venerdì 30 ottobre 2020

TYLER BRYANT & THE SHAKEDOWN (Snakefarm Records, 2020)

 


Quando nel 2013 uscì Wild Child, esordio sulla lunga distanza di Tyler Bryant e dei suoi Shakedown, si creò un immediato hype sul giovane chitarrista, emulo di tanti guitar heroes del passato e creatore di un rock blues solido, muscolare e, diciamolo pure, clamorosamente passatista. Niente che non si fosse già ascoltato migliaia di volte, certo; eppure, quel disco assemblava un lotto di canzoni impetuoso e brillante, suonato col ringhio sudato dei vent’anni e con tecnica notevole.

Una band affiata, di gente che il suo lo ha sempre saputo fare egregiamente (Caleb Crosby alla batteria e Graham Whitford, figlio di Brad Whitford degli Aerosmith) e un songwriting che, pur pagando debito, e che debito, al passato, produceva canzoni che rileggevano un canovaccio un po' frusto ma con disarmante passione.

In seguito, le luci dei riflettori si sono un po' abbassate, il trio (a cui bisogna aggiungere il bassista Noah Denney) si è comunque creato un discreto seguito e ha rilasciato altri due dischi, nemmeno questi particolarmente originali, con cui la band ribadiva concetti noti, strizzando talvolta l’occhio a sonorità radiofoniche.

Il nuovo Pressure non si discosta di molto dai suo predecessori: blues elettrico, vampate hard, ammiccamenti al southern, qualche luccichio sleaze e glam, qualche brano ripulito dal lucido mainstream. Tuttavia, questa volta, nonostante una scaletta che non nasconde le proprie derivazioni (lo spettro va dagli Aerosmith al rock sudista, dall’hard rock settantiano al blues più sanguigno) e un alto tasso di prevedibilità, le canzoni sembrano finalmente ritrovare la freschezza dell’esordio, in un alternarsi di sonorità che rendono Pressure un disco vario e brillante.

Si parte a razzo, con la bordata hard della title track, chitarroni distorti, riff urticante e tiro pazzesco. Bryant, poi, dimostra di essere un chitarrista coi controfiocchi, pochi assoli, magari, ma tutti ficcanti e letali. Quando la band mostra i muscoli, tira fuori dal cilindro i numeri migliori e regala al pubblico pagante sferzate elettriche come Automatic e Fuel, capaci in pochi minuti di frantumare le casse dello stereo.

Il disco mette in mostra, però, anche l’inclinazione del trio verso il southern rock e il rock blues: la slide e il riff scartavetrato di Hitchhiker alzano il tasso di adrenalina nel sangue, il passo lascivo di Holdin’ My Breath vede il contributo sudista di Charlie Starr dei Blackberry Smoke, e il tiro diretto di Crazy Days, canzone scritta durante il lockdown, che vede la partecipazione di Rebecca Lovell, una delle Larkin Poe e moglie di Bryant, è di quelli che fanno abbassare il finestrino dell’auto per essere schiaffeggiati da un corroborante vento di chitarre.

Poi, c’è qualcosa che funziona meno bene: il taglio radiofonico di Wildside, il cantato rap e il ritornello a la Aerosmith annaspano nella banalità, mentre Like The Old Me, nonostante la discreta melodia, è un ballatone troppo consunto per essere credibile. Chiude, però, e compensa, il blues tutta polvere di Coastin’, breve, classicissimo, ma decisamente riuscito.

Niente di nuovo in casa Bryant, quindi, ma un album che pur nei suoi evidenti limiti, si fa ascoltare più volte e con grande piacere. Certo, se non amate particolarmente il genere e la chitarra elettrica vi procura l’orticaria, state pure alla larga. Diversamente, spendere dei soldi per Pressure si potrebbe rivelare un’idea azzeccata.

VOTO: 7

 


 

 

Blackswan, venerdì 30/10/2020

giovedì 29 ottobre 2020

PREVIEW

 


Gli Arctic Monkeys e War Child UK sono orgogliosi di annunciare Arctic Monkeys - Live At The Royal Albert Hall in uscita il 04 dicembre.

