lunedì 31 gennaio 2022

EYDIS EVENSEN - BYLUR (XXIM Records, 2021)

 


La pianista e compositrice islandese Eydis Evensen possiede un talento naturale per creare melodie assolutamente meravigliose, che si gonfiano potenti, per infrangersi come onde sulla battigia, e poi, di nuovo, tornare a ricompattarsi nel gorgo schiumoso della risacca. Viene spontaneo usare questa immagine naturista per raccontare Bylur (in islandese significa: tempesta di neve), un vero e proprio viaggio, da fare a occhi chiusi, attraverso gli elementi naturali, in particolare l'acqua e l'aria. E proprio come onde, le tredici tracce che compongono la scaletta dell’album, fluiscono nella nostra immaginazione, offrendoci uno sguardo, intenso e poetico, sulla vita in Islanda, iniziando la narrazione dal piccolo paesino in cui è cresciuta Evensen.

Bylur è un album avvolto nella nostalgia dei ricordi, estremamente romantico e dotato di un lirismo marcatamente femminile. Il modo in cui Eydis suona il piano, con quel tocco così ingenuamente appassionato e quel ritmo costante, crea un moto perpetuo in cui ogni singola traccia assume le vivide sembianze di un flusso d'acqua costante. Un’onda, come scrivevamo in apertura. Non ha bisogno di artifici, Evensen, non gioca a stupire, non cerca il colpo di scena, lascia semplicemente che la musica l’attraversi, dal cuore alle dita, per evocare, giocando con le note e i ricordi.

Un disco post classico, nella sua accezione più nobile, che attorno alla centralità del pianoforte, si poggia, in delicato equilibrio, sui ricami degli archi, avvolgenti e spudoratamente catchy, o sull’uso parco e discreto degli ottoni e dei sintetizzatori. Ne escono brani magnifici, forse un po' prevedibili, come "Deep Under", "Northern Sky" e "Wandering I & II", che, tuttavia, sanno affascinare, seducendo con le armi del languore contemplativo e dello struggimento dell’anima.

E’ un volo sopra la terra d’Islanda, su quei magnifici paesaggi, selvaggi come lo può essere un’anima tormentata, eppure estremamente attrattivi, come lo è la bellezza, che non ha bisogno di fingimenti per risplendere alla luce del sole. Evensen può dispiegare le ali e spiccare il volo, anche quando veste abiti francescani, come avviene nel solo di pianoforte di "Nturdogg", traboccante di emozione e passione, o quando azzarda una ballata decisamente pop in "Midnight Moon", unica traccia cantata, con ospite GDRN, la cui voce, bassa e morbida, evoca un paesaggio quasi lunare.

E mentre la title track si appresta chiudere il disco, è ormai chiaro che questa ragazza ti ha completamente irretito. Perché anche se è vero che questo disco non riesce ad affrancarsi da una certa iconografia tradizionale di quella che chiamiamo classica moderna, è capace, comunque, di toccare le corde dell’anima, grazie una stile cinematografico che trasuda cuore e calore e che, soprattutto, riesce a trasportare l’ascoltatore in una dimensione parallela. Basta abbandonarsi al flusso delle note, immergersi nella natura e inizia a sognare.

VOTO: 7

 


 

Blackswan, lunedì 31/01/2022

venerdì 28 gennaio 2022

ORLANDO WEEKS - HOP UP (Pias, 2022)

 


Il 2020, per Orlando Weeks, è stato un anno decisivo, di quelli che cambiano il corso degli eventi e indirizzano la vita verso nuovi orizzonti. Da un lato, la nascita del figlio e le gioie della paternità, dall’altro, accantonata nel 2017 l’avventura con i Maccabees, un nuovo percorso artistico, che ha visto il cantante originario di Brighton dedicarsi alla scrittura di libri per bambini e dare vita a una carriera solista, molto lontana stilisticamente dal suono della casa madre.

Il suo album di debutto, A Quickening, deviava, infatti, dalle consuete scorribande elettriche, per concentrarsi, invece, su un mood più morbido, quasi assonnato, gli occhi annebbiati da tante veglie notturne e la testa e i pensieri costantemente rivolti alle responsabilità di essere divenuto padre. Insomma, Weeks si è trovato all’improvviso ad appendere al chiodo le scarpe da frontman di una band indie rock, per dare vita a un approccio più pulito, più intimo e più adulto di fare musica.

Mentre quel disco, però, procedeva per toni sommessi e melodie avvolgenti, eleganti, e declinate con lentezza, in Hop Up Weeks cambia completamente lo stile e la sostanza della scrittura. Questo, infatti, è un album decisamente più allegro e pimpante, che si fa beffe della pandemia e dei giorni tristi che stiamo vivendo, per gettare, invece, sull’esistenza, uno sguardo ottimista e carico di speranza, attraverso undici canzoni che centrano il bersaglio, sia per quanto riguarda la maturità del songwriting che per gli espliciti e gustosi riferimenti a sonorità eighties ("Bigger", ad esempio, sembra in tutto e per tutto una canzone uscita dal songbook dei Talk Talk, prima della svolta di "Spirit Of Eden").

Il frizzante uno – due posto all’inizio del disco, "Deep Down Way Out" e "Look Who's Talking Now" crea immediatamente l'atmosfera che avvolge quasi tutta la scaletta: il primo brano si muove in equilibrio su una linea di basso arruffata dalle sfumature funk e sul tocco pungente delle chitarre, mentre il secondo ribolle di momenti euforici, con un tocco di elettronica in più e una melodia pop irresistibile.

Il mood che aveva caratterizzato il precedente lavoro, quella lentezza calda e sfocata, e quello sguardo assonnato di cui scrivevamo prima, non sono stati, però, abbandonati del tutto, e tornano in "High Kicking", una ballata ronzante dalle armonie zuccherine e, soprattutto, in "Silver" (ennesima citazione della band di Mark Hollis, della cui voce Weeks riproduce perfettamente il timbro), la cui atmosfera porta indietro nel tempo, attraverso una melodia morbidissima e a una ritmica attutita, che pulsa come un battito cardiaco percepito in lontananza.

Una metamorfosi riuscita, quella di Orlando Weeks, un artista che ha saputo affrancarsi da una carriera importante, quella costruita nel nuovo millennio a capo dei Maccabees, ma anche dal se stesso di un anno fa, riuscendo a riproporsi, grazie anche ai sapienti arrangiamenti, in una veste più brillante e euforica. Hop Up, in tal senso, è un disco che entra in circolo velocemente, per deliziare il palato di chi ama un pop che sa essere al contempo leggero ma intelligentemente adulto. Dateci un ascolto, ne vale davvero la pena.

VOTO: 7,5

 


 

Blackswan, venerdì 28/01/2022

giovedì 27 gennaio 2022

FOLSOM PRISON BLUES - JOHNNY CASH (Sun Records, 1957)

 


“When I was just a baby, my mama told me, son always be a good boy, don't ever play with guns, But I shot a man in Reno, just to watch him die”

(Quando ero solo un bimbo, mia mamma mi disse: figlio sii sempre un bravo ragazzo, non giocare mai con le pistole.  Ma uccisi un uomo a Reno, solo per vederlo morire).

