martedì 30 agosto 2022

STARS - FROM CAPELTON HILL (Last Gang, 2022)

 


Se c’è un disco che sposa meravigliosamente la leggerezza dell’estate, questo senza dubbio è il nono album in studio dei canadesi Stars, From Capelton Hill. Un titolo che cita una località situata a est del Quebec, un luogo caro al cuore del cantante Torquil Campbell, il cui nonno, lì, costruiva case alla fine del 1800. Non sorprende quindi che questo disco, nella sua coloratissima bellezza, attinga anche ai temi della nostalgia, risultando in tal senso commovente ed emotivamente vibrante.

A quasi venticinque anni dall'inizio della loro carriera, gli Stars ormai possono fare praticamente quello che vogliono. Nel precedente There Is No Love in Fluorescent Light del 2017, avevano fatto convivere le più recenti sonorità dance oriented con il pop barocco degli esordi. Se quel disco era il suono di una band che sa esattamente chi è, From Capelton Hill rivela, invece, una band che sa da dove proviene, consapevole della propria eredità e disposta a costruire su di essa, per perfezionare il proprio marchio di fabbrica. Questo è, quindi, il loro album più riconoscibile da anni, un lavoro costruito su atmosfere più intime e personali piuttosto che sulla grandeur cinematografica che aveva avvolto alcuni lavori precedenti.

In tal senso, qui non c'è niente che gli Stars non abbiano già fatto prima. Brani come "Back To The End" e "Hoping" richiamano le trame orchestrali del loro amato classico "Set Yourself On Fire", mentre "Build a Fire" riecheggia l'estetica della pista da ballo di "No One Is Lost" del 2014. Ma la loro esperienza consente di attingere a queste sonorità note, evitando ogni stucchevole autocompiacimento.

Non è un caso che la miglior qualità di From Capelton Hill sia la misura. In passato, gli Stars avevano avuto, talvolta, la tendenza a esagerare, a sovraccaricare il suono. Naturalmente, le inclinazioni melodrammatiche fanno parte del loro fascino, ma qui fanno affidamento sui loro punti di forza e lasciano che la qualità della scrittura delle canzoni faccia il resto, evitando accuratamente orpelli in fase di produzione. L'opener "Palmistry" ne è un ottimo esempio: una semplice melodia spinta da bellissime armonie vocali con arrangiamenti di archi lussureggianti ma non invadenti. La successiva "Pretenders" è altrettanto diretta e accattivante, con il suo hook contagioso e un ritornello che evoca il jangle pop degli Stone Roses.

Il disco è un susseguirsi di piccole gemme, e a parte, forse, "If I Never See London Again", che soffre di un eccesso negli arrangiamenti, gli Stars riescono a toccare spesso il cuore, ad esempio, con l’acustica e commuovente "Snowy Owl", posta a chiusura di disco, e con "Capelton Hill", la migliore del lotto, che spinta da un ritornello epico, racchiude i temi della nostalgia e della perdita, e inumidisce gli occhi grazie anche al brillante duetto tra Campbell e la deliziosa Amy Millan.

From Capelton Hill, che beneficia anche dell’attenta produzione di Marcus Paquin e Jace Lasek, due veterani della scena di Montreal, è un disco finemente strutturato, in cui ogni strumento ottiene lo spazio necessario, con la bella evidenza del corno francese di Chris Seligman e del fingerpicking delle chitarre acustiche. Ed è anche, nel complesso, un brillante promemoria su come la consapevolezza e la maturità raggiunta possano tranquillamente fare affidamento sui propri punti di forza, senza dover cercare necessariamente nuovi trucchi per continuare a stupire. In tal senso gli Stars sono riusciti a emozionare senza inventarsi nulla, ma semplicemente regalando ai fan la miglior versione di loro stessi.  

VOTO: 7,5




Blackswan, martedì 30/08/2022

lunedì 29 agosto 2022

BEN HARPER - BLOODLINE MAINTENANCE Mercury, 2022)

 


Bloodline Maintenance è il primo disco di canzoni originali da sei anni a questa parte (l’ultimo è stato Call It What It Is) ed è una lavoro in cui ben Harper ha messo tutto se stesso, anima e corpo. Non solo perché lo ha registrato in (quasi) completa solitudine, ma soprattutto perchè in queste undici canzoni ha condensato il dolore per la perdita dell’amico Juan Nelson, bassista degli Innocent Criminals, lutto che ha innescato una profonda riflessione sulle proprie origini, sul proprio passato (in copertina la foto di Harper bambino con il proprio padre) e sul concetto di trauma intergenerazionale, quel fenomeno per cui se un proprio antenato sperimenta un evento così traumatico da incidere sulla psiche, i conseguenti stati d’ansia e la depressione si riflettono inevitabilmente anche sulla propria progenie.

Non solo: rileggendo il suono delle radici e la musica che ha sempre amato, con il consueto approccio distintivo e personale, Harper riflette anche sul dolore, sull’amore, sulla deriva della società americana e, soprattutto, sul razzismo, tema sviscerato con sguardo appassionato e carico di rabbia politica.

L'album si apre con "Below Sea Level", un’inquietante canzone a cappella, che parla dell'imminente apocalisse climatica e del travolgente senso di disperazione che ne deriva. Harper utilizza voci armonizzate senza alcuna strumentazione di supporto, evidenziando il senso di terrore condiviso da tutte quelle persone che hanno paura per il futuro della terra, ma che rimangono inascoltate da chi è al potere.

Il singolo "We Need To Talk About It" si apre con un riff di chitarra funky, pedale wah wah innestato e rullanti echeggianti, mentre Harper invoca la necessità di discutere apertamente e onestamente sulla schiavitù e sul suo continuo impatto sulla società americana: sono i bianchi americani a rifuggire dal tema, che preferiscono evitare, per non ammettere che esiste un fortissimo legame che unisce lo schiavismo al movimento Black Lives Matter.