Tutti i ricavati dalla vendita dell’album saranno devoluti a War Child UK per aiutare a coprire il deficit di £2 milioni causato dall’impatto devastante del Covid-19 sulla loro raccolta fondi. Questi fondi sono indispensabili per supportare coloro che sono stati maggiormente colpiti dal virus.

Il 07 giugno 2018 ci siamo esibiti per uno spettacolo speciale alla Royal Albert Hall di Londra. Tutti i proventi di quella incredibile serata sono stati donati al War Child UK per supportare il lavoro fondamentale che fanno per proteggere, educare e riabilitare bambini che hanno vissuto traumi legati agli orrori della guerra. La situazione, già pessima nel 2018, è ora critica e quei bambini e le loro famiglie hanno bisogno del nostro aiuto ora più che mai. Per aiutare War Child UK a ridurre il deficit e a continuare il loro incredibile lavoro, siamo felici di pubblicare un live album, registrato quella sera alla Royal Albert Hall. Tutti i proventi andranno in beneficenza. Ringraziamo in anticipo i nostri fan per il supporto dimostrato nei confronti di War Child UK.” - Arctic Monkeys

Registrato all’inizio del tour per ‘Tranquility Base Hotel + Casino’, Arctic Monkeys -Live At The Royal Albert Hall contiene 20 dei migliori momenti di sempre per la band. 

War Child UK è un’organizzazione benefica che aiuta i bambini colpiti da conflitti. Mirano a raggiungere i bambini il prima possibile quando scoppia il conflitto, rimanendo per sostenerli durante il loro recupero, tenendoli al sicuro, aiutandoli a imparare ad affrontare queste esperienze e dotandoli di competenze per il futuro. Offrono anche consulenza e supporto psicosociale tramite linee di assistenza specializzate e organizzano campagne per modificare le politiche e le pratiche a sostegno di questi bambini, lavorando con loro e con i giovani per rivendicare i loro diritti.

In questo momento i diritti fondamentali dei bambini nelle zone di guerra stanno toccando il minimo storico: hanno bisogno di aiuto ora più che mai. Le condizioni anguste nei campi profughi e nelle comunità sfollate facilitano la diffusione del Covid-19. L'impatto finanziario sulle famiglie senza rete di sicurezza ricadrà sulle milioni di persone che potrebbero morire di fame a causa di un limitato accesso alle risorse vitali.

War Child UK sta rispondendo alla crisi distribuendo kit per l'igiene e dando indicazioni igieniche per limitare la diffusione dell'infezione. Forniscono anche viveri alle famiglie più colpite, un’istruzione domestica, lezioni tramite WhatsApp ed e-mail, nonché giocattoli e libri ai bambini bloccati nei campi durante la chiusura, in modo che possano continuare a imparare e giocare.

Arctic Monkeys – Live At The Royal Albert Hall’ sarà disponibile su doppio vinile trasparente, doppio vinile nero standard e in digitale. Il formato D2C doppio vinile trasparente contiene un poster esclusivo del concerto.

 


 

 

Blackswan, giovedì 29/10/2020

 

 

mercoledì 28 ottobre 2020

IDLEWILD - 100 BROKEN WINDOWS (EMI, 2000)

 


La storia degli scozzesi Idlewild ha inizio a dicembre del 1995, quando il diciannovenne Roddy Woomble (voce) incontra il batterista Colin Newton a una festa. I due scoprono di avere molto in comune, inclusi interessi musicali simili e collezioni di dischi. Entrambi, poi, hanno il sogno di formare una band e, il caso vuole che quella stessa sera vengano presentati al chitarrista Rod Jones. I tre si frequentano assiduamente e con l’arrivo del bassista Phil Scanlon, quella che qualche giorno prima era solo una velleità diventa progetto tangibile e reale.

Gli Idlewild, che nel frattempo hanno cambiato bassista, esordiscono nel 1998 con Captain, un mini album della durata di venti minuti, che passa pressoché inosservato. Funziona decisamente meglio, sia a livello di vendite che di critica, il successivo Hope Is Important, che viene pubblicato a ottobre dello stesso anno e testimonia di una band più consapevole dei propri mezzi e lucida nel definire uno stile, che troverà forma precisa nel successivo 100 Broken Windows (2000).

