassero il loro album di debutto, Parachutes, ed è stata la prima canzone che la band ha registrato per A Rush of Blood to the Head. I Coldplay in seguito le attribuirono il merito di aver dato loro la fiducia necessaria per continuare dopo il travolgente successo dell’esordio. Martin ha ricordato a Q Magazine, nel 2002: "Dopo aver registrato Parachutes ci era rimasta una canzone: In My Place. A parte questo brano, eravamo a secco e ho pensato: "Ecco, abbiamo finito". Ma quando Jonny (Buckland, ndr) mi ha suonato con la chitarra quell’ultima canzone rimasta, ho pensato: "Bene, dobbiamo registrarla". E quella è stata la canzone che ci ha salvato."

Fu decisamente curioso ciò che avvenne il giorno in cui i Coldplay si trovarono in studio per registrare la versione definitiva di In My Place. Chris Martin è da sempre un grande fan di Ian McCulloch, cantante e fondatore della band originaria di Liverpool, gli Echo And The Bunnymen, di cui il frontman conosce a mena dito tutta la discografia.  E indovinate un po'? Mentre la band è pronta a suonare quel brano, McCulloch si presenta in studio per salutare i quattro giovani colleghi e, ciliegina sulla torta, per dare coraggio a un emozionatissimo Chris Martin, presta al cantante il suo caratteristico trench.

Anche se, come detto, il brano risale ai tempi di Parachutes, la band ha provato diverse versioni di questa canzone prima di decidere quella che sarebbe stata inserita nel loro sophomore, A Rush of Blood to the Head. Ciò accadde semplicemenrte perché la band aveva eseguito molte volte dal vivo In My Place, introiettando come definitiva quella versione, replicata per due anni sul palco, che, però, non sembrava adatta alla scaletta dell’album.

Gli sforzi delle numerose prove furono adeguatamente premiati: In My Place vinse Grammy Award per la migliore performance rock di un duo o gruppo, raggiunse la seconda piazza nelle classifiche del Regno Unito e conquistò il disco d’oro anche in Italia.

 


 

 

Blackswan, giovedì 26/12/2024

martedì 24 dicembre 2024

Juan Gomez - Jurado - Tutto Torna (Fazi, 2024)


 

Tutto ciò di cui Aura Reyes ha bisogno è rimanere viva altri dieci minuti. Non è un compito facile. Le altre sono quattro, sono più forti e lei - una figura accerchiata, nel cortile del carcere - non è mai stata brava a difendersi. O forse sì. Perché Aura deve riprendersi le sue figlie. E anche le sue amiche. È per questo che ha elaborato un piano che inizierà tra dieci minuti. Quindi no. Non ha intenzione di morire oggi. Fuori dal carcere la aspetta una nuova sfida: dovrà vedersela con i Dorr, una potente famiglia che nasconde molti segreti, la cui ultima erede, Irma, regge le fila di un misterioso Circolo. E c'è una preziosa valigetta da recuperare. Non si sa che cosa contenga, ma di certo il suo contenuto è potenzialmente esplosivo...

E’ evidente fin dal titolo, che Tutto Torna sia un’emanazione del precedente Tutto Brucia (2022), e sia, quindi, il seguito della storia di Aura, Mari Paz e Sere, di nuovo alle prese con l’universo Regina Rossa e i personaggi ricorrenti che ne fanno parte. Abilissimo nel creare interconnessioni tra il presente e il passato e tra quasi tutti i romanzi pubblicati fino a oggi, Gomez - Jurado crea un palpitante intreccio narrativo che vede le tre amiche misurarsi con un nemico apparentemente invincibile e un’avventura che sembra destinata a un epilogo esiziale.

Aura, che si trova reclusa in un carcere di massima sicurezza a causa di Ponzano, riesce a evadere grazie a un misterioso benefattore, che le chiede, però, di recuperare una preziosa valigetta. Non certo un’impresa facile, dal momento che quella valigetta è nel mirino di forze oscure e senza scrupoli, che mettono a repentaglio la vita delle due figlie di Aura. A difenderle e a prendersene cura, c’è Mari Paz, la quale, per salvare le due bambine, si trova ad affrontare dei killer spietati, durante una rocambolesca fuga attraverso una Spagna arroventata dalla canicola. Quando le cose precipitano, non resta che attuare un piano disperato, le cui possibilità di riuscita sono ridotte al lumicino.

Chi già conosce la prosa di Juan Gomez Jurado sa esattamente cosa aspettarsi da un suo romanzo. Per chi, invece, si approccia per la prima volta a un libro dello scrittore spagnolo (ogni storia vive di vita propria, ma sarebbe meglio leggere i romanzi in ordine cronologico), si troverà di fronte all’ennesimo thriller dall’elevato tasso di adrenalina, in cui i ritmi sono serrati e i colpi di scena si susseguono senza soluzione di continuità. Ciò, tuttavia, senza che venga mai meno la qualità della scrittura, che suona clamorosamente pop ed estremamente dinamica, ma che non è mai sciatta o banale, che sa restare in superficie per rendere più agili i tanti momenti d’azione, ma che sa anche rallentare il passo, per soffermarsi sull’introspezione psicologica dei personaggi o, come nello specifico, raccontare attraverso un brillante escamotage, la torbida storia della famiglia Dorr.

La buona notizia per i fan di Regina Rossa e di Aura, Mari Paz e Sere, è che il finale del libro apre a un nuovo capitolo, che si preannuncia emozionante come i primi due.

 

Blackswan, martedì 24/12/2024

lunedì 23 dicembre 2024

Jack White - No Name (Third Man Records, 2024)

 


Jack White è un musicista di successo, eppure, nonostante ciò, se ne fotte bellamente dell’industria discografica e dei tempi e delle modalità che ne regolano gli ingranaggi. Lui continua a essere un artista che fa le cose alle sue condizioni, quando ne ha voglia e in base all’ispirazione del momento. Non ha freni né pastoie, e galoppa libero negli sconfinati territori del rock, sperimentando a suo esclusivo piacere.

La storia di questo No Name è ormai nota. Il 19 luglio, nei negozi della Third Man Records, la piccola casa discografica indipendente di sua proprietà, ad alcuni clienti che acquistavano un album in vinile, venne regalato un album gratuito, non contrassegnato, con una copertina bianca su cui era semplicemente stampata la parola “No Name”: nessun credito e nemmeno il titolo dei brani. Poi, finalmente, dopo lo streaming, la versione fisica del disco, a beneficio di coloro che ancora ascoltano musica tramite supporto.

Sarò un boomer, anzi lo sono, ma questo album sparato a mille dalle casse dello stereo ha tutto un altro sapore, lo stesso che provai, tempo fa, ad ascoltare i dischi dei White Stripes. Un suono simile, e lo stesso approccio furente, spigoloso, slabbrato, sanguigno: un rock blues grezzo, declinato in modo schietto e diretto, attraverso una selvaggia inclinazione garage, che riporta alle radici di quel suono nato negli anni ’60. I White Stripes, dunque, ma con una maggiore consapevolezza compositiva: riff di chitarra come se piovesse, e un drumming primitivo che ricalca quello di Meg.

