giovedì 16 maggio 2024

I'Ve Seen All Good People - Yes (Atlantic, 1971)

 


 

Una canzone splendida, una delle più belle mai scritte dagli Yes e fiore all’occhiello del loro terzo disco, The Yes Album, pubblicato nel febbraio del 1971. Non è, però, solo l’avvincente melodia a renderla una canzone speciale, quanto, semmai, il contenuto lirico, denso di riflessioni e di interessanti rimandi.

I’ve Seen All Good People è, in primo luogo, una canzone contro la guerra, e il titolo si riferisce a tutti gli esseri umani, compresi quelli che vengono ritenuti nemici. La canzone usa la metafora degli scacchi per riflettere sui comportamenti umani, quelli che portano ai conflitti e all’odio. Ecco, allora, che leggendo il testo si può considerare la frase "Non circondarti di te stesso", come un riferimento all’alterigia e all’ipocrisia umana, mentre "Muoviti indietro di due caselle" è un termine degli scacchi che significa ritirarsi e riconsiderare la propria posizione. Il testo, inoltre, fa anche riferimento alla regina, che è il pezzo degli scacchi più versatile e potente, e suggerisce di come le notizie vengano utilizzate dalla sovrana per prendere il controllo e manipolare le sue truppe, istillando odio nei confronti del nemico di turno. La guerra, insomma, è come una partita a scacchi.

La canzone, in tal senso, vuole suggerire agli esseri umani che c'è di più nella vita oltre alla guerra e all’odio religioso e razziale. Riflettete, perché siete tutte delle brave persone, che possono vivere in pace e essere sereni grazie al potere della musica, che vi rende felici e illumina la vostra strada verso il bene. La musica è il fulcro di tutto, la musica che unisce le persone, avvicinandole con un’invincibile energia magnetica.

Non solo. Per Anderson, autore della prima parte del brano, il gioco degli scacchi rappresenta una metafora delle sfide spirituali dell’esistenza. La vita, in definitiva, è un gioco di situazioni strategicamente posizionate che ti vengono presentate, e devi imparare a convivere con loro, perché ciò che conta davvero è l'idea che siamo circondati da uno spirito o da un dio o da un’energia soprannaturale, con cui dobbiamo entrare in sintonia per poter comprendere chi siamo veramente.

Ma c’è di più. La frase "Inviami un karma immediato, inizializzalo con amorevole cura” fa riferimento a Instant Karma, una canzone registrata da John Lennon un anno prima. Lennon ha avuto una grande influenza sugli Yes, che hanno interpretato la canzone dei Beatles "Every Little Thing" nel loro primo album. Inoltre, il verso "Ricorda solo che l'oro serve a noi per catturare tutto ciò che vogliamo” contiene un esplicita posizione politica, perché si riferisce ai ricchi e potenti che vittimizzano i deboli e i poveri, privandoli della speranza.

La canzone, come detto poc’anzi, è divisa in due sezioni, e cioè Your Move e All Good People, che hanno complessivamente una durata di sei minuti e cinquantacinque minuti. Negli Stati Uniti, però, il brano venne pubblicato in una versione ridotta, che comprendeva sola la prima parte e che venne data alle stampe con il titolo Your Move (I've Seen All Good People). Questa versione rimaneggiata fece storcere il naso, e non poco, al cantate Jon Anderson, che la trovava completamente sconnessa dalla versione originale, anche se poi il brano, in questa nuova veste, raggiunse la posizione numero 40 delle chart statunitensi, trasformandosi nel primo successo oltre oceano degli Yes.

 


 

Blackswan, giovedì 16/05/2024

martedì 14 maggio 2024

Pet Shop Boys - Nonetheless (Parlophone, 2024)

 


Classici, classicissimi, immarcescibili come tutte le cose buone che resistono alle angherie del tempo, all’effimera vacuità delle mode, alle rivoluzioni della società. E ci fanno stare bene, benissimo, toccando le corde della nostalgia e accarezzando le nostre orecchie stanche, bisognose di musica di qualità. I Pet Shop Boys mettono in moto la loro ancora scintillante macchina del tempo, e arrivano fino a noi, per insegnare ai comuni mortali come si scrive la perfetta canzone synth pop.

