venerdì 29 aprile 2022

GIRLS JUST WANT TO HAVE FUN - CYNDI LAUPER (Portrait/CBS, 1983)

 


Il nome di Robert Hazard dice veramente poco a chi non è appassionato di musica e, a dire il vero, anche per coloro che sono più addentro alle cose del rock, ha sempre rappresentato una figura di secondo piano, nonostante sei album pubblicati, a intermittenza, dal 1984 fino al 2007, l’anno prima di morire per le complicanze di un tumore al pancreas. Un musicista ondivago nelle sue scelte stilistiche, che negli anni ’80 veniva etichettato come new wave e che, a fine carriera, ha coronato la propria passione per le sonorità roots a stelle e strisce, rilasciando un paio di buoni album country.

Eppure il nome di Hazard è legato indissolubilmente a una delle canzoni più famose di sempre, una di quelle che, anche coloro a cui la musica non interessa, conoscono a menadito e della quale possono recitare come un mantra il ritornello. Il brano in questione, udite udite, è Girls Just Want To Have Fun, che non è stata scritta da Cyndi Lauper, come si pensa, ma dal nostro semisconosciuto Hazard, che la pubblicò come singolo nel 1979, senza però raggiungere il grande pubblico.

Fu Rick Chertoff, produttore di Cyndi Lauper, a convincere la cantante a farne una cover per il suo album di debutto She’s So Unusual (1983), un disco da sedici milioni di copie vendute e un Grammy vinto (miglior artista esordiente), che fu trainato verso il successo planetario da due clamorose hit, Time After Time e la citata Girls Just Want To Have Fun. Un brano, questo, che nelle mani della stravagante artista (il titolo del disco e l’immagine adottata dalla Lauper rappresentano un’esplicita dichiarazione di anticonformismo) mutò completamente forma, sia sotto il profilo delle liriche (l’originale di Hazard era declinata da un punto di vista maschile) che del suono, reso più pieno e pompato dall’uso del sintetizzatore.

La versione della Lauper, inoltre, divenne in pochissimo tempo un inno alla solidarietà femminile, una forte dichiarazione di indipendenza per celebrare il cameratismo fra donne, una chiamata alle armi del genere femminile per schierarsi a favore delle pari opportunità.  Non solo, quindi, un invito a far casino e a divertirsi (che vale un po' per tutti), ma a farlo perché è giusto che le donne possano vivere le stesse esperienze degli uomini, senza restrizioni e ipocrisie.

Il successo della canzone si deve anche al video che l’accompagna, che vinse un MTV Video Music Award e che, a gennaio 2022, vanta la bellezza di più di un miliardo di visualizzazioni. La pellicola, diretta da Edd Griles, ebbe un costo irrisorio di 35.000 dollari, perché tutti gli attori che vi compaiono lo fecero gratuitamente e le attrezzature utilizzate erano state prese in prestito. Nel cast, a fianco di Cindy, comparivano il grande wrestler Lou Albano, nel ruolo del padre, la madre Catrine nel ruolo di se stessa, l’avvocato della Lauper, Elliot Hoffman, come ballerino, e ancora il manager, David Wolf, suo fratello, Butch Lauper, il collega musicista Steve Forbert e uno stuolo di impiegati presi in prestito dagli uffici della CBS, l'etichetta discografica di Lauper. Un lavoro fatto in famiglia, che fece schizzare Girls Just Want To Have Fun nella top ten di tutte le classifiche del mondo.

 


 

Blackswan, venerdì 29/04/2022

giovedì 28 aprile 2022

CROWBAR - ZERO AND BELOW (MNRK Heavy, 2022)

 


Originari della Luisiana, da oltre 30 anni, i Crowbar rappresentano una vera e propria istituzione del metal, che si è incarnata, fin dagli esordi, nella figura di culto del frontman, chitarrista e cantante, Kirk Windstein, un uomo che ha contribuito a ridefinire il genere sludge/doom, creando un percorso che è stato d’esempio per molti giovani band.  Attraverso i decenni e la pubblicazione di undici album, Windstein e i suoi compagni di brigata hanno rilasciato alcuni classici del genere (su tutti, "Time Heals Nothing" e "Planets Collide") plasmando un suono potente, monolitico, sferzato da riff iconici, linfa vitale per lo stato di salute del suono sludge.

Sempre fedeli a loro stessi e inaccessibili alle mode del momento, i Crowbar tornano oggi con un nuovo disco, Zero And Below, che non sposta di una sola virgola i termini di una proposta musicale immodificabile nel tempo. Il che, tutto sommato, è quello che i fan si aspettano, visto che gli ingranaggi della macchina continuano a essere perfettamente oliati: non servono aggiustamenti o novità, cure o ritocchi, dal momento che la formula continua a funzionare maledettamente bene.

L'opener "The Fear That Binds You" impiega pochi secondi a mettere le cose in chiaro, trainata dai muscoli delle chitarre di Windstein e Matthew Brunson, che colpiscono duro con riff contundenti e un sovrastante senso di urgenza.

Una potenza sprigionata ad altezza uomo, che pervade molti momenti di Zero and Below: "Chemical Godz" e "Her Evil is Sacred" ti prendono a pugni in faccia, lentamente, con metodo, mentre "Bleeding From Every Hole" è devastante come un’armata hardcore che non fa prigionieri. Ma questa non è l'unica velocità di marcia dei Crowbar, perché nel disco ci sono anche momenti di grande atmosfera, come “Denial of the Truth”, costruita su uno splendido riff di basso del nuovo arrivato, Shane Wesley, e come la title track, posta a fine scaletta, che è una delle chiusure più cupe che Windstein abbia registrato fino ad oggi.

Il pregio di questa musica, è però anche il suo limite, e sebbene non ci siano brutte canzoni in Zero and Below, non c'è nemmeno uno scarto, un tentativo di variazione sul tema che differenzi la scaletta da quanto abbiamo già ascoltato nel corso dei decenni. Un suono famigliare, certo, ma anche strutturalmente monocorde, che finisce per avvolgere il disco da un senso anestetizzante di deja vu. Il tema è proprio questo: da un lato, desiderare qualche cambiamento, per vedere che effetto fa uscire dal solco profondo tracciato dalla band in trent’anni di attività, dall’altro, la consapevolezza che la formula dei Crowbar funziona benissimo così com’è e che basta una lucidatina alla carrozzeria perché l’aura della band continui a brillare di luce propria. Sono pronto a commetterci che è questo ciò che davvero conta per i fan di lunga data della band, i quali ritroveranno in Zero And Below tutto quello che hanno sempre amato.