Per i fan della band e del Jack White più elettrico e aggressivo questo è un disco che sembra troppo bello per essere vero, e che riconnette il chitarrista alla sua originaria natura, grazie a tredici canzoni implacabili e furenti, ma al contempo orecchiabili e divertenti. Tutto semplice, diretto, figlio di una filosofia lo-fi, per cui altro non serve se non un riff spacca ossa, una ritmica ossessiva, una voce grintosa e pochi e spartani abbellimenti (qualche assolo, qualche cambio di tonalità, estemporanee armonie vocali). Tutto impastato da un mixaggio basico, quasi amatoriale, che mette in risalto sporcizia e distorsione, favorendo l’impeto a discapito della pulizia del suono e dell’appeal commerciale. Insomma, Jack è davvero tornato alle origini e sembra che non sia passato un solo giorno dal 1999, anno domini dell’esordio del fenomeno White Stripes.

Basta la prima traccia, "Old Scratch Blues" e tutto è subito chiaro: blues a tutto volume, riff garage annichilente, voce viziosa, e un assalto sonoro che morde alla giugulare senza che la tensione venga mai meno per tutta la durata della scaletta. Un’attitudine che diventa ancora più pesante nella successiva "Bless Yourself" (ironica presa di posizione nei confronti della religione e della polizia), brano che scortica la pelle, nonostante non manchi, nel deliro sonoro, anche un discreto piglio melodico.

Ogni canzone è spigolosa, sporca, figlia di una garage rock senza compromessi ("That's How I'm Feeling"), di urticante punk lo-fi ("Bombing Out"), di espliciti echi del passato White Stripes ("What’s The Rumpus?"), di furia iconoclasta e sarcastica ("Archbishop Harold Holmes") e slide blues audaci e, tutto sommato, orecchiabili ("Underground").

No Name possiede un’anima sfacciatamente aggressiva, non ci sono trucchi o alchimie, e tutto è dannatamente diretto, immediato, quasi purificatorio nella sua urgenza di riappropriarsi delle radici, dell’essenza di quel sacro fuoco che, sempre, dovrebbe animare il rock. Eppure, questi tredici brani, sono molto di più di un furente sfogo, ma sono figlie della visione di chi, nel corso del tempo, non è mai stato alle regole del gioco, ha plasmato una materia nota con intelligenza, idee e passione, e ha saputo rendere fruibili suoni antichi a un pubblico giovane. Qui, soprattutto, ci sono grandi canzoni, che riaccendono un fuoco che, con dischi come No Name, mai si spegnerà. 

Voto: 8

Genere: rock, garage, blues




Blackswan, lunedì 23/12/2024

giovedì 19 dicembre 2024

Michael Kiwanuka - Small Changes (Polydor, 2024)

 


Piccoli cambiamenti, nessuna rivoluzione. Il nuovo album di Michael Kiwanuka, londinese di origini ugandesi, è meno avventuroso del suo predecessore (Kiwanuka, 2019) e meno originale del celebrato Love & Hate (2016), più vicino, semmai, per certe delicatezze sonore, al suo esordio Home Again (2012). Small Changes, però, è un gran disco, che dimostra, semmai ce ne fosse ulteriormente bisogno, la capacità del songwriter britannico di creare musica tanto emotivamente coinvolgente quanto tecnicamente sofisticata.

Non manca il mestiere, ovvio, la capacità di cesellare e rifinire ogni singola nota, di azzeccare melodie avvincenti, fruibili anche da coloro che si accostano per la prima volta alla sua musica; ma continua a stupire, tuttavia, la capacità di creare un legame intimo con l’ascoltatore, innervando le canzoni di autentico pathos, di condivisa malinconia. La miscela miele e liquerizia di soul, folk e rock, che l’ha reso celebre, accompagna così gli ascoltatori in un viaggio riflessivo che parte dall’intimo, ma diventa, ascolto dopo ascolto, universalmente riconoscibile. Un viaggio attraverso territori avvolti in un'ambientazione lussureggiante, quasi cinematografica, ma che non perde mai quel calore tracimante di sentimento e quella profondità introspettiva che sono diventati i tratti distintivi della sua musica.

Un suono caratterizzato da un'atmosfera retro-soul screziata da influenze blues e folk, in cui emerge un’abilità unica nel catturare emozioni veraci, stratificate, però, attraverso una strumentazione complessa, una ricerca melodica mai banale e testi colloquiali ma potenti, che, in questo specifico caso, parlano di crescita interiore e amore (la paternità di Michael ha influito non poco). 

Non c’è una traccia debole in Small Changes, ma una scaletta coerente e coesa nel suono, nella quale spiccano per bellezza e intensità alcune delle canzoni migliori scritte dal musicista londinese. La title track si muove lenta su una ritmica trattenuta, quasi sussurrata, gli archi avvolgono, le tastiere accarezzano, l’assolo di chitarra si concede un tocco di morbida psichedelia, il ritornello è sublime melodia.  La voce di Kiwanuka, densa di velluto soul, riflette sui cambiamenti graduali che definiscono le nostre vite, esortandoci a riconoscere come piccoli aggiustamenti possano portare a una profonda trasformazione. È una testimonianza dell'abilità di Kiwanuka nel scrivere canzoni: si concentra spesso su temi universali, ma la sua interpretazione è così personale che sembra una conversazione diretta con l'ascoltatore. Un riff di chitarra e una splendida linea di basso guidano il groove di "One and Only", ballata il cui morbido srotolarsi fra percussioni, archi e sgocciolanti note di pianoforte parla di amore e lealtà, sprigionando un calore e una sincerità che offre un messaggio di speranza sull’importanza dei rapporti affettivi.

"Rebel Soul", a parere di chi scrive uno dei vertici del songbook di Kiwanuka, segna il momento più sperimentale nell’album, con un ritmo trascinante, un avvolgente drive di pianoforte, circolare e discendente, e pochi, misurati tocchi di chitarra che evocano trame soul dal sapore settantiano. La canzone possiede un'energia innegabile che contrasta con le tracce più morbide e introspettive dell'album, dandole un tocco più avventuroso che si riconnette al precedente disco del 2019.

"Lowdown (Part I)" presenta una miscela armoniosa di blues e soul, e la voce di Kiwanuka porta con sé una sincerità che sembra quasi catartica. C'è un tono riflessivo qui, quasi sognante, esaltato poi da "Lowdown (Part II)", le cui tessiture psichedeliche rimandano immediatamente ai Pink Floyd e all’iconico suono di chitarra di Gilmour. 

Come dicevamo, pur senza concedersi particolari azzardi e navigando in acque sicure, Kiwanuka non sbaglia un colpo, e la scrittura è sempre ispiratissima, sia nel midtempo di "Follow Your Dreams" (brano più vicino a certe cose di Love & Hate), che invita a non temere alcuna paura inseguendo i propri sogni, sia quando si cimenta in un’altra ballata stellare come "Live For Your Love", canzone che cattura perfettamente la vulnerabilità che si prova ad amare qualcuno profondamente, e che si muove lentamente, fra la stratificazione d’archi orchestrali e qualche accenno jazzy, creando un paesaggio sonoro lussureggiante, che sembra al contempo moderno e senza tempo.

"Stay By My Side" è l’ennesima canzone che fa breccia nel cuore, grazie a una melodia che persiste a lungo anche dopo la fine di tre minuti e mezzo che rendono omaggio alla forza di un amore duraturo, e se "The Rest Of Me" racchiude la profondità e le sfumature che definiscono il talento artistico di Kiwanuka, grazie a un arrangiamento ricco e stratificato e una linea di basso spaziale che spinge un groove tanto morbido quanto seducente, "Four Long Years" chiude la scaletta con un tocco elegiaco e appassionato, che porta indietro nel tempo, agli anni sessanta e a certe meraviglie targate Motown.