Non molla la presa, Harper, e strattona l’ascoltatore mettendolo di fronte ai problemi di un mondo che, lentamente ma inesorabilmente, si sta autodistruggendo. Il funky settantiano di "Where Did We Go Wrong" esamina le crescenti tensioni internazionali mentre la guerra non cessa e c'è una minaccia sempre più incombente che un lancio nucleare diventi, prima o poi, realtà. La traccia successiva, "Problem Child", è un blues zoppicante e inquieto, che esplora la questione della ricchezza e della distribuzione delle risorse, e che nella seconda parte acquisisce elementi jazz, pur mantenendo un mood cupo e disturbante.

"More Than Love" apre al tema dell’amore ed è un tuffo negli anni ’60, la melodia ipnotica che si srotola sulle percussioni e un bellissimo suono di chitarra. Anche la cadenzata "Smile At The Mention" e la più ritmata "Honey, Honey" parlano d’amore: la prima, riflette sul setimento come forza trainante della speranza di fronte alla travolgente incertezza dei nostri giorni, mentre nella seconda, Harper esprime il desiderio di trascorrere i suoi ultimi momenti in compagnia dei propri cari, quasi fosse un atto di ribellione in risposta a un mondo freddo e crudele.

L'album si chiude sulle note basse di "Maybe I Can't", una sorta di confessione con il cuore in mano, in cui Harper si rende conto di essere perseguitato dalle cicatrici del passato e di come il passato, inevitabilmente, segnerà per sempre il suo (il nostro) futuro.

Bloodline Maintenance è un album intenso, che trabocca di passione e che non ha paura di esaminare, senza filtri, le disfunzioni della società americana. Sembra essere pervaso da un’insormontabile senso di disperazione e da una tristezza che pare, ormai, il sentimento più presente nelle nostre vite. Eppure, Harper, in qualche modo, riesce anche a trasmettere speranza: l’incapacità di arrendersi, la forza di parlare di temi invisi al potere e la rabbia militante sono linfa vitale, sono la forza che ci permettere di prendere in mano il nostro destino e di cercare di cambiare le cose. Gran disco.

VOTO: 8 




Blackswan, lunedì 29/08/2022

giovedì 25 agosto 2022

RIDE LIKE THE WIND - CHRISTOPHER CROSS (Warner, 1979)

 


Ci sono canzoni che respirano aria di libertà, che evocano sogni di capelli al vento, che creano un immaginario di fughe, di corse a perdifiato su decapottabili che puntano dritto l’orizzonte. Una di queste è, senza ombra di dubbio, Ride Like The Wind, primo singolo pubblicato da Christopher Cross, esordio dell’omonimo cantautore, pubblicato nel 1979. Un classico del soft rock, un best seller senza tempo, che nel 1981, vinse ben quattro Grammy (primato eguagliato solo di Billie Eilish nel 2020), tra i quali quello di disco dell’anno, togliendo la palma del migliore addirittura The Wall dei Pink Floyd.

La canzone, il cui testo è declinato in prima persona, racconta la storia di un fuorilegge pluriomicida condannato, che fugge in Messico per salvarsi dalla certa impiccagione, e quindi cavalca come il vento per oltrepassare il confine, in modo che chi lo insegue non possa più arrestarlo.

Il testo fu scritto da Cross mentre si trovava in Texas e stava viaggiando sulla strada che separava Houston da Austin, un tragitto che il musicista percorse completamente strafatto di LSD.  Questa storia western, in cui il cattivo la fa franca, l’aveva in testa praticamente da sempre. Cross, infatti, era un appassionato di film e telefilm sul far west, che spesso raccontavano di fuorilegge in fuga inseguiti dallo sceriffo di turno. Il cantante, poi, viveva a San Antonio, città situata vicino al confine con il Messico, paese che nel suo immaginario di ragazzo possedeva il fascino conturbane di luogo di dissolutezza e di grandi sbornie, una sorta di zona franca su cui le autorità non avevano alcun potere.

Dal punto di vista musicale, la composizione nacque, come spesso accade, per caso, quando il giovane Cross e la sua band proponevano dal vivo Nineteen Hundred And Eighty Five, un brano dei Wings di Paul McCartney, che non riuscivano mai ad eseguire correttamente, eseguendo, nella parte centrale, sempre lo stesso errore. Ecco, quell’errore ripetuto divenne la base di partenza per Ride Like The Wind.

La canzone venne pubblicata come primo singolo dell’album, anche se la casa discografica avrebbe preferito rilasciare per prima Say You'll Be Mine. Fu il produttore di Cross, Michael Omartian, e a spingere per Ride Like The Wind. Ovviamente, ebbe ragione, e la canzone divenne un clamoroso successo, arrivando al secondo posto delle classifiche americane, battuta, successivamente da Sailing, che conquistò la prima piazza.

Nel brano, poi, è presente un cameo di Michael McDonald, corista degli degli Steely Dan, che era stato presentato a Cross dal produttore Omartian. I due si presero subito in simpatia, tanto che Christopher chiese a Michael di contribuire ai cori di I Really Don't Know Anymore. Poi, quando si accorse che a Ride Like The Wind mancava una voce per il controcanto, invitò nuovamente il suo nuovo amico a collaborare.

Del brano furono eseguite, nel tempo, diverse cover. Gli East Side Beat, nel 1991, ne fecero un remix dance, che arrivò terzo nelle classifiche inglesi, il trombettista jazz Freddie Hubbard diede il nome del brano a un suo disco del 1982, inserendo in scaletta una personale rilettura della canzone, la quale, a sorpresa, venne coverizzata, nel 1988, anche dalla heavy metal band dei Saxon.