Un suono famigliare, immediatamente riconoscibile, sciccosamente vintage, eppure così incredibilmente moderno. Sarà la scarsa obiettività del fan, o il desiderio, impossibile da sopprimere, di vedere l’effetto che fa tornare ragazzini, quando ormai ci si è inoltrati nell’autunno della vita. E provare le stesse emozioni di quando mettevamo sul piatto dischi epocali come Actually o Introspective.

A prescindere, tuttavia, dalle inevitabili pulsioni passatiste, e rivestendo gli abiti dell’obiettività, queste dieci canzoni, che prendono alternativamente le sembianze di inni dance e ballate romantiche, sono di qualità eccelsa, tanto da sorpassare per ispirazione quelle contenute nel precedente e ottimo Hotspot (2020).

Un disco, Nonetheless, che prende anche posizioni su temi sociali e politici, e che celebra quelle emozioni, uniche e diverse, che rendono gli esseri umani un sistema complesso, affascinante e ricco di sfumature.

Che i due “ragazzi” londinesi siano in forma smagliante lo si capisce subito dall’iniziale "Loneliness", in cui Tennant invita esplicitamente a rompere tutte le catene autoimposte dalla solitudine (e dalla diversità) per svelarsi, uscire alla luce e vivere la propria esistenza con pienezza. Siamo di fronte a una canzone che si posiziona tra i grandi classici della band, un sublime connubio in cui convivono ritmica house, struggente malinconia e un ritornello che spappola il cuore. La mano calibratissima di James Ford (Depeche Mode, Blur, etc) veste la canzone (e l’intero disco) di arrangiamenti scintillanti, asciugando certi eccessi barocchi e plasmando l’elettronica con elementi classici (archi, ottoni), per mettere in risalto l’aspetto più squisitamente romantico e malinconico della scrittura.

La successiva "Feel" mantiene altissima l’asticella dell’ispirazione grazie a una melodia leggera, a tratti incorporea, e a un riuscitissimo gioco di sovrapposizioni vocali. Dopo un inizio così emozionante è evidente il motivo per cui Tennant e Lowe siano ancora sulla cresta dell’onda dopo quasi quarant’anni di attività; e anche quando il duo si abbandona a qualche deriva “tamarra”, come nell’europop di "Why Am I Dancing?", lo fa con una classe e un eleganza uniche, che rende l’eccesso un riuscito esercizio di stile.

Consapevoli dell’ormai acquisito status di leggende pop, eppure sempre lontani dalle pose dello star system, Tennant e Lowe apparecchiano un disco con il loro consueto stile, alternando, come dicevamo, brani dance a ballate umorali e radiofoniche, tenendo i piedi ben piantati negli anni ’80 e gettando talvolta lo sguardo a dare un’occhiata nel decennio successivo. Ma non c’è un filo di ruggine, né cali di tensione, nè usura: tutto suona fresco e immediato, e stupisce trovarsi di fronte a un filotto di canzoni, più o meno tutte, dello stesso livello. Niente che sia nuovo e che non sia già stato ascoltato, ovviamente, e né si registrano tentativi di modernizzare l’approccio, cosa che, crediamo, finirebbe per togliere spontaneità a un suono che è ormai un marchio di fabbrica.

E allora, abbandoniamoci alla nostalgia carezzevole di "New London Boy", il cui rap richiama alla memoria addirittura "West End Girls", o alla ritmica pulsante di "Dancing Star", ispirata alla vita del ballerino Rudolf Nureyev, che scappò dall'Unione Sovietica e divenne una star mondiale, un brano che invita al dancefloor con una melodia che se ti acchiappa non ti lascia più andare.

