giovedì 29 giugno 2023

HORACE MCCOY - NON SI UCCIDONO COSI' ANCHE I CAVALLI? (Big Sur, 2019)

 


Hollywood, anni Trenta. Robert e Gloria sono due tra i tanti giovani che durante la Grande Depressione si riversano da ogni parte d'America nella città del cinema, in cerca di un'occasione. Per sbarcare il lunario, decidono di partecipare a una gara di ballo, in cui non importa saper danzare, ciò che conta è stare in piedi, resistere per settimane, senza mai smettere di muoversi.

Esordio alla scrittura di Horace McCoy, pubblicato per la prima volta nel 1935, Non Si Uccidono Così Anche i Cavalli? ebbe uno scarso riscontro negli Stati Uniti, divenendo popolare, invece, fuori da confini patri, e in particolar modo in Francia, adottato dagli esistenzialisti, che vedevano in questa storia, feroce, cruda e urgente, un romanzo che si adattava perfettamente alle istanze del movimento.

McCoy ambienta la sua storia in un mondo che conosce perfettamente, quello hollywodiano (prima di darsi al giornalismo e alla scrittura, tentò invano la carriera di attore), rutilante mecca di glamour e lusso, meta di tanti aspiranti sognatori, che anelano il successo o, più semplicemente, cercano il riscatto di una vita ai margini.

L’ingenuo Robert e la disincantata Gloria sono due giovani che approdano a Hollywood con l’intento di diventare attori, cercando di essere scritturati per delle comparsate, nella speranza che qualcuno, qualcuno che conti davvero, li noti. Quando, tuttavia, i due personaggi entrano in scena, i loro sogni sono già in frantumi, e sbarcare il lunario è tutto ciò che resta da fare.

Decidono così di iscriversi a una gara di ballo, in cui non conta l’arte della danza, ma solo la resistenza fisica: vince il premio di mille dollari, e indirettamente l’attenzione dei media, l’ultima coppia che rimane sulla pedana. Ballare, ballare e ballare, fino allo sfinimento, rischiando la salute e, perché no, anche la vita. Un circo mediatico costruito ad hoc per attirare pubblico e denaro, una pista da ballo che è la metafora della vita di tutti gli ultimi, di quei reietti disposti a ogni cosa pur di emergere dalla melma in cui sono finiti, pronti a soffrire pene indicibili per ritagliarsi quella fetta di cielo, che durante questa lunghissima maratona al chiuso, non possono mai vedere, solo immaginare.

I poveracci danzano e danno spettacolo: intorno a loro il pubblico plaudente, insensibile alla tragedia, gli sponsor, che investono denaro sulla sofferenza altrui, e molte stelle del cinema, questa volta spettatori muti, comparse di contorno di un dolore, fisico e morale, che la loro celebrità ha, involontariamente, cagionato.

Non Si Uccidono Così Anche i Cavalli? è un romanzo breve (si legge in poche ore), affilato come un coltello a serramanico, letale come quelle pistole, che diventano l’esiziale snodo narrativo della trama. La prosa di McCoy è asciutta, scarna, quasi francescana, e durante la lettura si ha come l’impressione di assistere a un film dei fratelli Dardenne (la pellicola tratta dal libro, in realtà, venne girata nel 1969 dal grande Sidney Pollack), capaci di fotografare il dramma degli ultimi, senza tendere la mano ai propri eroi, esponendone, semmai, senza filtri, le stigmate, le ulcere e le anime moralmente martoriate.  Robert e Gloria, in tal senso, rappresentano i poli opposti dello stesso mondo di marginalità. Il primo, ingenuo e speranzoso, crede ancora di poter salvarsi dal gorgo discendente in cui è finita la propria vita, cerca sulla pedana gli sporadici raggi di sole che penetrano dalle finestre, sente l’oceano muoversi sotto i talloni come un flusso vitale che dà energia, è rispettoso delle regole, e gentile e cortese con tutti. Gloria, invece, possiede un’anima nichilista, è consapevole della deriva irreversibile dell’esistenza (sua e di coloro che la circondano), è tormentata, astiosa, odia tutti e ha un solo desiderio: vuole morire. E’ consapevole, soprattutto.

Perché, la gara di ballo, è una maratona della speranza, per una speranza che è già morta. L’ultimo resterà ultimo, senza alcuna possibilità di redenzione, sbranato da una società capitalista che, allora come oggi, perseguita i perdenti e tende la mano al potere. Il cavallo che viene ucciso, quando si spezza la gamba, è la metafora crudele del mondo tratteggiato da McCoy e di quello in cui viviamo: ballare fino a morire, lo sfruttamento senza pietà fino a quando si è produttivi, l’oblio e la perdita dell’identità sociale quando si diventa inutili. McCoy, però, non fa la morale, non si schiera, ed evita didascalie che rendano ovvio il suo pensiero. Si limita a guardare, come il pubblico pagante, e mette in scena una tragedia, feroce, ma senza strepiti, che non può non ricordare quel successivo capolavoro esistenzialista che porta il titolo de Lo Straniero (1942) di Albert Camus.

Così, nel finale, liricamente altissimo, nonostante l’understatement della prosa, Robert uccide Gloria, per pietà e per un atto, tanto repentino quanto necessario, con cui, finalmente, la sua anima trova l’esatta collocazione nel disordine della propria vita. In tal senso, Robert, chiude la propria odissea in un bagliore di lucidità che manca a Meursault, anche se poi, entrambi, abbracceranno lo stesso destino: il processo, l’infamia e la morte. Entrambi cannibalizzati da una vita assurda, che tutto porta via e nulla restituisce. Senza senso, senza speranza. Non è così, forse, che si uccidono i cavalli?

 

Blackswan, giovedì 29/06/2023

martedì 27 giugno 2023

DON'T YOU WORRY 'BOUT A THING - STEVIE WONDER (Tamla, 1973)

 


I negozi di dischi sono un piccolo mondo antico che va progressivamente scomparendo. Chiudono, uno dopo l’altro, vittime sacrificali, come le librerie, di una società sempre più insensibile alla musica, alla cultura e alla bellezza. Un tempo, però, questi ultimi avamposti di un’umanità, che oggi resiste indomita allo sfacelo, ma che è destinata, in pochissimo tempo, a scomparire, erano, non solo la meta settimanale di tanti appassionati alla ricerca di magia, ma anche luoghi di ritrovo, dove scambiare consigli e opinioni e, perché no, fare anche amicizia.

Lo sa bene Stevie Wonder, che quando pubblica Don’t You Worry ‘Bout A Thing, uno dei gioielli che compongono Innervisions, capolavoro datato 1973, ha in testa proprio un negozio di dischi e un amore nato fra gli scaffali di vinili.

Mentre, infatti, sta lavorando agli accordi della canzone, Wonder decide di prendere una pausa e di farsi un giro per Los Angeles, finendo così in un negozio di dischi aperto tutta la notte. Qui, incontra una portoricana di nome Rain, che fa la commessa ed è gentilissima. Iniziano a chiacchierare di musica, dei lori interessi, dei sogni che hanno nel cuore. Lei ama cantare e le piacerebbe farlo professionalmente. Stevie, allora, le dice che lui sta lavorando a una canzone che s’intitola Don’t You Worry ‘Bout A Thing, e che sarebbe davvero felice di portarla in studio a seguire la registrazione del brano. La risposta della ragazza è un entusiasta “todo esta bien chevere”, che tradotto in italiano significa più o meno “tutto questo è davvero figo!”.