 

Quello citato poc’anzi, è il verso più famoso di Folsom Prison Blues, canzone che uno sconosciuto Johnny Cash scrisse agli inizi del 1950 e che registrò e portò al successo solo successivamente, nel 1957, quando iniziò a incidere per la mitica Sun Record di Sam Philips. Una canzone che, a dispetto del ritmo caracollante, suona amara e malinconica, perché racconta una storia di prigionia, di dolore e rassegnazione. Protagonista del brano è un uomo imprigionato nel penitenziario di Folsom. Se ne sta chiuso in cella da tempo immemore (“Sono rimasto rinchiuso nella prigione di Folsom dove il tempo scorreva interminabile”) ad ascoltare il rumore del treno che passa proprio vicino al penitenziario (“Sento quel treno che arriva, arriva da dietro la curva”). Un rumore che è fonte di nostalgia, di riflessioni sui propri errori e su una speranza di libertà che non arriverà mai (“Quando sento quel treno che avanza piego la testa e piango”). 

Cash tinteggia in nero una storia di ordinaria violenza, non vuole commuoverci, ma solo raccontare i fatti, la solitudine della prigionia, l’angoscia che si prova per un futuro già scritto e che non potrà essere emendato. Quel verso fulminante (e disturbante), citato all’inizio, ci impedisce ogni partecipazione alle sorti del prigioniero, che non ha alcuna giustificazione per il reato commesso, perché ha sparato a un uomo “solo per vederlo morire “. Nessuna vera motivazione, dunque, non la gelosia per una donna, non il denaro, non una lite. Nulla che dia un senso alla morte. Non c’è odio, non c’è rabbia, non c’è alcun sentimento, per quanto negativo, che possa giustificare l’orrendo crimine, solo la violenza per il gusto della violenza. Non si intravvede un solo filo di luce che illumini la scena: il calore del sole è soltanto intuito (“Non ho più veduto la luce del sole da talmente tanto tempo che nemmeno io mi ricordo da quando”), e nel buio rimbombano lo sferragliante passaggio del treno e lividi pensieri di morte. 

Per tutta la narrazione, Cash non cerca mai la strada della comprensione e del perdono, perché non vuole mitigare la tragicità del racconto. Che anzi, prova a esasperare accennando una caustica querelle sociale, in cui si pone l’accento sulla diseguaglianza fra ceti (la vita dei ricchi è un treno in movimento, quella dei poveracci è una cella buia), sulla lotta di classe e il rancore che ne deriva (“scommetto che ci sono persone ricche nelle sue fantastiche carrozze risplendenti e probabilmente bevono caffè e fumano grossi sigari”). 

E’ un Cash giovanissimo quello che scrive Folsom Prison Blues. Non gli sono ancora piombate addosso le pressioni dello star system, ancora non si sono acuite la costante e deleteria conflittualità col padre, le angosce di una vita sentimentale insoddisfacente (che risolverà solo con il divorzio da Vivian e il matrimonio con June Carter), i problemi di dipendenza dalle anfetamine (da cui, peraltro, non si libererà mai completamente) e gli inevitabili strascichi giudiziari (arrestato per possesso di stupefacenti nel 1965, sfiorerà quella prigionia così amaramente descritta nella canzone). 

Ma quando nel 1968 si reca alla Folsom Prison per tenere un concerto da lui fortemente voluto, nonostante la resistenza della sua casa discografica, quelle tragedie le ha vissute già tutte. Canta per i detenuti, ed è come se cantasse per sé stesso. Conosce il dolore e conosce la tribolazione, conosce il pane duro della condanna e della reclusione (per lui la dipendenza dalla droga, per il suo pubblico il carcere), e gli anfratti disperati in cui vivono i reietti, li ha frequentati tutti. C’è una profonda empatia fra i detenuti di Folsom e Cash, la consapevolezza del peccato e l’attesa di un’impossibile redenzione. C’è la musica a creare un improbabile legame fra la rockstar e i negletti che lo ascoltano. 

Non è un caso, quindi, che il concerto (da cui sarà tratto un leggendario disco dal vivo) preveda una scaletta anomala rispetto al repertorio di Cash, che omette volutamente canzoni famosissime, ma lontane dalla realtà carceraria (I Walk The Line, Ring Of Fire), per proporre, invece, un repertorio maggiormente “condiviso”, tra cui spiccano Send A Picture Of Mother (l’angoscia della prigionia), 25 Minutes To Go (il patibolo che attende all’alba) e la ballata disperata di I Still Miss Someone. Ed è altrettanto ovvio che The Man In Black apra il concerto eseguendo proprio Folsom Prison Blues, così da restituire la canzone, qui in una versione memorabile, ai legittimi proprietari.

 


 

 

Blackswan, giovedì 27/01/2022

martedì 25 gennaio 2022

BIFFY CLYRO - THE MYTH OF THE HAPPILY EVER AFTER (Warner, 2021)

 


Sarebbe veramente ingiusto considerare il nono album in studio dei Biffy Clyro come il disco gemello di A Celebration Of Endings (2020), solo per il breve lasso di tempo che separa la pubblicazione dei due lavori. Lungi dall'essere una raccolta di materiale precedentemente scartato, The Myth Of The Happily Ever After non può essere inteso come un semplice ripensamento o un aggiustamento del tiro. Certo, a fianco di materiale nuovo, concepito ad hoc per l’uscita, sono state inserite anche canzoni risalenti a quelle sessioni di registrazione, rielaborate e ridefinite per l’occasione. Nel suo complesso, però, il disco presenta la miglior versione possibile di quel rock da stadio, potente e coinvolgente, che ha reso la band scozzese una delle migliori interpreti del genere. C’è grande libertà espressiva nelle canzoni che compongono la scaletta di The Myth Of The Happily Ever After, e, soprattutto, emerge, come mai prima, quella forza propulsiva che suona epica e grandiosa, e che il cantante Sam Neil ha definito come la "risposta emotiva al tumulto dell'ultimo anno".

L’impossibilità di andare in tour ha concesso al gruppo un surplus di tempo che è stato impiegato per dare forma a un impulso creativo esondante. In tal senso, questo nuovo full length, è una centrifuga di idee, che possiede l’urgenza travolgente di un fiume in piena, pronto ad abbattere i paletti che delimitavano la comfort zone della band.

Un disco vario ed eterogeneo, che dà pochi punti riferimento, e che accosta intuizioni che spesso prendono anche direzioni fra loro opposte. Ciò è evidente, ad esempio nello sviluppo di "Separate Missions", un formidabile ritornello incastonato in una struttura musicale che evoca gli anni ’80, che convive a fianco della sobria leggerezza di "Haru Urara" e delle spire avvolgenti di una ballata malinconica del calibro di "Existed". Non mancano poi le consuete sferzate elettriche, vero segno distintivo dei Biffy Clyro, come "A Hunger In Your Haunt e Errors In The History Of God" (mamma mia, che ritornello!) che scalciano aggressive contro l’empasse della pandemia, esplodendo in tutta la loro incontenibile vitalità.