VOTO: 7

 


 


Blackswan, giovedì 28/04/2022

mercoledì 27 aprile 2022

YOU GET WHAT YOU GIVE - NEW RADICALS (MCA, 1998)

 


Il termine inglese per definire i New Radicals è One Hit Wonder, locuzione che indica un gruppo o un artista noto al grande pubblico per un solo singolo. Il termine italiano, non meno efficace, è meteora, un astro che attraversa il cielo rapidamente, suggestionando con una luminosa scia, ma destinato, ben presto, a essere fagocitato dal buio eterno dell’universo.  

La band in questione, originaria di Los Angeles e composta dall’istrionico cantante, compositore e produttore, Gregg Alexander, e dal tastierista e percussionista Danielle Brisebois (unico altro componente in pianta stabile) hanno ballato, come si suol dire, una sola estate (anche se il loro disco d’esordio risale ad ottobre 1996), pubblicando un unico album, Maybe You’re Been Braiwashed Too, da cui venne estratto come singolo You Get What You Give (uscito il 3 novembre dello stesso anno), che in poco tempo scalò (bene, ma non benissimo) le classifiche americane (arrivò alla trentaseisema piazza), facendo però faville soprattutto in Europa, dove ha conquistato la quinta piazza nel Regno Unito e la quarta in Irlanda, e in Canada e Australia, dove ottenne la prima posizione in entrambe le chart.

Il brano, che ebbe un ottimo riscontro di critica e molti estimatori fra star di prima grandezza (su You Get What You Give si espressero in termini assai lusinghieri, tra gli altri, Joni Mitchell, Ice-T e The Edge, il chitarrista degli U2), nonostante il ritmo e la melodia incredibilmente ottimisti e scanzonati, dà sfogo in realtà al cuore gonfio di rabbia di Gregg Alexander, il quale attraverso liriche salaci e sprezzanti, deride il sistema liberista americano, getta uno sguardo amaro su una gioventù depressa e senza futuro, e invita i giovani a reagire, a rialzarsi per riappropriarsi delle proprie vite (“Svegliatevi, ragazzi, Abbiamo la malattia dei sognatori, A quattordici anni, ti hanno messo in ginocchio, Così educati, siamo ancora occupati a dire per favore”).

Un testo feroce e sprezzante, che spara a zero sullo stile di vita americano senza fare sconti: “L’assicurazione sanitaria, frega mentendo, FDA (Food And Drug Amministration, ndr.), grandi banchieri che comprano, il computer falso si blocca durante la cena”.

C’è di più, però. Nelle battute finali della canzone, Alexander se la prende deliberatamente con volti noti dello spettacolo (rei di essere complici del sistema), attraverso quello che nelle intenzioni del cantante doveva essere un test per vedere se i media si sarebbero concentrati sulle questioni politiche sollevate, oppure si sarebbero solo spinti a crear polemica sui nomi illustri citati nella canzone: “Servizi di moda con Beck e Hanson, Courtney Love e Marilyn Manson, Siete tutti falsi, correte nelle vostre dimore. (Se) venite in giro, ti prenderemo a calci in culo". La cosa interessante è che, a prescindere dal gossip creato ad hoc dalla stampa, nessuno dei personaggi citati si è indispettito per la citazione malevola, a parte Marylin Manson. Il Reverendo, però, se la prese, e molto, per un altro motivo: non voleva che il suo nome fosse accostato nella stessa frase con quello di Courtney Love. Chissà poi perchè. 

 


 

 

Blackswan, mercoledì 27/04/2022

martedì 26 aprile 2022

CHRISTIAN LEE HUTSON - QUITTERS (ANTI-, 2022)

 


Dopo un intervallo relativamente breve di due anni dal suo terzo album in studio – Beginners (2020) – esce il nuovo disco di Christian Lee Hutson, Quitters, il secondo sotto l’egida ANTI-. Ancora una volta, la produzione è affidata all’amica, Phoebe Bridgers, il cui sodalizio artistico ha avuto inizio nel 2018, e che per l’occasione, però, si è arricchito anche del contributo di Conor Oberst dei Bright Eyes. Una collaborazione, questa, che aveva già dato i suoi frutti nel progetto Better Oblivion Community Center del 2019, affinando le dinamiche e l’affiatamento fra i tre, la cui empatia artistica si riflette nel lavoro solista di Hutson, grazie a una produzione che rispecchia fedelmente lo stile del songwriter losangelino.

Quitters è il seguito ideale del suo predecessore, un disco che, ai tempi, aveva attirato l’attenzione della stampa specializzata, e i cui contenuti sonori vengono, oggi, replicati in queste nuove, tredici tracce: una scaletta di brani prevalentemente acustici, dalla struttura minimal ma non scarna, in cui le voci raddoppiate evocano il fantasma di Elliott Smith e le melodie folk malinconiche, talvolta scartavetrate di elettricità, possono ricordare nei passaggi più scorbutici i migliori Eels e in quelli più melodici Sufjan Stevens.

Tuttavia, rispetto a Beginners, c’è maggior attenzione agli arrangiamenti e una struttura espositiva più corposa: in particolare nel singolo, "Rubberneckers", e nella deliziosa "CreatureFeature", la ritmica è impostata su ipnotici loop di batteria elettronica e le melodie sono intrecciate ai delicati e fantasiosi controcanti della Bridgers, mentre in "Age Difference", l’intimismo iniziale viene arricchito, lentamente, dalla presenza onirica di un corno e da una chitarra riverberata. Lo stessa stratificazione trova posto nella struttura di "Strawberry Lemonade", l’altro singolo, che apre l'album con la sobrietà della ballata acustica e si gonfia di umori nella seconda parte, grazie alla splendida voce della Bridgers, a un'emozionante linea di pianoforte e agli scossoni elettrici delle chitarre.

La continuità con il predecessore Beginners non è però solo sonora, ma anche lirica, dal momento che i temi affrontati sono i consueti della poetica di Hutson: l’inquietudine per l’avvicinarsi della mezza età e le responsabilità di diventare adulto, la nostalgia per il passato, e quello sguardo coraggioso che indaga le pieghe dell’anima, alla ricerca dell’antitesi fra il bene e il male, qui evocato in "OC Demon", in cui Hutson, nell’intreccio fra fingerpicking acustico e una chitarra distorta, confessa con onestà "Non sono al sicuro con le persone, sono sempre stato malvagio”.

Pur ricalcandone le forme e i contenuti, Quitters possiede un mood un po' più giocoso e leggero del disco che l’ha preceduto, le atmosfere raramente si fanno plumbee, e spesso prevalgono melodie carezzevoli, che avvolgono di tenue luce la geografia umana di Hutson, osservata con sguardo spesso ironico, in un perfetto equilibrio fra introspezione, profondità e vaporosa delicatezza.