Ed ecco spiegato l’inizio della canzone, in cui Wonder dialoga con Rain chiedendole l’esatta pronuncia di “chevere” (il cantante ha sempre affermato di non conoscere lo spagnolo, a parte qualche frase mandata a memoria). I due, in seguito, si innamorarono ed ebbero una storia breve ma intensa.

A prescindere, però, da questa nota di colore, ciò che conta è come Wonder fosse recettivo verso sonorità anche molto distanti dalla propria formazione soul e r’n’b, e non è quindi un caso che tra le note di Don’t You Worry ‘Bout A Thing si respirino quelle atmosfere latine che erano state ispirate dalla bella commessa del negozio di dischi. D’altra parte, Wonder è sempre stato un vero e proprio frullatore di idee, che rielaborava con gusto e metteva insieme, ascoltando la radio e assorbendo musica di ogni tipo: araba, italiana, spagnola, oltre ovviamente a tanto jazz, blues e gospel.

La canzone, pubblicata come terzo singolo da Innervisions, raggiunse la sedicesima piazza di Billboard e la seconda delle chart R&B, diventando col tempo uno dei brani più amati e conosciuti del musicista originario del Michigan. Merito anche di un testo decisamente positivo, attraverso il quale il cantante incoraggia la sua donna a esplorare senza paura tutto ciò che la vita ha da offrire, perché lui sarà comunque e sempre al suo fianco (“Don't you worry 'bout a thing, mama, 'Cause I'll be standing, I'll be standing by you”). Parole, dunque, che possono vestirsi di abiti diversi a seconda dell’occasione, sia, ad esempio, per dichiarare il proprio amore, sia, magari, per motivare qualcuno a non mollare e farsi forza.

Così, nel 2016, la notte prima che Donald Trump viene eletto presidente degli Stati Uniti, Wonder viene ospitato al The Late Show di Stephen Colbert. Durante la trasmissione, dopo aver espresso tutto il suo disprezzo per Trump, il musicista viene invitato dal conduttore a eseguire la canzone allo scopo di placare i timori degli elettori democratici, invitandoli a mantenere salda la speranza. Visti i risultati dell’elezione, il dubbio sorge spontaneo: che sia stata la canzone di Stevie Wonder a portare sfiga? 

 


 

Blackswan, martedì 27/06/2023

lunedì 26 giugno 2023

ALCATRAZZ - TAKE NO PRISONERS (Silver Lining Records, 2023)

 


Sono passati ben quarant’anni da quando, nel 1983, a Los Angeles, Graham Bonnet, in fuga dai Rainbow, con cui registra un solo album, fonda gli Alcatrazz, insieme al bassista Gary Shea e al tastierista Jimmy Waldo, oggi gli unici due membri originari della line up.

Quarant’anni che hanno visto avvicendarsi tra le fila del gruppo autentici fenomeni (Yngwie Malmsteen, Steve Vai, Clive Burr, Glen Sobel, etc) per un progetto, però, che, strano a dirsi, pur partendo da basi solidissime, ha prodotto solo cinque album, di cui tre nella prima metà degli anni ’80.

Oggi, a distanza di tre anni dall’ultimo V, l’iconica formazione heavy metal torna sulle scene con Doogie White alla voce (il cui timbro somiglia incredibilmente a quello di Biff Byford), che dal precedente lavoro in studio ha preso il posto di Bonnet, dando probabilmente una definitiva stabilità a una band che è stata più volte sul punto di sciogliersi. Il disco inizia con "Little Viper", una fucilata di classico heavy metal che mette subito in risalto la voce dura e cattiva di White, mentre la successiva "Don't Get Mad…Get Even" registra la presenza delle Girlschool ai cori, in un brano dalla ritmica martellante e dal riff di chitarra killer.

Un uno-due di grandissima classe, che testimonia di una band che non ha perso un briciolo di smalto, che dispensa idee e classe a profusione, e che ha trovato nella voce di White un’arma letale. Non fanno prigionieri, gli Alcatrazz, e tutto gira alla grande, sia quando la band si cimenta con una power ballad in crescendo come "Strangers", dalla melodia uncinante e dal grande ritornello, sia quando rievocano il suono Rainbow, nella grinta cadenzata di "Holly Roller (Love’s Temple)", sia quando schizzano a velocità supersonica nell’headbanging frenetico della conclusiva "Bring on the Rawk".

Nel complesso, Take No Prisoners è un’intensa esperienza di ascolto per tutti coloro che amano il metal classico: i riff sono pesanti, gli assoli di Joe Stump assassini, il drumming impetuoso, le melodie dirette e facilmente assimilabili, e la tecnica della band lambisce spesso il virtuosismo, senza tuttavia mai strafare. Certo, se si cerca originalità, non è questo il territorio in cui muoversi, e francamente poco importa. Gli Alcatrazz possiedono una consapevolezza superiore, quella che permette loro di replicare un suono antico rendendolo appetibile anche alle orecchie moderne. Una nostalgica ventata di freschezza.

VOTO: 7

GENERE: Hard Rock, Heavy Metal

 


 

 

Blackswan, lunedì 26/06/2023

giovedì 22 giugno 2023

BLACK ORCHID EMPIRE - TEMPUS VERITAS (Season Of Mist, 2023)

 


Raramente intercettati dai radar nostrani, i Black Orchid Empire sono un gruppo rock alternativo inglese formatosi nel 2011 a Londra, composto dal cantante e chitarrista Paul Visser, dal cantante e bassista David Ferguson e dal batterista Billy Freedom. Inserito nel filone prog metal, il trio britannico, in realtà, si fa portabandiera di una miscela suggestiva in cui confluiscono metal moderno, rock alternativo, una sfacciata inclinazione per melodie fresche e dall’appeal radiofonico e, si, anche qualche momento di complessità espositiva contiguo al prog.

Giunti al quarto album in studio, prendono in prestito il motto latino Tempus Veritas (che si può tradurre in: la verità è figlia del tempo) per sviscerare attraverso undici canzoni un concept di natura storica, con cui immaginano eventi del passato, per dimostrare che la verità, è inevitabile, viene rivelata col passare del tempo, e che attraverso storie e leggende antiche è possibile conoscere meglio i giorni nostri.

Siamo di fronte, insomma, a quella nobile arte del concept, nata e sviluppatasi soprattutto negli anni ’60 e ’70, che non ha però come tema la fantascienza, drammi epici e vite personali, ma, sic et simpliciter, la storia. In tal senso, "The Raven" getta uno sguardo sui Sassoni e i coloni nordici, "Deny The Sun" riflette su come Papa Urbano VIII considerò le scoperte di Galileo Galilei sulla vera natura del sistema solare, "Glory To The King" si immedesima nel punto di vista delle tribù indigene del nuovo mondo nei confronti degli esploratori europei in cerca d'oro, che li sfruttavano e li uccidevano durante il sedicesimo e il diciassettesimo secolo.