Piccoli cambiamenti, nessuna rivoluzione. E forse di rivoluzioni nemmeno sentivamo il bisogno, ma di certezze, quelle, si. Small Changes non innova un songbook senza cedimenti, ma ne conferma l’assoluto valore, e testimonia della crescita artistica di un musicista che sa creare canzoni che risuonano a un livello profondo ed emotivo, che sa plasmare con intelligenza le influenze di svariati generi, pur mantenendo un suono distintivo, e non perde di vista uno degli obbiettivi principali che la musica si prefigge: toccare il cuore della gente ed emozionare.

Voto: 8

Genere: Soul, Folk, Rock

 


 


Blackswan, giovedì 19/12/2024

martedì 17 dicembre 2024

Vola - Friend Of a Phantom (Mascot Records, 2024)

 


Giunti al loro quarto album in studio, i danesi Vola hanno completato un percorso di trasformazione, ampliando ancora di più i confini sonori del loro fascinoso prog metal. Già Witness (2021), uscito in piena pandemia, segnava un allontanamento sostanziale dal loro suono originario intriso di djent, ampliando la gamma espressiva con ganci pop, svolazzi elettronici e occasionali tocchi hip-hop. Con Friend Of a Phantom, il gruppo danese opera un ulteriore passo avanti in termini di complessità espositiva, cementando ulteriormente l’approccio progressive, e diluendo, invece, l’aggressività metal della proposta.

Il risultato è un disco non proprio immediato, che va ascoltato e riascoltato, per comprenderne tutte le sfumature e afferrare un quadro d’insieme fantasioso, avvolgente ed estremamente variegato.

L’opener "Cannibal" è la chiave di lettura per comprendere cosa aspettarsi dalle successive otto tracce: un riff djent aggressivo trova contrappunto in una melodia uncinante e avvincente, mentre il contrasto tra la voce pulita del cantante/chitarrista Asger Mygind e quella più aspra di Anders Friden degli In Flames, qui presente come ospite, eleva il brano a livelli stellari.

"Break My Lying Tongue", uno dei singoli pubblicati, è un’altra canzone killer, in cui è il pop a farla da padrona, grazie alla melodia sognante che si muove fra estrose partiture di tastiera e il ringhio delle chitarre. Un uno due iniziale che testimonia la capacità della band di riuscire a contemperare con equilibrio due diverse istanze, dando così vita a una scaletta quanto mai imprevedibile e suggestiva.

"We Will Not Disband" è l’ennesimo esempio di come chitarre ribassate e uncinanti hook melodici possano convivere in perfetta sintonia, mentre l’eterea "Glass Mannequin", un numero per sola voce e tastiere, supera abbondantemente gli steccati del genere prog metal, avvolgendo l’ascoltatore in vellutate atmosfere malinconiche.

E se "Bleed Out" percorre in punta di piedi la linea sottile tra riff djent, pop malinconico ed elettronica lunatica, "Paper Wolf" è una canzone incredibilmente orecchiabile, in cui riprende quota la componente prog della band, sempre abile ad alternare hook irresistibili ad alcuni break più feroci.

La scaletta avanza ed è sempre un piacere misurarsi con il raffinato equilibrismo dei Vola e la magnificenza di melodie che lentamente, ma inesorabilmente, s’insinuano sotto pelle: in tal senso, "I Don't Know How We Got Here" è un gioiello prog caratterizzato da strati vocali inquietanti, riff stravaganti e un delizioso lavoro di batteria di Adam Janzi, "Hollow Kid" mostra un connubio perfetto fra lussureggianti trame synth e riff ribassati, mentre "Tray" attraversa acque quiete e dolcemente malinconiche, chiudendo l’album con una nota più morbida.

Friend Of A Phantom è un disco dalle diverse facce, in apparenza semplice, visti i numerosi momenti melodici che lo punteggiano, ma in realtà assai complesso nella sua struttura non immediatamente assimilabile. Concedetegli, quindi, numerosi ascolti e vi ritroverete per le maini un gioiellino che sarà arduo togliere dal lettore.

Voto: 8

Genere: Prog Metal

 


 

 

Blackswan, martedì 17/12/2024

lunedì 16 dicembre 2024

Stop Draggin' My Heart Around - Stevie Nicks (Atco, 1981)

 


E’ l’estate del 1979. Tom Petty è chiuso nei Cherokee Studios di Hollywood per registrare uno dei suoi album più iconici, Damn The Torpedoes. Durante una pausa, Petty esce dalla sala di registrazione e incontra casualmente Stevie Nicks. I due si conoscono e si stimano, chiacchierano a lungo, fin quando, quasi scherzando, la Nicks chiede al musicista di regalarle una canzone da inserire al disco solista a cui sta lavorando.

All'inizio Petty non prende sul serio la proposta, ma, l’anno dopo, la bionda cantante torna alla carica, mentre Petty sta lavorando al materiale che confluirà in Hard Promises. C’è una ballata in particolare, intitolata Insider, che Petty adora e che fa impazzire la Nicks: i due la registrano insieme agli Heartbreakers, e a lavoro finito Petty la offre all’amica. La Nicks ci pensa un attimo e poi rifiuta, perché capisce che il songwriter quella canzone la ama profondamente.

Petty, però, vuol tener fede alla promessa fatta, trova in un cassetto lo spartito di Stop Draggin' My Heart Around, una vecchia canzone scritta da lui e dal chitarrista Mike Campbell, qualche anno prima. I due registrano una demo e la mandano al produttore di Stevie Nicks, Jimmy Iovine, che ha messo mano anche a Damn The Torpedoes e Hard Promises.

Colpo di fulmine: la Nicks è entusiasta e decide di registrala in duetto con l’amico. Però, all’inizio non vuole inserirla nella scaletta di Bella Donna, preferirebbe tenerla da parte per il futuro, per non privarsi di canzoni scritte da lei, su cui aveva già lavorato per parecchio tempo.

A convincerla è Jimmy Iovine (con cui la Nicks al momento era fidanzata), il quale è consapevole di avere per le mani un singolo bomba. E, ovviamente, ha ragione, perchè la canzone balza al terzo posto delle charts statunitensi, ponendo le basi per altri successi: il singolo successivo, Leather And Lace, in duetto con Don Henley, raggiunge il sesto posto, e il terzo singolo, Edge Of Seventeen, l'undicesimo.

Stop Draggin' My Heart Around parla di una coppia che vive una relazione complicata, prossima al collasso. Lei è stufa e vuole lasciare il compagno, ma lui non molla la presa, e nonostante mille difficoltà, continua a tenere in piedi una storia d’amore che non ha più senso. E quando lei gli chiede di smetterla di trascinarsi dietro quel suo cuore ormai afflitto, l’amante risponde: "hai bisogno di qualcuno che si prenda cura di te". Un amore complicato, dunque, e dai contorni torbidi e inquietanti.

Molte delle canzoni che Nicks ha cantato nel corso degli anni, d’altra parte, coinvolgono cuori in pezzi, storie destinate a finire e lutti amorosi da rielaborare, e quasi tutte, particolare non da poco, erano di natura autobiografica (vedasi la relazione tormentata con Lindsey Buckingham e quella non meno burrascosa con Jimmy Iovine). Stop Draggin' My Heart Around, però, è uno dei pochi brani che la Nicks poteva cantare senza dover affrontare il peso emotivo che l’accompagnava, poiché il testo fu scritto da Petty non aveva nulla a che fare con lei personalmente.