Rimossa ogni restrizione formale alla mise en place delle composizioni, la band scozzese ha puntato tutto sull’emozione, rilasciando un disco coinvolgente e multicolor, che bilancia perfettamente momenti di riflessione, slancio e ardore, e uno sguardo traboccante di speranzoso ottimismo. E’ questo il messaggio contenuto nell’ultima, stravagante e convulsa, "Slurpy Slurpy Sleep Sleep", un invito ad abbracciare l’amore e l’amicizia come salvagenti per restare a galla nelle acque limacciose della vita. Un messaggio vitale, come lo sono le canzoni contenute in The Myth Of The Happily Ever After, probabilmente il miglior disco in carriera per i Biffy Clyro, sicuramente il più potente sotto l’aspetto emotivo.   

VOTO: 7,5




Blackswan, martedì 25/01/2022

lunedì 24 gennaio 2022

GRACE CUMMINGS - STORM QUEEN (ATO, 2022)

 


Ancora fresca del suo debutto da solista del 2019, Grace Cummings, songwriter australiana di stanza a Melbourne, continua a percorrere la strada di un folk in bilico fra modernità e classicismo, caratterizzato, oltre che da una (a tratti) scintillante scrittura, anche da una voce distintiva e potente, che evoca l’odore acre della cordite e la profondità della tenebra. Una voce che amplifica la passione e il tumulto che sono in agguato nelle sue canzoni e che, inutile girarci intorno, fa sobbalzare dalla sedia fin dal primo ascolto. Così, il suo secondo album, sempre autoprodotto, come evocato dal titolo, spinge decisamente verso la vertigine emotiva, sapendo bene che, anche quando la scrittura si ferma a metà strada, è proprio quella voce lì a portare a casa il risultato.

D’altra parte, basta dare un occhiata in rete, per accorgersi di come, durante la sua ancora giovane carriera da solista, la Cummings abbia ottenuto enormi elogi per la sua abilità sul palco e la pura energia magnetica delle sue esibizioni dal vivo. Anche se in questo peculiare momento storico non avremo l’opportunità di assistere a un suo concerto, basta ascoltare il suo timbro crudo e graffiante e il modo inusuale in cui utilizza la voce su Storm Queen, per comprendere perché le sue esibizioni dal vivo siano tanto apprezzate e, soprattutto, perché le undici canzoni in scaletta suonino così spontanee, dando spesso la sensazione che si trovino a svilupparsi sul filo dell’improvvisazione. L'intero album, infatti, gode di una palpabile veracità, senza dubbio aiutata dall’approccio diretto in sede di registrazione, che ha visto nascere i brani della scaletta solo dopo pochissimi take. Ciò nonostante, la struttura di queste canzoni, pur evidenziando una seducente immediatezza, è meno semplice di quanto si pensi: ogni singola traccia ha una sua peculiarità, un’intuizione, un elemento distintivo, che spinge la musica della Cummings fuori dall’angusto recinto del cantautorato folk.

Gli incisivi accordi di pianoforte che punteggiano all'improvviso il canto morbido e lamentoso della scarna Freak, eccitano la drammaticità del brano, rafforzata ulteriormente da lacrime di violino e dai cori che si materializzano verso la fine. Pochi tocchi di banjo e di nuovo la litania di un violino, aggiungono profondità, spazio e un tocco di epica al classicismo folk di Raglan. Ecco: sono piccoli colpi di scena, questi, che insieme al lirismo dei testi, gonfiano di tempesta e tumulto l’apparente bonaccia che soffia su molte delle canzoni della Cummings. 

Che, tuttavia, pur nella loro veste francescana, reggono bene il confronto con il resto della scaletta. Il singolo Up In Flames, Two Little Birds e This Day in May, infatti, sono momenti intimi, quasi bucolici, costruiti intorno alla straordinaria voce della Cummings e levigati nella melodia da una strumentazione esile (chitarra acustica, piano) eppure efficacissima.

Risulta così quasi spiazzante, rispetto a queste tenui melodie, la presenza della title track, una canzone che spinge la tensione al parossismo, innervata com’è dal cupo vibrare del sax, dal ronzio di chitarre dissonanti e da poche, ferali, note di pianoforte. Il vertice del disco e quello che potremmo definire un colpo da ko.

La grande forza di Storm Queen, che in mano ad altri potrebbe suonare come un riuscito, ma prevedibile, esercizio di stile, risiede, dunque, nella straordinaria capacità espressiva della sua artefice, capace di plasmare un contesto sonoro, tutto sommato famigliare, trasformandolo in un tumultuoso mondo interiore, di cui la songwriter australiana ha il pieno controllo. Perché, cosa non da poco, riesce a percorrere, senza inciampi, l’impervio confine che separa dramma e narrazione essenziale, trasmettendo tensione e oscurità, evitando artifici, ma concentrandosi su una specchiata e lungimirante consapevolezza. Con quella voce lì, poi…

VOTO: 8

 


 

Blackswan, lunedì 24/01/2022

venerdì 21 gennaio 2022

HANIA RANI - ESJA (Gondwana Records, 2019)

 


Una donna, il suo pianoforte, la musica che scorre fluida come i pensieri, evocativa come i ricordi, dolcemente triste, come il respiro affranto di un malinconico soliloquio.

Esja è l’esordio solista della pianista polacca Hania Rani, e non contiene altro che un pianoforte a coda e l’emozione che si materializza nel battito del cuore di chi ascolta.

In accordo con l'estetica comune della musica neoclassica, ci sono alcuni rumori di sottofondo, come il piede che tocca il pedale del pianoforte, che creano quasi una sensazione di presenza fisica. Ma sono solo sfumature. Perché l’anima di questo progetto, sono canzoni che avvolgono l’ascoltatore, grazie a uno stile che alterna fluire liquido e tocco percussivo, con la Rani che usa gli accordi come pattern, aggiungendo limpide melodie minimaliste allo sfondo.

Esattamente come avviene nell’opener "Eden", un brano che suona fondamentalmente attorno alla stessa linea melodica, ribadita più e più volte, ma che diviene sublime grazie al tocco dinamico della pianista, che riesce a rendere scintillante una struttura compositiva quasi pop. Un gioco che funziona perfettamente e che farà la felicità di quanti hanno amato i primi lavori di Nils Frahm.

Rivoli di pioggia cadono letteralmente sull’esecuzione di "Sun", i cui arabeschi potrebbero ricordare l'impressionismo francese e compositori come Claude Debussy. Anche in questo caso Rani resta concentrica al cuore melodico del brano, mantenendo la sua musica minimalista, ma sempre innervata di dinamicità. "Glass", invece, suona in modo molto simile a un piacevole sottofondo, è una miscela di musica minimale che potrebbe evocare proprio Philip Glass, fino a quando, poi, una leggera distorsione del suono, da qualunque parte provenga, conferisce al pianoforte una sensazione spigolosa, e, quindi, la melodia, calma e paziente, inizia a schiarirsi, mentre le schegge di vetro feriscono in profondità, come è profondamente emotiva la sensazione che pervade l’ascoltatore.

La conclusiva "Now, Run" è un titolo perfetto per una canzone con il suo ritmo, il piano suona veloce e lavora su accordi jazz, incoraggiando una strana dicotomia interiore, un conflitto fra stasi e ricerca del movimento. Sei minuti e mezzo che si trasformano in un'esperienza di ascolto senza tempo, in un’esperienza fluttuante di opposti sentimenti.