C’è anche tempo per commuoversi, e quando parte "A New Bohemia", è quasi inevitabile, una lacrima scende a rigare dolcemente le guance. Una canzone immensa, così sfacciatamente smaccata nei suoi intenti romantici da lasciare senza fiato: melodia angelica e arrangiamento d’archi vellutato, che sfocia in un finale i cui languori orchestrali evocano il grande Burt Bacharach. Un brano che è sostanza, ma anche estetica, e che veste quella malinconia dandy che da anni è il fiore all’occhiello dei Pet Shop Boys: il tempo della notte si è consumato, l’ultima sigaretta lascia che un filo di fumo lambisca gli occhi arrossati, mente lo sguardo si spinge là in fondo, dove un timido albeggiare delinea i contorni dell’orizzonte.

Tuttavia, il fil rouge che lega insieme il disco è, a ben vedere, un incrollabile senso di ottimismo per un futuro migliore, come catturato nel pop in purezza di "The Schlager Hit Parade", o nel commovente finale di "Love Is The Law", una ballata stellare che chiude il disco, con eleganza e tensione, un omaggio al “carpe diem”, che veicola intense suggestioni edoniste: “Giorni così felici trascorsi nell'ozio, Adesso il mare è caldo e il vino è giovane, La sera porta l'azione e l'attrazione principale. L'amore è uno stato d'animo E un lapsus… L’amore è la legge a cui bisogna obbedire”.

Nonetheless non suggella solo il ritorno sulle scene di due inossidabili demiurghi del pop, ma in un’ipotetica classifica dei dischi migliori dei Pet Shop Boys, si attesta fra le primissime posizioni. Non lasciatevelo sfuggire. 

Voto: 8,5

Genere: pop




Blackswan, martedì 14/05/2024

lunedì 13 maggio 2024

The Black Keys - Ohio Players (Nonesuch Records, 2024)

 


Dopo un decennio di carriera in cui i Black Keys hanno vestito i panni un po’ stretti di band di culto, il loro sesto album, Brothers del 2010, e il successivo El Camino (2011), hanno spinto il duo composto da Dan Auerbach e Patrick Carney in un'altra dimensione (grazie anche alla super hit Lonely Boy). Non un successo tale da elevarli a fenomeno di prima grandezza, ma sicuramente un’esposizione mediatica che ha alzato notevolmente l’asticella delle aspettative verso la band originaria dell’Ohio. Tanto che, i numerosi elogi ricevuti sembravano quasi aver colto di sorpresa i Black Keys, che, da quel momento, hanno cercato di espandere la loro tavolozza musicale, senza, tuttavia, allontanarsi troppo dal rock blues sanguigno degli esordi.

Se i lavori successivi mostravano anche inclinazioni diverse (con frequenti aperture verso il southern soul), senza tuttavia mai stupire veramente, Delta Kream (2021) ha portato freschezza nella loro produzione, come talvolta riescono a fare i dischi di cover. Venuta meno la pressione derivante da scrivere canzoni originali, la coppia sembrava riscoprire la gioia di suonare, sic et simpliciter.

Il successivo Dropout Boogie (2022), che ha ricevuto due nomination ai Grammy, ha visto la band apliare il raggio d’azione grazie al contributo di alcuni ospiti, cosa avvenuta anche in questo Ohio Players, in cui, forse, per la prima volta, lo spettro espressivo della band si fa decisamente più ampio all’interno anche della stessa scaletta.

Ad affiancare il duo, questa volta, ci sono Noel Gallagher e Beck, due pezzi da novanta, che hanno inciso in modo evidente nella scrittura dei brani. Noel Gallagher, un musicista che non è certo noto per il suo spirito collaborativo, ha co-scritto tre canzoni (registrate in altrettanti giorni ai Toe Rag Studios di Londra): la scattante "You'll Pay", groove r’n’b e deliziose chitarre surf-rock, la martellante "Only Love Matters" e la ballata in mid tempo "On The Game", forse la più distintiva del songwriting dell’ex Oasis, con quello spiccato retrogusto lennoniano che attraversa i quattro minuti del brano.