VOTO: 7

 


 


Blackswan, martedì 26/04/2022

venerdì 22 aprile 2022

TUBTHUMPING - CHUMBAWAMBA (Emi, 1997)

 


Perché si fossero chiamati Chumbawamba non è dato sapere, e tutte le spiegazioni offerte nel corso degli anni dai membri della band, pare non corrispondessero al vero; quel che è certo è che l’ensemble inglese (un autentico porto di mare, nelle cui fila si sono avvicendati, in modo molto fluido, numerosi membri) non ha mai fatto mistero delle proprie posizioni politiche, collocandosi alle ali più estreme della sinistra britannica e attestandosi su posizioni antifasciste, animaliste e libertarie.

Una discografia corposa, la loro, composta da ben sedici album, rilasciati in trent’anni di attività, dal 1982 al 2012, tra cui svetta il grande successo commerciale di Tubthumper, un disco dai forti contenuti politici, aspramente criticato, però, dai fan della prima ora, che presero come tradimento il contratto firmato dal combo con una major (la EMI). A prescindere dalle feroci polemiche che accompagnarono l’uscita dell’album, e dal valore artistico dello stesso (molto apprezzato dalla critica dell’epoca), il disco ebbe un enorme riscontro commerciale, riuscendo a salire fino alla terza piazza di Billboard 200, oltre ad entrare nella top 20 di moltissimi paesi europei e non solo.

Il successo del disco si deve soprattutto al lancio del singolo Tubthumping, una canzone dance rock, ballabile e orecchiabilissima, che non solo fu il più importante successo commerciale della band, ma un autentico tormento estivo (fu pubblicato l’11 di agosto del 1997) da un milione di copie vendute nel solo Regno Unito. Divertentissima e innodica, veracemente proletaria nell’esposizione e nella sostanza, Tubthumping (conosciuta anche come I Get Knocked Down) è quasi ossessiva nell’esplicitare un unico concetto positivo: “I get knocked down, but I get up again, You are never gonna keep me down” (“vengo messo ko, ma mi rialzo, non mi terrai mai giù”).

Un invito alla resistenza, rivolto alla classi sociali meno abbienti e a tutti i perdenti, che divenne al contempo anche collante per una band che, secondo le parole del vocalist Dunstan Bruce, prima della pubblicazione del disco, era in una fasi di stallo, prossima allo scioglimento.

La canzone, e il disco che la conteneva, ebbero ulteriore visibilità mediatica a inizio 1998, quando Alice Nutter, cantante e percussionista della band, in un intervista rilasciata al programma televisivo americano Politically Incorrect, ebbe la sfacciataggine di incoraggiare i fan, che non avevano i mezzi per comprarlo, a rubare il disco dalle grandi catene di negozi di musica, come Virgin o HMV. Un’affermazione che ebbe grande clamore mediatico, riaccendendo, da un lato, l’interesse verso Tubthumper, e dall’altro, spingendo i negozianti a tenere l’album ben nascosto sotto il bancone e a venderlo solo su esplicita richiesta.

 


 

Blackswan, venerdì 22/04/2022

giovedì 21 aprile 2022

FATHER JOHN MISTY - CHLOE AND THE NEXT 20TH CENTURY (Bella Union, 2022)

 


Si abbassano le luci, i musicisti accordano per un ultima volta gli strumenti, il sipario si apre: i lustrini dell’orchestra scintillano, mentre sornioni, una tromba, una batteria spazzolata e una melodia demodè per pianoforte, danno inizio a "Chloè", brano di apertura di Chloe and the Next 20th Century, quinto album a firma Father John Misty. Il ritmo swing della canzone è corroborato da una sezione orchestrale ampia e avvolgente, mentre il songwriter americano si mette in posa, pronunciando le liriche con un’inflessione giocosa, che fa pensare a Judy Garland, a Broadway, alle luci della ribalta.

Una sorpresa solo apparente, perché in fin dei conti, Father John Misty, al secolo Joshua Tillman, ha sempre amato e messo in luce, in forme diverse, questo tipo di intensità teatrale, approntando un percorso musicale vario, ricco e sfarzoso, troppo lussureggiante per essere rinchiuso, come spesso è stato fatto, nel recinto stretto della definizione indie folk.

Durante i suoi dieci anni di carriera come FJM, la visione musicale di Tillman è, infatti, sbocciata nelle fattezze di un’orchidea selvaggia, il cui profumo stordente ha invaghito quasi alla follia il panorama alternative, soprattutto con lo splendido, e forse inarrivabile, "I Love You, Honeybear" del 2015, l'ode meravigliosa di un uomo alla donna che ama, i cui arrangiamenti coraggiosi e stravaganti, ne fecero una sorta di colonna sonora sul romanticismo degli anni ’00 e sulla fragilità dell’essere umano di fronte a sentimenti più grandi di lui.

Una visione musicale ricca e non sempre immediatamente classificabile, che si riversa, oggi, in Chloe and the Next 20th Century, un disco che, oltre all’iniziale flirt con le atmosfere di Broadway, funge da contenitore dei molteplici stili e suoni esplorati dal cantante nei suoi precedenti lavori: non, dunque, un  disco in cui Father John Mistry si rinnova, salvo qualche momento più sperimentale, ma una summa del suo sapere artistico e della sua emotiva espressività, incapace di essere univoca, ma tanto disinibita da giocare con l’ascoltatore, immergendolo in atmosfere vivide e vibranti, in cui oscurità e colori, grandeur e intimismo, sono un tutt’uno.

Ecco, allora, le atmosfere da musical del singolo "Funny Girl", arrangiata in modo voluttuoso (che meraviglia quel violino!), l’andamento sognante e sixties di Q4, il cui lo straniante suono di un clavicembalo apre a una pungente polemica contro le case discografiche, che guardano più al trimestre finanziario che non all’arte, le pose da crooner romantico in "(Everything But) Her Love", la dolcezza riverberata di "Kiss Me (I Loved You)", malinconico racconto di un amore finito, o la ballad in quota americana della nostalgica "Goodbye Mr. Blue", che evoca sonorità alla Harry Nilsson, proponendo una scrittura più disadorna ma non meno efficace.  

E se non bastasse, in questo fascinoso caleidoscopio musicale, c’è spazio anche per la cupa tensione che attraversa, insieme alle scariche di una chitarra elettrica distorta, la conclusiva "The Next 20th Century", e per la bossanova piaciona di "Olvidado (Otro Momento)", perfetto esempio di come niente in questo album finisca esattamente dove te lo aspetteresti, incluso l'artista, in continua evoluzione, che lo ha realizzato.