In Esja le canzoni fluiscono l'una nell'altra, senza soluzione di continuità, ogni canzone è un tassello imprescindibile di un unicum coerente e omogeneo. Non servono stacchi o pause: è la musica di Hania Rani a essere un romito dal mondo circostante, una pausa dalla realtà che spinge in una parallela dimensione di cristallina bellezza.

Un ottimo album da meditazione, quindi, corposo ed evocativo come un vino rosso strutturato, uno di quei dischi che pretendo l’ascolto in solitaria, possibilmente in cuffia. Hania Rani dimostra di avere una grande conoscenza della composizione e della musicalità, e il suo stile è chiaramente influenzato dall'impressionismo francese, dalla musica neoclassica e dal suo background jazz. Una pianista straordinaria, dotata di grande tecnica e di nobile pedigree, quindi. Ma non basta tutto ciò a suggerire l’ascolto di questo gioiello. Esja è semmai un disco che raggruma in sé estasi ipnagogica, sogni ad occhi aperti, un meditabondo errare fra i tormenti dell’anima. Ci sono tecnica e passione, scuola classica e romanticismo. Ci si accorge di più dei sentimenti, però, che della tecnica della pianista: e questo rende Esja un disco imprescindibile per chi ama abbandonarsi a quella triste felicità chiamata voluptas dolendi.




Blackswan, venerdì 21/01/2022

mercoledì 19 gennaio 2022

NEIL YOUNG - BARN (Reprise, 2021)

 


Che si tratti di dischi nuovi o di live pescati dai suoi infiniti archivi, Neil Young è una sorta di macchina da guerra delle pubblicazioni. Ovviamente, noi non ce ne lamentiamo; anzi, vista la qualità delle ultime uscite (andate a rivedere quali meraviglie sono state rilasciate nel 2021), vorremmo, per il vecchio Zio Neil, il dono dell’immortalità.

L’anno appena passato si è chiuso alla grande con la pubblicazione di Barn, un disco che testimonia l’ottimo stato di forma del vecchio rocker canadese.

Messi insieme, gli ultimi due album di Neil Young (Colorado del 2019 e ora Barn) indicano esattamente la strada intrapresa, dove e come sono stati realizzati: in Colorado e, nello specifico, all’interno di un fienile recentemente affittato. In gran parte registrati dal vivo, ed entrambi con i leggendari Crazy Horse, a fare da potente contrappunto all’indomito songwriter.

Barn, rispetto al pur buono predecessore, è di gran lunga superiore ed è probabilmente il miglior album di Young dai tempi di Psichedelic Pill (2012): dieci canzoni incredibilmente convincenti, che parlano d’amore e di vita, del passato e del futuro che abbiamo davanti a noi, e tutte suonate con esuberanza, trasporto emotivo, consapevolezza, senza rinnegare, in alcuni momenti decisivi, una giusta dose di rabbia elettrica. Un disco, quindi, in cui la grinta rumorista dei Crazy Horse è bilanciata perfettamente con un impianto melodico scintillante.

Gli Horse hanno, ovviamente, cambiato volto negli ultimi tempi: il fedele chitarrista Frank "Poncho" Sampedro si è ritirato dopo Psychedelic Pill e, come in Colorado, il suo posto è stato occupato da Nils Lofgren, che ha suonato con i Crazy Horse nei primi anni '70, prima di diventare un pilastro della E Street Band di Bruce Springsteen. La presenza di Lofgren è fondamentale, sia quando alza il volume dell’amplificatore per quelle scorribande elettriche tanto care ai Crazy Horse, come avviene nel ringhio oscillante dell’autobiografica "Canerican" o nel tiro furioso dell’ambientalista "Human Race", sia quando suona il pianoforte o l’armonica, conferendo al disco tocchi di bellezza agreste che attenuano l’odore pungente della cordite.

Non solo, dunque, fuoco e fiamme in scaletta, ma anche un pugno di canzoni agrodolci, velate appena di malinconia, come l’iniziale "Song Of The Seasons", levigata nel connubio vellutato fra armonica e fisarmonica, o la nostalgica "Heading West" (brano sul divorzio dei genitori di Young, raccontato qui come un viaggio in macchina verso ovest insieme alla madre) in cui il ringhio della chitarra del canadese è ammorbidito dal contrappunto pianistico di Lofgren.

A settantasei anni, Young è tutto fuorchè un musicista che si sente arrivato, che vive sui vecchi allori o nel ricordo dei giorni di gloria; pur continuando a concepire la propria musica attraverso uno stile consolidato e pressoché immutabile, zio Neil sembra che stia vivendo, infatti, una seconda giovinezza, in cui nulla è scontato, dall’amore per la moglie, attrice e ambientalista Daryl Hannah, omaggiata dalla leggerezza sgangherata di "Shape Of You" o nella conclusiva, morbidissima, "Don’t Forget Love", e dallo sguardo sul futuro, che pare velato, nonostante la veneranda età, da un senso di profonda, forse esistenziale incertezza. In tal senso, la lenta combustione del quadretto domestico di "They Must Be Lost", parla dei tempi che inesorabilmente cambiano e di una gioventù che, metaforicamente, si sta perdendo. Una canzone, questa, confezionata con un eleganza formale sbalorditiva (la calda armonica di Young, il tocco morbido di Lofgren, l’incedere indolente della sezione ritmica), che è però anche lo specchio in cui si riflette il volto di un musicista che è saputo invecchiare molto bene a fianco della propria musica, che sa avvolgerti nel caldo e famigliare abbraccio di un vecchio amico, ma che riesce anche a guardare verso l’incerto futuro, consapevole di aver sempre cose importanti da dire. Perché se è vero che Barn è quasi un archetipo di ciò che sono i dischi con i Crazy Horse, e che non c'è niente di sorprendente in queste canzoni, bisogna dare atto a Neil Young che, nell'autunno dell'ottavo decennio della sua vita, continua a mostrare una vitalità senza cedimenti.

VOTO: 8

 


 

Blackswan, mercoledì 19/01/2022

 

martedì 18 gennaio 2022

HIGH DESERT QUEEN - SECRETS OF THE BLACK MOON (Ripple Music, 2021)

 


Gli High Desert Queen si sono formati quando il cantante Ryan Garney e il chitarrista Rusty Miller si sono messi alla ricerca di una sezione ritmica che possedesse il medesimo, ed eclettico, retroterra di influenze musicali. Quando hanno arruolato il bassista Matt Metzger e il batterista Phil Hook, si sono trasferiti da Houston ad Austin, e si sono rapidamente affermati nella scena musicale locale con alcuni spettacoli ad alto numero di ottani e groove incandescenti.

Il loro album di debutto, Secrets of the Black Moon, è composto da otto canzoni che è difficile fare rientrare sic et simpliciter in un unico genere, poiché la band attinge da una vasta gamma di influenze, tra le quali si potrebbero citare immediatamente Black Sabbath e Kyuss, pur consapevoli di non poter essere esaustivi.

La traccia di apertura "Heads Will Roll" dà il via all’assalto frontale, con un riff di apertura tenebroso, lento e carico di sventura, prima che la voce di Garney entri in gioco con un contrappunto deliziosamente melodico. Il groove è ciò che attira immediatamente l’attenzione, mentre Phil Hook martella con precisione, senza strafare e la chitarra di Miller si concede trame dagli echi psichedelici.