E’ soprattutto Beck Hansen, però, ad avere un posto di rilievo in tutto l’album, con le sue impronte digitali che lasciano tracce su ben sette canzoni. Lo troviamo a cantare spavaldo su "Paper Crown", un trascinante ibrido funky rap, e a metter mano, ad esempio, nell’eccellente "Live Till I Die", che combina rock psichedelico con le classiche e sontuose armonie a la Beck, e nella traccia d’apertura, "This Is Nowhere", uno dei brani più pop mai scritti dai Black Keys, grazie a un ritornello appiccicoso e a quei sintetizzatori che si insinuano sornioni nelle trame della ritmica.

Se "Don't Let Me Go" si immerge nel soul degli anni '60 e '70, così come la cover con arrangiamento d’archi di "I Forgot to Be Your Lover" di William Bell, in alcune occasioni riemergono dal passato anche i Black Keys del primo decennio, grazie al trascinante rock blues di "Please Me (Till I'm Satisfied)", la splendida ballata "Free Tree" e la pulsante "Read Em and Weep", in equilibrio fra ruvidezza garage rock e languori western.

Manca da citare anche "Candy And Her Friends", il cui ritornello clamorosamente malinconico evapora inaspettatamente in una seconda parte di canzone in cui il protagonista diventa il rapper Lil Noid, dando vita a un connubio straniante ma decisamente riuscito.

Come spesso accade nei dischi dei Black Keys, Ohio Players è un disco più lungo del necessario, che perde un po’ di appeal nella seconda parte, pur mantenendo un buon livello d’ispirazione. La struttura dei brani, che ruotano intorno all’ossatura ritmica di Carney, è collaudatissima, ma più che in altre occasioni i numerosi ganci melodici sono tutti di prim’ordine. Il breve minutaggio delle canzoni (molte sotto i tre minuti di durata) e la vasta gamma espressiva rendono l’ascolto piacevole e divertente, restituendo ai fan una band in forma come nei suoi giorni migliori.

Voto: 7,5

Genere: Rock, Blues, Soul

 


 

 

Blackswan, lunedì 13/05/2024

giovedì 9 maggio 2024

Juan Gomez-Jurado (Fazi, 2023)

 


Il dottor Evans è uno dei migliori neurochirurghi d’America, ma è prima di tutto un padre. Una sera, tornando a casa dal lavoro, si accorge subito che qualcosa non va. L’abitazione è vuota. Sua figlia Julia, sette anni, è scomparsa. Nel giro di poco, l’uomo si scopre vittima di un ricatto terrificante: se il suo prossimo paziente uscirà vivo dalla sala operatoria, la sua bambina morirà per mano di uno psicopatico. E il suo prossimo paziente non è un uomo qualunque: la persona che Evans deve uccidere se vuole rivedere sua figlia è il presidente degli Stati Uniti. Alla fatidica operazione mancano soltanto sessantatré ore, sessantatré ore che potrebbero cambiare il destino di milioni di persone. Inizia così un disperato conto alla rovescia. Fino a che punto si può arrivare per salvare una persona amata? Con la consueta maestria, Gómez-Jurado dà vita a un nuovo, avvincente intrigo che conquista il lettore a partire dalle prime pagine senza lasciargli più un attimo di tregua. Un ritmo frenetico, un senso dell’umorismo unico, una trama perfettamente congegnata: Juan Gómez-Jurado è tornato.