 


 

 

Blackswan, giovedì 25/08/2022

martedì 23 agosto 2022

JOEL DICKER - IL CASO ALASKA SANDERS (La Nave Di Teseo, 2022)

 


Aprile 1999, Mount Pleasant, New Hampshire. Il corpo di una giovane donna, Alaska Sanders, viene ritrovato in riva a un lago. L'inchiesta viene rapidamente chiusa, la polizia ottiene le confessioni del colpevole, che si uccide subito dopo, e del suo complice. Undici anni più tardi, però, il caso si ripresenta. Il sergente Perry Gahalowood, che all'epoca si era occupato delle indagini, riceve una inquietante lettera anonima. E se avesse seguito una falsa pista? L'aiuto del suo amico scrittore Marcus Goldman, che ha appena ottenuto un enorme successo con La verità sul caso Harry Quebert, ispirato dalla loro comune esperienza, sarà ancora una volta fondamentale per scoprire la verità. Ma c'è un mistero nel mistero: la scomparsa di Harry Quebert. I fantasmi del passato ritornano e, fra di essi, quello di Harry Quebert.

Joel Dicker va preso così com’è, pacchetto completo, pregi e difetti. Dipende da cosa il lettore desidera: se è lo svago che cerca, è sicuramente di fronte a un campione, se, invece, vuole una letteratura di spessore, meglio che si tenga alla larga.

Il Caso Alaska Sanders è lo specchio fedele dei punti deboli e di quelli di forza dello scrittore svizzero.  Dicker, è ormai un dato consolidato, possiede una scrittura scolastica e orizzontale, è incapace di profondità, tratteggia personaggi che restano figurine sfumate e senza sostanza, scambia il tomento interiore per melodramma da foileton, zoppica, e parecchio, sui dialoghi, che sono spesso assai ovvi e banali, si muove sempre all’interno di un’immutabile comfort zone di figure femminili e borghesia medio alta, ed è di un’inaccettabile arroganza ogni volta che continua a ripeterci, attraverso il suo alter ego Marcus Goldman, che è il più grande scrittore vivente.

Eppure, Il Caso Alaska Sanders è un libro d’intrattenimento eccezionale, che ti conquista dalla prima pagina e non ti molla più, fino alla fine. Dicker, a parte i difetti citati, è un vero e proprio prestigiatore, crea trame intricate che sviluppa con acume e consapevolezza, tiene in pugno il lettore con un ritmo serratissimo e con continui colpi di scena, a volte addirittura non funzionali alla trama, e riesce a stupire, come in questo caso, disseminando indizi che verranno poi spazzati via da un imprevedibile finale. In tal senso, è un vero maestro, un affabulatore capace di renderti prigioniero di un racconto che non vorresti mai finire.

Vale la pena, quindi, comprare e leggere le seicentoventiquattro che compongono questo nuovo ponderoso romanzo? Se è il divertimento che cercate, Il Caso Alaska Sanders è il libro che fa per voi: un romanzo tanto appassionante da farvi dimenticare ogni altra cosa, tenendovi svegli la notte. Basta abbiate la consapevolezza che la lettura alta sta proprio su un altro pianeta.

Blackswan, martedì 23/08/2022

lunedì 22 agosto 2022

MANTAR - PAIN IS FOREVER AND THIS IS THE END (Metal Blade Records, 2022)

 


Il duo composto da batteria e uno strumento a corda (chitarra o basso che sia) rappresenta una proposta abbastanza famigliare nella storia musicale alternativa del nuovo millennio, e non è certo difficile citare gruppi che, negli ultimi anni, hanno avuto parecchio successo e un seguito di fan di tutto rispetto. Basti pensare, così, al volo, a band come i Black Keys, i White Stripes, i Royal Blood e i nostrani Bud Spencer Blues Explotion.

Nessuno di questi nomi, però, può vantare il carico di ferocia che grava sulle spalle dei tedeschi Mantar, una coppia di fuori di testa, composta dal cantante e chitarrista Hanno Klanhardt e dal batterista Enrinc Sakarya, giunti oggi al loro quarto album in studio. Il quale, rappresenta una svolta rispetto ai tre precedenti lavori, il sorprendente Death By Burning e gli ottimi Ode To The Flame e The Modern Art Of Setting Ablaze. Se quelli erano dischi caotici, estremi e malati, Pain Is Forever And This Is The End è un album certamente più maturo e diretto, che guarda con maggior attenzione alla forma canzone, senza tuttavia perdere un briciolo dell’impatto devastante che è il marchio di fabbrica dei Mantar.

Un disco rock, genere declinato nelle sue varie accezioni, che trova come punto di partenza il precedente EP di cover Grungetown Hooligans II, una raccolta di reinterpretazioni di grandi classici di Jesus Lizard, Sonic Youth, L7, Babes In Toyland e altri ancora. Ecco, quell’album è stato l’abbrivio per questo nuovo lavoro, uno sguardo sul passato e lo spunto su come reinterpretarlo, attraverso una sensibilità, che, mutate mutandis, resta quella dei Mantar, una band che non smette di ringhiare un solo secondo, nei suoi abiti sudici e con una rabbia che riesce a essere ancora autentica dopo ben dieci anni di carriera.

Un disco cupo, esattamente come il titolo, che evoca un periodo difficilissimo vissuto da Hanno Klanhardt, a seguito di una serie di infortuni che lo hanno costretto a lunghe degenze in ospedale, ed essenziale, perché recupera il nocciolo della forma canzone, depurandola da ogni inutile sovrastruttura, e perché si fonda esclusivamente sull’architrave di riff di chitarra scorticanti, su una batteria scalpitante e belluina e sulla voce disturbante di Klanhardt, una sorta di Kurt Cobain che si fa i gargarismi con bicchieri di sabbia.