Il disco, che viene lanciato da due singoli Little Discourage e Actually It's Darkness, posizionatisi rispettivamente al ventiquattresimo e ventitreesimo posto delle charts britanniche, porta a compimento l’evoluzione già intravista nel lavoro precedente: il suono è più rifilato, le distorsioni attenuate, la giovanile furia punk leggermente smorzata in favore di un superiore impatto melodico. Così, ne guadagna l’efficacia delle canzoni, che pur non avendo perso un watt della loro primigenia potenza, vengono tirate a lucido e “universalizzate” dalla produzione di Dave Eringa e Bob Weston, normalizzatori dal tocco magico.

100 Broken Windows coglie l’esatto punto di fusione rumore e melodia: da un lato, impervi muri di chitarre, riff incandescenti e furia distruttiva; dall’altro, melodie innodiche e ritornelli di facile presa da cantare sotto al palco, finché il fiato riesce a supportare la voce.

C’è molta America nella musica della band scozzese: a tratti, sembra di ascoltare dei Rem agli steroidi (l’iniziale Little Discourage), la rabbia nell’esecuzione e gli acceleranti melodici sono retaggio acquisito ascoltando i dischi degli Husker Du, e l’immediatezza espressiva è mutuata dal punk californiano.

Se l’accoglienza in termini di vendite è discreta, ma non esaltante, 100 Broken Windows è invece celebrato dalla stampa specializzata che non lesina complimenti alla band capitanata da Roddy Woomble. E a ben ragione, perché le dodici canzoni in scaletta (quattordici nell’edizione giapponese) per trentanove minuti di durata, non lasciano scampo.  Apre le danze il drive di chitarra della citata Little Discourage, e il tiro è quello della band di Michael Stipe nei suoi momenti più rock. Attenzione, però: Rem, si, soprattutto negli intrecci vocali molto melodici, ma il suono, tuttavia, risulta dopato e muscolare, decisamente meno elusivo rispetto a quello della band di Athens, ma più diretto e ruvido. I Don’t Have The Map sviluppa la stessa idea, ma il mood si fa cupo, la tensione è tangibile, il ritornello, scartavetrato dalle chitarre, è inquieto, urgente, definitivo.

A volte, la band, sceglie un impatto più melodico, meno urticante, come nella splendida These Wooden Ideas, in cui il contrappunto delle tastiere è discreto ma decisivo, oppure nella dimessa e fluttuante Quiet Crown. In altri casi, invece, gli Idlewild travalicano abbondantemente i confini del noise. Listen To What You’ve Got è rapida e letale come un coltello a serramanico, Roseability parte a cavallo di tamburi scalpitanti e si apre a un refrain che sembra dire "da queste parti poi passeranno i Cloud Nothings", mentre Idea Track nasce sghemba, si accende di furore rumoristico e deflagra in un ritornello di accecante bellezza melodica.

Chiude la scaletta The Bronze Medal, ballata virile e scabra, che evoca il mood malinconico richiamato dalla bella foto in copertina di Ian Ritterskamp. Un momento di raccoglimento, una pausa per rifiatare dopo una corsa forsennata, un enclave di pace contornata da una zona di guerra in cui tutto è elettricità e rumore. La chiosa perfetta per un disco che, a distanza di vent’anni, non mostra un filo di ruggine, ma continua ad attraversare le casse dello stereo con rinnovata, giovanile e fragorosa urgenza.

 


 

 

Blackswan, mercoledì 28/10/2020

martedì 27 ottobre 2020

ENSLAVED - UTGARD (Nuclear Blast, 2020)

 


Utgard, nella cosmologia germanica, è un mondo abitato da demoni, giganti e mostri, in contrasto con Midgard, mondo degli dei e degli uomini. Esso viene situato, generalmente, a oriente del mondo abitato, separato da esso per mezzo di un largo fiume; ma a volte appare localizzato al nord, che di solito è la regione del regno dei morti.