VOTO: 7,5

 


 

 

Blackswan, giovedì 21/04/2022

mercoledì 20 aprile 2022

SCATMAN (Ski Ba Bop Ba Dop Bop) - SCATMAN JOHN (Rca, 1995)

 


La storia di John Paul Larkin, in arte Scatman John, sembra il frutto della fantasia di uno scrittore, la trama di un romanzo o la sceneggiatura di un film, uno di quei racconti di riscatto e redenzione che riempiono il cuore di emozione e di buoni sentimenti, lasciando a bocca aperta per lo sviluppo imprevedibile di un’esistenza che sembrava destinata al fallimento.

Larkin nacque il 13 marzo del 1942 a El Monte, in California, e appena ebbe (si fa per dire) il dono della parola, era chiaro che il destino di quel bambino fosse irrimediabilmente segnato: una grave forma di balbuzie gli impediva un eloquio normale, causandogli profondi traumi emotivi. Ciò nonostante, il piccolo John continuava a coltivare la sua grande passione per la musica, iniziò a suonare il pianoforte, e prese una sbandata per la musica jazz, collezionando dischi di Ella Fitzgerald e Louis Armastrong. Voleva diventare un musicista, voleva avere successo con la musica. Questo, era il suo sogno, lo scopo della sua vita.

Negli anni ’70 e ’80 iniziò a suonare come pianista in diversi club di Los Angeles e nel 1986 pubblicò il suo primo album solista, che, però, fu un clamoroso flop commerciale.  Già traumatizzato per la grave forma di balbuzie, John non riuscì a metabolizzare l’insuccesso artistico, e iniziò ad abusare di droga e alcol.

Fu la morte dell’amico e collega, Joe Farrell, a dargli la scossa decisiva per cambiare vita. Smise con gli eccessi, si trasferì a Berlino e ricominciò a suonare dove gli capitava, dalle navi da crociera ai localini jazz, dai bar ai club, attraversando la Germania da nord a sud, da est a ovest. E poiché iniziò a percepire che il suo lavoro veniva apprezzato, spinto dal desiderio di migliorarsi sempre più, ebbe una folgorante intuizione, e decise un azzardo, all’apparenza folle.

John voleva cantare, ma la balbuzie glielo impediva, però conosceva a menadito lo scat, un particolare modo di approccio al canto, utilizzato nella musica jazz, in cui la voce imita gli strumenti musicali, tramite la riproduzione di fraseggi simili a quelli strumentali, avvalendosi di un'infinita varietà di suoni svincolati da linguaggi convenzionali. Niente parole, dunque, ma semplici fonemi dal suono accattivante, usati sia in chiave ritmica che melodica. Perché allora non provarci? Perché non tentare la forma espressiva dello scat come veicolo per dare sfogo a tutte quelle parole che, inesauste, si affastellavano sulla sua lingua, senza la possibilità di vedere la luce?

L’intuizione ebbe successo, il pubblico era entusiasta, e la carriera di Larkin, pur non avendo echi fuori dai confini teutonici, iniziava a prendere una piega inaspettatamente positiva. Fu l’agente di John, Manfred Zahringer, a capire, prima di tutti, che la gloria era a portata di mano, e che bastava davvero poco perché quel talentuoso musicista potesse trasformare un ingombrante difetto fisico in un trampolino di lancio verso le classifiche di tutto il mondo.

Nasce così la figura artistica di Scatman John, un musicista balbuziente capace di fondere lo stile scat con la dance music e l’hip hop, e di diventare un fenomeno di caratura mondiale e una macchina da soldi come poche nella storia.

Bastò una sola canzone, Scatman (Ski Ba Bop Ba Dop Bop), perché i sogni di John divenissero realtà, una canzone allegra e ballabile, che veicolava un messaggio positivo per tutti quei bambini che come Scatman erano affetti di balbuzie, una canzone che invitava i piccoli disabili a non avere paura a vivere la propria vita e a relazionarsi con gli altri.

Fu così che a 53 anni, Larkin ebbe una hit in tutte le classifiche del mondo, vendendo la bellezza di sei milioni di copie (e tre milioni di copie del suo album Scatman’s World), antipasto di una carriera che, dal 1995 fino alla morte, fruttò al musicista cinquantadue milioni di dischi e ventun milioni di singoli venduti, oltre a quattordici dischi d’oro e diciotto di platino.

Il fato, però, era in agguato, e la storia a lieto fine di di Scatman John, durò il tempo di un battito di ciglia. Sul finire del 1998, gli venne, infatti, diagnosticato un cancro ai polmoni dagli effetti esiziali. John ebbe il tempo di rilasciare un terzo disco, Take Your Time (1999), e un anno dopo, il 3 dicembre del 1999, morì a Los Angeles, dopo una lunga agonia. Poco prima di lasciare questa terra, a un giornalista che gli chiedeva con che spirito affrontasse la malattia, John rispose: “Qualunque cosa Dio voglia per me, va bene. Ho avuto una bella vita. Ho provato la bellezza”.

 


 

 

Blackswan, mercoledì 20/04/2022

martedì 19 aprile 2022

ASHLAND CRAFT - TRAVELIN' KIND (Big Loud Records, 2021)

 


Si potrebbe scherzare dicendo che non tutti i talent show vengano per nuocere. Talvolta, può succedere, infatti, che quei contesti artefatti e generalmente privi di autenticità e caratura artistica, possano anche trasformarsi in trampolino di lancio per musicisti che hanno davvero qualcosa da dire. E’ il caso della songwriter Ashland Craft, salita alle luci della ribalta per aver partecipato, con buoni risultati, al contest The Voice US, impressionando per le sue distintive doti vocali e per la capacità di interpretare con uno stile personale alcuni classici della canzone country.

Dopo quell’esperienza, la Craft ha avuto la possibilità di lavorare al proprio materiale, costruendo, grazie al proprio indiscutibile talento, anche in fase di scrittura, le undici tracce che compongono Travelin' Kind. Un disco, questo, composto da brani solidi, intriganti, che denotano una buona conoscenza delle radici e, al contempo, palesano, però una esuberante attitudine rock e un gusto innato per la melodia.

In più, ovviamente, c’è la grande voce della Craft, il cui timbro graffiante e tagliente conquista fin dal primo ascolto, evocando il fantasma di Janis Joplin o, per essere meno banali, la potenza espressiva di Beth Hart. È il tipo di voce che non puoi fingere, che sorge direttamente da un’anima arroventata di passione, quel marchio di autenticità che ogni artista cerca per apparire credibile, e che pochi possiedono realmente. Non solo potenza ed estensione, ma grandi capacità interpretative.

