Era un azzardo, ci
abbiamo provato, ne è venuta fuori una serata coi fiocchi. Slam Poetry Versus
Blues: le avanguardie più rivoluzionarie della poesia e una musica le cui radici si perdono in Africa,
in un tempo lontanissimo da noi. Un gruppo di ragazzi coraggiosi e talentuosi
(gli slammers e la band dei Jesus On A Tortilla), capaci di fondere in un
vibrante show, parole e note, immagini e suggestioni. Un viaggio emozionante,
attraverso un percorso lontano dai circuiti della cultura convenzionale,
eppure incrdibilmente vicino al cuore dell'ascoltatore. Se da un lato, la
poesia Slam, forma d'arte metropolitana che nasce in strada, in mezzo alla
gente, cattura il pubblico, lo scuote, lo schiaffeggia, lo induce a riflettere e
a dialogare, dall'altro, i grandi classici del blues, da Muddy
Water a Robert Johnson, accarezzano le orecchie dell'ascoltatore,
conducendolo in una dimensione quasi rurale, che evoca un'iconografia
color seppia e scioglie l'anima in un nostalgico viaggio a ritroso
attraverso l'alveo del Mississippi. Due forme d'arte distanti fra loro,
dicotomia fra passato e futuro, in cui la metrica libera del verso slam
confligge col rigore ritmico delle dodici battute del blues. Due mondi che si
confrontano, che si guardano in faccia e si studiano per buona parte dello
spettacolo, fino a quando nella catarsi di un finale a schema
libero, l'improvvisazione da jam degli strumenti e il free style di un
poetare quasi rap si fondono in una nuova entità artistica che non conosce barriere
temporali.
Martedì
prossimo, 4 giugno 2013, l'Orablù porterà questo suggestivo spettacolo
all'interno del Cesare Beccaria, il carcere minorile di Milano. Un altro
azzardo, una scommessa, un'intuizione estemporanea che, grazie
all'entusiasta adesione del personale del penitenziario e di tutti gli
artisti coinvolti, siamo riusciti a trasformare in realtà. Sarà, però,
uno show diverso, in cui cercheremo di abbattere l'ideale barriera fra pubblico
e artista, per rendere protagonisti della giornata soprattutto i ragazzi
detenuti, che potranno salire sul palco e recitare, a ritmo di hip hop,
le loro poesie. Ci piace pensare allora che quello di martedì sarà il
nostro evento più importante, e che per un pomeriggio, per tutti coloro che
saranno presenti, non esisteranno più sbarre nè catene, ma solo il
linguaggio salvifico della musica e
della poesia. Ali, altro non sono, per librarsi in cielo e sentirsi
finalmente liberi. Oltre una cella, oltre la prigione delle nostre ordinarie
esistenze.
John Fogerty è una leggenda vivente
del rock alle stelle e strisce, su questo non ci piove. A dircelo, sono i
numeri (più di 50 anni di carriera, 23 dischi sotto l'egida Creedence Clearwater
Revival e 9 da solista, 100 milioni di copie vendute) e un nutrito curriculum di
onorificenze e riconoscimenti, tra cui l'inclusione nella Rock & Roll Hall
of Fame nel 1993, il Grammy Award vinto nel 1997 per il suo album Blue
Moon Swamp, l'inserimento nella Songwriter Hall of Fame avvenuto nel
2005. Ma, soprattutto, a ricordarci la caratura dell'artista, ci sono le
canzoni, belle e innumerevoli, che hanno fatto la storia del rock, unendo in un
simbolico ascolto collettivo più generazioni di appassionati. Oggi, sessantotto
anni compiuti due giorni fa, Fogerty torna nei negozi con un nuovo disco che
ripercorre la sua straordinaria carriera, riproponendo in veste diversa le
grandi hits che nel tempo ne hanno decretato il successo planetario. Non si
tratta però dell'ennesimo Best of, ma di un'operazione sostanzialmente diversa.
Mr. Camicia a Quadri raduna la meglio gioventù del rock americano (Dawes,
My Morning Jacket, Zac Brown Band) e molte stelle di prima grandezza (Foo
Fighters, Tom Morello, Bob Seger, Kid Rock, Allen Toussaint) e rimette mano al
proprio repertorio, lasciando però agli altri il compito di irrorare di nuova
linfa canzoni arcinote. Quale sia l'essenza di questa operazione è lo stesso
chitarrista a spiegarcelo: "Ho incoraggiato ognuno degli artisti
coinvolti nel progetto a proporre una loro personale visione dei miei brani,
anziché limitarsi a rifarli come avevo fatto io in passato. Volevo qualcosa di
nuovo".