Impianto melodico ridotto all’osso e una tirata di quarantasei minuti in cui si picchia senza posa e senza compromessi, mettendo a nudo, come un nervo scoperto, il pathos di un rock estremo e dal ghigno malvagio, che deborda nella potenza distruttiva del metal ("Egoisto"), che rimescola scorie grunge anni ’90 e death nella brutalità di "Hang ‘Em Low", che serra in una morsa d’acciaio citazioni dei Nirvana ("Odysseus"), che spinge la velocità al massimo nel convulso hardcore di Piss Ritual e che sfodera riff settantiani, portandoli alle estreme conseguenze di un assalto all’arma bianca ("Grim Reaping").

Pain Is Forever And This Is The End è un disco per palati forti, un’opera oscura e violenta, che colpisce l’ascoltatore come un uppercut in pieno mento. E’ un album, tuttavia, che dice ancora molto sulla forza propulsiva del rock, che spogliato da ogni orpello e svincolato dalle mode, riesce nuovamente ad appiccare incendi e a ritrovare la propria vera, selvaggia natura.

VOTO: 8

 


 

 

Blackswan, lunedì 22/08/2022

giovedì 18 agosto 2022

PAOLO NUTINI - LAST NIGHT IN THE BITTERSWEET (Atlantic, 2022)

 


Dalla natia Paisley fino ai palcoscenici mondiali, il viaggio intrapreso dal songwriter scozzese di origini toscane è stato ricco di soddisfazioni. Poi, dopo la pubblicazione di Caustic Love (2014), il nulla, o quasi. A parte il processo, e la successiva assoluzione, per guida in stato di ebbrezza nel 2017, Paolo Nutini ha mantenuto un profilo bassissimo, sparendo completamente dalle scene, tanto da ingenerare il sospetto che fosse andato a lavorare nel negozio di fish and chips della sua famiglia, abbandonando definitivamente la carriera musicale.

Oggi, questo nuovo Last Night In The Bittersweet, mette fine a ogni illazione e ci restituisce un artista che sembra aver fatto enormi passi avanti sotto il profilo della maturità e dell’ispirazione. Questo ritorno, dopo il lungo iato durato ben otto anni, farà, infatti, ricredere quanti avevano sempre francobollato Nutini come un idolo per adolescenti, un musicista incapace di uscire da una comfort zone di canzonette dolciastre e di facile presa (e in realtà la maturazione era in atto già nei due dischi precedenti). Il musicista scozzese, insomma, si è trasformato, non ha rinnegato completamente se stesso, ma ha aggiunto molto altro al suo bagaglio musicale, un ampio spettro di suoni e una profondità compositiva, che probabilmente solo in pochi riuscivano a intuire.

Questo nuovo Paolo Nutini si presenta con un album composto di ben 16 canzoni e per la durata di ben 70 minuti, che potrebbero essere davvero troppi, se non fosse che il cantante scozzese si è allontanato con decisione dal mood sdolcinato di primi successi, come "Last Request", e dalla frivolezza espressiva di canzoni come "New Shoes".

Non è, quindi un caso che in Last Night In The Bittersweet non ci sia alcuna forma di gratificazione immediata, che la lunga scaletta sia priva di brani di presa immediata, quelli che i fan della prima ora hanno sempre apprezzato e che spesso intasavano le stazioni radio di numerosi e continui passaggi. Fin da subito, questo album si presenta come una raccolta di canzoni che spingono in direzione opposta una dall’altra, anche se, poi, ulteriori ascolti, rivelano che c'è un metodo nella follia, un collante che tiene saldamente insieme quello che è all’apparenza un collage caotico.

I temi amorosi ritornano, e probabilmente non potrebbe essere altrimenti, anche se, in questo caso, il romanticismo sembra più diluito e molto casuale, sia che si riferisca alla realizzazione di un amore nascente ("Radio"), all'esplorazione della dolorosa vulnerabilità dei sentimenti ("Acid Eyes"), o agli inebrianti palpiti del cuore ("Everywhere", "Shine a Light" e "Take Me, Take Mine").

Se da un lato il canovaccio delle liriche resta più o meno il consueto, dall’altro, è indubbio che da un punto di vista compositivo si siano fatti passi da giganti, in una direzione tutt’altro che prevedibile.

L’opener "Afterneath" è addirittura spiazzante, un brano atmosferico, disturbante, che evoca i Led Zeppelin e fugge lontano su una solida base ritmica e sotterranee distorsioni. Chi l’avrebbe mai detto di Nutini? E invece, ecco subito la novità, la prima delle schegge impazzite di un disco eterogeneo e stranamente variopinto. "Radio" è una solida ballata rock dal retrogusto americano, la voce calda di Nutini insuffla dosi soul in due gioielli come "Everywhere" e "Through The Echoes", vari elementi mutuati dagli anni '70 lasciano il segno nella splendida "Children Of The Stars" (Fleetwood Mac) e nella calda ballata per piano e archi di "Julianne", mentre "Lose It" è un’imprevedibile e riuscita cavalcata Pasley Underground, e "Shine A Light" riesce ad evocare addirittura Springsteen. Poi ci sono i numeri folk, come "Abigail" strimpellata e agreste, e l'interludio "Stranded Words", che suona come un vecchio inno folk rarefatto, mentre un'eco di tamburi pulsa in sottofondo.