C’è un’altra canzone che lega in qualche modo Petty alla Nicks. La cantante dei Fleetwwood Mac, infatti, stava cercando il titolo da dare a un brano che confluirà in Bella Donna, la citata Edge Of Seventeen. Mentre rimuginava sul da farsi, Petty le presentò sua moglie Jane. Quest’ultima disse alla Nicks che aveva "17 anni" (at the age of 17) quando incontrò per la prima volta Tom. Come suo marito, Jane era di Gainesville, una cittadina della Florida, e aveva un accento sudista così pronunciato che Stevie capì "edge of 17". Illuminazione e titolo della canzone trovato.

 


 

 

Blackswan, lunedì 16/12/2024

venerdì 13 dicembre 2024

Beth Hart - You Still Got Me (Provogue, 2024)

 


Quella voce lì, una voce che riconosceresti fra mille e in una frazione di secondo. Una voce capace di scrostare l’intonaco dei muri, di far tremare i lampadari, di togliere le ragnatele dal soffitto: dolcemente sensibile ma al contempo potente, fumosa ma tracimante di soul, focosa ma anche gelidamente inesorabile, appassionata ma incredibilmente vulnerabile. Questa è Beth Hart, iconica singer del mondo blues rock che, al netto di oziosi paragoni con Janis Joplin, possiede la maturità, l’estensione e la tecnica di approcciarsi senza timori reverenziali al songbook dei Led Zeppelin, come nella sua ultima fatica (A Tribute To Led Zeppelin) risalente a due anni fa.

You Still Got Me è il nuovo album di brani originali della cantante losangelina, pubblicato a distanza di cinque anni da War In My Mind, lavoro risalente al 2019, che palesava, a dire il vero, un certo calo di ispirazione. Tutt’altra storia, invece, questo splendido disco che spazia a trecentosessanta gradi nel suono americano, affrontando generi diversi con consapevolezza e passione, aprendo il proprio cuore, mai come oggi, per affrontare tematiche politiche e, soprattutto, i tormenti di un’anima bella, che ha vissuto una vita difficile, spesso lontano dal sole dei baciati dalla fortuna, e che si è costruita una carriera con le unghie e col sangue. Una sensibilità che ha creato un ponte emotivo con i propri fan, e che oggi viene espressa attraverso l’ennesima prova vocale da urlo, di un’artista, però, che mai come prima, ha definitivamente trovato misura ed equilibrio espressivo.

In scaletta, undici canzoni, una più bella dell’altra, attraverso le quali la Hart esce dalla comfort zone del rock blues e del soul, dando vita a un disco decisamente più vario. Non uno stravolgimento, sia chiaro, ma un tentativo, riuscitissimo, di cimentarsi con sonorità, non certo lontanissime dal suo background, ma tali da rendere You Still Got Me una sorta di abbecedario su come declinare il suono americano.

Il rock blues, grande amore della songwriter californiana, è presente nello sferzante uno due iniziale: la sinistra "Savior With A Razor", con Slash come ospite alla chitarra, e la ruspante "Suga N My Bowl", che vanta la presenza di un altro pezzo da novanta della sei corde, quale Eric Gales.

Poi, il disco prende strade diverse, e che vedono la Hart cimentarsi con l’ironico cabaret di "Never Underestimate a Gal" e con le vellutatissime atmosfere jazzy di "Drunk On Valentine", prova vocale maiuscola accarezzata dal suono avvolgente della tromba di Andrew Carney. Una volta diradatesi le coltri fumose da jazz club, parte "Wanna Be Big Bad Johnny Cash", divertentissimo omaggio country rock a the man in black (il boom chica boom della ritmica è uno spasso) in cui la cantante azzecca un ritornello uncinante e dichiara amore eterno uno dei padri della tradizione musicale a stelle e strisce ("Elvis is alive or so they say, Marilyn Monroe, she's just okay, I don't know enough about James Dean, But Johnny is the man that I wanna be").

"Wonderfull World", dedicata alla nipote, è una dolce ballata per pianoforte che trabocca ottimismo, mentre "Little Heartbrake Girl" gira dalle parti dell’americana più classica, abbacinando con un singalong tanto immediato quanto irresistibile.

Da questo momento in avanti, inizia un filotto di ballate da urlo: la title track, avvolta da un vaporoso arrangiamento d’archi e da un retrogusto sixties, dedicata a suo marito e alla famiglia ("PS: I love my husband, the best ever"), il piano blues di "Pimp Like That", e soprattutto "Don’t Call The Police", probabilmente il miglior brano mai scritto in carriera dalla Hart. Una ballata, questa, struggente e traboccante di pathos, un j’accuse nei confronti della polizia americana e delle violenze perpetrate nei confronti dei cittadini di colore ("Don't call the police, If you wanna live another day, Another day, Another day, Black bodies in the street, Black bodies in the street, America, Beauty, Empathy, Prosperity, Consciousness, Decadence, Poverty, Apathy!"). Un grido di dolore, pervaso da una tensione che attanaglia i visceri, di fronte alla quale è impossibile non sciogliersi in un pianto rabbioso.

Chiude il rock scorbutico e oscuro di "Machine Gun Vibrato", in cui la cantante dà ennesimo sfoggio di una tecnica e di una versatilità di livello superiore.

You Still Got Me è l’apice della carriera della cantante losangelina, il suo più bello dai tempi lontanissimi di Immortal (1996). Un disco che forse allontana la Hart dalla sua fanbase votata esclusivamente al blues, ma che testimonia, in modo definitivo, il talento di una musicista che può fare quello che vuole, facendolo benissimo. Un disco eterogeneo anche dal punto di vista emotivo, capace di diversi registri (ironia, ottimismo, rabbia, dolore, passione), tutti declinati con una consapevolezza che solo i grandi. Chapeau!

Voto: 9

Genere: Rock, Blues, Soul, Americana

 


 

 

Blackswan, venerdì 13/12/2024

giovedì 12 dicembre 2024

Boulevard - BLV (Universal /MCA Records, 1988)

 


Un buon successo nella natia Canada, qualche passaggio radiofonico negli Stati Uniti e in Europa (Italia compresa) quattro video nella programmazione MTV e poco più. Questa, per sommi capi, la parabola dei Boulevard, band originaria di Calgary, composta dal sassofonista Mark Holden, membro fondatore del progetto, dal cantante David Forbes, da Rabdy Gould (chitarra), Andrew Johns (Tastiere), Randy Burgess (basso) e Jerry Adolphe (batteria).

Due soli album, tra la fine degli anni ’80 e l’inizio degli anni ’90 (ci sarà anche un terzo album in studio nel 2017), che però non riuscirono ad aggredire il mercato discografico, inducendo il gruppo, nel 1991, a rompere le righe per manifesto insuccesso. Eppure, nonostante la brevissima carriera, il nome dei Boulevard, nel tempo, è stato giustamente riabilitato, tanto che oggi, il loro secondo album, Into The Street (1990), è considerato uno dei dischi meglio riusciti e più rappresentativi del movimento Aor.

Se l’esordio, intitolato semplicemente Blvd (1988), al tempo dell’uscita, ebbe maggiori riscontri commerciali del successivo lavoro, col tempo è caduto nell’oblio, dimenticato anche da coloro che, a posteriori, hanno riconosciuto la grandezza di Into the Street. Peccato, perché le dieci canzoni in scaletta, ancorchè figlie di un gruppo esordiente, denotano già una maturità compositiva di alto lignaggio. Il genere, come detto, è riconducibile all’Aor, con alcuni passaggi vicini al synth pop, tanto che l’accostamento a grandi band come i Toto o i Glass Tiger viene quasi immediato.