Narcisismo ? Autocelebrazione ? Non v'è dubbio. Basta guardare
la copertina del disco, con il faccione di Fogerty ingessato nel botulino e
quei capelli colorati che puzzano di tinta lontano un miglio, per rendersi
conto che l'uomo sta combattendo la propria personale battaglia contro il
tempo a colpi di edonismo e lifting. Eppure, il risultato finale di
Wrote A Song For Everyone, è molto meglio di ciò che potrebbe far pensare
una cover così pateticamente artificosa. Non tutti gli obiettivi sono
centrati (Kid Rock mortifica Born On The Bayou, che forse anche il sottoscritto
sarebbe riuscito a cantare meglio), ma molte canzoni che fanno ormai parte del
nostro dna di rockers ritornano nel lettore con un suono fresco, decisamente
non datato e soprattutto private di quella autoreferenzialità che avrebbe
potuto trasformare il disco in una mera operazione nostalgica. Così, Proud
Mary è stravolta in chiave gospel da Jennifer Hudson (cantante di colore,
vincitrice anche del premio Oscar per la sua interpretazione in Dreamgirls),
Allen Toussaint e la Rebirth Brass Band, Fortunate Son è a dir poco strapazzata
dal power rock dei Foo Fighters e Who'll Stop The Rain, uno dei capolavori
della produzione fogertyana, plasmata dalle sapienti mani di Seger, tiene
testa all'originale, regalandoci i tre minuti più intensi dell'album. Fogerty,
che possiede ancora una bella voce a dispetto dell'età, se ne sta un pò
defilato, mantiene un ruolo subalterno rispetto alla star ospitata e duetta
senza essere mai invasivo, con i tempi calibrati e la scioltezza di un
grande guru. E dimostra, peraltro, di non aver perso la verve compositiva,
visto che i due inediti presenti sul disco, Train Of Fools e Mystic
Highway, possiedo un'ossatura solida che convince fin dal primo ascolto.
Inizia da oggi una nuova
collaborazione del killer. Lei è MoneyPenny, una cara amica con la passione per
i viaggi, una predisposizione onnivora alla lettura e un passato, udite
udite, da somelier. Con la sua etichetta Miscellanee, ci condurrà per le
strade del mondo attraverso percorsi lontani anni luce dai consunti
itinerari turistici. Non il classico diario del viaggiatore, quindi, ma dei
post flash per suggerimenti mirati. Buona lettura.
Praga
è veramente una città magica: ovunque si respira un'aria alchemica, eredità di
un passato d'oro.
Lasciate
perdere il Vicolo d'Oro, troppo turistico e fasullo. E' vero, proprio lì
pare vivessero gli alchimisti chiamati a corte , ma ora di quel passato non c'è
più nulla, solo casette colorate piene di souvenir. Molti vendono libri di
kafka che pare abbia vissuto qualche anno in questa via.
Per
respirare la vera Praga alchemica occorre perdersi, nel vero senso della
parola, nel quartiere ebraico Josevof. Antico come non mai, ti sembra che in
qualsiasi momento possa spuntare il Golem, creatura leggendaria della cultura
ebraica, portata alla conoscenza dei molti dal romanzo di Gustav Meyrink.
Si
narra che il rabbino Jehruda Low creo il suo golem attraverso l' uso della
kabbalah. Per poter dare vita alla creatura d' argilla, incise la parola verità
sulla fronte di quello che poi divenne il suo schiavo. Per interrompere la sua
costante crescita e la sua "disobbedienza" incise la parola morte. Si
dice che i golem del rabbino siano conservati nella soffitta della sinagoga,
che vale la pena di visitare (la sinagoga, non la soffitta.....) essendo una
delle più antiche d' Europa, fortunatamente sopravvissuta alla follia nazista.
Mi
permetto di consigliare non solo il viaggio, ma anche un libro che vale la pena
di leggere. In questo caso il Golem di Meyrink, non Kafka che sarebbe troppo
banale per Praga (e che comunque non è nella lista dei miei autori preferiti).
Per
assaporare la magica atmosfera della città, accompagnate la lettura con una
buona birra ceca: se siete a Praga girate tra microbirrerie che ne producono
differenti tipologie, se siete a casa.....qualcosa si trova nei negozi.