A un primo ascolto, Last Night In The Bittersweet lascia perplessi e non sembra funzionare così bene, è al contempo troppo lungo e musicalmente disarticolato per essere davvero efficace. Eppure, in qualche modo, ascolto dopo ascolto, il disco entra nel sangue e gira alla grande. Gettata la maschera di pop star e prendendosi degli azzardi, Nutini sembra aver acquisito uno spessore che precedentemente si poteva solo immaginare. Se questa è la nuova strada battuta dal cantautore scozzese, e non un episodio estemporaneo, in futuro, ne ascolteremo delle belle.

VOTO: 7,5

 


 

 

Blackswan, giovedì 18/08/2022

mercoledì 17 agosto 2022

JUMP - VAN HALEN (Warner, 1984)

 


Quando entrano in studio per registrare 1984, i Van Halen sono probabilmente la rock band americana più famosa del momento e manca davvero poco per sfondare totalmente anche a livello internazionale. Un piccolo passo ancora per la gloria eterna, che arriva con la pubblicazione del primo singolo estratto dall’album, Jump, un brano che si mangia le classifiche di mezzo mondo e che diventa, nel tempo, un evergreen intergenerazionale. Un brano pompato ed esaltante, una carica di energia da ascoltare a tutto volume, che invita a saltare di gioia proprio come suggerito dal titolo.

Un successo clamoroso, è fuor di dubbio, ma anche la canzone che scombina definitivamente gli equilibri interni della band, portando in breve tempo all’allontanamento del carismatico cantante, David Lee Roth. Perché è chiaro a tutti che il vocalist e Eddie Van Halen siano due galli in un pollaio troppo piccolo, e che entrambi sgomitino per prendere in mano le redini artistiche del gruppo. Jump, rappresenta, in tal senso, il perfetto punto di rottura fra le due personalità, la classica goccia che fa traboccare il vaso e volare gli stracci.

Perché a David, che si sente rocker a tutti gli effetti e che ha coltivato con cura la sua immagine di bello e dannato, non vanno proprio giù le velleità sperimentali del chitarrista, che virano verso il pop e si portano appresso i suoni sintetici del sintetizzatore Oberheim OB-Xa, che marchia a fuoco le sonorità molto pompate del singolo. Una svolta decisa, che i fan della prima ora accettano di buon grado, ma che il cantante non riesce a tollerare, anche perchè Eddie, per l’occasione, inaugura i propri studi di registrazione, i 5051 Studios, allargando così la propria sfera di influenza nella band, e facendo infuriare anche il produttore dell’epoca, Ted Templeman, che, dopo tanto mediare fra i due, si schiera apertamente a favore di Roth.

Ma c’è di più. Per lanciare la canzone, la band lancia un video, di basso budget ma di grande successo. Il filmato, girato in 8 millimetri da Pete Angelus, agli occhi moderni sembra quasi ridicolo, ma ai tempi rappresentava una piccola rivoluzione, fissando gli standard per i video di performance a basso costo. Le dinamiche di realizzazione erano molto semplici: Angelus filmava la band facendole eseguire fittiziamente il brano, più e più volte, e i membri vennero così filmati mentre eseguivano mosse casuali sul palco, senza la pretesa di suonare effettivamente la canzone (in certi momenti, Eddie suona la chitarra anche se la chitarra non si sente).

Il video, prodotto da Robert Lombard, voleva, quindi, mostrare il lato più personale dei Van Halen mentre si divertivano sul palco. Roth, il cui ego era, per così dire, estremamente esuberante, voleva, tuttavia, che la performance fosse interrotta da filmati di lui che lo riprendessero singolarmente rispetto agli altri membri. Venne, quindi, immortalato mentre faceva cose come guidare una motocicletta o farsi arrestare mentre indossava nient'altro che un asciugamano. Lombard, però, dopo aver accontentato il cantante, non utilizzò alcuno di questi filmati extra di Roth, portando a Eddie e Alex (Van Halen) il video per l'approvazione. Due giorni dopo, il manager della band lo licenziò per aver raggirato Roth, il quale se la legò al dito.

Il cantante diede, nel tempo, differenti versioni sul significato delle liriche della canzone. Raccontò di aver scritto il testo mentre girava per Los Angeles a bordo della sua Mercury decapottabile del 1951, ispirato dalla bellezza di una spogliarellista o, nella versione più accreditata, colpito da un notiziario televisivo in cui un uomo minacciava di lanciarsi dal tetto di un edificio.

E’ per questo motivo che il brano, nel gennaio del 2010, tornò alla ribalta riempiendo i tabloid americani, a causa della scelta inappropriata di un dj, Steve Penk, che passò la canzone alla radio nel peggior momento possibile. Penk, infatti, ricevette la telefonata di un ascoltatore bloccato nel traffico sulla M60 (autostrada del Michigan), che richiedeva di ascoltare proprio Jump. Penk la passò, senza sapere che l’autostrada era bloccata perché una donna minacciava di buttarsi da un ponte e la polizia da ore stava cercando di farla desistere. Il fato volle che Jump passò nell’attimo esatto in cui l’aspirante suicida si gettò. Fortunatamente, la donna, nonostante le gravissime fratture riportate, sopravvisse. Ma Penk, pur senza colpa, passò una bruttissima settimana.

 


 

Blackswan, mercoledì 17/08/2022

 

martedì 16 agosto 2022

ZZ TOP - RAW (BMG, 2022)


Raw è un nuovo album live della formazione originale degli ZZ Top (Billy F Gibbons, Frank Beard e il compianto Dusty Hill), suonato ad hoc per una singolare circostanza. Il disco, infatti, è stato registrato alla Gruene Hall in Texas, come colonna sonora del documentario, nominato ai Grammy, ZZ Top: That Little Ol' Band dal Texas. Pubblicato da Banger Films, il film offre uno spaccato della storia della classica incarnazione della band. Il regista canadese del film, Sam Dunn, ha cercato il giusto approccio per trasmettere visivamente il modo in cui gli ZZ Top hanno realizzato i loro album a inizio carriera, quando tutti e tre i membri si chiudevano nella stessa stanza per dare sfogo alla creatività e registrare.