Tempus Veritas non è, però, solo tematicamente coinvolgente, perché in questo disco ci sono ottime canzoni, deliziosi riff, corroboranti groove e quelle chitarre ribassate il cui suono evoca il djent. L’uno due iniziale della title track e "Hydrogen", le sportellate di "Weakness" (dalle quali si accede a un irresistibile ritornello) e i sali e scendi, tra melodie atmosferiche e cupo metal, di "Last Ronin" dimostrano che il terzetto sa esattamente cosa sta facendo e lo fa benissimo.

La band, poi, suona bene (ascoltare l’ottima linea di basso su "Hydrogen"), crea melodie di facile presa, ben cantate dal timbro carezzevole di Visser, e ha come punto di forza il drumming di Freedom, efficace e fantasioso, spesso alla ricerca del numero in controtempo. Tempus Veritas premia ogni ascolto, ma non è privo di difetti. Sebbene sia una formula collaudata e utilizzata con maestria, l'approccio riff pesante – riff morbido – ritornello melodico e ripartenza, quando è fatto bene produce esiti notevoli ("Glory To The King"), ma dopo qualche traccia il gioco mostra un po’ la corda e si percepisce una certa ripetitività di fondo.

A prescindere da questa necessaria considerazione, la realtà che i Black Orchid Empire siano bravissimi in quello che fanno e abbiano grande consapevolezza. C’è anche un po’ di furbizia, certo, ma i groove e ritornelli, nonostante una qualche prevedibilità, risultano tutto somma sempre centratissimi. E pur con tutto l’obbiettività possibile, una volta che il disco parte, è difficile smettere di ascoltarlo. C’è molta sostanza e un’attraente confezione, manca, forse, solo un po’ di coraggio in più.

VOTO: 7

GENERE: Rock, Progressive Metal 




Blackswan, giovedì 22/06/2023

martedì 20 giugno 2023

LOVE SHACK - B-52s (Reprise, 1989)

 


Incredibile ma vero, una band geniale come i B-52s ha dovuto attendere ben dieci anni per poter arrivare al grande pubblico. Quando, infatti, nel 1989, esce Cosmic Thing, quinto album del gruppo originario di Athens (Georgia), i B-52s erano quella che si definisce una band di culto. Quel disco, però, conteneva Love Shack, una bomba funky che scalò le classifiche inglesi e americane, vendendo in poco tempo un milione di copie.

Love Shack è festa, è divertimento, è allegria allo stato puro, è un brano che tracima di energia positiva, alla quale è impossibile resistere: se riuscite a stare fermi ascoltandola, beh, molto probabilmente è perché siete morti.

La band ha tratto ispirazione per il brano da un piccolo club situato in campagna, fuori Athens, chiamato Hawaiian Ha-Le, dove spesso si ritrovava a far baldoria. Questo strano luogo era una sorta di baracca fatiscente trasformata in discoteca, un locale completamente fuori di testa, che attirava una folla multiforme di hippy, musicisti, scrittori, e molti studenti della vicina Università della Georgia.

Il titolo della canzone sembrerebbe ispirato a un brano del 1970 a firma Temptations, che s’intitola Psychedelic Shack, e il cui ritornello recita: "Psychedelic Shack, that's where it's at", esattamente come nella canzone dei B-52s. Tuttavia, Fred Schneider ha sempre ribadito che non stava pensando a nessun'altra canzone, quando ha inventato il titolo. L’idea gli era venuta in auto mentre guidava dalle parti di Woodstock, dove la band stava registrando l’album presso i Dreamland Studios.  Quando in seguito lui, Kate Pierson e Cindy Wilson hanno lavorato ai testi del brano, Love Shack ha fatto venire in mente a tutti e tre l’Hawaiian Ha-Le.

La canzone contiene anche uno dei break più famosi della storia. Durante la registrazione del brano, mentre Cindy Wilson stava cantando, la traccia s'interruppe. Da qui, nacque l'idea di stoppare la canzone proprio in quel punto per creare una breve, quanto gustosa gag. Guardate il video: verso la fine, quando la musica si ferma, Fred Schneider domanda: "You're what?" e la Wilson risponde: ""Tin Roof, Rusted", con riferimento al tetto di lamiera arrugginito del locale che aveva ispirato la canzone e che fu riprodotto appositamente per la clip, utilizzando la casa appartenente a un amico della band, che può essere visto in giardino mentre la telecamera passa davanti alla finestra.

Il video che accompagna la canzone è stato diretto da Adam Bernstein, un regista noto per le sue clip irriverenti (Hey Ladies dei Beastie Boys), e venne concepito allo scopo di catturare l'atmosfera degli spettacoli dei B-52s: una grande festa a cui tutti sono invitati e durante la quale è probabile che scoppino balli spontanei fra il pubblico pagante.

D’altra parte, il testo della canzone è tanto divertente quanto innocuo, e si riferisce proprio alla gioia di ballare tutti insieme, di far festa spensieratamente (“Abbracciare e baciare, ballare e amare, Indossando quasi nulla perché è caldo come un forno, L'intera baracca vibra, Sì, l'intera baracca trema, L'intera baracca vibra quando tutti si muovono, E intorno e intorno e intorno, Tutti si muovono, tutti si divertono tesoro”). Eppure, come spesso accade, c’è chi ha voluto fraintenderlo, pensando alla “baracca dell’amore” come a una specie di bordello, dove le persone si ritrovano per fare sesso. Un’interpretazione davvero fantasiosa e tirata per i capelli, ma tant’è: a Disney World la canzone è bandita, e nonostante l’allegria irrefrenabile che trasmette, non vedrai mai Topolino ballare sulle note di Love Shack.

 


 

 

Blackswan, martedì 20/06/2023

lunedì 19 giugno 2023

THERAPY? - HARD COLD FIRE (Marshall Records, 2023)

 


I Therapy? rappresentano il classico esempio di band talentuosa che, per oscure congiunture francamente inspiegabili, in Italia non è mai riuscita a sfondare veramente, rimanendo oggetto di culto, nonostante le sperticate lodi della stampa nostrana. Un mistero che, forse, si può spiegare con il fatto che il power trio nordirlandese, pur avendo un suono immediatamente riconoscibile, resti una sorta di scheggia impazzita, impossibile da catalogare nel recinto di un genere, vista la loro capacità di rimasticarne molti all’interno dello stesso album (punk, metal, alternative, pop), e insensibile, da decenni a questa parte, al fascino della moda del momento. Duri e puri, insomma, immolati all’altare dell’understatement e tetragoni nella loro proposta musicale, circostanza, questa, che se da un lato è il loro maggior pregio, dall’altro ne ha pregiudicato le fortune commerciali, almeno da noi.

Sebbene difficile da classificare in senso lato, la musica offerta dalla band in questo Hard Cold Fire è perfettamente in linea con la storia dei Therapy?, plasmata com’è su riff spacca ossa e una sezione ritmica martellante, ma capace sempre di estrarre dal cilindro splendide melodie, ritornelli innodici e testi graffianti, caustici nel raccontare lo stato della società moderna.