Nella successiva "The Mountain vs The Quake" la band pigia sull’acceleratore e la canzone mostra tutto l’arsenale di cui sono dotati gli High Queen Desert: riff pesanti, una linea di basso sferragliante, batteria quadrata e una strofa orecchiabile che si lascia cantare senza difficoltà.

"As We Roam" inizia come se fosse una canzone presa per i capelli dagli anni ’90, un groove potentissimo guidato dalla batteria metronomica di Hooks, su cui si innesta il riff di chitarra sfocato e bollente di Miller: un magma impetuoso di doom, grunge e stoner, che mette in mostra la grande attitudine jam del gruppo (delle cui esibizioni dal vivo si parla un gran bene).

"Did She" è un un’altra fragorosa fucilata, ma si distingue soprattutto per i cambi tempo, l’intrecciarsi dei riff e gli assoli bollenti, che tengono in caldo l’ascoltatore prima di spingerlo nelle trame psichedeliche della breve "The Rise" e nel vortice infernale di "Skyscraper", che risucchia l’ascoltatore in cupi gorghi di sabbathiana memoria.

Le ultime due canzoni, "The Wheel" e "Bury the Queen" (curioso come il timbro di Garney evochi, a tratti, reminiscenze pinkfloydiane), sono le più lunghe in scaletta, e pur mantenendo le stesse caratteristiche dei brani precedenti (riff possenti, ritmica perfettamente sincronizzata, grande voce) perdono un po’ di smalto a causa dell’eccessivo minutaggio. Un piccolo difetto che, tuttavia, non ci fa cambiare l’ottima impressione su un disco (registrato e prodotto benissimo), che suona come un viaggio avventuroso nell’aria torrida e impolverata sollevata da una versione eccellente di groovy rock del deserto.

VOTO: 7 




Blackswan, martedì 18/01/2022

lunedì 17 gennaio 2022

BLACK LABEL SOCIETY - DOOM CREW INC. (Spinefarm, 2021)

 


In un mondo scompaginato da continui stravolgimenti e dominato dall’incertezza, poche cose sono affidabili come un nuovo disco dei Black Label Society. Negli ultimi due decenni, Zakk Wylde e i suoi adepti hanno sfornato dieci album in studio e, a parte la malinconica deviazione di Hangover Music Vol. 6, ognuno di questi ha portato con se un’incandescente magma di metallo, alimentato da furiosi riff di chitarra. Arrivata all’undicesima prova, la creatura del chitarrista originario del New Jersey continua a esprimersi attraverso uno schema ormai consolidato, che è, allo stesso tempo, il principale punto di forza e di debolezza di Doom Crew Inc.

Il disco inizia con "Set You Free", il suono cadenzato di una dolce chitarra acustica, spazzato via, dopo pochi secondi, da uno di quei clamorosi riff a ritmo medio, che sono il pane quotidiano di Wylde: non sono mai particolarmente veloci, ma il loro slancio è inarrestabile. "Destroy & Conquer" alza ulteriormente il tiro con un paludoso groove metal dagli acenti southern, "You Made Me Want To" risucchia l’ascoltatore in vortici space-rock, prima che "Forever And A Day" introduca al lato più gentile della band, quello delle ballate malinconiche, che sono un marchio di fabbrica di Wylde al pari della sua tecnica chitarrista. Non solo il suo nome, infatti, è sinonimo di un modo fenomenale di suonare la chitarra, ma anche del suo innegabile talento di scrittura, soprattutto, strano a dirsi, quando rallenta il ritmo delle composizioni. Non è, quindi, un caso che alcuni dei momenti migliori del disco siano racchiusi proprio nella citata "Forever And A Day", in "Love Reign Down" e nella conclusiva "Farewell Ballad", gli altri due lentoni strappalacrime presenti in scaletta.

Se è del tutto evidente che la musica dei Black Label Society si muova attraverso le coordinate di un canovaccio immutabile, una novità si può individuare nel diverso ruolo, più preponderante, attribuito al secondo chitarrista, Dario Lorina, che dalle retrovie ritmiche passa a co-protagonista, con il risultato che Doom Crew Inc. presenta melodie per doppia chitarra e incandescenti assoli fra loro intrecciati. Basta ascoltare i doppi riff sovrapposti di "Ruins", che suonano in modo superbo e consentono a Lorina di dimostrare di essersi guadagnato il suo posto al fianco di Wylde: quando le schermaglie di questi due virtuosi dello strumento prendono vita all’interno di un brano, il risultato è di disarmante bellezza.

E’ questo, l’unico elemento interessante di un disco che suona esattamente come tutti i dischi dei Black Label Society: una band consapevole e straordinariamente solida, che continua a fare benissimo il suo, senza cercare nuove strade espressive. Come dicevamo a inizio recensione, questa attitudine è un grande punto di forza ma anche un limite. Dipende dai punti di vista.

VOTO: 7

 


 

Blackswan, lunedì 17/01/2022

venerdì 14 gennaio 2022

NEIL YOUNG - CARNEGIE HALL 1970 (Reprise, 2021)

 


Neil Young sta scavando nei suoi archivi già da un po' di tempo, e continua a rilasciare pubblicazioni goduriosissime per i suoi numerosi fan. Con questo Carnegie Hall 1970, zio Neil dà vita e apre ufficialmente le The Neil Young Official Bootleg Series, e, si può affermare senza rischio di cadere in errore, che partenza non poteva essere migliore.

Il 4 dicembre 1970, Young tenne due spettacoli acustici come solista alla Carnegie Hall, il secondo dei quali da tempo circola sotto forma di registrazione pirata, mentre lo show della prima serata è rimasto inedito fino a ora. Lo stesso Young e l'ingegnere, Niko Bolas, hanno messo mano e mixato questa registrazione vecchia di 50 anni, che rivive oggi in tutta la sua folgorante bellezza, grazie a una prestazione stellare del cantautore canadese.

Ai tempi, Young era nel bel mezzo di uno dei picchi creativi della sua carriera, aveva pubblicato Everybody Knows This Is Nowhere l'anno precedente e After the Gold Rush pochi mesi prima, mentre Harvest aspettava proprio dietro l'angolo. Stava, inoltre, uscendo da un periodo fruttuoso, ma assai caotico, con il progetto Crosby, Stills, Nash & Young, e aveva un'abbondanza di composizioni nuove a dir poco impressionante.

Per il suo spettacolo alla Carnegie Hall, Young ha pescato il meglio di questo materiale per dar vita a una scaletta da leccarsi i baffi.

Il concerto, per dire, si apre con "Down By The River" e "Cinnamon Girl", due brani dall’impianto rock, che Young ripropone in veste cantautoriale, a tratti quasi onirica: non ci sono i Crazy Horse eppure il livello di energia nell’aria è quasi fisicamente palpabile, dalla prima all’ultima canzone.

Giova ricordare che, meno di due mesi dopo, Young avrebbe registrato il leggendario Live at Massey Hall 1971, e quell'album è l’ovvio termine di paragone con cui misurare questa performance, che, sotto il profilo del mero contenuto, presenta più canzoni, e che sembra, sopratutto, animata da un maggior entusiasmo, forse perché Neil non aveva ancora subito l'infortunio alla schiena, che lo avrebbe fatto penare l'anno successivo. Il concerto è poi animato dal consueto umorismo e dall’interplay con il pubblico (Neil, ad esempio, scherza su come tutti applaudano per le sue introduzioni al pianoforte, anche se non suona molto bene) e dalla proposizione di una scaletta che sovverte l’ovvio, pur funzionando benissimo (la scelta, ad esempio, di chiudere con "See the Sky About to Rain" e "Dance Dance Dance", due brani, ai tempi, praticamente sconosciuti, invece di eseguire, come fanno tutti, quelli più amati dai fan).