Travelin' Kind non è un album che si rivolge esclusivamente agli appassionati di country, perché è evidente che in queste canzoni la Craft si è tenuta ben distante sia dall’ortodossia di genere che dal suono patinato di Nashville, scegliendo semmai di riversare nel disco tutte le sue influenze, che è quello per cui evidentemente vuol essere ricordata, e cioè una miscela vibrante di rock, country, blues e melodie di grande impatto.

L'album è grezzo, nel senso più nobile termine, si sono evitati artifici e trucchi di produzione necessari a confezionare un prodotto “pulito” per il mercato mainstream, e si è puntato invece all’immediatezza, alla veracità. La sgommata iniziale della title track, un rock possente in odore di Rolling Stones, è l’apripista giusto per una scaletta breve, ma intensa, che prosegue con il mid tempo di "Your Momma Still Does", in cui la Craft scatena tutta la grinta della sua voce e l’elettricità delle chitarre, e “Leavin’ You Again”, un classicissimo country rock, che abbina strumenti tradizionali e melodia orecchiabile.

C’è un’energia incontenibile, in queste undici tracce, e una purezza d’intenti che sorprende, sia quando la Craft srotola divertita un honky tonk trascinante ("Last 20 Dollars"), sia quando affronta le pene d’amore, nella splendida “Mimosas In The Morning”, tiro dritto delle chitarre e ritornello che stende, o duetta con Marcus King nell’intensa ballata "Highway Like Me".

La Craft scarta dall’ovvio, ed evita, come da tradizione, di chiudere il disco con una brano lento; mantiene, invece, il ritmo saldamente impostato con il rock "That's The Kinda Place", che sigilla la scaletta con il collante della stessa energia con cui lo inizia, fornendo la scusa perfetta per premere nuovamente il pulsante di riproduzione nel momento in cui la canzone finisce.

Travelin' Kind è uno di quegli album di debutto di cui fa piacere parlare, l’abbrivo di carriera di un’artista dotata di gran voce e di una spiccata sensibilità, quella che le ha permesso di creare la perfetta combinazione di country e rock, una miscela che, molto probabilmente, la rende attraente per i fan di entrambi i generi. E l’impressione è che i margini di crescita siano ancora importantissimi. Da seguire con attenzione.

VOTO: 7

 


 


Blackswan, martedì 19/04/2022

venerdì 15 aprile 2022

JIVE TALKIN' - BEE GEES (RSO, 1975)

 


Ci sono dischi che si pongono come veri e propri spartiacque nella carriera di un artista o di un gruppo, dischi segnano una svolta, spingono verso una rinascita, o rappresentano un punto di non ritorno. Uno di questi dischi è Main Course, tredicesimo album in studio della storia dei Bee Gees e autentica rivoluzione per il terzetto anglo-australiano, che da questa pubblicazione in avanti entrerà nell’Olimpo degli Dei, per restarci a lungo.

Uno spartiacque, dicevamo, che cambiò il corso degli eventi per svariati motivi. Perché è stato il primo disco a includere principalmente canzoni influenzate dal soul, dal R’&’B e dal funk, creando un modello per la restante produzione artistica degli anni ’70, perché ha tirato a lucido e ringiovanito, soprattutto negli Stati Uniti, l’immagine pubblica del gruppo, facendolo uscire da un periodo di stanca e di insuccessi commerciali, perché è il primo in cui compare il celeberrimo logo della band, disegnato dall’artista statunitense Drew Struzan, e il primo a presentare nella backing band il tastierista Blue Weaver, noto per la sua militanza negli Strawbs.

Il disco, che venne registrato, su suggerimento di Eric Clapton, presso i Criteria Studios di Miami, vide in cabina di regia Arif Mardin, che, insieme al manager Robert Stigwood, fu uno degli artefici del successo di Main Course, per aver plasmato quel suono, che entrerà nella leggenda con la successiva pubblicazione di Saturday Night Fever. L'album raggiunse la posizione numero 14 nella classifica degli album di Billboard nel 1975, ed è rimasto nella classifica dei 200 migliori album di Billboard per 74 settimane fino al dicembre 1976, grazie a tre singoli che sono prepotentemente entrati nelle prime piazze delle chart: "Fanny (Be Tender with My Love)" al n. 12, "Nights on Broadway" al n. 7 e, soprattutto, "Jive Talkin'" al n. 1. Quest’ultima, che ha segnato il rilancio della band a livello commerciale, raggiunse straordinari livelli di vendita anche in Inghilterra, e fu, per i Bee Gees, la prima hit da top ten dai tempi di How Can You Mend a Broken Heart (1971).

Inizialmente, la canzone venne intitolata Drive Talking, perché la ritmica (replicata dalla chitarra elettrica di Barry) era stata modellata sul rumore che faceva l’auto della band passando per la Julia Tuttle Causeway, la strada che, a Miami, portava da Biscayne Bay ai Criteria Studios. Durante la registrazione del brano, però, saltò fuori il titolo Jive Talkin’, che secondo Barry si sposava perfettamente con il groove dance del brano, il cui testo, proprio per questo, stava prendendo forma come una sorta di invito a provare la gioia del ballo. Fu Mardin, però, a far presente alla band che quell’espressione, “jive talkin”, era un’espressione gergale usata dai neri per dire ”sparare cazzate”.

Per cui, le liriche furono cambiate completamente, e il brano, il cui titolo non fu modificato, divenne il racconto di una scaramuccia fra due innamorati, in cui uno accusa l’altra di mentire, di raccontare frottole (“It's just your jive talkin', You're telling me lies, yeah, It's just your jive talkin', You're telling me lies, yeah, Jive talkin', You wear a disguise”).

Una curiosità. Al momento del lancio, il singolo fu distribuito dalla casa discografica alle radio con una semplice copertina bianca, senza alcuna indicazione di come s’intitolasse la canzone e di chi ne fosse l’autore. Una fortunata strategia di distribuzione, che la band aveva già adottato nel lontano 1967, per il singolo di debutto New York Mining Disaster 1941




Blackswan, venerdì 15/04/2022

giovedì 14 aprile 2022

ROSALIE CUNNINGHAM - TWO PIECE PUZZLE (Esoteric Antenna, 2022)

 


Vista l’impossibilità di riunirsi agli altri membri della band durante il lockdown, per dar vita al seguito del suo debutto del 2019, Rosalie Cunningham ha lavorato al nuovo album, collaborando esclusivamente con il proprio partner, Rosco Wilson, e facendosi dare una mano, e che mano, dal grande Ric Sanders, violinista dei Fairport Convention, che compare in scaletta, aggiungendo colori brillanti e profondità alle composizioni. Il mood psichedelico che aveva animato il debutto continua a essere presente, ma Two Piece Puzzle è un disco più variegato e complesso, che imbocca diverse direzioni, talvolta anche all’interno della stessa canzone, senza dare molti punti di riferimento all’ascoltatore. E’ evidente, infatti, che la Cunningham possieda un orecchio fantastico per i dettagli e un’incredibile capacità di lavorare sulle stratificazioni, rischiando molto sotto il profilo dell’immediatezza; ciò nonostante, è comunque riuscita a dare respiro alla sua musica, a dispetto di alcuni arrangiamenti davvero complicati.