Sessantatre ore. E’ questo il tempo che a disposizione di Dave Evans, uno dei più prestigiosi neurochirurghi d’America, per prendere una decisione che, comunque la si veda, avrà esiti esiziali per il suo futuro. Sua figlia Julia, infatti, è stata rapita da uno psicopatico che si fa chiamare Mr.White (figura ricorrente nei romanzi dello spagnolo), il quale, in cambio della liberazione della bambina, pretende che Evans uccida, durante una delicata operazione programmata, il suo prossimo paziente: il Presidente Degli Stati Uniti. Inizia così una lotta contro il tempo, in cui il chirurgo, aiutato dalla cognata Kate, un agente dell’FBI, da sempre segretamente innamorata di lui, dovrà riuscire a salvare la sua piccola ed evitare di commettere l’eclatante omicidio.

Chi conosce Juan Gomez-Jurado, sa esattamente cosa aspettarsi dallo scrittore iberico, che non sbaglia mai un colpo, tenendo il lettore incollato alle sue storie fino all’ultima pagina. Non fa eccezione Il Paziente, adrenalinico thriller, avvincente e ricco di colpi di scena, che porta la sua trama serratissima all’interno delle mura di un ospedale.

In tal senso, come di consueto, stupisce la meticolosità con cui Gomez – Jurado costruisce l’intreccio. Se La Cicatrice approfondiva il tema dei reati informatici e delle startup, ne Il Paziente si viene catapultati nel mondo della neurochirurgia, descritto con una dovizia di dettagli e approfondimenti tecnici, che viene da dubitare che lo scrittore non sia a sua volta un medico e non un romanziere.

Il ritmo è alto, ma non mancano, tuttavia, digressioni che servono a dare sostanza ai personaggi, anche a quelli di contorno (la moglie di Evans, Rachel, deceduta per le conseguenze di un brutto male, e l’irascibile padre di lei, Jim), e la prosa è come sempre ricca, mai banale, e attraversata da un filo di cinico umorismo, a suo modo unico.

Se è vero che il tema del rapimento, come sviluppato ne Il Paziente, non è originalissimo ed è oggetto di molti romanzi e film simili, è altrettanto vero che Gomez-Jurado riesce a tenersi lontano dal prevedibile, innescando un filotto di colpi di scena al cardiopalma e chiudendo la storia con un finale che ribalta, in parte, il convincimento che il lettore si è formato nel corso del romanzo.

Da leggere tutto d’un fiato.

 

Blackswan, giovedì 09/05/2024

martedì 7 maggio 2024

Starsailor - Where The Wild Things Grow (Auoprodotto, 2024)

 


Affacciatisi sulle scene musicali, insieme a Keane, Travis, Coldplay, Embrace, etc, a cavallo della seconda ondata di brit pop, gli inglesi Starsailor (nome preso in prestito da un album di Tim Buckley) esordirono all’alba del nuovo millennio con due dischi (Love Is Here del 2001 e Silence Is Easy del 2003) che ebbero un ottimo riscontro di vendite e di critica. Poi, il successo si affievolì, e dopo la pubblicazione di All The Plans (2009) la band si concesse un lungo iato, per ritornare sulle scene, nel 2017, con All This Life, un album discreto, ma un po’ troppo prevedibile.

Dopo altri sette anni, questo nuovo Where The Wild Things Grow, uscito quasi in sordina a marzo di quest’anno, presenta una band che sembra aver ritrovato l’ispirazione dei tempi migliori, quella facilità di scrittura e quel piglio melodico che aveva reso irresistibili i primi due lavori. Realizzato durante la pandemia globale e fortemente influenzato dal divorzio del leader James Walsh, Where The Wild Things Grow è un disco che non scende a patti con la nostalgia, evita di replicare pedissequamente quel suono che per qualche anno fu immediatamente riconoscibile, per cercare nuove strade espressive, che si dipartono da una sorta di crocevia sonoro fra Inghilterra e Stati Uniti, percorse con freschezza attraverso uncinanti melodie.