Un concerto, questo, che si affianca a Massey Hall e Live at the Cellar Door, per una fotografia esaustiva, o quasi, di uno dei momenti più decisivi della carriera di Young. Questa pesca continua da archivi, che sembrano davvero, essere un pozzo senza fondo, poteva contenere il rischio di sovrabbondanza, di pubblicazioni “gemelle”, o sostanzialmente inutili o di scarsa qualità. Invece, Carnegie Hall 1970 possiede una sua peculiarità imprescindibile, un elevato standard qualitativo del suono e una performance da annoverare tra le migliori mai ascoltate. Per cui, va benissimo che Young tenga i rubinetti aperti e continui a pubblicare, non importa se sotto la dicitura Archives Performance Series, Official Bootlegs o qualcos'altro, purchè la bellezza della proposta si mantenga a questi livelli. Per i fan, un disco assolutamente imperdibile.

VOTO: 8 




Blackswan, venerdì 14/10/2022

giovedì 13 gennaio 2022

PREVIEW

 


I Fontaines D.C. annunciano il loro terzo album, Skinty Fia, in uscita il 22 Aprile su Partisan Records. La notizia dell’album arriva con la pubblicazione del primo singolo “Jackie Down The Line”, accompagnato da un video diretto da Hugh Mulhern e interpretato dall’artista, MC, ballerino e coreografo Blackhaine. Domani, mercoledì 12 gennaio, la band presenterà “Jackie Down The Line” in TV dal vivo al The Tonight Show Starring Jimmy Fallon.

Skinty Fia è il seguito di A Hero's Death del 2020, entrato al #2 in classifica in UK e nominato ai BRIT e ai GRAMMY, ed è il terzo lavoro della band prodotto da Dan Carey. La band si è imposta all'attenzione internazionale nel 2019 con l’esilarante album di debutto Dogrel, che è stato una delle uscite più acclamate dell'anno ed è entrato nella rosa dei candidati del Mercury Music Prize. Grazie alla poesia che infondono la loro musica e i testi, e ai loro intensi concerti dal vivo, i Fontaines D.C. si sono guadagnati la reputazione di una delle nuove band più fresche ed eccitanti degli ultimi anni; un terremoto giovanile irripetibile. Dopo aver ottenuto nomination ai BRIT ("Miglior gruppo internazionale"), ai GRAMMY ("Miglior album rock") e ai prestigiosi Ivor Novello Awards ("Miglior album"), la band è tornata dopo il lockdown causato dalla pandemia per vendere tutti i 10.000 biglietti del loro concerto di ottobre all'Alexandra Palace di Londra e per poi concludere il lavoro su Skinty Fia.

Skinty Fia è una frase irlandese che può essere tradotta come "la dannazione del cervo" e la copertina dell'album presenta appunto un cervo, strappato dal suo habitat naturale e inserito in una casa, illuminato da una luce rossa artificiale. Il cervo gigante irlandese è una specie estinta e i pensieri della band sull'identità irlandese sono al centro dell’album. Mentre Dogrel era disseminato di istantanee dei personaggi di Dublino, e A Hero's Death ha documentato lo sconvolgimento e la disconnessione che la band ha provato mentre viaggiava per il mondo in tour, in Skinty Fia i Fontaines D.C. si rivolgono alla loro irlandesità da lontano, mentre ricostruiscono le loro vite altrove. Per una band la cui città natale scorre nelle loro vene - "D.C." sta per "Dublin City" - l'album li vede cercare di risolvere il bisogno di ampliare i propri orizzonti con l'affetto che ancora provano per la terra e le persone che si sono lasciati alle spalle.

Ci sono echi del rock 'n' roll di Dogrel e le atmosfere più cupe di A Hero's Death, ma Skinty Fia è molto più ampio e cinematografico. I Fontaines D.C. sono una band in uno stato di costante evoluzione e questa volta il risultato è un album di stati d'animo mutevoli, intuizioni sorprendenti e maturità.

 


 

Blackswan, giovedì 13/01/2022

martedì 11 gennaio 2022

PAUL WELLER - AN ORCHESTRATED SONGBOOK (Polydor, 2021)

 


Non si può certo dire che gli anni funesti del lockdown abbiano tarpato le ali all’estro di Paul Weller. Due album, On Sunset e Fat Pop (Volume One), hanno mantenuto acceso il suo fuoco creativo e la sua idea di musica, che continua a svilupparsi, nonostante tutte le difficoltà, alla ricerca di nuove idee e forme espressive.  

An Orchestrated Songbook è un ulteriore tassello di un percorso artistico che ha palesato ben poche sbavature, e che, nel frangente, ha visto il songwriter scappare dallo studio di registrazione per suonare uno spettacolo unico, e decisamente speciale, al Barbican di Londra, la sera del 15 maggio di quest’anno. Insieme all'arrangiatore Jules Buckley, Paul Weller ha sbirciato nel proprio immenso songbook, e ha tirato fuori dal cilindro un’emozionante scaletta di grandi classici abbinati a brani più recenti, rileggendoli in un’inedita veste orchestrale, grazie al supporto della BBC Symphony Orchestra. Un’operazione in bilico fra il nostalgico e il coraggioso, che ha gettato nuova luce su diciotto canzoni, che continuano a suonare bellissime e intense, anche in questo approccio decisamente anomalo (e raffinato).

Apre la performance, una versione lussureggiante di "Andromeda" da Wake Up The Nation, seguita da una "English Rose" completamente rielaborata, densa e avvolgente, che non perde un grammo della sua straordinaria bellezza, gemma senza tempo (sono passati più di quattro decenni dal suo concepimento), che fu scritta da Weller quando aveva solo vent’anni. Non solo una delle signature song di una carriera impeccabile, ma anche il brano simbolo di questo nuovo album, che ben spiega l’incredibile lavoro di riscrittura fatto dall’asse creativo Weller-Buckley. Dell’era Jam viene, poi, ripresa anche la leggendaria "Carnation", sottoposta a un maquillage sontuoso, che però nulla toglie alla drammatica tensione che innerva il brano.

La presenza, poi, di tre ospiti in altrettante canzoni, rende la proposta musicale di An Orchestrated Songbook ancora più suggestiva, consentendo al songwriter inglese di misurare la bellezza delle proprie canzoni anche in duetti, quasi tutti riusciti. La meravigliosa Celeste torna alla corte di Weller per una avvolgente "Wild Wood" e la loro chimica rilassata (in passato, avevano già registrato insieme una grande versione di "You Do Something To Me") spinge questa meraviglia in una dimensione completamente diversa. Boy George trasmette ulteriore linfa vitale alla hit, periodo Style Council, "You're The Best Thing", sfoggiando un vocione soul da brividi, mentre l’inaspettata presenza di James Morrison non aggiunge nulla all’esecuzione della conclusiva "Broken Stones".