Eppure, basta ascoltare in sequenza i due dischi pubblicati a cavallo dei decenni poco sopra indicati, per comprendere la classe e l’eleganza di una band che, se avesse avuto modo di continuare a suonare, sarebbe stata pronta a diventare essa stessa un nome di riferimento del genere.

Blvd è un disco riuscitissimo, traboccante di idee e di belle melodie, il cui unico difetto, forse, è il suono clamorosamente figlio degli anni ’80, tanto che, se non siete amanti del decennio, le dieci canzoni in scaletta potrebbero suonare datate e anacroniste. Chi scrive, però, non ha intenti passatisti né vuole giustificare il recupero dell’album, titillando le corde della nostalgia. Blvd è un album che va recuperato semplicemente perché inanella un filotto di canzoni che, a prescindere dalla veste formale, hanno resistito alle ingiurie del tempo, grazie a melodie uncinanti e al bagaglio tecnico di una band consapevole dei propri mezzi e delle proprie idee.

Sono pochi i momenti deboli in un disco in cui tutto fila liscio, a partire dall’iniziale "Dream On", esempio appassionato di come Aor e synth pop fossero in grado di percorrere lo stesso binario per giungere a destinazione. Le tastiere di "Far From Over" sono un vero sollucchero per le orecchie, così come l’assolo di sax di Holden, vero maestro nell’innalzare il livello di tensione di ogni singolo brano. "Western Skies" è un gioiellino melodico che esibisce un coloratissimo interplay fra chitarre aperte e tastiere, mentre "Never Give Up" (ancora il sax di Holden in evidenza) risucchia verso il dancefloor con inusuale spavalderia.

Se "In The Twilight" patisce un eccesso di zuccheri (altrove tenuti brillantemente a bada) e si veste di arrangiamenti un po’ pomposi, con "Where The Lights Go Down" i Boulevard ritrovano la misura con una gemma Aor dal ritmo serrato. "Under The Moonlight" è una canzone leggiadra, sprizza di colori pop e allegrezza, "You And I" è una ballata con effetti sitar e dalla melodia non immediata, "Missing Persons" è una meraviglia che gira dalle parti degli Yes di "90125" e "You’re For Me" chiude il disco spingendo al massimo sul ritmo e sulla spensieratezza.

Blvd non è un disco epocale, certo, ma è uno di quei gioielli nascosti che ci riconnette con il nostro passato, in quegli anni in cui forse i Boulevard ci sono passati davanti, mentre guardavamo MTV, ma non ce ne siamo accorti. Peccato, perché avrebbero meritato ben altra sorte di quel parziale oblio a cui la storia li ha relegati: qui ci sono ottime canzoni, alcune strepitose ("Missing Persons" e "Never Give Up"), e una classe infinita. Il disco lo trovate su Spotify, ma se siete dei boomer come il sottoscritto, il supporto cd costa poco e sono soldi ben spesi. Garantito.

 


 

 

Blackswan, giovedì 12/10/2024

mercoledì 11 dicembre 2024

Chat Pile - Cool World (Flenser 2024)


 

Lasciate ogni speranza, voi che entrate nell’universo Chat Pile. In un anno, infatti, in cui le sonorità estreme hanno forgiato alcuni dei dischi più interessanti ascoltati dal sottoscritto, questo Cool World, secondo album in studio pubblicato dalla band originaria di Oklahoma City, è probabilmente il più oscuro, disturbante e spigoloso. Solo due anni fa, il gruppo statunitense esordiva con God’s Country, un’opera che aveva lasciato a bocca aperta per essere riuscito a dare forma concreta al disagio esistenziale attraverso bordate elettriche esiziali, propagatrici di un marasma sonoro forgiato al crocevia della morte fra noise, metal e debosciato post punk.

Un disco che, per quanto di nicchia, aveva creato un vibrante hype intorno alla band e alimentato l’attesa per vedere se un secondo album fosse in grado di replicare quella devastazione emotiva. Era inevitabile che, visto il successo del primo capitolo di questo romanzo a tinte scurissime, il sophomore godesse di maggior attenzione da parte della Flenser (etichetta, sotto la cui egida era stato pubblicato anche l’esordio), che ha investito nel progetto, ponendo maggior cura alla produzione e al battage pubblicitario che ha accompagnato l’uscita dell’album. 

Nessun imborghesimento, però, non temete: se il suono è stato rifinito (ma non addomesticato) Cool World è ancora una volta infettato di ferocia, ancora in grado di sgretolare i padiglioni auricolari, respingente ed estremo esattamente come il suo predecessore. Non si fanno prigionieri, insomma, e questa torbida miscela, che fonde gli accessi di un rock deviato di derivazione ninenties, farà male, anzi malissimo, come appare evidente nello sconquasso iniziale di "I Am a Dog", biglietto da visita insanguinato che riporta l’effigie Jesus Lizard, una delle primarie fonti d’ispirazione dei Chat Pile.

Come per Gone Dark degli Human Impact, band quasi gemella del gruppo dell’Oklahoma, lo sguardo di Raygun Busch e soci è focalizzato sulle miserie del mondo, sul male di vivere, su un’esistenza deprivata dalla speranza, che si affaccia su un futuro tetro e ineluttabile. Il suono è, quindi, inevitabilmente pesante, fangoso, sporco, quasi totalmente privo di trame melodiche (presenti nel post punk slabbrato di "Shame" o nell’incedere disperatamente arreso di "Milk Of Human Kindness"), spinto da groove ritmici ripetuti ossessivamente ("Frownland"), abrasi da riff di chitarra taglienti e asettici che rimandano ai Korn ("Funny Man") e portati al parossismo dalla prova vocale di Busch che ringhia, sbuffa, grida e agonizza in un deragliamento vocale che terrorizza e lascia impietriti ("The New World").

Se l’esordio era più compresso in un suono coerente fino a risultare quasi monolitico, in Cool World, invece, il linguaggio si fa più vario, riprendendo e rimasticando la lectio magistralis dei citati Jesus Lizard e Korn, ma anche di Harry Rollins, Big Black, Killing Joke, e, perché no, Fugazi, come esplicitato nel cruento hard core punk di "The New World".

Pur aggiungendo qualche novità rispetto all’esordio (la malinconia che ghermisce il post punk disperato di "Masc") e palesando una superiore maturità compositiva, il suono dei Chat Pile ha mantenuto intatta la propria aggressività, il proprio impeto furente, la propria forza iconoclasta. Un disco non per tutti, ma nuovamente in grado di accendere il fuoco della passione in quanti avevano creduto in questa straordinaria band fin dagli esordi.

Voto: 8

Genere: Hardcore, Noise, Nu Metal, Post Punk

 


 

 

Blackswan, mercoledì 11/12/2024

martedì 10 dicembre 2024

Everlong - Foo Fighters (Roswell/Capitol, 1997)

 


Molti pensano, sbagliando, che Everlong sia una canzone incentrata sulla dipendenza dalla droga del defunto Kurt Cobain, che era nei Nirvana insieme al frontman dei Foo Fighters, Dave Grohl, autore del brano. Fu lo steso Grohl, intervistato dalla rivista Mojo, ha spiegare di aver scritto il brano, profondamente autobiografico, durante uno dei momenti più bassi della sua vita, nel Natale del 1996.