Che la band sia in palla, lo si capisce subito dall’opener "Into The Wild", un incipit dal vigore inaspettato, che evita clichè ed espedienti elettronici in favore di una strumentazione classicissima (chitarre e hammond) e di un andamento decisamente grintoso, che sfocia in un finale dalle acide sonorità rock gospel. Un piglio elettrico ribadito nella successiva "Heavyweight", sulla cui linea di basso pulsante battagliano organo e chitarre fuzzy, prima che il brano sfoci in un ritornello uncinante.

"After The Rain" è una ballatona struggente che si veste di un leggero abito country soul, facendo capire che la band trova ispirazione guardando anche verso l’altra sponda dell’Atlantico, cosa che, successivamente, accade nell’incedere pigro della suntuosa "Flowers" o nel jingle jangle a la Byrds di "Better Times", i cui cori da stadio chiamano in causa addirittura Bruce Springsteen.

E’ evidente che gli Starsailor cerchino un modo per evitare di replicare se stessi, per riproporsi al pubblico fuori dagli steccati del più frusto brit pop, e lo fanno con grande consapevolezza, come, ad esempio, in "Dead On The Monkey", un gioiellino che rielabora il loro sound caratteristico attraverso un moderno suono indie rock e un coinvolgente appeal radiofonico.

Poi, certo, la ballata nostalgica dal plumbeo retrogusto british resta la freccia più acuminata dell’arco della band inglese, che in tal senso, stante anche una ritrovata vitalità compositiva, non sbaglia un colpo. La title track vale da sola il prezzo del disco, e quegli accordi in minore che spingono il ritornello in uno sprofondo dolente e malinconico sono in grado di sbriciolare il cuore anche all’ascoltatore più disattento. Allo stesso modo, la conclusiva "Hanging In The Balance", punta di plettro e pianoforte, e il liquido fingerpicking di "Hard Love" sono tanto intense e sincere nella loro palpabile mestizia, da ingenerare più di una lacrima di commozione.

Sotto la guida del produttore Richard McNamara (chitarrista degli Embrace), con Where The Wild Things Grow, gli Starsailor sono riusciti a mantenersi fedeli alle proprie radici, ma allo stesso tempo hanno infuso nella loro musica una ritrovata passione e la volontà di rinnovarsi, evitando sterili tropi in odor di naftalina. Con ogni canzone della scaletta, la band inglese riafferma, oggi, il posto che gli è dovuto nel panorama musicale, dimostrando che, sebbene sia inevitabile un certo retrogusto nostalgico, il suo viaggio creativo è lungi dall'essere finito. Davvero un gradito ritorno.

Voto: 8

Genere: Pop, Rock

 


 

 Blackswan, martedì 07/05/2024

lunedì 6 maggio 2024

Barracuda - Heart (Cbs Portrait, 1977)

 

 


Scritta da Ann e Nancy Wilson insieme al chitarrista Roger Fisher e al batterista Michael DeRosier, Barracuda, canzone che apre Little Queen (1977), terzo album degli Heart, è un brano che trasuda rabbia e livore, e che si scaglia contro l’industria musicale, assimilata a un pericoloso pesce predatore.

Barracuda, infatti, nasce in un momento in cui la band era in rotta di collisione con la Mushroom, l’etichetta canadese che aveva pubblicato l’album d’esordio della band, ora passata alla CBS/Portrait. La loro vecchia etichetta fece causa alla band e nel 1978 pubblicò Magazine, un album composto da materiale precedentemente registrato, che gli Heart non voleva fosse pubblicato.

Questi i fatti. Dopo il loro album di debutto, gli Heart iniziarono a registrare nuove canzoni a Vancouver che avrebbero dovuto confluire nel prossimo album in studio, sotto l’egida Mushroom Records. Tuttavia, il gruppo entrò in conflitto con l’etichetta a causa di una pubblicità che celebrava le vendite di Dreamboat Annie. L'annuncio, pubblicato a tutta pagina nel numero del 30 dicembre 1976 della rivista Rolling Stone, era progettato per assomigliare alla copertina di una salace rivista in stile tabloid e mostrava le sorelle nude, con la suggestiva didascalia "Era solo la nostra prima volta!". 