Perdonate la divagazione, ma questa premessa era necessaria per comprendere il senso del nuovo lavoro in studio dei norvegesi Enslaved, storica band fondata nel 1991 da Ivar Bjørnson e Grutle Kjellson, arrivata oggi al sedicesimo album in carriera. Un disco, questo, che come i suoi predecessori continua a esplorare storie e leggende della mitologia norrena, di cui il leader e chitarrista è un grande appassionato, anche fuori dal circuito musicale.

Utgard porta a compimento un processo di cambiamento iniziato a inizio millennio con Mardraum, che ha visto la band norvegese modificare con sempre più insistenza la propria proposta musicale. Se infatti gli Enslaved hanno esordito con un suono virato al black metal, puntando su un impianto stilistico cupo, diretto e scabro, e cantando in norvegese antico o in islandese, oggi la band, che ha perso un paio di membri storici, ha arricchito la propria musica di nuove sfumature, scegliendo per le liriche la lingua inglese e spostando il baricentro della propria espressione artistica verso un prog metal più ragionato e meglio arrangiato.

In tal senso, Utgard è un lavoro davvero riuscito, che riesce a fondere diverse istanze e a creare un unicum potente e ricco di epos, a testimonioanza di una band che è stata capace di evolversi, senza tuttavia rinnegare il proprio passato.

L’incedere dei brani, infatti, resta tenebroso, il mood carico di tensione, e l’alternarsi fra voci pulite e growl (Grutle Kjellson, Håkon Vinje, Iver Sandøy) produce, più che in altre occasioni, un effetto straniante e fascinoso.

Metal estremo, certo, ma la scaletta prende anche svolte inaspettate, dovute alla struttura meno prevedibile dei brani. Se, infatti, non mancano brutali randellate come Jettegryta, altrove l’architettura del songwriting si fa più complessa, introducendo elementi psichedelici (il bellissimo assolo di chitarra in Homebound) e addirittura elettronici (il tiro ipnotico e forsennato di Urjotun).

Utgard è il classico disco ben riuscito, ben strutturato e ben suonato, che però contiene due anime e potrebbe così risultare divisivo, lasciando l’amaro in bocca ai fan di vecchia data, ma possedendo al contempo tutte le carte in regola per attirare nuovi proseliti alla causa Enslaved.

VOTO: 7

 


 

 

Blackswan, martedì 27/10/2020

lunedì 26 ottobre 2020

IL MEGLIO DEL PEGGIO



“Chi dice forse facciamo un lockdown a Natale commette un crimine nei confronti del popolo italiano...Spero che nessuno pensi di richiudere tutto quanto perché per l’Italia sarebbe un disastro non solo economico ma sociale e culturale”.(Matteo Salvini)

L’analisi “sociologica“ del Capitano è quanto mai rimarchevole per puntualità, specie quando pone l’accento sul disastro culturale di cui è a pieno titolo la rappresentazione plastica. Come lo sono le Meloni, i Renzi, i De Luca, i Di Battista, i Trump, i Bolsonaro, i Johnson e tutti gli esponenti di una politica adusa al consenso facile, spiccio. Affabulatori e camaleonti all’occorrenza quando la curva del consenso popolare comincia a flettersi. 

Il Covid, del resto, politicamente parlando è la cartina di tornasole, il momento della verità. Prendiamo ad esempio il leader dell’opposizione di casa nostra: un concentrato di negazionismo, riduzionismo e ignoranza. Per mesi ha dato ampia dimostrazione di quanto superficiale, miope e disinformato sia il personale approccio alle misure di contenimento del virus veicolando messaggi dannosi, contraddittori e fuorvianti. Pensiamo ai tanti assembramenti di cui si è reso protagonista durante la (perenne) campagna elettorale per le regionali, alle spavalde “sfilate” senza mascherina e da ultimo agli sbertucciamenti nei confronti degli scienziati, etichettati da Trump come idioti. Il Capitan Fracassa ora si atteggia a “sapientino”. 