La classica ambientazione honky-tonk di Gruene Hall, fondata nel 1878, è stata scelta come location suggestiva per questa sessione di registrazione, in cui la band, dopo tanti anni di successi, ritrova la sua versione più autentica e orientata alle radici, che è poi quella raccontata nel documentario. Un’idea semplice, ma al contempo efficace: celebrare le origini dell’iconica band texana, tenendosi lontani dal circuito rutilante dal classico show eseguito davanti a migliaia di persone, per ricreare la magia e la libertà espressiva di quei giorni, in cui si stava creando una delle leggende rock più amate dal pubblico americano, e non solo.

La Gruene Hall, la più antica sala da ballo del Texas, è stata scelta, quindi, come sfondo adatto per replicare la suggestione di un ritorno agli esordi e, come per miracolo, la band si è rituffata nel proprio passato, ritrovando un suono crudo, diretto, sanguigno e graffiante. Questa jam, che si percepisce essere figlia dell’improvvisazione e di una ritrovata voglia di divertirsi e di stare sugli strumenti, mentre il sudore scorre abbondante e l’energia è quasi fisicamente palpabile, è diventata la colonna sonora del film, ma anche un prezioso documento audio, per la gioia dei milioni di fan, che ritroveranno il suono di dischi memorabili come Rio Grande Mud (1972) e Tres Hombres (1973).

Le dodici tracce in scaletta includono "Certified Blues", tratta dal primo album degli ZZ Top datato 1971, così come "La Grange", il più grande successo della band risalente al 1973, e poi, "Tush", "Gimme All Your Lovin'", "Legs" e altri eterni brani presi dal songbook dei texani. Un disco imperdibile per i fan di lunga data, ma anche l’occasione per scoprire una delle band più longeve e iconiche del blues rock a stelle e strisce.

VOTO: 7,5 




Blackswan, martedì 16/08/2022

 

venerdì 12 agosto 2022

NEIL YOUNG - TOAST (Reprise, 2022)


 

Quanto siano profondi e ricchi gli archivi di Neil Young è una domanda a cui probabilmente non potremo dare mai una risposta. Quel che è certo è che il vecchio canadese, continua ad attingervi e a pubblicare dischi in quantità industriale, tanto che, anche un vecchio fan incallito come il sottoscritto, ha finito per perdere il conto, anche solo delle uscite dell’ultimo anno.

Toast è un disco risalente a più di vent’anni fa, quando Young, nell'autunno del 2000, con in animo di dare sfogo alla creatività elettrica dei suoi Crazy Horse, iniziò a registrare un pugno di canzoni presso gli ormai fatiscenti Toast Studios (da qui il titolo) di San Francisco. Non un gran periodo per il vecchio canadese, la cui relazione con la moglie Pegi era ormai al tracollo, circostanza che trasformò questi brani, dal minutaggio ponderoso e dalla struttura scarna e grezza, in qualcosa di estremamente doloroso, qualcosa di così intimo e lacerante da essere considerato inadatto alla pubblicazione.

Fino a oggi, almeno, quando la scaletta completa di Toast è stata riesumata e ripubblicata, dopo aver preso vent’anni di polvere negli infiniti sotterranei di casa Young. Un disco importante, certo, nella ricostruzione del lungo percorso artistico del grande canadese, ma anche un’opera discontinua, non del tutto centrata, anche se, sicuramente, assai appetibile per gli amanti del suono Crazy Horse. Alcuni dei brani presenti in Toast, meglio precisare, furono riproposti, qualche tempo dopo, nel disco Are You Passionate? (2002).

Uno di questi, "Quit", apre l'album creando una trasandata e rilassata atmosfera soul: un inizio piacevole ma poco coinvolgente e privo digrande incisività. Completamente all’opposto, il secondo brano in scaletta, "Standing In The Light of Love", mostra i muscoli attraverso il ringhio di chitarra e la voce tirata di Neil. Un brano quasi hard rock, grave e carico di elettricità, nella miglior tradizione Crazy Horse. Un'altra canzone ripresa da Are You Passionate? è "Goin' Home", una grintosa cavalcata costruita su chitarre nodose, che non suona molto diversa dalla sua incarnazione del 2002, ma che si distingue comunque per il riff sporco, graffiante, cupo, la ritmica quadratissima e i soliti assoli di Neil, parchi di note e incisivi.

Il passo pesante e gli abiti sudici di "Timberline", e i dieci minuti abbondanti di "Gateway Of Love", suonano esattamente come dovrebbero suonare dei brani dei Crazy Horse, anche se la seconda è più una sorta di jam a briglia sciolta, un canovaccio su cui sbizzarrirsi, libero nella forma e senza una precisa destinazione. "How Ya Doin?" è una riproposizione un po’ più ruvida di "Mr. Disappointment", mentre "Boom Boom Boom" è una versione ancora più lunga (ben tredici minuti) di "She’s a Healer", un altro brano che assume i connotati di jam, ottimo nelle finiture di chitarra, ma francamente troppo ripetitivo e abbastanza noioso.

Insomma, Toast è un disco che suona ondivago, che si muove per cinquantadue minuti fra alti e bassi, che regala cose preziose e altre sostanzialmente inutili. Il classico album imperdibile solo per i completisti dello zio Neil. Per tutti gli altri, assolutamente prescindibile.