Le sessioni di registrazione per il nuovo album, poi, si interruppero anche perchè la band e l’etichetta non riuscirono a rinegoziare il contratto. Dato che gli Heart avevano ormai dimostrato di essere una band capace di scalare le classifiche, si aspettavano che la Mushroom aumentasse la loro percentuale sulle royalty. Tuttavia, con sorpresa del gruppo e del loro produttore Mike Flicker, l'etichetta si rifiutò di pagare di più. Causa legale e fine dell’idillio d’amore con la casa discografica canadese.

Ma c’è di più. Quella pubblicità pruriginosa pubblicata dalla Mushroom instillò in molti il dubbio che le due sorelle avessero una relazione incestuosa. Una sera un produttore radiofonico si avvicinò ad Ann Wilson, dopo un concerto tenutosi a Detroit, e chiese alla cantante come stesse il suo "amante". Inizialmente, Ann pensava che l’uomo stesse parlando del suo allora fidanzato, il membro della band, Michael Fisher. Ma quando si accorse che il promotore, in realtà, si riferiva a sua sorella Nancy, lo ricoprì di insulti e, furibonda, tornò nella sua camera d’albergo, dove scrisse il testo di Barracuda, una canzone che, successivamente, fu oggetto di ulteriori polemiche.

Durante la campagna presidenziale del 2008, infatti, Barracuda è stata utilizzata come sigla non ufficiale per la candidata repubblicana alla vicepresidenza, Sarah Palin. La governatrice dell'Alaska si era guadagnata originariamente il soprannome di "Sarah Barracuda", quando giocava a basket al liceo, a causa della sua feroce competitività. Il nome è stato ripreso dopo che la Palin, nel 1996, è diventata sindaco della sua città natale, Wasilla. Appena le sorelle Wilson vennero a sapere dell’utilizzo improprio del brano, rilasciarono una dichiarazione in cui affermavano, senza mezzi termini: "La campagna repubblicana non ha chiesto il permesso di usare la canzone, né gli sarebbe stato concesso quel permesso. Abbiamo chiesto pubblicamente alla campagna repubblicana di non usare la nostra musica. Ci auguriamo che i nostri desideri vengano rispettati."

Ma così non fu. La canzone venne suonata alla convention repubblicana quella sera stessa, dopo che il loro candidato alla presidenza John McCain parlò e venne raggiunto dalla Palin sul palco. I rappresentanti del partito repubblicano, infatti, fecero presente di aver regolarmente ottenuto i diritti di esecuzione della canzone e non avevano alcun obbligo di ottenere ulteriori permessi per usarla. Pur senza adire le vie legali, le sorelle Wilson, qualche tempo dopo, si “vendicarono” attraverso i media, dichiarando a Entertainment Weekly: "I punti di vista e i valori di Sarah Palin non ci rappresentano in nessun modo come donne americane. Chiediamo che la nostra canzone 'Barracuda' non venga più utilizzata per promuovere la sua immagine. La canzone "Barracuda" è stata scritta alla fine degli anni '70 come un feroce sfogo contro la natura senz'anima e corporativa del mondo della musica, in particolare per le donne.”.