Quando acquisto un disco dei
The National, lo faccio rigorosamente a scatola chiusa, tanto so già cosa aspettarmi e so che non resterò
deluso.E' una bella sensazione, una sorta di benedizione per le mie orecchie e
il mio portafoglio. Metto nel lettore Trouble Will Find Me e ascolto
esattamente ciò che volevo ascoltare. Sembra
un pò come tornare a casa dopo un lungo viaggio, e riscoprire il piacere
di muoversi fra oggetti famigliari, sentire antichi profumi, tornare a
misurarsi con i sapori di sempre. Possano
piacere o meno, il dato obiettivo e inequivocabile è che il gruppo di Matt
Berninger, in dodici anni di attività, non ha sbagliato un disco che sia uno,
nemmeno a farlo apposta. Certo, il gruppo ha vissuto una lenta ma costante
evoluzione da quel Sad Songs For Dirty Lovers che, nel 2003, ci aveva commosso
con la sua disarmante urgenza espressiva. Oggi, il suono dei The
National è diventato più curato e stratificato, vive anche nelle
minuzie e nei particolari, e molte canzoni, che mantengono
però intatto lo stesso fascino di quelle contenute in dischi
come Alligator (2005) e Boxer (2007), possiedono un appeal superiore, in
grado cioè di raggiungere un pubblico più numeroso (ascoltate I Need My Girl e
capirete cosa intendo). Anche la voce di Berninger è cambiata, dal momento che,
come raccontano le cronache, ha smesso di fumare da un paio di anni. Il timbro
da crooner c'è ancora, ovviamente, ma il cantato si è fatto meno scorbutico, più
morbido, addirittura luminoso in certi passaggi che tempo fa sarebbero
risultati irrimediabilmente ruvidi. Eppure, nonostante questi piccoli, ma niente
affatto risibili cambiamenti, un disco dei The National, come dicevo all'inizio,
è qualcosa che ti aspetti e che sei felice di ritrovare così come te lo
immaginavi. La sensazione è un pò come quella che si prova quando si incontra un
vecchio amico, con il quale, nonostante il tempo trascorso dall'ultima volta, si
ricrea subito la medesima confidenza di allora, le stesse dinamiche di
coppia. Trouble Will Find Me, infatti, ci conduce nuovamente là, dove i
suoi predecessori ci avevano lasciati : nelle terre di un romanticismo minimale
e di un crepuscolo narrato con toni dimessi e colloquiali, in cui tutto
suona pacatamente sincero. Ed è curioso constatare come, se il primo ascolto del
disco ci lascia ancora, come sempre, tiepidi, i successivi crescono invece
inesorabilmente dentro di noi, portando alla luce la diafana bellezza di
gioielli come Pink Rabbits, Fireproof e Don't Swallow The Cap.
Insomma, Trouble Will Find Me è il solito, grande disco, dei The
National. Una band, una certezza.
Ricevo dalla nostra
free lance, Cleopratra, e integralmente
pubblico.
Se vi capiterà di
leggere questo libro, non vi sentirete più come prima, credetemi.Questa è una storia vera narrata in prima
persona dal protagonista, Damien Echols.Siamo in Arkansas, corre l'anno 1993. Povertà ed emarginazione
fanno da sfondo ad un quadro familiare in cui Damien cresce tra stenti e
privazioni inframmezzato da qualche raro momento di serenità nella plumbea
quotidianità di West Memphis. Se a questo contesto aggiungiamo che il
ragazzo è un tipo eccentrico dotato di una personalità ombrosa e solitaria
arricchita da una certa propensione all' occultismo e con una predilezione
per l ' heavy metal, ecco che il ritratto del perfetto assassino prende
forma. Damien , insieme ai due amici , Jessie Misskelley e Jason
Baldwin , per un tragico scherzo del destino, vengono arrestati con la terribile
accusa di sevizie e omicidio di tre bambini di otto anni. Inizia così
l'incubo , quella discesa agli inferi che risucchia la vita, il futuro, le
speranze e cala il buio.Si incardina
un un processo giudiziario costruito su un impianto accusatorio infarcito di
testimonianze false e prove labili . Come spesso accade, in casi simili
è prioritario assicurare un colpevole alla giustizia per ristabilire
il prima possibile un certo equilibrio ad una comunità scossa da un episodio
tanto efferato. Secondo l' accusa, Damien,
in quanto capo del gruppetto di sbandati, merita il massimo della pena . La
Corte accoglie la richiesta e pronuncia la condanna alla pena capitale .Gli
altri due se la " cavano " con l'ergastolo. Una sentenza shock e il caso è
chiuso . Trascorre ben 18 anni nel braccio della morte, Damien. Dapprima,
precipita nel girone dei dannati, inghiottito da un baratro fatto di
disperazione e di isolamento ma poi intuisce che bisogna risalire dall'abisso.