An Orchestrated Songbook non ha punti deboli, troppo belle le canzoni che lo compongono, troppo efficace l’arrangiamento orchestrale, ma tocca vette sublimi quando la rilettura sfocia nell’imprevisto, come accade nella mise en place ancora più intensa e cinematografica di "Still Glides The Stream" (da Fat Pop), in "You Do Something For Me", così ricca e maestosa nel suo svolgimento, o nella riproposizione della gioiosa e vivace "My Ever Changing Moods", mai tanto smaccatamente frastornante e pimpante.

Un disco, An Orchestrated Songbook, che non rappresenta certo un capitolo essenziale della discografia di Weller, essendo, in realtà, una sorta di best of, le cui canzoni sono arrangiate in modo diverso da come le conoscevamo in origine. Non è, però, un mero esercizio di stile calligrafico, ma un tentativo, semmai, di dare nuova linfa vitale a brani noti, accedendo a una dimensione altra, insolita, sicuramente intrigante, spesso addirittura affascinane. Non potrà mai essere un sostituto della preziosa discografia del modfather, ma di sicuro, questo nuovo lavoro, potrà farne parte senza sfigurare.

VOTO: 7,5

 

 

Blackswan, martedì 11/01/2022

 

lunedì 10 gennaio 2022

THE RECORD COMPANY - PLAY LOUD (Concord, 2021)

 


L’esordio dei The Record Company, datato 2016, fu un fulmine al ciel sereno, uno di quei dischi che fa rizzare le antenne alla stampa specializzata e capace di coagulare velocemente il consenso da parte del pubblico. Non tanto per la novità della proposta, una miscela di rock e blues con qualche debito da pagare al passato, quanto semmai per il modo arrembante e sanguigno di rileggere, senza troppi fronzoli, sonorità abbastanza prevedibili.

Il trio di stanza a Los Angeles ha svoltato velocemente, ha saputo cogliere l’attimo, interpretandolo al meglio, e dando vita a una crescita mediatica costante, che, agli esordi (2011), li ha visti macinare migliaia di chilometri per suonare in piccoli locali davanti a sparuti gruppi di appassionati, fino a meritarsi, nel 2017, la nomination ai Grammy (poi, vinto da Fantastic Negrito) per il miglior disco blues dell’anno.

Un successo che, nel giro di soli dieci anni, ha avvicinato sempre più i Record Company al mainstream, in una parabola artistica che ricorda da vicino quella dei Black Keys. Intendiamoci, la band non si è sputtanata e la qualità di questo nuovo Play Loud è comunque alta; semplicemente si sono fatti un po' furbetti, e senza rinnegare completamente le loro origini, hanno reso il songwriting meno crudo e più radio frendly. Non è un caso, quindi, che la band abbia optato per un produttore come Dave Sardy, che ha già lavorato con gruppi di altissimo profilo come Oasis e LCD Soundsystem, e abbia tentato una diversificazione del suono, guardando al soul ("Paradise"), giocando col funky nella sua accezione più piaciona (il singolo "How High") e cadendo nella tentazione pop di "Get Up And Dance!", irresistibile traino verso la pista da ballo.

Nessuno stravolgimento, per fortuna, nessun ricorso all’elettronica o deragliamento nell’hip hop, per citare due possibili contaminazioni. Le canzoni, infatti, continuano a ruotare intorno al suono della chitarra, anche se si sono arricchite di sovraincisioni che ingrassano un po' il suono e non disdegnano aperture melodiche laddove, invece, il risultato poteva essere più duro e puro (il riff stonesiano dell’iniziale "Never Leave You"). La versione più grezza dei Record Company trova realizzazione compiuta solo nell’ottima "Gotta Be Movin’", che plasma un pattern di chitarra alla Tinariwen, come a voler ribadire che le origini non sono e non vogliono, comunque, essere dimenticate.

Il cambiamento, però, è in atto, impossibile non rendersene conto, e apre, come spesso accade, a diatribe fini a se stesse tra ortodossi e chi invece è più predisposto ad accettare cambiamenti. Dal nostro punto di vista, preferiamo che una band si assuma dei rischi e provi a evolversi, perché continuare a fare lo stesso disco e a ripetere lo stesso mantra, senza annoiare, è privilegio di pochissimi. A conti fatti, il gruppo losangelino è riuscito nell’intento di aggiornare la propria proposta senza terremoti, ha mantenuto intatta la propria grinta, pur allargando i confini del blues rock e scegliendo una produzione decisamente più elaborata. Niente, dunque, che faccia scappare a gambe levate i fan della prima ora, ma un modo, con molta probabilità vincente, per conquistare alla causa nuove schiere di fan.

VOTO: 7

 


 

Blackswan, lunedì 10/01/2022

venerdì 7 gennaio 2022

LA TOP TEN DEL 2021

 

 


1 THE VINTAGE CARAVAN - MONUMENTS

 


 2 BALTHAZAR - SAND



3 LATHUMS - HOW BEAUTIFUL LIFE CAN BE


4 EGO KILL TALENT - THE DANCE BETWEEN EXTREMES


5 CHRIS ECKMAN - WHERE THE SPIRIT RESTS


6 BRANDI CARLILE - IN THESE SILENT DAYS



7 JON BATISTE - WE ARE


8 DURAN DURAN  - FUTURE PAST



9 THRICE - HORIZONS/EAST



10 LUCERO - WHEN YOU FOUND ME


CI SONO PIACIUTI ANCHE:

SAM FENDER - SEVENTEEN GOING UNDER

SILK SONIC - AN EVENING WITH SILK SONIC

BILLY BRAGG - THE MILLION THING THAT NEVER HAPPENED

LANA DEL REY - BLUE BANISTERS

CURTIS HARDING - IF WORDS WERE FLOWERS

YOLA - STAND FOR MYSELF

BILLIE EILISH - HAPPIER THAN EVER

MOBY - REPRISE

MDOU MOCTAR - AFRIQUE VICTIME

WOLF ALICE - BLUE WEEKEND

CAPAREZZA - EXUVIA

PAUL WELLER - FAT POP (VOL.1)



Blackswan, venerdì 07/01/2022





mercoledì 5 gennaio 2022

SAM FENDER - SEVENTEEN GOING UNDER (Polydor, 2021)

 


Una carriera solista partita in sgommata e un successo imprevedibile. Probabilmente nemmeno lo stesso Fender, musicista ventisettenne originario di North Shields, ci avrebbe sperato: esordire ed essere in vetta alle classifiche inglesi, portarsi a casa un disco d’oro, aggiudicarsi il Critics' Choice Award ai Brit Awards del 2019 e, l’anno successivo, venire nominato Best New Artist ai BRIT Awards.

Il motivo di questa esplosione è molto semplice: Fender è di un livello superiore. Possiede una voce pazzesca, non solo potente, ma anche incredibilmente versatile per un ragazzo della sua età, e scrive grandi canzoni, fresche ma profonde, capaci di intercettare gli smarrimenti e i disagi della propria generazione, in modo sincero e tenendosi lontano dalle banalità.