"They Shoot The Terrible Master" apre le danze, traboccando di attitudine punk e melodia e fotografando alla perfezione quello che è da anni il marchio di fabbrica di una band, la cui ispirazione, nello specifico, è tornata a livelli altissimi. Il primo singolo, "Joy", è una bomba rabbiosa che fila via rapida sull’interplay clamorosamente sincronizzato fra la chitarra di Andy Cairn e il basso di Michael McKeegan che sferragliano un ritornello di nirvaniana memoria.

Pugnace e belligerante, il terzetto non lesina colpi sotto la cintola, corroborati dal grande lavoro al drumming di Neil Cooper che, colpo su colpo, crea pathos ed epicità. L’impianto è solido, duro come l’acciaio, ma il rischio di risultare monotematici e monotoni è accuratamente evitato grazie a una scrittura che pesca gemme melodiche laddove tutto sembra essere impenetrabile come la roccia. Il furibondo battito di "To Disappear" narra l’angoscia di una psiche danneggiata, mentre la voce diabolica di Cairn e il riff monocromatico ma adrenalinico spingono impetuosi verso una terra di mezzo in cui si incontrano punk e metal, la stessa in cui si muove l’urticante "Ugly", con il suo riff settantiano e la melodia scorticata ma immediatamente assimilabile. "Bewildered Herd", sposa un suono più contiguo al metal, è oscura e rabbiosa, affonda il coltello del dolore nella carne viva degli ultimi terribili anni, inserendo nella seconda parte un frammento di dialogo tratto dal film Naked di Mike Leigh, in cui il protagonista, e antieroe, Johnny, constata con pessimismo l'insignificanza della specie umana. Tema, questo, ribadito, da "Poundland of Hope and Glory", i cui riff abrasivi e il ritornello avvincente aprono all’ennesima riflessione socio politica. Il disco si chiude con "Days Kollaps", una ballata ispida e struggente, che profuma di anni ’90 e Sonic Youth, e che entra di filata nel pantheon delle migliori prove della band irlandese.

Ai Therapy? non interessa cercare nuove strade espressive, non vogliono portarsi a casa nuovi amici o provare a conquistare le giovani generazioni; ciò che fanno è, molto più semplicemente, tener in vita il sacro fuoco di oltre trent’anni di carriera, suonando come solo loro sanno fare, con la stessa urgenza, la stessa rabbia, la stessa sincerità. Quanto sono lontani i tempi di Troublegum o Infernal Love? Non molto, ad ascoltare la vitalità di questo Hard Cold Fire. Un tempo erano giovani e arrabbiati, ora i Therapy? sono uomini di mezza età, ma arrabbiati nello stesso modo. Senza pose, ma dediti all’essenza. Come si fa a non amarli?

VOTO: 7,5

GENERE: Rock




Blackswan, lunedì 19/06/2023

giovedì 15 giugno 2023

REDEMPTION - I AM THE STORM (SFM Records, 2023)

 


Quando, dopo le registrazioni di The Art Of Loss (2016), il cantante Ray Alder molla i Redemption per dedicarsi in esclusiva alla sua band d’origine, i Fates Warning, la carriera della band losangelina sembrava sul punto di chiudersi. Dopo essersi messi alla ricerca di un nuovo vocalist, Nick van Dyk, chitarrista e mente pensante della band, ha avuto un’intuizione tanto semplice, quanto efficace: coinvolgere Tom S. Englund, amico di lunga data e frontman degli svedesi Evergrey, band che declina un’idea musicale molto contigua a quella dei Redemption.

Englund esordisce così nelle fila della band con Long Night's Journey Into Day, pubblicato del 2018, un disco avvincente, che combinava gli elementi peculiari del suono del quintetto con un rinnovato entusiasmo. Da tempo affermatisi come portabandiera americani del prog metal, la band losangelina è riuscita, pertanto, a resistere a una potenziale calamità ed è tornata più vitale e ambiziosa che mai. D’altra parte, senza togliere nulla al suo predecessore, Englund possiede quel tipo di voce capace di emozionare anche un paracarro, perfetto per certi momenti in cui i Redemption toccano le corde della malinconia e per la visione musicale pirotecnica di van Dyk e del tastierista Vikram Shankar, autori, congiuntamente o singolarmente, di tutti i brani della band.

Sono passati cinque anni da quel rinnovamento personale e creativo, ma la scarica di adrenalina che ha attraversato i ranghi del gruppo all'arrivo di Englund non si è ancora esaurita. Al netto di una delle copertine più brutte dell'anno, I Am The Storm è, infatti, un disco di livello altissimo, grazie alla struttura di questi brani progressive metal che, a parte qualche episodio più diretto e tonitruante, è intricata e complessa, tanto che a un primo ascolto è difficile riuscire a mettere insieme tutti i pezzi del puzzle. La tecnica del quintetto, poi, talvolta declinata a velocità supersonica, è mostruosa, l'interplay fra le due chitarre (Bernie Versailles e Nick van Dyk) è da capogiro, e il bravo Tom Englund si inventa linee vocali laddove per altri ci sarebbe solo afasia. In tutto, dieci brani, in cui l'approccio dirompente è solo in parte rintuzzato da un impianto melodico solidissimo anche se non immediatamente assimilabile.

Il disco si apre con la title track, un arrembante inno di quattro minuti che condensa la brutale eleganza dei Redemption in un unico, travolgente ed esiziale cazzotto sullo zigomo. Gli assoli di Van Dyk sono audaci, il cantato di Englund è elettrizzante, e l'intero brano risuona con un avvincente senso di urgenza. E’ chiaro che la proposta dei Redemption non sta solo in questo exploit, e chi conosce la band sa che ad aspettarlo ci saranno episodi più elaborati. Tuttavia, anche la successiva "Seven Minutes From Sunset" imbocca la stessa strada, trascinata da un giro pazzesco di basso di Sean Andrews: un'altra derapata supersonica di quattro minuti in cui tecnica pirotecnica e melodia viaggiano potenti e aggressive sulle ali dell’adrenalina.

Con "Remember The Dawn" si allunga il minutaggio a otto minuti, tra synth ipnotici e psichedelici, epiche esplosioni sinfoniche e il consueto arrembaggio heavy metal, il tutto tenuto insieme dal cantato di Englund, le cui linee vocali si adattano miracolosamente a tanta complessità espositiva. "The Emotional Depiction Of Light", invece, è un brano malinconico, che in crescendo si apre al pop, e che conduce all’esplosiva "Resilience", in cui è la batteria del polipo Chris Quirarte a farla da padrone.  

La seconda metà del disco contiene due lunghe suite, "Action At A Distance" e "All This Time (And Not Enough)", oscuro e audace contrappunto alla brillante concisione delle canzoni più brevi ascoltate finora. La prima è benedetta da continui sbalzi d'umore e momenti di cristallina chiarezza melodica, con una sezione densa e orchestrale che esplode a metà strada e si intreccia intorno alla melodia culminante del ritornello di Englund, ancora ispiratissimo. La seconda, invece, è più marcatamente progressive, possiede un retrogusto malinconico e sfoggia un lavoro pianistico sontuoso di Shankar. Restano da citare il brillante remix operato da Vikram Shankar su "The Emotional Depiction Of Light", e due cover azzeccatissime: "Turn It On Again" dei Genesis, eseguita più velocemente e con le chitarre maggiormente in risalto, in modo da esaltarne l’anima rock, e "Red Rain" di Peter Gabriel, molto fedele all’originale, se non fosse il frenetico sferragliare delle chitarre in sottofondo.