Così inizia a leggere insaziabilmente, impara le tecniche di meditazione, si
converte al buddismo zen .Tenere la mente allenata diventa il suo mantra a
dispetto di un ottuso sistema carcerario che annulla ogni anelito alla
riabilitazione. Gli anni passano, le speranze di Damien ora si affievoliscono
ora rinverdiscono mentre qualcosa fuori da quelle mura di cemento comincia a
muoversi. Nasce un movimento per ottenere la revisione del processo. Star
internazionali del calibro di Eddie Vedder dei Pearl Jam e di Johnny Depp si
appassionano al caso di Damien. Ma soprattutto appare sulla scena Lorri Davis,
la donna che combatterà con lui la battaglia della vita. Dalle tenebre alla
luce. Dalla morte alla risurrezione. La storia di Damien è quella di un
clamoroso errore giudiziario ma anche quella di un'esistenza dilaniata
dall'ingiustizia che trova il riscatto attraverso una forza interiore, forse,
senza eguali: la sua esperienza ciinsegna a non arrendersi, specialmente quando la più cupa
disperazione prende il sopravvento e ti avvolge nelle sue spire. Il libro
rappresenta anche una esplicita denuncia al sistema carcerario americano. Un
sistema ottuso, feroce e impersonale che non persegue scopi di rieducazione e
riabilitazione dei detenuti. L' avvento della privatizzazione di numerosi
istituti di pena ( iniziata negli anni '80 sotto la presidenza Reagan e Bush
senior e che ha raggiunto il suo apice con Bill Clinton) ha
trasformato la carcerazione in un vero e proprio business . Le due più grandi
società del settore , peraltro quotate in Borsa , la Correctional Corporation
of America e la Wackenhut controllano il 75% del mercato e i carcerati
assicurano una forza lavoro, molto spesso a costo zero. Per parecchie
multinazionali, quindi, i detenuti rappresentano una vera e propria manna dal
cielo non dovendo confrontarsi con lavoratori che protestano o che rivendicano
forme di tutela o di assicurazione.Storie
come quella di Damien si ripeteranno, purtroppo,
e fino a quando la logica del business prevarrà sul fattore umano, la
giustizia non vedrà la luce. E' un quadro drammatico ma questo è il
mondo.
Mike Mc Cready è il
funambolico chitarrista di una delle band di maggior successo della scena
grunge. Con i suoi Pearl Jam ha firmato infatti due capolavori, Ten (1991) e Vs
(1993) destinati a diventare pietre miliari, non solo del Seattle Sound, ma
dell’intera storia del rock. Mike, però, non riesce a gestire un successo così
travolgente e si fa prendere la mano dall’alcol (molto) e dall’eroina
(moltissima). Cammina sull’orlo di un precipizio, Mc Cready, e sono in molti a scommettere
che a breve nel cimitero dei maledetti del rock verrà piantata un’altra croce.
La scimmia dell’eroina è una brutta bestia e non fa sconti a nessuno, soprattutto
a coloro che sono troppo indulgenti con i propri vizi. Mike, però, è ben
consigliato, è circondato da amici e probabilmente, mi permetto un briciolo di
cinismo, è una risorsa troppo importante per la band di Eddie Vedder per essere
abbandonata al proprio destino. Così, sul finire del 1994, Mc Cready parte per
Minneapolis ed entra in un centro per il recupero di alcolisti e
tossicodipendenti. Qui, incontra un altro musicista, un bassista originario di Chicago,
chiamato John Philip Saunders (The Walkabouts), e i due diventano amici.