Il frontman dormiva in un sacco a pelo sul pavimento di un amico, dopo aver divorziato dalla moglie e fotografa Jennifer Youngblood, e di conseguenza era un senzatetto. Oltre a ciò Grohl non aveva accesso al proprio conto bancario, e sia il suo batterista, William Goldsmith, che il chitarrista, Pat Smear, erano sul punto di lasciare i Foo Fighters. In questo momento di profonda depressione, come reazione allo sfacelo della propria vita, compose questa canzone d'amore (in circa 45 minuti) per dedicarla alla frontwoman dei Veruca Salt, Louise Post, con cui si era legato sentimentalmente, dopo essersi separato dalla Youngblood. La Post era una delle poche persone che gli era stato vicino in quei momenti bui, ed Everlong la omaggiava per essersi legata a lui da un profondo vincolo tanto fisico quanto spirituale.

La canzone evoca il vero amore, quella sensazione di timidezza, ma allo stesso tempo di eccitazione, che si prova quando ci si innamora per la prima volta. È un brano che parla di un sentimento così forte e totalizzante, che vorresti durasse per sempre, anche se, poi, lo sappiamo bene, niente dura mai per sempre.

La band ne fece un’esecuzione memorabile al Late Show With David Letterman, il 21 febbraio 2000, quando Letterman tornò sulle scene da un complicato intervento al cuore. Letterman presentò la band, spiegando che quella canzone gli diede forza e motivazione durante la lunga convalescenza, tanto da chiedere ai Foo Fighters di eseguirla la prima notte del suo ritorno in tv. La band, che era in turnè per promuovere There Is Nothing Left To Lose, abbreviò il tour per poter partecipare allo show, ma in cambio ricevette un caloroso endorsement da parte del conduttore, che li presentò al pubblico come "la mia band preferita che suona la mia canzone preferita". Da quel momento, il gruppo è diventato uno dei pilastri di Letterman, apparendo nello show per un'intera settimana nel 2014; e quando il conduttore andò in onda per un’ultima puntata, il 20 maggio 2015, i Foo Fighters suonarono nuovamente questa canzone, ricevendo ancora una volta un'introduzione emozionante da parte di Letterman.

Quando Grohl inventò per la prima volta il riff di chitarra, pensò che fosse una scopiazzatura di un brano dei Sonic Youth. Per cui, fece un demo della canzone e la fece ascoltare a Thurston Moore, convinto di aver copiato un loro brano. Ovviamente, non era così. Pertanto, dopo averla ascoltata, Moore lo guardò sbalordito e gli chiese: "Perché è solo un demo? Perché non è già nel nuovo album?"

 


 

 

Blackswan, martedì 10/12/2024

lunedì 9 dicembre 2024

Anciients - Beyond The Reach Of The Sun (Season Of Mist, 2024)

 


Dei canadesi Anciients si erano perse le tracce, e più di una voce li dava morti e sepolti, tanto sono stati lontani dai radar della musica che conta. Un’incomprensibile anomalia se si pensa che il loro debutto del 2013, Heart Of Oak, gli aveva regalato un’inaspettata ribalta, facendoli confluire nel novero delle band prog metal più promettenti del momento, per quel loro impasto sonoro potente ma accessibile, segnato da un personalissimo connubio multiforme, ove confluivano heavy metal classico, sludge, death, black, psichedelia, e un impianto melodico tracimante di idee.  

Poco prima della loro seconda uscita, Voice Of The Void del 2016, il chitarrista/cantante Kenny Cook e sua moglie hanno avuto un bambino, evento emozionante e felice, se non fosse stato seguito da inaspettati problemi cardiaci derivanti dalla gravidanza, che hanno messo seriamente a rischio la salute della donna. E quando le cose si sono risolte e la carriera della band stava per decollare, alcune importanti defezioni (il chitarrista e fondatore Chris Dyck ha mollato il colpo) e i giorni oscuri della pandemia, il conseguente lockdown e le annesse restrizioni, hanno assestato un colpo decisivo alle speranze di successo del gruppo, che si è visto tarpare le ali proprio nel momento del decollo.

Ecco, dunque, spiegati gli otto anni di stasi, uno iato tanto lungo da poter apparire come una pietra tombale sulla carriera degli Anciients, e che invece ha permesso alla band di dare alle stampe quello che è indubbiamente il miglior lavoro in carriera. Il tempo trascorso, evidentemente è stato ben impiegato, le idee sviluppate a dovere, il suono affinato.

Il disco è una sorta di concept album che narra le vicende di un mondo del futuro invaso da alieni malvagi in grado di oscurare il sole, così da mettere a rischio l’esistenza stessa del pianeta. La resistenza, la lotta e la fedeltà alla propria cultura e ai propri valori etici sono l’unica strada per non sprofondare nelle tenebre.

Il senso della metafora, il cui ovvio riferimento sono i giorni bui in cui viviamo, viene assecondato da un impianto musicale fantasioso, da un caleidoscopio di abbinamenti che stupisce, non solo per varietà, ma anche per il perfetto equilibrio fra slancio e ponderatezza, fra melodia e ringhio metal, fra voci pulite, quasi setose, e rabbioso growl.

Tutta la scaletta, nonostante i continui cambi di registro, fluisce compatta e armoniosa, grazie anche a una produzione che mette a fuoco perfettamente ogni strumento, magistralmente suonato da una band tecnicamente ineccepibile.

Se vogliamo fare il solito gioco di rimandi, è inevitabile trovare echi di grandi band, che indubbiamente hanno ispirato gli Anciients, quali Mastodon (la bellissima "Despoiled" suona come un outtake da Crack the Skie), Opeth, Voivod e Katatonia. La band originaria della Columbia, però, forse cita, ma non copia mai, ed è in grado di stupire per come sa dosare finemente il proprio talento, senza mai cadere nella trappola di molti musicisti che si cimentano con partiture prog, e cioè indulgere nella tecnica fine a se stessa o abbandonarsi a derive onaniste e troppo concettuali.

Qui, conta soprattutto la scrittura, evidente in un filotto di brani che tiene sempre accesa l’attenzione dell’ascoltatore, sia che si metta il punto esclamativo sulla declinazione prog della strepitosa "Celestial Tyrant", canzone che si sviluppa per accumulo, sia che tocchi le corde della malinconia con l’appassionata "Is It Your God", dalla splendida linea melodica, sia che prenda la strada dell’emozionante crescendo come nella conclusiva "In The Absence Of Wisdom".

Otto anni di intervallo fra un disco e l’altro sono davvero tanti, ma lo scorrere del tempo ha dato modo agli Anciients di affinare la propria proposta alzando il livello di parecchie tacche e ripagando l’attesa di chi già pensava di essere rimasto orfano della loro musica. Nella speranza che il prossimo album sia prodotto in tempi più stringati, questo Beyond The Reach Of the Sun farà la gioia di quanti amano il prog metal, materia qui declinata come solo le grandi band sanno fare.

Voto: 8

Genere: Prog Metal 




Blackswan, lunedì 09/12/2024

mercoledì 4 dicembre 2024

Enrico Brizzi - Due (Harper Collins, 2024)

 


Bologna, tardo giugno dell’anno domini uno nove nove due: il vecchio Alex è l’ombra di se stesso. A ridurlo in ruina, la partenza per l’America di una ragazza diversa da tutte le altre: la soave Adelaide è ormai approdata in una remota contea della Pennsylvania, e resterà laggiù per l’intero anno scolastico. Come sopravvivere alla sua mancanza per dodici lune? Per fortuna ci sono gli amici.