VOTO: 6,5

 


 

 

Blackswan, venerdì 12/08/2022

giovedì 11 agosto 2022

JOURNEY - DON'T STOP BELIEVIN'' (Columbia, 1981)

 


Non è la canzone dei Journey che ha venduto di più, ma è sicuramente quella che può vantare lo status di ever green. Don’t Stop Believin’, traccia di apertura di Escape, nono album della band californiana, è un brano dalla struttura anomala, praticamente unica. Se, infatti, nella quasi totalità del pop/rock, il ritornello viene ripetuto più volte nel corso del minutaggio, in Don’t Stop Believin’ arriva solo alla fine, a circa tre minuti e venti secondi dall’inizio. Una sequenza particolare che si sviluppa così: strumentale, prima strofa, strumentale, seconda strofa, pre-ritornello, strumentale, terza strofa, pre-ritornello, strumentale, e infine il ritornello, fino alla dissolvenza in chiusura.

Nella frase “Strangers waitin', Up and down the boulevard” (“Stranieri in attesa, su e giù per il Boulevard“) è racchiusa la genesi del brano. Il Boulevard è, infatti, un esplicito riferimento al Sunset Boulevard di Hollywood, il luogo in cui, in quegli anni, i musicisti (e non solo) realizzavano (o cercavano di realizzare) i propri sogni. L’idea per la canzone venne al tastierista Jonathan Cain, che si era trasferito a Hollywood in cerca di successo. Le cose, però, non andavano affatto bene, e la possibilità di fare carriera era solo un lontano miraggio. Jonathan ricorda che in quei momenti difficili parlava spesso con il padre, chiedendogli se non fosse il caso di fare ritorno a casa, a Chicago, e mollare tutto. E il padre, gli rispondeva sempre: "No, figliolo. Mantieni la rotta. Hai una visione. Accadrà. Non smettere di crederci.". Ovviamente, accadde e Cain divenne il tastierista dei Journey.

Durante una prova del gruppo, il riff della canzone sgorgò improvvisamente e Cain suggerì che ben si poteva adattare alla sua esperienza di vita a Hollywood, invitando il cantante Steve Perry (coautore del brano insieme a Cain e al chitarrista Neal Schon) a scrivere un testo che parlasse di tutti i sognatori che sognavano di diventare attori, produttori, artisti, avvocati, e che bazzicavano il Sunset nel fine settimana. Nacque così, quel bellissimo verso, scritto da Perry, in una stanza d’albergo a Detroit: “Stranieri in attesa, su e giù per il viale, Le loro ombre che cercano nella notte, Gente lampione, che vive solo per trovare emozioni, Nascoste, da qualche parte nella notte”.

La canzone, come scritto, non ebbe un grande successo commerciale, ma divenne popolare più avanti, quando nel 2003, venne inserita nella colonna sonora di Monster, film per la regia di Patty Jenkins, basato sulla vera storia della serial killer Aileen Wuornos, interpretata da Charlize Theron, vincitrice anche di un premio Oscar. Don’t Stop Believin’ fu inserita nella sequenza in cui la Wuornos e Selby Wall (interpretata da Christina Ricci) stanno pattinando, e sulle note del brano, capiscono di essere innamorate e finiscono per baciarsi fuori dalla pista. L'uso della canzone in questa scena adorata dalla critica, attirò l’attenzione dei media, e da quel momento furono tantissime le richieste per inserire Don’t Stop Believin’ in film, pubblicità e programmi TV.

Negli Stati Uniti, la canzone è tornata in auge di recente, durante la pandemia del 2020, in quanto alcuni ospedali usavano Don’t Stop Believin’ come inno d’incoraggiamento per i pazienti che si stavano riprendendo dal COVID-19 e per coloro che li curavano. Il New York-Presbyterian Queens Hospital, ad esempio, ha suonato Don't Stop Believin' in tutto l'edificio, ogni volta che dimetteva un paziente affetto da coronavirus.

 


 

 

Blackswan, giovedì 11/08/2022

martedì 9 agosto 2022

ROLLING BLACKOUTS COASTAL FEVER - ENDLESS ROOMS (Sub Pop, 2022)

 


Con la pubblicazione del terzo album in studio, l’impressione era che qualcosa potesse cambiare, che questo nuovo Endless Rooms avrebbe visto Rolling Blackouts Coastal Fever intraprendere un nuovo percorso artistico. Forse era la splendida atmosfera notturna dell'artwork di copertina, a indurre a nuove sensazioni, e a evocare un mood in netto contrasto con il divertissement da spiaggia assolata che aveva caratterizzato i primi due full-lenght del gruppo. O forse, semplicemente, visto che il secondo disco degli RBCF, Sideways To New Italy, rappresentava un passo di lato, invece che avanti, rispetto allo splendido esordio Hope Downs, di cui aveva riproposto le atmosfere, senza possederne, però, lo stesso irresistibile fascino, era plausibile che il gruppo australiano cercasse nuove direzioni verso cui portare il proprio progetto.

In realtà, Endless Rooms è, per gran parte delle canzoni in scaletta, un album che vede il quintetto navigare nelle stesse affidabili acque di sempre: jangle pop e indie rock tintinnante, attraversati dalla leggerezza del divertimento e illuminati da raggi di sole che evocano scenari estivi. In tal senso, questo è un lavoro prevedibile, che ripropone, a volte anche bene, i medesimi ganci melodici contagiosi (la contagiosa "The Way It Shatters") che avevano reso memorabili alcuni brani del passato più o meno recente. La maggior parte delle canzoni in scaletta, quindi, ripropone, senza deviazioni, una formula tanto affidabile quanto piacevole.