Attraverso la potenza del metal, l’irresistibile ricchezza di melodie e le complesse derive progressive, i Redemption hanno realizzato una delle loro uscite più carismatiche e divertenti. Le canzoni traboccano di personalità, ganci emotivi, idee memorabili e una sublime perizia tecnica, elementi che fanno di I Am The Storm una straordinaria raccolta di brani, imperdibile per chi ama il genere.

VOTO: 8

GENERE: Progressive Metal




Blackswan, giovedì 15/06/2023

 

mercoledì 14 giugno 2023

UPDOWN GIRL - BILLY JOEL (Family Productions/CBS, 1983)

 


Vado a memoria, e ovviamente potrei sbagliarmi, ma non ricordo un'altra pop star al mondo, che sia stata in grado di far innamorare due bellissime modelle, come ha fatto Billy Joel. Il quale, consapevole di non essere mai stato particolarmente avvenente, si è sempre domandato come fosse possibile, per un uomo bruttarello assai, riuscire a concupire alcune delle donne più ambite del pianeta. Una circostanza, questa, che l’ha sempre sorpreso, tanto che, quasi come una sorta di ringraziamento al benevolo fato, decise di scriverci anche una canzone, Uptown Girl, sesta traccia da An Innocent Man, album datato 1983.  

Ma andiamo con ordine.  Nel 1971, Joel convola a giuste nozze con la sua manager, Elizabeth Weber, una donna affascinante e molto intelligente, con cui resta sposato fino al 1982, anno in cui la copia divorzia. Un evento traumatico per chiunque, ma non per Joel, che, incredibilmente, inizia una liaison con la diciannovenne top model australiana Elle Macpherson. Una ragazza così bella da essere soprannominata semplicemente “The Body”, e che abbinava all’avvenenza fisica anche un’intelligenza superiore alla media, che in breve tempo la portò a imparare e parlare fluentemente italiano, francese e spagnolo. Insomma, Joel usciva con una ragazza da sogno, oggetto del desiderio della metà degli uomini del pianeta.

Billy conobbe Elle durante una vacanza ai Caraibi. Una sera, stava suonando il pianoforte nella hall dell’albergo e quando alzò la testa dalla tastiera, si accorse che tre donne lo stavano guardando ammirate. Erano Elle Macpherson, Christie Brinkley e Whitney Houston, che a quel tempo era più una modella che una musicista. Quell’incontro diede vita all’idea per il brano, che, originariamente, avrebbe dovuto intitolarsi Uptown Girls, ma che ben presto il brano prese una forma diversa, visto che Joel voleva adattarla alla MacPherson, con cui iniziò a uscire poco dopo quella sera. La storia fra i due non durò molto, perché la modella dovette trasferirsi in Europa per motivi di lavoro, e la copia si lasciò nel 1982. Una batosta, questa, da cui Joel si riprese prestissimo, visto che iniziò a frequentare quella che successivamente diventò sua moglie, e cioè Christie Brinkley, altra bellissima top model, a cui bastava un solo sorriso per mettere ko chiunque.

I due convolarono a nozze nel 1985, e tutti hanno sempre pensato che Uptown Girl, uscita due anni prima, fosse stata ispirata dalla Brinkley (che compare nella video clip che accompagna la canzone), con la quale, invece, Billy intratteneva solo un rapporto di affettuosa conoscenza.

Come detto, Joel si è detto incredulo dall’essere riuscito a frequentare, una di seguito all’altra, due tra le donne più desiderate del pianeta. Joel è nato nel Bronx e cresciuto a Long Island, New York, e si è sempre considerato un ragazzo normale della classe operaia, una persona semplice, che non ha mai nascosto le proprie umili origini. Uptown Girl è, quindi, il suo ringraziamento alla dea bendata, una canzone che riflette la sua sorpresa per essere stato capace di attrarre donne tanto belle e affascinanti. Tanto che, con molta autoironia, in un'intervista rilasciata, nel 1987, alla rivista Q, Joel disse: "Il fatto che io possa attrarre una donna così bella come Christie, dovrebbe dare speranza a ogni ragazzo brutto del mondo!"

L'intero album An Innocent Man, e in particolare questa canzone, nacquero con l’idea di rendere omaggio alla musica pop degli anni '60, cercando di ricalcare lo stile dei The Four Seasons, e ispirandosi alla figura artistica di Frankie Valli. Quando iniziarono le registrazioni di Uptown Girl, Joel aveva in mente una canzone dei Four Season, Rag Doll, in cui Valli cantava di una ragazza povera che lui amava comunque, a dispetto delle differenze sociali.

Come detto poc’anzi, Christie Brinkley compare nel video della canzone, nel ruolo della Uptown Girl, mentre Joel veste i panni di un meccanico. Un’idea, che, qualche anno dopo, nel 1985, ispirò Bruce Springsteen per la clip di I’m On Fire, in cui il Boss, nei panni di un meccanico unto e bisunto, si trova a dialogare con una donna che è chiaramente fuori dalla sua portata.

 


 

 

Blackswan, mercoledì 14/06/2023

 

martedì 13 giugno 2023

Le breve e triste vita di Napoleone II

Se sei il figlio di Napoleone Bonaparte e Maria Luisa D'Asburgo, come minimo ti aspetti una vita luminosa, facile, se non gloriosa. Il suo stesso padre scrive euforico per la tanto agognata nascita: "Lo invidio, io ho dovuto correre dietro la gloria, Lui non dovra' che tendere le braccia, io sono stato Filippo, Lui sara' Alessandro"

 

Invece, a causa di un fato impietoso e strani scherzi del destino la vita di Napoleone Francesco Giuseppe Carlo Bonaparte non sara' propriamente gloriosa, ma a tratti addirittura beffarda, come vedremo.

Napoleone Bonaparte aveva un estremo bisogno di un erede. La piu' anziana moglie Giuseppina di Beauharnais, non poteva dargli figli, ergo, il confluire a nozze con Maria Luisa d'Asburgo sembrava cogliere due piccioni con una fava: la garanzia della successione dinastica e lo stretto legame con l'Impero Austriaco, praticamente una alleanza. 

Nato a Parigi il 20 Marzo del 1811 viene subito incoronato Re d'Italia. I festeggiamenti nella capitale  francese sono grandi ed euforici. Ma presto l'entusiasmo finisce. Si parte per la guerra. Il padre e' deciso ad arrivare a Mosca. Come tutti sappiamo la decisione gli fu fatale. La rovinosa campagna di Francia nel 1814 constrinse Napoleone alla resa e alla firma del trattato di Fontainebleau con il quale rinunciava al titolo di Imperatore di Francia e Re di Roma per se' e i suoi discendenti e viene mandato in esilio sull'Isola d'Elba. Con il trattato Napoleone II acquisisce il titolo di Principe di Parma, Piacenza e Guastalla, mentre la madre Maria Luisa diventa Duchessa di Parma, Piacenza e Guastalla.