Ne deriva che Two Piece Puzzle è un disco superiore al pur buon esordio, un lavoro più maturo e pensato, in cui si accostano diversi generi e svariate influenze, in un caleidoscopio coloratissimo in cui convivono rock, folk, psichedelia, Beatles, Jehtro Tull, Byrds, Spirit, etc. Tanti sapori, dunque, per una nuova ed eccitate ricetta, con cui Rosalie ha sviluppato un suono unico e caratteristico.

Il disco comincia con "Start With The Corners", una sorta di breve ouverture, un'introduzione potente e decisa che scivola sulle note di un cupo organo e poi parte trionfante su chitarre scintillanti, aprendosi a una melodia frizzante e distorta. Un brano che profuma di prog, elaborato negli arrangiamenti, eppure incredibilmente scattante. La successiva "Donovan Ellington", si apre con un riff che evoca i Byrds, e si sviluppa, poi, su trame folk rock che ricordano i Jethro Tull, prima che si scateni un convulso duello di chitarre in acido. Poi, la canzone rallenta, ed entra in scena il violino di Sanders, che aggiunge ulteriori emozioni a un brano già decisamente vibrante.

Rosco prende in mano il microfono in "Duet", dimostrando di essere all’altezza della sua compagna, in questo brano, intrigante e orecchiabile, sospinto da un suono di pianoforte che sviluppa una melodia molto beatlesiana e dagli accenti psichedelici.

Segue un altro pezzo epico, "Tristitia Amnesia", che distribuisce sapientemente spezie indiane, prima d’indirizzarsi verso un groove rock dalla mistica psichedelica, la stessa che pervade la struttura complessa di "Scared of the Dark", un brano scartavetrato dall’energia vibrante di chitarre acidissime.

Giunti a questo punto, è chiaro che non basta un semplice ascolto per cogliere tutte le variegate sfumature di una scaletta, in cui nessuna canzone rimane la stessa per tutto il tempo e i generi si affastellano senza dare ovvi punti di riferimento. Tuttavia, quello che poteva trasformarsi in un gran pasticcio in mani meno abili, grazie alla visione lucida della Cunningham, si trasforma in un puzzle fascinoso, invitante e incredibilmente coeso.

Così, in questo contesto di suoni tanto voluttuoso, possono convivere anche "Suck Push Bang Blow", un hard rock blues gonfio d’organo e di chitarre distorte, e la conclusiva "The Liner Notes", un altro inno alla complessità, che si sviluppa su splendidi lick di chitarra dal sapore jazzy, per poi srotolare la melodia in un contesto di strumenti sbrigliati, e cambiare improvvisamente direzione, per imboccare l’inaspettata strada che conduce a un evidente omaggio ai quattro ragazzi di Liverpool (grazie a quella chitarra slide, harrisoniana fino al midollo).

La versione deluxe dell’album contiene altre due canzoni, l’onirica e super psichedelica "Number 149", e l’ondeggiante "Fossil Song", che sigillano una scaletta di altissimo livello artistico.

Two Piece Puzzle, con il suo tripudio di sonorità vintage, riesce a suonare quasi famigliare a chi ha le orecchie allenate da tanti anni di ascolti, ma finisce quasi subito per confondere le aspettative dell'ascoltatore, che si troverà spiazzato anche dall’imprevedibile sviluppo di ogni singola canzone, che difficilmente arriva proprio là, dove avevamo intuito potesse arrivare. Il punto di forza di questo disco, però, è il perfetto equilibrio fra la complessa e variegata ricchezza di arrangiamenti, e l’agilità con cui queste canzoni trovano spazio per muoversi libere in paesaggi rigogliosi di inaspettata bellezza. Un gioiellino da custodire gelosamente, opera di un’artista che ha davanti a sè un futuro grande così.

VOTO: 8

 


 


Blackswan, giovedì 14/04/2022

martedì 12 aprile 2022

LOLLIPOP - THE CHORDETTES (Cadence, 1958)

 


Stand By Me – Ricordo Di Un’Estate, pellicola diretta da Rob Reiner e trasposizione cinematografica di un bel racconto di Stephen King, è un film dai toni lirici e nostalgici, che racconta l’avventura di quattro dodicenni alla ricerca del cadavere di un bambino scomparso, e che, metaforicamente, si sofferma sul delicato momento del passaggio dall’innocenza dell’infanzia alla cruda realtà della vita da adulti.

Un racconto di formazione, divertente ed emozionante, accompagnato da una splendida colonna sonora di canzoni anni ’50 (il film è ambientato nel 1959), tra cui Everyday di Buddy Holly, Great Balls Of Fire di Jerry Lee Lewis, Stand By Me di Ben E. King e Lollipop, nella versione delle Chordettes, un quartetto pop tutto al femminile, diventato celebre nel 1954, dopo la pubblicazione della hit Mr. Sandman.

Lollipop, in realtà, fu scritta nel 1958 da Julius Dixson e Beverly Ross, due songwriter molto apprezzati negli anni ’50, che spesso lavoravano in coppia. La canzone nasce casualmente, quando Dixson, che doveva incontrarsi con Ross per una sessione di scrittura, giustificò il proprio ritardo, sostenendo che a sua figlia si era incastrato un lecca-lecca fra i capelli, circostanza che gli aveva fatto perdere parecchio tempo. Appena Ross sentì pronunciare la parola lecca-lecca, si sedette al pianoforte e compose la canzone in soli cinque minuti.

Il brano fu originariamente registrato dal duo Ronald & Ruby, composto dalla stessa Ross (sotto pseudonimo) e da Ronald Gumps, un amico di colore di Dixson. Il singolo, che fu pubblicato dalla RCA, scalò le classifiche americane raggiungendo la ventesima piazza, ma quando si venne a sapere che Ronald e Ruby erano un duo interrazziale, le apparizioni televisive che erano state precedentemente prenotate, furono cancellate, e l'interesse per la canzone svanì velocemente. Difficile pensare che il lecca-lecca di una canzone così allegra e sbarazzina potesse avere un retrogusto tanto amaro. Eppure, così fu.