 


 

 

Blackswan, lunedì 06/05/2024

giovedì 2 maggio 2024

Going To A Town - Rufus Wainwright (Geffen, 2007)

 


Nonostante l’indiscussa bellezza dei quattro album che lo hanno preceduto, il successo commerciale per Rufus Wainwright, arriva solo alla quinta prova in studio con Release The Stars (2007), che vince due dischi d’oro, in Canada e in Inghilterra, dove peraltro si piazza al secondo posto in classifica. Rufus è meno tormentato, ha un nuovo compagno e vive con serenità la propria omosessualità. Ha smesso i vizi e le dipendenze dalle droghe, è passato da (scapestrato) enfant prodige della scena pop, ad autore maturo e riflessivo. Release The Stars è, in tal senso, un nuovo punto di partenza, il disco di un uomo che guarda ai sentimenti attraverso il viaggio e i luoghi della sua vita. Una geografia dell’anima che passa attraverso Parigi (Leaving For Paris), Hollywood (la title track) e, soprattutto, Berlino, ove l’album è stato in gran parte registrato (Sanssouci, Tiergarten e Going To A Town).

Quest’ultima è una canzone dalla progressione melodica talmente intensa da lasciare attoniti, un brano solo all’apparenza di facile assimilazione, ma in realtà attraversato da malinconia e tristezza, e da profonde riflessioni con cui Wainwright punta il dito contro la politica estera e interna dell’allora presidente Bush.

Il musicista, che in quel momento storico vive a New York (ricordiamoci che Wainwright è americano, ma naturalizzato canadese), prende le distanze dalla patria che gli ha dato i natali, ripetendo come un mantra la frase “I’m So Tired Of America”, un’invettiva indiretta, ma chiarissima, a George W. Bush, che era presidente da ormai sette anni e aveva, di recente, intensificato la guerra in Afghanistan.

In un’intervista a Q, rilasciata nell’ottobre del 2007, Wainwright affermò di aver sentito il bisogno pressante di scrivere la canzone, che compose in soli dieci minuti: ”In realtà mi piace vivere a New York, godendomi il bottino dell'impero. Detto questo, la situazione politica è diventata così orribile a così tanti livelli, che non credo che nessuno possa fare a meno di scriverne."

La città a cui il musicista canadese si riferisce nel titolo della canzone è Berlino, il luogo in cui, come detto, ha realizzato la maggior parte del materiale di Release The Stars. Berlino, negli intenti di Wainwright rappresentava la cartina di tornasole dell’assurdità di tutte le guerre, perché era una città che, in passato, era stata martoriata e distrutta, e che, con il passare del tempo, aveva imparato la lezione sugli orrori che l'umanità può infliggere a un popolo (“Vado in una città che è già stata bruciata, Andrò in un posto che è già stato disonorato, Vedrò alcune persone che sono già state deluse”).

C’è di più, però. La critica agli Stati Uniti è più ampia, perché non solo investe le pulsioni guerrafondaie di Bush, ma mette anche all’indice l’ipocrisia di un popolo che non si fa scrupoli ad applaudire alle guerre, e che, invece, facendo leva sulla religione, avversa in tutti i modi le minoranze LGBT. Il matrimonio gay, che non era ancora legale nella maggior parte degli Stati Uniti, era, in quegli anni, un tema caldo e dibattuto pubblicamente. Wainwright, che a Berlino aveva trovato l’amore (Jorn Weisbrodt, che poi ha sposato nel 2012) decise di prendere posizione inserendo nel brano alcuni versi, nei quali chiariva senza filtri la sua posizione: “Dimmi, pensi davvero di andare all'inferno per aver amato?  Dimmelo e non pensare che ogni cosa che hai fatto sia buona. (Ho veramente bisogno di sapere) Dopo aver inzuppato il corpo di Gesù Cristo nel sangue.” Un testo che non lascia terreno ad alcuna ambiguità e che arriva diretto al centro del bersaglio.

E che Going To A Town fosse una canzone di rottura, indigesta a molti ascoltatori americani, è evidente dal fatto che, se è vero che il brano è uno dei più suonati dal vivo da Wainwright, è altrettanto vero che le liriche acuminate e quel verso, I’m So Tired Of America, hanno sempre suscitato reazioni controverse da parte del pubblico, che spesso e volentieri ne ha subissato di fischi l’esecuzione. 




Blackswan, giovedì 02/05/2024