Il giovane "Aquilotto" ( l'Aiglon, soprannome conferitogli per l'omonima e postuma opera teatrale di Edmon Rostand che ebbe enorme successo) viene quindi, per ordini espliciti del cancelliere Metternich, mandato a Vienna sotto la custodia del nonno paterno Francesco I d'Asburgo. A Vienna il giovane viene "germanizzato". Gli cambia il nome in Franz e riceve una educazione prettamente Germanica e militare. Nel 1818 viene nominato Duca di Reichstag. Nel 1823 all'eta' di 12 anni divenne cadetto nell'esercito Austriaco. Certamente la sua carriera militare creava molte fantasie e spauracchi in tutta Europa. In fondo era il figlio di Napoleone. Ma che un Bonaparte non tornasse ad avere alcun peso politico fu la priorita' numero uno di Metternich che sostanzialmente lo isolo' nella corte Asburgica. Gli fu dato un feudo che era uno dei possedimenti piu' ricchi. Quindi ebbe vita agiata senz'altro. Ma al contempo totalmente priva di affetti. Le relazioni familiari erano pura formalita'. E tutta la sua vita fu sostanzialmente in mano ad altri, soggetta unicamente a fini politici. 

Il padre mori il 5 maggio 1821 ma con lui non ebbe praticamente alcun rapporto da quando lo saluto' per l'esilio sull'isola d'Elba. Tutte le missive che Napoleone inviava al figlio non gli furono mai recapitate. Tantomeno l'eredita' che gli lascio'. Pure con la madre i rapporti si ridussero presto, quando ella si risposo' ed ebbe altri due figli. Si illudeva di poter essere un gran generale, mitico e potente come il padre, ma nell'esercito Austriaco non avrebbe mai comandato un battaglione sul campo. No, un altro Napoleone generale non s'ha da fare pensava manzonianamente Metternich, il vero burattinaio della vita dell'aquilotto.

E cosi', in questa gabbia dorata del suo ricchissimo feudo in Boemia, morira' di tisi giovanissimo, a solo 21 anni, il 22 Luglio 1832. "Tra la mia culla e la mia tomba solo un grande zero" furono le sue stesse drammatiche parole, che ben spiegano il vero stato d'animo del giovane Franz.

 

 

Ma il destino gli riservava, ancora, un' ultima beffarda sorpresa. Nel Dicembre del 1840 l'Inghilterra, per una politica distensiva con l'eterno impero rivale d'oltremanica, decide di restituire la salma di Napoleone, morto a Sant'Elena 19 anni prima. Esattamente 100 anni dopo, nel Dicembre del 1940, fu Adolf Hitler, a restituire la salma di Napoleone II, allora seppellita nella Cripta dei Cappuccini degli Asburgo, facendola inviare a Parigi come gesto "diplomatico", che ovviamente in Francia venne preso come uno scherno dell'arcinemico tedesco. Venne quindi seppellito agli Les Invalides, dove si trovava suo padre, in una tomba con l'iscrizione Napoleone II Re Di Roma. 



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Ma il suo cuore no, quello, insieme agli intestini, come da tradizione Asburgica, rimasero a Vienna.


lunedì 12 giugno 2023

FOO FIGHTERS - BUT HERE WE ARE (Roswell/RCA,2023)

 


Eccoci qui, recita il titolo dell’undicesimo album in studio dei Foo Fighters. Eccoci qui, di nuovo, nonostante il dolore e le lacrime versate, nonostante il vuoto lasciato dalla perdita di Taylor Hawkins, l’amico di sempre, il batterista, colui che era il collante del suono, della band, dei tanti capitoli di questa storia lunga quasi trent’anni. Una perdita esiziale, di quelle che ti fanno venir voglia di mollare tutto, di mettere la parola fine al marchio FF. Il rock, però, dà forza, è lenimento, è energia vitale. E allora, riproviamoci, torniamo a suonare e a misurarci con l’assenza, riempiendo ogni interstizio lasciato aperto dal dolore con la musica, quella speranza inesauribile che ci fa dire, ancora una volta: eccoci, noi ci siamo.

Se il precedente Medicine At Midnight (2021) flirtava con il pop, il soul e il r&b, But Here We Are torna a parlare il verbo che David Grohl ha sempre declinato, quello di un rock da stadio roboante, carico di energia, forgiato nel metallo di melodie easy dal sapore bubblegum, pronte a intasare le frequenze radiofoniche e a essere cantate a squarciagola sotto il palco.

Eppure, nonostante questo sia un disco per buona parte musicalmente luminoso come una giornata di sole primaverile, il fantasma di Hawkins aleggia ovunque, e tra la vibrante elettricità di buona parte della scaletta si assapora il gusto agrodolce della malinconia (il frontman, non dimentichiamolo, ha di recente perso anche la propria madre). “I’m just waiting to be rescued, bring me back to life”, canta Grohl nell’iniziale Rescued, e ancora “I’ve been hearing voices, but none of them are you, spek to me, my love”, nel finale di Hearing Voices. E allora tutto è chiaro: la perdita esiziale, il dolore, la salvezza che arriva attraverso il potere rigenerante della musica. E’ questo il senso che permea But Here We Are, un disco che non tradisce le aspettative dei fan, che ci restituisce il meglio di una band ispiratissima, ma che deve fare il conti con un dolore che il tempo può solo attenuare, ma che non cancellerà mai del tutto.

Il “white album” dei Foo Fighters inizia a velocità supersonica con la citata Rescued, un brano Foo Fighters che più Foo Fighters non si può: chitarre rombanti, una debordante potenza punk rock e una di quelle incredibili melodie, che spingono a cantare come forsennati fin dal primo ascolto. Eccola tornata, la creatura di David Grohl, ecco quel suono che i fan amano e che scuote il corpo come una scarica di elettricità ad alta tensione. Anche la successiva Under You si muove sulle stesse coordinate, è una cavalcata a briglia sciolta che punta dritta l’orizzonte, attraverso i territori di quel rock mainstream che i Foo Fighters sanno maneggiare come pochi al mondo. Hearing Voices, invece, abbassa il volume dei decibel, è un mid tempo malinconicamente orecchiabile, che si apre in uno dei ritornelli più intensi mai scritti da Grohl.  

Un fantastica tripletta iniziale che spiega molto bene l’andamento del disco. Da un lato, la ricerca di un suono duro e puro, quello che ormai è diventato un marchio di fabbrica, sotto la cui egida sono stati pubblicati disco splendidi come One By One (2002) e In Your Honor (2005), dall’altro, invece, un approccio meno rumoroso, più funzionale a testi che indagano sulla vita, la morte, il dolore, la speranza. Ecco, allora, che nelle dieci canzoni, in scaletta, da un lato, troviamo la rabbiosa title track, cadenzata e potente, e la superlativa Nothing At All, il brano migliore del lotto, che abbina un irresistibile groove a un crescendo tutto muscoli e potenza, nel quale si possono cogliere scorie di nirvaniana memoria, e dall’altro, momenti di autentico struggimento, come l’ariosa e beatlesiana Beyond Me, il velluto melodico su cui scivola morbidissimo il ritornello di Show Me How, cantata da Grohl in duetto con la figlia Violet, o il finale raccolto e francescano della sussurrata Rest.