Come il suo idolo d’oltreoceano, si è lanciato in suggerimenti nientemeno che all’Agenzia del Farmaco invitandola a utilizzare l’idrossiclorochina sospesa nello scorso maggio. E purtroppo per noi, pare ci abbia preso gusto a infettarci con le sue corbellerie: dal saluto con il gomito liquidato come la fine della specie umana all’affermazione secondo la quale un positivo non vuol dire malato. Se questa non è una catastrofe culturale poco ci manca. D’altro canto però, Salvini e simili non sono altro che il riflesso di una società che sembra aver perduto il giudizio.

Cleopatra, lunedì 26/10/202



venerdì 23 ottobre 2020

WAKE ME UP WHEN SEPTMBER ENDS - GREEN DAY (Reprise Records, 2004)

 


Che i Green Day siano una vera macchina da guerra in termini di vendite e di hit spacca classifica non è certo un mistero. Quando nel 2004 esce American Idiot, settimo disco in studio e vero e proprio concept album, il trio capitano da Billie Joe Armstrong fa letteralmente sfracelli, vincendo il Grammy Award per il miglior disco rock dell’anno e vendendo quasi quanto il loro inarrivabile Dookie (1994), best seller da quindici milioni di copie vendute.

Non è nemmeno un album dalle tematiche facili, American Idiot: i Green Day attaccano frontalmente l’allora presidente degli Stati Uniti, George W. Bush, il sistema di vita americano, l’ingerenza dei media nelle dinamiche sociali, la guerra in Iraq, e parlano senza mezzi termini di droga, alcolismo e suicidio (Jesus Of Suburbia). Eppure, il disco è talmente ben fatto e appassionato, le canzoni così centrate e decisive, che la band scala le classifiche di mezzo mondo, fa razzia ovunque di dischi d’oro e di platino, piazzando cinque singoli nelle prime piazze: la tile track, la citata Jesus Of Suburbia, Holiday, Boulevard Of Broken Dreams e l’intensa e tormentata Wake Me Up When September Ends, uno dei brani più amati dai fan del terzetto.

Una ballata, intensa e struggente, che si discosta dall’impeto scanzonato e dall’arrembante potenza che da sempre ha caratterizzato molte delle canzoni più famose della band californiana. Un brano triste, che scala le charts statunitensi nonostante la tematica rappresentata sia quella della morte. La canzone venne, infatti, scritta da Billie Joe Armstrong per ricordare il proprio padre, deceduto nel settembre del 1982 a causa di un tumore all’esofago, e quel titolo, svegliami quando settembre finisce, riposta fedelmente una frase pronunciata dal cantante alla madre il giorno del funerale.

Una canzone del ricordo e del dolore, quindi, una preghiera che da intima e personale si fa universale, stringendo in un unico grande abbraccio tutti coloro che hanno provato la sofferenza bruciante di un grande lutto.

Il brano inizia con un delicato arpeggio di chitarra su cui vibra commossa la voce di Armstrong che canta: “Summer has come and passed The innocent can never last Wake me up when September ends” e ancora” As my memory rests But never forgets what I lost Wake me up when September ends”. Un dolore sempre vivo, un pungolo che non accenna a passare, rinfocolato dalla memoria e dai ricordi, nonostante siano ormai passati anni.

Poi, la canzone ha una svolta improvvisa, entra una batteria quadrata, quasi militaresca, e la chitarra elettrica di Armstrong inizia a suonare come farebbe una cornamusa, evocando la malinconia di un funerale sotto la pioggia e connotando il brano di un momento di solenne austerità, che vira nell’epica di una seconda parte elettrica, cadenzata, potente.

Inutile dire che il riferimento al mese di settembre, abbia assunto per gli americani un connotato simbolico diverso, evocando i terribili fatti dell’11 settembre del 2001 e richiamando alla memoria anche il dramma dell’uragano Katrina, che a fine agosto 2005 si abbatte sugli Stati Uniti, provocando quasi duemila vittime, il cui tragico bilancio divenne definitivo proprio il mese successivo.