Geordie Springsteen, così lo chiamano i suoi fan, guarda al grande rocker americano, a cui si ispira per l’intensità delle liriche, per lo spirito indomito che pervade di potenza le sue canzoni e per certe sonorità immediatamente riconducibili al Boss (la title track che apre il disco). Si tratta, però, solo d’ispirazione, di un modello a cui rifarsi: la musica di Fender non è un copia incolla di quella di Springsteen, ma è libera, appassionata, e suona originale e seducente.

L’inziale "Seventeen Going Under" incarna lo spirito del disco, è la chiave di volta per comprendere la poetica di Fender e il senso di undici canzoni che sembrano la perfetta colonna sonora di un film di formazione: tanta energia e tanto entusiasmo, la sopresa della scoperta, ma anche una visione ben calibrata e incredibilmente matura sul mondo circostante. Tutto, insomma, gira a mille nei solchi di quest’album, semplice e diretto, eppure ribollente di pathos, appassionante testimonianza di come nelle mani giuste il rock possa ancora suonare incredibilmente attuale. Il tiro di "Getting Started", nella sua linearità, riesce a essere contemporaneamente famigliare ed eccitante, Aye è attraversata da una drammatica tensione sotterranea, è furia allo stato puro che non ha bisogno di spingere sui volumi per mandare al tappeto anche il più distratto degli ascoltatori. "Get You Down" è un’altra delle classiche canzoni di Geordie Springsteen: la foto del Boss nel taschino, la ritmica diritta, la potenza delle chitarre e l’immancabile sax di Johnny Bluehat Davis a creare un muro di suono indistruttibile.

Un marchio di fabbrica, che non viene però reiterato all’infinito, perché Fender ha idee da vendere, e può sperimentare, come nell’incredibile "Leveller", gli archi che si muovono in perfetto sincronismo con la batteria, il cantato ipnotico di Sam che riempie i quattro minuti del brano con una stranissima sensazione malinconica. Sensazione che si prova quando il giovane rock si rinchiude in una dimensione più intima, dimostrando di saperci fare con l’intricato fingerpicking di "Spit Of You", in cui racconta le ansie della crescita, le insicurezze e la vulnerabilità di chi fatica a relazionarsi col prossimo, o con il lento sviluppo melodico della pianistica "Last To Make It Home". Due canzoni, queste ultime, che dimostrano quanto Fender sia in grado di essere sia fragile che potente, a volte anche all'interno della stessa melodia.

Il ragazzo, poi, non rinuncia nemmeno all’impegno politico e sociale, cosa che avviene in "Long Way Off", riff contagiosi, archi e ritmica basica, per una canzone che invita a schierarsi e a stare sulle barricate, o in "Paradigms", che getta uno sguardo pessimista sul degrado etico della società. Chiudi il disco "The Dying Light", una ballata rubacuori, in cui Fender mette al centro il pianoforte e la sua voce potente, prima di liberare la melodia in un crescendo springsteeniano gonfio di pathos.

Chiosa perfetta per un album che è addirittura superiore al celebrato esordio e che definisce lo stile di uno dei migliori songwriter in circolazione, capace di far convivere nella propria musica classicismo e innovazione, rabbia e dolcezza, il rosso accesso del furore giovanile e i pastelli sfumati di una meditabonda malinconia. Discone.

VOTO: 8

 


 

 

Blackswan, mercoledì 05/01/2022

lunedì 3 gennaio 2022

SILK SONIC - AN EVENING WITH SILK SONIC (Atlantic, 2021)

 


Per due musicisti come Bruno Mars e Anderson .Paak, che, a prescindere dai meriti artistici, hanno vestito di perfezionismo i loro album solisti, questa collaborazione, anche se estemporanea, rappresenta una svolta quasi naturale, tanto i due talenti sembrano incredibilmente sincronizzati. Da quando è stato pubblicato il primo singolo, Leave The Door Open, è stato, infatti, chiaro che i due musicisti formassero una squadra affiatata, il cui collante, oltra a un’evidente e reciproca ammirazione, fosse determinato, soprattutto, dalla comune passione per sonorità retrò.

Un’alchimia istintiva, corroborata da una visione comune e da un’evidente voglia di divertissement, che ha spinto i due musicisti a guardarsi alle spalle, a rielaborare con gusto personale sonorità vintage, come avviene, ad esempio, nella canzone poc’anzi citata, i cui arrangiamenti sinfonici si rifanno al mainstream dei primi anni ’70, evocando con gusto il sound di certi gruppi soul di Philadelphia.

C’è, però, in questo breve, ma scintillante album, un’attenzione minuziosa ai dettagli e alla scrittura, con cui i due si tengono ben lontani dalla riproposizione pedissequa di un suono, tanto che le nove coloratissime tracce in scaletta comunicano, soprattutto, un’inaspettata freschezza, grazie ad armonie lussureggianti, ritornelli levigati da sensibilità pop e schegge di modernissimo hip hop.

Un lavoro certosino, di minuziosa levigatura, che ha visto il duo scartare decine di take per piccole sbavature che inficiavano il risultato finale sperato. D’altra parte, non poteva che essere così, visto che il progetto, realizzato solo nel 2021, ha avuto una lunga gestazione. Tutto è iniziato quando .Paak ha aperto i concerti di Mars durante le tappe europee del suo tour 24K Magic, nella primavera del 2017. La coppia si è trovata a sperimentare e suonare in studio fin da subito, concordando che, prima o poi, avrebbero realizzato un disco insieme. Nessuna dead line, però, ma l’idea che la calma e la pazienza sarebbero state in grado di dare forma e sostanza organiche alla nascente collaborazione. Quando il tour è terminato, i due artisti hanno continuato con le loro rispettive vite, fino a quando non si sono ricollegati all'inizio del 2020, dopo che Mars ha ascoltato di nuovo i demo che avevano realizzato in tour, tre anni prima.

An Evening With Silk Sonic è, dunque, un album realizzato con una cura straordinaria, che cerca di evitare trappole nostalgiche mirando semmai all'atemporalità e che, nonostante la maniacale attenzione ai dettagli, esprime comunque un’appassionata esuberanza. La sfavillante apertura Silk Sonic Intro presenta, particolare non di poco conto, l'ospite principale del disco, il leggendario membro dei Parliament-Funkadelic e signore del funk, Bootsy Collins, che riappare nella maggior parte delle canzoni del disco, dando un segno tangibile della propria presenza, che è evidentemente grande fonte di ispirazione per i due giovani artisti.

I quali, in evidente stato di grazia, hanno messo in piedi una scaletta in cui le gemme si sprecano, a partire dalla spavalda Fly As Me, un groove tipicamente funky, di orgogliosa stravaganza e ricchezza, o da 777, altro esplosivo funky declinato, però con ringhio rockista, entrambe vertici di un disco che palesa, senza soluzione di continuità, classe, stile e personalità infinite.

In An Evening With Silk Sonic, la magia sta principalmente nel modo in cui la musica si muove: le canzoni sono radiose e traboccanti di gioia, leggere e acchiappone, create dalla sinergia eccitante di due menti in fluente trip creativo. Una piccola gemma, dunque, frutto del piacere semplice, ma insostituibile, di lavorare insieme a qualcuno di cui ti fidi, e che suona, quindi, avvolgente e gratificante come un rapporto di amicizia di vecchia data, in cui basta il lampo di uno sguardo per intendersi.

VOTO: 8

 


 

Blackswan, lunedì 03/01/2022