Almeno fino a quando il brano non fu reinterpretato dalle citate Chordettes, che, pur mantenendo lo stesso impianto melodico, aggiunsero brio, inserendo l’handclapping, che si sente a inizio e fine canzone, e un coro maschile. In questa nuova veste, Lollipop scalò le classifiche statunitensi fino alla seconda piazza, e si piazzò benissimo anche in Inghilterra, paese in cui, in quello stesso anno, impazzava anche la reinterpretazione del brano fatta dal trio britannico Mudlarks. Un successo eclatante, che compensò, almeno in parte, la vergognosa discriminazione perpetrata nei confronti di Ronald & Ruby.

 


 

Blackswan, martedì 12/04/2022

lunedì 11 aprile 2022

THE HELLACOPTERS - EYES OF OBLIVION (Nuclear Blast, 2022)

 


La storia inizia da molto lontano, quando, nel 1994, Nicke Andersson, batterista della band death svedese degli Entombed, mollò baracca e burattini per formare l'ensemble garage rock degli Hellacopters, insieme al chitarrista Dregen, co-fondatore dei Backyard Babies. Un azzardo che si rivelò azzeccatissimo, visto che in poco tempo la nuova creatura riuscì a ritagliarsi uno spazio sempre più ampio, tanto da essere considerata, almeno in quegli anni ’90, una delle più interessanti realtà della scena alternativa svedese.

Tra il 1994 e il loro scioglimento, avvenuto nel 2008, la band ha prodotto sette scalmanati album di rock and roll con influenze punk, facendo propria l’eredità di band come MC5, New York Dolls, Ramones e Motörhead. Dopo essersi riuniti, nel 2016, per suonare in un tour dedicato al 20° anniversario del loro album di debutto, Supershitty To The Max!, da allora, gli Hellacopters hanno calcato con continuità il circuito dei festival, almeno fino a quando è stato possibile, e finalmente, lo scorso anno, hanno annunciato di aver raggiunto un accordo con l'etichetta discografica tedesca Nuclear Blast e di essere pronti a tornare sulle scene con un nuovo disco di materiale originale.

Le dieci canzoni in scaletta testimoniano che il tempo non ha offuscato il loro spirito battagliero, né li ha derubati della loro inesauribile vitalità, poiché Eyes Of Oblivion è uno straordinario promemoria di tutto ciò che ci siamo persi in questi tredici anni di attesa. Un ritorno a bomba, in cui la band sfodera il consueto armamentario di rock'n'roll e spavalderia, dieci canzoni per trentacinque minuti di assalti all'arma bianca, brani innodici e melodie scartavetrate dal graffio di chitarre in acido. Rapidi e letali come un serramanico, primitivi ed essenziali, gli Hellacopters non fanno certo rimpiangere i loro giorni di gloria. Anzi.

Trentacinque minuti di adrenalina pura, intervallati solo da "So Sorry I Could Die", un midtempo blues a lenta combustione, interrotto, però, da un improvvisa accelerazione, evidente citazione dei Black Sabbath di "Paranoid". Per il resto si corre a cento all’ora, fin dall’iniziale derapata blues rock di "Reap A Hurricane", trascinata da uno splendido suono di chitarre stridenti, dalla sezione ritmica che pompa testosterone e dalla voce scorbutica e alcolica di Andersson. Il presente saluta il passato senza alcun ammiccamento nostalgico, ma con una furia rockista capace in tre minuti di asfaltare ogni dubbio circa la tenuta di una band con quasi trent’anni di carriera alle spalle.

Non è un episodio isolato, però, perché tutto il disco fila dritto come un fuso su coordinate basilari ma efficacissime: tre accordi e un ritornello da mandare a memoria. Non è forse questa l’essenza del rock’n’roll? Ecco, allora, i due minuti di "Can It Wait", che, vent’anni dopo, evocano la sfrontatezza melodica di "By The Grace Of God", la rincorsa a perdifiato della title track, che sfodera con naturalezza uno di quei ritornelli che molte band farebbero carte false per riuscire solo a immaginarlo, lo sberleffo orrorifico di "A Plow And The Doctor", il battito sferragliante di "Beguiled" o il puzzle citazionista dell’esuberante "Tin Foil Soldier", incipit alla Guns & Roses e svolgimento sfacciatamente glam.

Dopo troppo tempo lontano dallo studio di registrazione, è evidente che gli Hellacopters avessero un surplus di energia da sfogare, e questo aspetto è quasi palpabile per come la band sta china sugli strumenti a scaricare adrenalina ed elettricità. Certo, dopo tredici anni, il minutaggio del disco è un po' scarso, e soprattutto un fan della prima ora avrebbe voluto ascoltare di più. Tuttavia, i trentacinque minuti di durata sono assolutamente perfetti e, probabilmente, per essere davvero efficace, questa musica ha bisogno di un ascolto rapido come il movimento di queste dieci, sferraglianti, tracce. Un ritorno coi fiocchi, uno dei migliori dischi rock dell’anno.

VOTO: 8

 


 

Blackswan, lunedì 11/04/2022

venerdì 8 aprile 2022

HAMMERFALL - HAMMER OF DAWN (Napalm Records, 2022)

 


La storia degli svedesi Hammerfall inizia tanti anni fa, esattamente nel 1993, su impulso del chitarrista Oscar Dronjak, a cui, solo successivamente, nel 1996, si unisce il cantante e frontman, Joacim Cans. Da allora, album dopo album, e concerto dopo concerto, la band si è guadagnata la meritata reputazione di essere una delle più devastanti macchine da guerra rock, grazie a una miscela esplosiva tra heavy metal tradizionale e power metal

Hammer of Dawn è il loro dodicesimo album, e l’impressione è che il tempo non abbia minimamente intaccato quella vigoria che è da sempre il punto di forza del gruppo svedese. Le dieci canzoni in scaletta, infatti, mostrano i muscoli, sono scattanti e suonate con la consueta caratura tecnica. Tanto mestiere, certo, ma anche un pimpante senso per la melodia e l’energia che potrebbe avere un gruppo di esordienti. "Brotherhood" dà inizio alle danze, evocando l’amicizia che lega i due band leader e stringendo in un simbolico abbraccio le schiere dei fan. Un brano innodico, un’apertura impetuosa e veloce, che dimostra immediatamente l’ottimo stato di forma degli Hammerfall.