Ripulirsi, tornare alla normalità, non è affatto semplice. Ma John e Mike hanno
dalla loro la passione per la musica. Così, tra una terapia e l’altra, si
ritrovano nelle loro stanze a suonare e a comporre canzoni. Ai due nuovi amici,
si aggiunge quasi per caso un altro enfant prodige della scena di Seattle, il
cantante degli Alice In Chains, Layne Staley, che di quel centro è un
affezionato ospite da tempo. Se Mike è messo male, Layne sta molto peggio,
visto che di affetti ne ha davvero pochi e la droga, peraltro, gliela fornisce il
padre. Staley, quindi, a Minneapolis è di casa, da quel centro entra e esce con
una continuità sconcertante. Eppure, quando sta bene, di cantanti come lui, con
quella voce potentissima e quel timbro inconfondibile, in circolazione ce ne
sono pochissimi.
I tre, potere della redenzione, si prendono subito in simpatia,
umanamente e artisticamente, tanto che in pochi mesi decidono di dare vita a un
progetto musicale. E siccome manca il batterista. Staley, che è legatissimo a
un altro tossico d’antan, Mark Lanegan, leader degli Screaming Trees, si fa
presentare da quest’ultimo Barrett Martin, il drummer di quella band. Il
(super)gruppo con l’entrata di Martin è al completo e il quartetto si mette
alacremente al lavoro. Inizialmente, si fanno chiamare Drugs Addicts And
Alcoholics (un nome,un programma) e cominciano a suonare al Crocodile Cafè di
Seattle, il locale gestito dalla moglie di Peter Buck, chitarrista dei REM. Ma quando la Colombia li mette sotto contratto
e pianifica l’uscita di un disco, Mc Cready e compagni devono trovare un nome che
sia più politically correct. Scelgono quindi di chiamarsi Gacey Bunch, nome che,
poco prima dell’uscita dell’album, si trasforma però nel più appetibile Mad
Season. Above, viene dato alle stampe il 14 marzo del 1995, e il 1 aprile dello
stesso anno è già al 24esimo posto di Billboard 200, ove permarrà per 27
settimane consecutive. Sarà il primo e ultimo disco di una band fenomenale, il
cui futuro, però, è da tempo già scritto : troppi gli impegni dei musicisti con
i gruppi di provenienza per durare, troppo tossico Layne Staley per reggere il
peso di una doppia militanza. Nonostante il carattere di opera estemporanea,
Above ha però tutte le caratteristiche del capolavoro, e soprattutto oggi, con
lo sguardo distaccato di chi giudica, alla luce dei vent’anni trascorsi, quell’epoca
musicale nel suo complesso, può essere definito uno dei vertici del movimento
grunge. Forse, addirittura, il disco più bello, o comunque uno di quelli che
condivide il podio della leggenda con Superfuzz Bigmuff dei Mudhoney, Ten dei
Pearl Jam, Dirt degli Alice In Chains e, ovviamente, l’acclamatissimo Nevermind
dei Nirvana. Eppure, a ben ascoltare, Above non è un disco propriamente grunge.
L’avventura di Seattle è ormai agli sgoccioli e si delineano in lontananza le
prime fila di quel pessimo rigurgito radiofonico che porterà il nome di post
grunge. Soprattutto, però, l’alfiere del movimento, Kurt Cobain, si è tolto la
vita l’anno prima, mettendo fine, senza appello, ai sogni di quella generazione
di belli e dannati, che prende il nome di generation X.
Above è quindi il disco
del tramonto di un’epoca, una pietra tombale, un’orazione funebre o un canto
del cigno. Chiamatelo un po’ come volete, ma il senso è questo. I Mad Season
sono già oltre il grunge eppure ne declamano ancora le gesta con il verbo crepuscolare
e nostalgico di chi sta conoscendo la decadenza. Basta la prima canzone, Wake
Up, per cogliere quel senso di tragedia (artistica) imminente che permea l’intero
disco. Layne, mai così intenso, recita la propria dichiarazione d’amore all’eroina.