È l’anno dell’Europa unita e dei confini che cadono, l’estate perfetta per raggranellare denari e partire in interrail, incontro alla libertà. Frattanto, dall’altra parte dell’oceano, Aidi prende le misure al Nuovo Mondo e fronteggia un’inattesa solitudine. L’estate trascolora in autunno, arrivano il Natale e un anno nuovo dallo sghembo finale dispari. Nessuno dei due sa dimenticare l’altro, ma la nostalgia rischia di mandarli a fondo entrambi. La distanza è una condanna senza appello? Si può crescere restando fedeli a se stessi? Cosa si può raccontare e cosa invece va taciuto?

Sono domande che tanto lui quanto lei si pongono, consegnando la propria voce all’archivio magnetico, alle pagine del diario e a lettere struggenti che impiegano tre settimane per arrivare a destinazione. Un giorno, forse, non serviranno più le parole; basterà tornare a guardarsi negli occhi e all’istante sarà tutto chiaro.

 

Quando nel 1994 uscì nelle librerie Jack Frusciante è Uscito Dal Gruppo (il titolo per chi non lo sapesse, fa riferimento al chitarrista John Frusciante dei Red Hot Chili Peppers, che lascia la band all’apice del successo), noi, allora giovani e pieni di speranza, ci perdemmo nelle pagine di quel romanzo apparentemente innocuo, che, invece, nascondeva nel profondo più cose di quelle che sembrava raccontare. Il libro divenne un caso editoriale, intercettando il consenso trasversale di più generazioni, affascinate da una storia d’amore delicatissima fra due adolescenti bolognesi, e da quel piglio rock, che sapeva di condivisione appassionata, in un momento storico in cui la musica era ancora importante, perché rappresentava, più di ogni altra forma d’arte, il legame che teneva insieme amicizie e amori, e una delle poche certezze in giovani vite confuse dall’approccio a un mondo adulto, complesso e respingente.

Un romanzo che, in tempi non demenziali come quelli odierni, invitava il lettore alla ribellione, a uscire dalla propria comfort zone, ad allontanarsi dal gruppo, costi quel che costi, per ricongiungersi alla propria natura e costruire il proprio futuro, lontano dai condizionamenti e dall’ipocrisia della società.

E poi, c’erano loro due, Aidi e il vecchio Alex, due anime fragili e contraddittorie che s’innamoravano di un amore ingenuo, puro, un amore di abbracci innocenti, di dialoghi a perdifiato, di sincerità e speranze condivise, di libri, di musica, di film, quegli strumenti inossidabili che la cultura ci regala per costruire la consapevolezza.

Per trent’anni ci siamo chiesti che fine avessero fatto i due nostri eroi in cui, sfido chiunque a dire il contrario, finimmo per identificarci, in un’immedesimazione emotiva che ci accompagnò a lungo, ben oltre l’ultima pagina del romanzo. Ora lo sappiamo, perché Enrico Brizzi, attraverso le pagine di questo nuovo Due, regala ai suoi lettori il seguito della storia, ritornando esattamente al 1992, a quei giorni in cui Alex, Aidi e tutti noi cercavamo di dare un senso alle nostre inconsapevoli esistenze.

E come solo i grandi romanzieri sanno fare, Brizzi compie un vero e proprio miracolo, ci restituisce la nostra giovinezza, quella vera e concreta che vivevamo sulle pagine di Jack Frusciante, e che oggi, invece, ritorna, emotivamente, grazie a uno di quegli strani artifici di cui solo la nostalgia è capace.

Le prime pagine di Due confondono, lasciando il lettore disorientato rispetto a una storia quanto mai lontana dalla nostra quotidianità di persone ormai mature (cosa mai potrà importarci delle pene d’amore di un diciassettenne?), che si trovano, oltretutto, in impaccio con quello slang giovanile che sembra non appartenerci più. Superata l’esitazione iniziale, però, finiamo per ritrovare qualcosa che è sempre stato nostro, quei vecchi Alex o le “splendenti” Aidi che sono rimasti sopiti per tre decenni nei nostri cuori, e che ora spingono per tornare in vita, con un’urgenza che non avremmo mai immaginato. Perché, in fin dei conti, noi siamo esattamente quelli lì, a dispetto del tempo che passa e del grigiore delle nostre vite.

Così, il romanzo ci risucchia, e ogni pagina è un ricordo condiviso, una lacrima che ci riga il viso di rimpianti e di rimorsi, un groppo in gola quando ciò che eravamo viene a chiedere il conto a ciò che oggi siamo diventati.

Brizzi contorna i suoi eroi di uno scenario che rispecchia alla perfezione quel mondo antico, ormai scomparso (le cabine telefoniche, le trattorie a conduzione famigliare, le lettere, etc), sfiora, riportandole alla luce con efficacia, la vicende politiche del momento (Mani Pulite), ultimo fermento vitale di un popolo che, qualche anno dopo, diventerà gregge alla ricerca di un pastore, e rievoca quello straordinario e coloratissimo mondo culturale, di cui è eccitante riconoscere, pagina dopo pagina, la miriade di citazioni musicali (Cure, Clash, Pogues, etc), letterarie (una da Terra Desolata di Thomas Stearns Eliot è da brividi) e cinematografiche.

E poi, ovviamente, ci sono loro, Alex e Aidi, e il loro amore tormentato e incredibilmente puro che, diciamolo pure senza filtri, emoziona alle lacrime. Perché nella vita, l’amore prende forme inaspettate e percorsi accidentati e cervellotici, e in età adulta, ogni sentimento è inevitabilmente condizionato da scelte, retropensieri, paure, ipocrisie, tutti steccati esistenziali che non siamo più in grado di scavalcare. E allora, è un attimo perdersi nei palpiti di due diciassettenni impulsivi, inconsapevoli e ingenui, che portano il loro amore sull’orlo dell’abisso, persuasi dai moti di un cuore troppo acerbo per comprendere la forza di un legame, la cui aspirazione di eternità confligge con i tormenti del non detto e di un’invalicabile distanza.

Due voci che si rincorrono, spesso perdendosi nel vuoto che separa Bologna dalla Pennsylvania, e che la prosa di Brizzi riesce a modulare perfettamente sui tratti psicologici dei suoi giovani eroi: istintiva, recalcitrante, disperatamente nichilista, quella di Alex, romantica e malinconica, quella della dolce Aidi.

Credetemi, e qui chiudo, Due non è solo un romanzo imperdibile per chi si era innamorato perdutamente di Jack Frusciante è Uscito Dal Gruppo, ma anche una delle letture più emotivamente coinvolgenti dell’anno. Mai altri, finora, come Brizzi sono riusciti a mettere in moto gli ingranaggi della nostalgia, regalandoci ciò che nessuna magica alchimia, se mai esistesse, potrebbe fare: restituirci, in trecentodieci palpitanti pagine, qualche attimo della nostra perduta giovinezza. Preparate i fazzoletti, allora, preparate a emozionarvi come non vi capitava da tempo: leggete Due, leggete chi eravate.

 

Blackswan, mercoledì 04/12/2024

martedì 3 dicembre 2024

Blind Ego - The Hunting Party (Gentle Art Of Music, 2024)


 

Innanzitutto, sono doverose le presentazioni. Sotto il moniker Blind Ego si nasconde Kalle Wallner, chitarrista della band tedesca di progressive RPWL, una realtà in circolazione oramai da una ventina d’anni. I Blind Ego, però, pur indugiando talvolta in sonorità che possono richiamare la casa madre, si muovono su coordinate diverse, percorrendo i territori di un rock appassionato, melodico, talvolta spinto all’accelerazione da slanci contigui all’hard rock.