I Foo Fighters, si sa, sono una delle band più divisive del pianeta, amatissima dai fan, e snobbata da coloro che giudicano il gruppo come una realtà troppo mainstream per avere credibilità. Tuttavia, a prescindere dalle posizioni delle due fazioni, But Here We Are, pur essendo marchiato a fuoco dal classico suono della band, è un disco rock suonato e composto in grazia di Dio, contenete canzoni di alto profilo e un ottimo livello di ispirazione. Chissà, quindi, che non faccia cambiare idea a qualche detrattore. Per tutti gli altri, per chi è cresciuto con la musica dei Foo Fighters a infiammare le casse dello stereo, questo nuovo album è al contempo conferma e certezza. Alzate, quindi, il volume al massimo e godetevi la festa. La goduria è assicurata.

VOTO: 8

GENERE: Rock

 


 

 

Blackswan, lunedì 12/06/2023

venerdì 9 giugno 2023

EMPYRE - RELENTLESS (KScope, 2023)

 


Quello dei britannici Empyre è un nome relativamente nuovo, e da noi, al momento, quasi del tutto sconosciuto. Henrik Steenholdt alla voce e alla chitarra, Did Coles alla chitarra solista, Grant Hockley al basso e Elliot Bale alla batteria rappresentano una realtà emergente, che ha già dimostrato il proprio potenziale con l’album di debutto Self Aware del 2019, un disco incensato dalla critica, e che ha permesso loro di firmare un contratto con la KScope, l’etichetta che annovera tra le sue fila artisti del calibro di Steven Wilson, Porcupine Tree e Tangerine Dream. Un sigillo di qualità, dunque, per una proposta musicale davvero fresca e accattivante, capace di fondere la complessità espositiva del prog, vibranti melodie da stadio e un mood malinconico che riempie ogni interstizio tra le note di una scaletta davvero ispirata.

Gli Empyre hanno registrato Relentless tra i blocchi della pandemia e durante il ciclo di pubblicazione del loro album precedente (The Other Side, una rivisitazione in acustico dell’esordio), utilizzando i Parlour Recording Studios, e affidando i compiti di missaggio a Chris Clancy (Machine Head, Those Damn Crows, Massive Wagons), il cui lavoro ha esaltato il suono oscuro, emotivo e grintoso di una band capace di trasmettere contemporaneamente dolcezza, intimismo, disperazione e rabbia.

L'album parte alla grande con la title track, un perfetto biglietto da visita del suono della band: pathos e malinconia declinate con accenti hard rock. Il riff abrasivo, la melodia immediata, il drumming potente e la voce ruvida di Henrik Steenholdt ne fanno un gran brano in odore di arena rock. La sensazione fin da subito potrebbe essere quella di trovarsi di fronte a una band fin troppo esplicita, che comunica attraverso melodie esposte, sovraccariche e melodrammatiche. Ma l’immediata percezione di una certa prevedibilità svanisce ben presto di fronte all’intelligenza con cui questi brani vengono plasmati. Il gancio furbetto, insomma, viene ripagato da autentico pathos e dall’abile variazione dei temi, anche all’interno della stessa canzone.

E che non sia una band monotematica, è evidente da una scaletta coesa ma decisamente eterogenea. "Walking Light" è un singolo davvero brillante, un tocco di elettronica, la potenza del rock in crescendo e una voce ispida a declinare una melodia emozionante e indicibilmente triste. Parasites inverte la rotta, è un brano cupo, cinematografico, che si sviluppa in modo più complesso, tra sali e scendi emotivi, che catturano fin dal primo ascolto. "Cry Wolf" inizia gonfia e melodrammatica, poi spinge sull’acceleratore fino ad aprirsi in un ritornello di grande suggestione.

Giocano sui cambi di velocità, gli Empyre, stop, start, ritornello, stasi, ripartenza, e anche se questo è uno dei leit motiv dell’album, non finiscono mai nella trappola della prevedibilità. Tante sono le frecce all’arco della band. "Hit And Run" è un ballatone malinconico, dal retrogusto clamorosamente anni ‘80 e dall’incredibile potenziale da stadio, singalong e accendini accesi nella notte (e che bell’assolo di chitarra!).  "Forget Me" mette in mostra ulteriormente il lato emotivo dell'album, è una ballata delicata, che parte acustica e si gonfia di rock, fino al deragliamento strumentale che chiude il brano con tanta elettricità.

"Silence is Screaming" torna a ringhiare con un andamento tumultuoso, in cui ancora una volta la carta vincente è lo stop and go, riff ruvidi e melodia struggente. E la sensazione è che il lavoro di produzione fatto dagli Empyre sia la linfa vitale che rende queste canzoni ancora più accattivanti, producendo colpi di scena senza soluzione di continuità. Così non stupisca l’approccio quasi heavy di "Road To Nowhere", in cui però il riff sferragliante è compensato da un gusto per la melodia unico, ancorchè scartavetrato dalla voce burbera e ispida di Henrik Steenholdt. "Quiet Commotion" è, con i suoi 6 minuti e 10 minuti, la traccia più lunga dell'album, e si sviluppa lentamente attraverso accordi bluesy e un mood atmosferico ed elegantemente malinconico, che ben anticipa la chiosa di "Your Whole Life Slows", un altro brano dall'atmosfera dolce imparentata con il blues.

Orecchiabile, ma mai banale, Relentless è il nuovo punto di partenza di una band che potrebbe diventare enorme. Qui c’è tanta carne al fuoco, ma la cottura è sempre perfetta, soprattutto nel calibrare le spezie mainstream con una materia prima di grande qualità rock. Date un assaggio, non ve ne pentirete.

VOTO: 7,5

GENERE: Rock

 


 

 

Blackswan, venerdì 09/10/2023

giovedì 8 giugno 2023

FRIDAY I'M IN LOVE - THE CURE (Fiction Records, 1992)


 

La canzone più famosa dei Cure, amata anche da chi i Cure non li conosce, e, stranamente, amata anche dai fan della band, che la trovano un’inusuale, ma ben riuscita digressione dalla narrazione gotica che ha reso la band immortale. Una canzone allegra, che parla d’amore, e che, spesso, sui social viene pubblicata per annunciare l’arrivo del weekend. Sto parlando, ovviamente, di Friday I’m In Love, secondo singolo estratto da Wish, nono album pubblicato dalla gruppo britannico nell’aprile del 1992.

Una canzone talmente ben riuscita e così lontana dal mood ombroso dei Cure, che anche il suo autore, Robert Smith, non si capacitava di come fosse possibile che, proprio lui, il cantore della depressione, potesse averla scritta. Un dubbio lacerante, che tenne per lungo tempo il cantante della band in uno stato prossimo alla paranoia, da cui fece fatica a liberarsi.