Il passo è lento, quasi morbido, ma presto accelera, conducendo i languori
agrodolci dell’inizio verso il torrido
climax centrale che rimastica antiche scorie grunge e sublima per l’ultima
volta la gloria che fu. Wake Up, epitaffio del grunge, è solo il primo passo di
una scaletta breve ma intensissima, i cui picchi memorabili sono il blues
maligno di Artificial Red, in cui si compie un incestuoso amplesso fra Muddy
Waters e i Black Sabbath, le abrasioni rock seventies di I’m Above, con Mark
Lanegan al controcanto baritonale, Layne che ringhia rabbioso e Mc Cready che
prima cita Ten e poi delizia le orecchie con un arpeggio acustico di straniante
bellezza, e il jazz sfocato e sonnambulo dell’immensa Long Gone Day, in cui le
voci di Lanegan e Staley si fondono in un abbraccio di sulfurea intensità. Il
contorno a questi capolavori è comunque di ottima qualità (a parte l’inconcludente
finale di All Alone) e un singolo a presa facile come River Of Deceit regalerà
alla band non poche soddisfazioni anche in termini commerciali. In questi
giorni, esce nei negozi, la deluxe edition di Above, che rappresenta l’occasione
giusta per recuperare un disco che ha segnato il percorso musicale di tanti
appassionati che, come il sottoscritto, appartengono a quella generazione che
ha vissuto in prima persona l’epopea del grunge. Il disco originale, rimasterizzato,
possiede una qualità audio eccelsa ed è arricchito anche da cinque brani
inediti tratti da quelle sessioni di registrazione, tra cui la cover di I Don’t
Wanna Be A Soldier di John Lennon. Oltre al booklet, coi testi delle canzoni e
alcune foto, il cofanetto comprende il cd e il dvd di Live At Moore, unica
testimonianza ufficiale dei Mad Season in concerto. Imperdibile.
C'è una sensazione che tutti, prima o poi, abbiamo provato nella vita:
il desiderio di sparire. Di fuggire da tutto. Di lasciarci ogni cosa alle
spalle. Ma per alcuni non è solo un pensiero passeggero. Diviene un'ossessione
che li divora e li inghiotte. Queste persone spariscono nel buio. Nessuno sa
perché. Mila Vasquez invece è circondata dai loro sguardi. Ogni volta che mette
piede nell'ufficio persone scomparse dove lavora, centinaia di occhi la fissano
dalle pareti della stanza dei passi perduti, ricoperte di fotografie. Per lei,
è impossibile dimenticare chi è svanito nel nulla. Forse per questo Mila è la
migliore in ciò che fa: dare la caccia a quelli che il mondo ha dimenticato. Ma
se d'improvviso alcuni scomparsi tornassero con intenzioni oscure? Sembrano
identici a prima, questi scomparsi, ma il male li ha cambiati. Alla domanda su
chi li ha presi, se ne aggiungono altre. Dove sono stati tutto questo tempo? E
perché sono tornati?
Chi ha letto Il Suggeritore, uscito quattro anni fa nelle librerie
italiane, si sarà sicuramente fiondato a comprare anche quest’ ultima fatica
dello scrittore pugliese, L’ipotesi Del Male. D’altra parte, Donato Carrisi,
con il suo primo romanzo, ci aveva fatto sognare. E poco importa se poi non si
trattava di sogni, ma di veri e propri incubi : quell’esordio fu talmente
emozionante e convincente da mettere in fila gran parte della produzione noir
di derivazione americana o scandinava. Insomma,nel genere, Il Suggeritore è quello che si può definire, senza rischiare
di essere spernacchiati, un capolavoro. L’ipotesi Del Male arriva quindi nei
negozi carico delle attese di tutti coloro che si erano affezionati alle oscure
vicende di Mila Vasquez, poliziotta integerrima, dall’ anima però tormentata e anaffettiva.
A Carrisi il compito di non deludere (o eludere) le aspettative di tanti
lettori, e di gestire una materia che si ripresenta alquanto complessa, dal
momento che l’ambientazione del romanzo è priva di punti riferimento, sia
spaziali che temporali, e l’intricata vicenda, come di consueto, si sviluppa
sul quel labile confine che separa il bene dal male, la normalità della vita e
del quotidiano dalle porte dell’inferno. Obiettivo complicato, dicevamo, (il
rischio di ripetersi era dietro l’angolo), ma ampiamente centrato, grazie a una
scrittura fluida, alla minuziosa documentazione, che da credibilità e sorregge
l’impalcatura dell’intreccio, e a un ritmo serratissimo, gestito con la perizia
di un califfo del thriller. Nonostante qualche passaggio, a mio avviso, un po’ forzato
(non posso dirvi quale per non rovinarvi la sorpresa), il romanzo scorre che è
un piacere (il brivido lo è sempre), ci regala un finale aperto che inquieta, e
ci lascia soprattutto un senso di angoscia (e di claustrofobia) che perdura ben
oltre l’ultima pagina del libro. Sembra la cosa più scontata di questa terra (e
probabilmente è anche la più disattesa), ma un noir può dirsi davvero buono
solo se riesce a far paura. Carrisi ci è riuscito ancora. Non era facile.