Tuttavia, qui e là, la band trova anche il coraggio di scartare dall’ovvio e proporre piccole variazioni sul tema, che sono poi quelle che rendono l’ascolto di Endless Rooms decisamente più intrigante. Una piccola apertura strumentale, senza precedenti nella discografia del gruppo, posta a inizio album ("Pearl Like You"), l’incedere trasognato di "Caught Low", il cui irresistibile luccichio melodico si pone a metà strada fra dream pop e americana, le atmosfere deliziosamente scazzate di "Open Up Your Window", l’inaspettata "Saw You At The Eastern Beach", che ammicca a sonorità vagamente post punk (anche se le tenebre sono tenute ben lontano) o i riverberi psichedelici della title track, sono spezie inaspettate di un piatto, altrimenti, dai sapori ben definiti. Insomma, piccoli scarti dal consueto, che mostrano il potenziale di una band che sarebbe, probabilmente, in grado, di muoversi anche in una direzione più atmosferica e psichedelica.

Il risultato complessivo non stupisce, certo, ma regge il confronto con i dischi precedenti e, per quanto questo possa essere considerato un album di transizione, è comunque difficile non essere sedotti dalla freschezza di melodie che, spesso e volentieri, fanno immediatamente breccia. Ciò premesso, si può discutere sul futuro di una band che forse potrebbe uscire dalla propria comfort zone e trovare un diverso approccio espressivo. In Endless Rooms alcune idee nuove hanno iniziato a prendere forma e lasciano intravvedere percorsi altri e decisamente intriganti. Occorrerà attendere il quarto disco per capire effettivamente di che pasta sono fatti questi cinque ragazzi, che amano le chitarre, le melodie sbarazzine e la leggerezza di una giornata di sole. Per il momento, teniamoci questo pugno di canzoni che hanno il merito di portare un po' di freschezza nel clima torrido di quest’estate senza fine.

VOTO: 7

 


 

 

Blackswan, martedì 09/08/2022

lunedì 8 agosto 2022

THE ROLLING STONES - LICKED LIVE IN NEW YORK CITY (Mercury/Universal, 2022)

 


Licked Live in New York, registrato dal vivo al Madison Square Garden nel gennaio 2003, rappresentò, all'epoca, un evento straordinario, in quanto parte di un tour mondiale, che generò 117 spettacoli per celebrare il 40° anniversario della band. Non sorprende che fossero ancora al top della forma; dopotutto, gli Stones non sono solo una macchina ben oliata, ma anche apparentemente invincibile. La cosa più impressionante è che non solo sono stati così formidabili per quattro decenni interi, ma ora, circa vent’anni dopo, sono ancora inarrestabili. Come sempre lo sono stati.

Se uno dovesse giudicare l’interesse per questo live semplicemente dalla forza della scaletta, che include standard senza tempo come "Street Fighting Man", "Start Me Up", "Honky Tonk Woman", "It's Only Rock and Roll (But I Like It)", "Angie", "Let It Bleed" e, naturalmente, "Satisfaction", probabilmente lo troverebbe scontato e superfluo. D’altra parte, i Rolling Stones, seppur immarcescibili (e forse proprio per questo), sono tutt’oggi un gruppo piuttosto prevedibile. Si sa cosa aspettarsi da loro prima che le luci si accendano e la band inizi a sgambettare sul palco. Di conseguenza, nonostante una miriade di album dal vivo pubblicati nel corso della loro carriera, c'è una coerenza espressiva che non prevede molti cambiamenti, a parte i luoghi e le date in cui è stato registrato un dato concerto. Sembra assurdo, ma per la maggior parte della scaletta, a parte l'inclusione di alcune canzoni più recenti, Licked Live in NYC e Get Yer Ya Yas Out (1970) hanno molto più in comune di quanto l'arco di trentadue anni potrebbe suggerire.

Naturalmente, ci sono alcuni episodi che permettono di collocare il live negli anni in cui è stato suonato e che introducono qualche piccola novità rispetto al consueto. Charlie Watts e il sassofonista Bobby Keys erano ancora vivi e in forma decisamente smagliante. La perdita di Watts, in particolare, aggiunge una certa tristezza in retrospettiva, ma detto questo, gli Stones non sono mai stati una band che suscita nostalgia. Perché, molto semplicemente, sono. Ancora. A dispetto di tutto.

Quindi, è inevitabile che assaporare questo concerto di vent’anni fa, tramite il cofanetto di due CD/Dvd (che include anche tre bonus track registrate dal vivo ad Amsterdam, filmati delle prove, il documentario Tip of the Tongue e filmati aggiunti nel backstage) o semplicemente nel formato audio di due cd, produca ancora eccitazione ed entusiasmo, anche in quei fan che posseggono proprio tutto della band.

Anche perché, come sempre, nonostante una scaletta prevedibilissima, è tutta una questione di atteggiamento, di come la band sta sul palco, di quanta energia emana (e qui, vi assicuro, ne troverete tantissima), della convinzione con cui suona. Ci sono anche sorprese musicali estemporanee: il duetto sfacciato e frizzante di Sheryl Crow con Jagger in Honky Tonk Women e la prova solista di Richards sul lento "Thru and Thru", una traccia da Voodoo Lounge, eseguita molto raramente.

Sulla scia di Live At The El Mocambo, un set storico che scava ulteriormente negli archivi degli Stones, Licked Live a New York potrebbe essere considerato l'ennesimo collegamento a un'eredità che continua a girare molto più a lungo di quanto chiunque avrebbe potuto immaginare. Il fatto che Mick e Keef siano alla vigilia di compiere 80 anni e ancora determinati come sempre a suonare sui palchi di mezzo mondo, è di per sé sbalorditivo. E se è vero che Licked Live offre un ulteriore prova della loro immortalità, anche il fatto che quasi vent’anni dopo questi ingrigiti ragazzacci non trovino motivo per smettere, è in qualche modo rassicurante. Perché, di sicuro, ci saranno altri live per la felicità di chi non ha mai smesso e non smetterà mai di amarli.

VOTO: 8

 


 

 

Blackswan, lunedì 08/08/2022