A fianco dell’ottimo chitarrista, protagonista assoluto del disco, suona una line up di tutto rispetto, e cioè il nuovo e versatile cantante Kevin Kearns, proveniente dal circuito metal, il tastierista Yogi Lang (anch’egli militante nei RPWL) e dal batterista Michael Christoph.

Come detto, pur non mancando incursioni nel progressive moderno, il disco si attesta su canoni più propriamente rock, senza disdegnare un approccio melodico, spesso uncinante, come avviene nello splendido brano di apertura che porta il nome dell’album, in cui l’interplay fra acustica ed elettrica introduce il tiro grintoso e ansiogeno di una canzone che sfocia in ritornello da mandare a memoria fin dal primo ascolto.

Chiave di volta del disco è, ovviamente, Wallner, chitarrista dotato di un tocco pulitissimo, di ottima tecnica e di grande fantasia. Ne deriva, ovviamente, un enorme appagamento per tutti gli amanti della sei corde, che troveranno in The Hunting Party riff coinvolgenti e splendidi assoli.

"The Stranger" (anche qui acustica ed elettrica convivono in perfetta simbiosi) è un brano che combina la melodia ariosa del ritornello a strofe cariche di tensione, "Spiders", invece, è cupa e spigolosa, il mood è ruvido e lambisce territori hard rock, mentre l’andamento è caratterizzato di improvvise accelerazioni che trovano, comunque, nel ritornello il consueto gancio melodico.

"Boiling Point" procede caracollante, mettendo in luce le grandi doti vocali di Kearns, che pur provenendo dal metal core, è perfettamente a suo agio con una melodia dalle sfumature quasi pop. "In The Blink Of An Eye" possiede un incede più meditabondo, pur essendo innervata di un’oscura tensione che trova sfogo nell’urlo liberatorio di Kearns e in un sublime assolo di Wallner, che evoca il suono iconico di Gilmour.

E se "Breathless" si apre con un riff inquietante, per poi procedere oscura, tra chitarre ruvide e qualche tocco di elettronica, la conclusiva "When The Party’s Over" è un gemma melodica aperta da meravigliosi tocchi di chitarra, che si srotolano verso partiture più morbide e un ritornello che è una vera e propria esplosioni di colori.  

Forse, l’unico difetto dell’album è il fatto che ci troviamo di fronte a una scaletta di sole sette canzoni, quando, visto il risultato finale, se ne sarebbero ascoltate volentieri molte di più. The Hunting Party è un disco di assoluto valore, che gioca con elementi prog, senza tuttavia perdersi nei meandri del genere, preferendo cimentarsi nell’alternanza vincente di grandi melodie strattonate da una cospicua dose di elettricità. Un escamotage che consente alla band di Kalle Wallner di prendere due piccioni con una fava: i progster, che qui troveranno una declinazione moderna della musica che amano, e quel pubblico più ampio, che ama il rock a prescindere da specifiche etichette.

Voto: 8

Genere: Rock, Prog




Blackswan, martedì 03/12/2024

lunedì 2 dicembre 2024

I Love You - Fontaines DC (Partisan Records, 2022)

 


Un’idea bizzarra ma vincente: dare a una canzone un titolo banale, che evoca il sentimento più sfruttato in musica e che implica, senza filtri, un esplicito significato romantico, per affrontare, invece, temi squisitamente politici. Un’intuizione spiazzante, un trompe l’oeil che disorienta l’ascoltatore pronto a immergersi nella dolcezza di una dichiarazione d’amore. Che, tutto sommato, è presente, ma non riguarda una donna, bensì un paese, l’Irlanda. Descritta dal frontman dei Fontaines, Grian Chatten, come "la prima canzone apertamente politica che abbiamo scritto", I Love You è cantata dal punto di vista di un orgoglioso irlandese che vive all’estero e pensa continuamente alla propria patria.

 

Beh, ti amo, immagina un mondo senza di te

Sei sempre e solo tu, penso solo a te

E se è una benedizione, lo voglio per te

Se devo avere un futuro, lo voglio con te

 

Il nostro irlandese, però, anche se, da un lato, prova sentimenti d’orgoglio per la terra natia, a cui ripensa con trasporto nostalgico, dall’altro, non può fare a meno di provare irritazione per il clima politico attuale e per quel fardello insopportabile, rappresentato da anni di storia sanguinosa e dalle cupe atrocità con cui l’Irlanda, spesso in passato, si è presentata agli occhi del mondo.

Il dito è puntato soprattutto sulla Mother and Baby Home di Tuam, nella contea di Galway, un centro di accoglienza per ragazze madri e i loro figli nati fuori dal matrimonio, operante fra il 1925 e il 1961. Nel 2017, nei pressi di quella struttura, fu scoperta una fossa comune contenente i corpi di ottocento bambini. La storia di Tuam, è molto simile a quella di altre strutture presenti nel Paese dove, in quegli anni, 35 mila madri single furono costrette a partorire e, spesso, a lasciare lì i loro figli. Le condizioni erano talmente difficili che, secondo il rapporto della Mother And Baby Homes Commission Of Investigation, tra il 1925 e il 1961 a Tuam sarebbe morto in media un bambino ogni due settimane. Numeri terrificanti, che ispirarono a Chatten il verso:

 

Ma quest'isola è abitata da squali

con ossa di bambini conficcate nelle mascelle

 

Cresciuto a Skerries, una cittadina irlandese a nord di Dublino, Grian Chatten è ora un irlandese che vive all'estero. Lui, insieme al resto della band, infatti, lasciò l'Irlanda per intraprendere la carriera musicale a Londra.

A proposito di I Love You e del suo essere volontario esule lontano dalla terra natia, Chatten ebbe modo di dire, durante un’intervista a Rolling Stone: “Spiritualmente, ci sono due parti. Sono in una posizione in cui ho fatto carriera cercando di connettermi e di rappresentare la cultura e il paese da cui provengo, cercando di esprimerlo e, a sua volta, così facendo, capirlo io stesso e aiutare le altre persone a comprenderlo. Mi sono, però, trasferito da quel paese e ora vivo in un paese che è responsabile di gran parte del caos della terra da cui provengo. Mi sento in colpa per averlo lasciato. Mi sento come se avessi abbandonato l’Irlanda”.

A prescindere dalla profondità testuale e dalla tensione che attraversa il brano, una sorta di sfogo senza filtri in cui Chaten prende fiato solo alla fine dell’esecuzione, è interessante ricordare una curiosità, che ha dato al brano la forma che oggi conosciamo. Durante la jam session da cui nacque I Love You, il batterista della band, Tom Coll, ha improvvisamente smesso di suonare ed è andato alla porta per ritirare un ordine di Deliveroo, lasciando che il resto dei Fontaines continuasse senza di lui. Così, quando Chatten inizia la sua invettiva finale, non c’è la batteria a sostenerlo, che rientra solo più tardi, quando Coll, ritirato il cibo, si siede nuovamente dietro le pelli. Invece di scartare quella registrazione, la band ha deciso di tenerla, sovraincidendo il drumming in un secondo momento: troppo buona quell'esecuzione per decidere di accantonarla. Una scelta eccentrica, che però si è rivelata efficacissima.  




Blackswan, lunedì 02/12/2024