A Robert Smith, infatti, piaceva così tanto la progressione degli accordi che era certo di averla rubata involontariamente dalla canzone di qualcun altro. E più ascoltava il parto della propria fantasia, più si convinceva che un brano così perfetto doveva per forza essere venuto in mente a qualcuno prima di lui. Smith ci stava letteralmente perdendo la testa, tanto che a tutti quelli che incontrava, faceva ascoltare il pezzo per avere una conferma che Friday I’m In Love, che profumava di successo lontano mille miglia, non fosse già stata pubblicata precedentemente con un altro titolo. Il cantante arrivò addirittura a stalkerare parenti, amici e semplici conoscenti, che magari chiamava, anche nel cuore della notte, per cantargli la canzone, chiedendo: “questa l’hai mai sentita prima? Come s’intitola?”. Alla fine, quando tutti gli diedero la stessa risposta, e cioè che quella progressione di accordi nessuno l’aveva mai ascoltata precedentemente, Smith si decise a inserire il brano nella scaletta di Wish.

Tra l’altro anche il testo della canzone, spiritoso e leggerissimo, si sposava ben poco con l’immagine che di Smith avevano i suoi fan, e il cantante ha tenuto più volte a rimarcare che, per quanto Friday I’m In Love fosse una stupida e assurda canzone pop, in fin dei conti lo rendeva felice perché dava di sé un’immagine completamente diversa da quella del cantore cupo che tutti immaginavano. Insomma, era una sorta di contrappeso che equilibrava la profonda tristezza di decine di testi scritti in precedenza.

Il brano, che divenne il secondo più grande successo dei Cure (la prima piazza è ancora saldamente in mano a Lullaby) venne utilizzata nella colonna sonora di svariati film e serie tv, e fu anche oggetto di qualche cover, la più famosa delle quali fu interpretata da Natalie Imbruglia. La Imbruglia la inserì nel suo album Male (2015), un disco in cui la cantante australiana, ma naturalizzata inglese, si cimenta con reinterpretazioni di brani scritti da artisti o gruppi maschili. In scaletta ci sono canzoni di autentiche icone come Neil Young, Cat Stevens e Tom Petty, misurarsi con i quali non è proprio quella che si può definire una passeggiata di salute. Eppure, la cantante aveva solo una grande paura, e cioè pubblicare la sua versione di Friday I’m In Love, perché era letteralmente terrorizzata dalla reazione che avrebbero potuto avere i fan dei Cure.   

Nel video musicale che accompagna il brano, il regista Tim Pope cattura la band mentre scherza e suona con oggetti di scena teatrali, su sfondi in continuo movimento. Nella clip compaiono il manager Chris Parry, il produttore Dave Allen, l'ingegnere Steve Whitfield, la truccatrice Michi, e lo stesso Pope che, all’inizio del video, cavalca un cavallo a dondolo, urlando indicazioni da un megafono. Alcune delle immagini rendono omaggio al cinema muto, tra cui il cortometraggio del 1907, The Eclipse: Courtship of the Sun and Moon del regista francese Georges Méliès.

Un’ultima curiosità: La frase di apertura di Friday I’m In Love, "Non mi interessa se il lunedì è blu", è un esplicito omaggio alla hit dei dei New Order, Blue Monday.

 


 

 

Blackswan, giovedì 08/06/2023

martedì 6 giugno 2023

Il Filoellenismo Europeo

Il 19 Aprile 1824, il poeta inglese Lord Byron muore a Missolungi, in Grecia, a causa di gravi febbri reumatiche. Ma cosa ci faceva Byron in Grecia? 

Combatteva, e combatteva per l'indipendenza della Grecia dall'Impero Ottomano.

Lord Byron sul  letto di morte

Cosa lo spinse a tanto sacrificio? Perche', peraltro nel momento piu' alto della propria fama, decide di imbarcarsi e combattere per la liberta' di un altro Paese?

La risposta si trova in quella corrente di pensiero, che nacque alla fine del diciottesimo secolo in molti paesi Europei, conosciuta come Filoellenismo. Sentimento di vicinanza di natura artistica, lettararia e culturale alla Grecia antica ma anche moderna. Si crede sostanzialmente che la Grecia sia la culla della civilta' europea. Ed allora, come nacque tale sentimento in tutta Europa?

Verso la fine del 700 ed agli inizi dell'800 i nobili europei solevano viaggiare per l'Europa mediterranea, il cosidetto "Gran Tour", che diede vita a una folta letteratura di viaggio, e proprio la Grecia era una delle tappe piu' importanti di questi "scappate culturali" nel sud Europeo. Le misere condizioni in cui si trovavano a vivere i greci sotto il regno Ottomano colpirono molto le coscienze delle aristocrazie europee. Inoltre, nello stesso periodo sono numerose le scoperte archeologiche che riportano all luce tesori e monumenti dell'antica civilta' ellenistica, che colpiscono molto l'immaginario collettivo. Da qui nasce il sentimento filoellenico, che appoggia il nazionalismo greco e che anche auspica il ritorno di questo popolo agli antichi splendori.

Ma come spesso accade, gli interessi pratici e politici iniziarono a prevalere sugli ideali romantici. La rivoluzione greca e' il primo moto di indipendenza a scoppiare in Europa e soprattutto ad avere successo.  Inizia nel Marzo del 1821 con varie insurrezioni nel Peloponneso e viene immediatamente riconosciuta dalla Russia dello Zar Alessandro, molto interessata al raggiungimento del Bosforo. L'Inghilterra lo fara' solo due anni dopo. Sono tre le grandi potenze europee che intervengono in questa guerra: la Russia per arginare l'impero Ottomano da una parte e per mire espansionistiche verso l'Egeo dall'altra, la Francia e l'Inghilterra per gli stessi motivi "antiturchi", ma soprattutto per arginare la stessa Russia e la sua espansione non desiderata nel Mediterraneo.

La guerra e' subito cruenta e vari episodi di estrema violenza la contraddistinguono, come per esempio il massacro degli abitanti dell'isola di Chio da parte dei Turchi, immortalato nella famosa tela del pittore francese Delacroix.

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Le notizie di quel che accade in Grecia circolano per tutta Europa ed alimentano non poco quel sentimento filollenista e nazionalista. Molti intellettuali italiani si occupano della lotta per la liberta' della Grecia nelle loro opere (Foscolo e Monti gli esempi piu' importanti). Altri, come Lord Byron, di cui abbiamo detto, decidono di imbarcarsi ed impugnare le armi per combattare personalmente per quegli ideali di liberta' e democrazia che il filoellenismo porta con se'. Insomma un vero e proprio volontariato filoellenico internazionale. Qualcosa di simile si vedra' un secolo dopo durante la Guerra Civile Spagnola, quando volontari di tutto il mondo corsero in Spagna per lottare per la causa Repubblicana.

L'indipendenza della Grecia si raggiunge nel 1830, ma le molte turbolenze interne allo Stato appena nato offrono alle potenze europee il pretesto per imporre alla Grecia una monarchia, sul cui trono viene posto il principe Ottone di Baviera nel 1932, anno in cui viene firmato il trattato di Costantinopoli con cui anche l'impero Ottomano riconosce il nuovo Stato.

Una volta raggiunta l'indipendenza il sentimento filoellenico inizia ad affievolirsi in tutta Europa, tranne che in Italia, dove la lotta Risorgimentale inizia a prendere corpo e la indipendenza greca viene vista come esempio di sacrificio popolare e capacita' rivoluzionaria cui guardare.

Offhegoes, martedì 06/06/2023