La successiva title track possiede una struttura più complessa e un andamento epico, e vede Cans sfoggiare tutto il suo scintillante repertorio vocale, mentre Pontus Norgren sale in cattedra con un assolo fantastico. Siamo di fronte, insomma, a un vero e proprio manuale su come scrivere la perfetta canzone power metal: le armonie nei ritornelli abbondano, le melodie sono di facile presa, le voci svettanti, il passo fiero e possente, mentre le liriche raccontano di dei nordici, di battaglie, di spade e di magia, come nella miglior tradizione degli Hammerfall. Certo, i testi sono piuttosto rudimentale, ma se ci si sofferma esclusivamente sulla musica, ci si renderà conto di quanto questa band sia affiatata e abile nel creare melodie e ritornelli da cantare a squarciagola sotto il palco, brandendo un’immaginaria spada verso il cielo.

Non manca, in scaletta, un’ottima ballata come “Not Today”, ma è evidente che la band dia il meglio di sé quando raggiunge la velocità massima in brani come “Live Free Or Die” o nella conclusiva “No Mercy”, in cui la batteria di David Wallin spinge indemoniata sull’acceleratore in un adrenalinico assalto all’arma bianca.

La nitida produzione di Fredrick Nordström (Arch Enemy, In Flames, etc.), poi, esalta la pulizia tecnica e conferisce a tutto l’impianto un suono decisamente scintillante. Hammer of Dawn rappresenta, quindi, un ottimo ritorno per una band che, pur procedendo con tanto mestiere, non ha comunque, perso quel tocco che è l’essenza stessa del power metal: melodia, potenza e tanto divertimento. Se vi capita, non perdeteli dal vivo.

Voto: 7

 


 

 

Blackswan, venerdì 08/04/2022

mercoledì 6 aprile 2022

RED HOT CHILI PEPPERS - UNLIMITED LOVE (Warner, 2022)

 


A dispetto di riscontri commerciali sempre in linea con la standard di stelle di prima grandezza, l’evoluzione artistica dei Red Hot Chili Peppers sembrava essersi arenata dopo l’uscita di By The Way (2002), un disco che confermava la svolta pop del gruppo, ma che offriva ancora momenti di scrittura davvero notevoli. Poi, l’altalenante Stadium Arcadium (2006) due dischi, I’m With You (2011) e The Getaway (2016), che, a voler utilizzare un eufemismo, potremmo definire prescindibili, inutili appendici di un’ispirazione asciugata ai minimi termini.

In un certo senso, quindi, Unlimited Love è più che una semplice uscita targata Red Hot Chili Peppers: è il primo disco, dopo un decennio, che vede nuovamente Rick Rubin in cabina di regia, è il primo disco, dal 2006, a presentare nuovamente John Frusciante alla chitarra e, soprattutto, è una sorta di prova del nove, per capire se la band losangelina sia oggi solo una macchina da soldi o abbia ancora qualcosa da dire.

 

Come era presumibile, il ritorno di Frusciante, ha avuto un impatto notevole sul disco. Il suo sostituto, Josh Klinghoffer, è sicuramente un musicista di talento, ma rimpiazzare l'uomo che ha scritto il riff di Under The Bridge era impresa titanica, e mai come nei due lavori precedenti, si percepiva che alla band e all’identità del suono mancava il talentuoso figliol prodigo. È significativo, in tal senso, che Black Summer, il singolo principale e la traccia di apertura di Unlimited Love, sia la prima cosa che Frusciante ha scritto rientrando alla casa madre. Altrettanto significativo è che Frusciante suona (in questo pezzo – assolo strepitoso!- e in tutto il disco) in modo non dissimile da come aveva fatto in passato, dando lustro a gioielli del calibro di Scar Tissue e Zephyr Song, come a voler rimarcare l’importanza del suo tocco iconico, nel plasmare un suono che sia RHCP al 100%.

Rubin, che aveva indirizzato la svolta commerciale della band (Blood Sugar Sex Magik) e plasmato la svolta pop di fine degli anni '90 (Californication), dal canto suo, ha spinto la band verso un approccio jammistico alla composizione, incoraggiando i quattro a suonare e registrare dal vivo, come fossero su un palco. Il risultato sono diciassette canzoni in gran parte costruite sulle linee di basso di Flea e sulle ritmiche sincopate di Chad Smith, avvolte dal suono liquido della chitarra di Frusciante e dal cantato di Kiedis, mai così asciutto in passato.

Ciò che è evidente, anche dopo 15 anni di separazione, è una ritrovata unità d’intenti, così che Unlimited Love suona come il lavoro di vecchi amici che non sono mai sembrati più a loro agio in compagnia l'uno dell'altro e credono di avere ancora qualcosa da offrire al proprio pubblico.

Nonostante la mancanza di tensione creativa che ha alimentato i loro album più riusciti, in scaletta ci sono momenti decisamente buoni. L'accattivante Aquatic Mouth Dance ha un famigliare e potentissimo tiro funk, levigato da scintillanti ottoni e dal suono retrò dei synth, il groove di Poster Child è di quelli che non lasciano scampo, grande rap di Kiedis e un tappeto strumentale di gran classe, che incorpora spolverate d'organo e lick di chitarra psichedelici.

The Great Apes è esaltata dalla chitarra di Frusciante, sugli scudi soprattutto grazie a un assolo frenetico e rovente, These Are The Ways parte come una tranquilla ballata che si apre a un ritornello rock innodico, scandito dal battito urgente di Smith, e The Heavy Wing, è un saliscendi di cambi tempo, sferzati ancora dalla chitarra di Frusciante, vibrante e distorta.

Poi ci sono le gemme nascoste, quelle che emergono dopo ascolti ripetuti, come White Braids & Pillow Chair, ballata apparentemente innocua, che improvvisamente accelera i passi, acquisendo uno straniante accento surf, come Veronica, carica di acidi e di sentori anni ’60, o come Bastards Of Light, il cui andamento prevedibile e solare viene inaspettatamente interrotto da trenta furiosi secondi di voci distorte, percussioni violente e chitarre fragorose. Chiude Tangelo, chitarra acustica, tappeto di synth e la voce morbida di Kiedis, per cucire un episodio di minimalismo carico di sentimento, perfettamente riuscito nella sua scarna esposizione.

Unlimited Love non è certo un disco che finirà nelle classifiche di fine anno, ma rispetto ai suoi due predecessori, testimonia di una band che ha ritrovato una lucidità che sembrava da tempo perduta. C’è tanto mestiere, certo, e non tutte le canzoni sono centrate, ma quando l’ispirazione alza l’asticella, si possono nuovamente ascoltare gli echi di un’antica gloria, e una band che suona affiatata, corroborata dal suono unico di Frusciante, uno che suona poche note, ma tutte capaci di riaccendere il fuoco sacro della passione.

VOTO: 7

 


 

Blackswan, mercoledì 06/04/2022