 


 

 

Blackswan, venerdì 23/10/2020

giovedì 22 ottobre 2020

PREVIEW

 


Julien Baker annuncia oggi il terzo album Little Oblivions in uscita il 26 febbraio su Matador e presenta il singolo “Faith Healer” primo assaggio delle nuove sfumature musicali e del contagioso spirito di intraprendenza che troveremo in Little Oblivions. Il nuovo album rappresenta un vero e proprio cambiamento rispetto ai precedenti lavori di Baker più intimi e riservati. Guarda il video diretto da Daniel Henry QUI. Sotto è possibile leggere un saggio sull’album scritto dal poeta, autore e critico Hanif Abdurraqib (Go Ahead In The RainThey Can't Kill Us Until They Kill UsA Fortune For Your Disaster).

Penso che Faith Healer sia un brano sui vizi, sui modi più ovvi e più insidiosi con cui si manifestano nell’esperienza umana.” afferma Baker. “Ho iniziato a scrivere questo brano 2 anni fa e si è rivelato sin da subito un’osservazione letterale della dipendenza. Avevo solo le prime strofe, che parlano di un confronto candido della dissonanza cognitiva che una persona sente quando ha difficoltà con l’abuso di sostanze – la prova schiacciante che questa sostanza ti fa del male, e il desiderio controintuitivo ma molto reale per il sollievo che fornisce. Quando tornai sul brano iniziai a pensare alle similitudini tra l’evasione causata dalle sostanze stupefacenti e altri tipi di evasione che hanno occupato uno spazio simile nella mia mente, anche se meno facilmente identificabili.

Ci sono così tanti canali e comportamenti che utilizziamo per placare il disagio malsano che esiste al di fuori della definizione formale di dipendenza. Io (e molte altre persone) siamo portate a pensare che chiunque – un opinionista politico, un predicatore, uno spacciatore, un guaritore energetico - quando promettono una guarigione, in realtà nonostante l’intenzione sia genuina, potrebbero effettivamente impedire la guarigione.”

Little Oblivions è stato registrato nella città natale di Baker Memphis, Tennessee tra il dicembre 2019 e il gennaio 2020, da Calvin Lauber con il mixing a cura di Craig Silvey (The National, Florence & the Machine, Arcade Fire). Il suo stile unico alla chitarra e al piano è qui arricchito da nuove trame di basso, batteria, synth, banjo e mandolino, con la quasi totalità degli strumenti suonati da Baker. L’album unisce fatti autobiografici decisi con esperienze assimilate e osservazioni sugli ultimi anni, portando ad un nuovo livello la capacità di Baker di raccontare storie galvanizzanti.

Little Oblivions è il seguito di Turn Out The Lights uscito nel 2017 su Matador. The New York Times ha scritto che l’album è “il lavoro di una cantautrice che ha trovato il favore di un pubblico internazionale (…), il raro secondo album, nonostante la nuova autoconsapevolezza, va oltre ad un debutto autentico per raggiungere risultati più grandi, con la passione ancora intatta.” Il Sunday Times ha affermato, “il mix di voci distaccate, arrangiamenti lussureggianti e autopsie a nudo sull’amore, la perdita, le disfunzioni e l’accettazione è devastante.” Baker si è esibita al Late Show with Stephen Colbert e al CBS This Morning.

Nel 2018 Baker, insieme a Phoebe Bridgers e Lucy Dacus, fondò il progetto boygenius con cui realizzarono l’omonimo EP e un tour nordamericano. Il progetto ha messo in evidenza la carriera di un’artista parte di una generazione promettente che sta definendo un’era.

Performer intensa e immersiva, i suoi concerti sono stati descritti dal The New Yorker come “… calmi e reverenziali. L’unico suono che senti tra i brani è quello delle sue dita che accordano la chitarra elettrica, bisbigli sparsi tra amici e il fruscio mentre la folla aspetta pazientemente che Baker torni a strimpellare.”

 


 

 

Blackswan, giovedì 22/10/2020

 

mercoledì 21 ottobre 2020

MOLLY TUTTLE - ...BUT I'D RATHER BE WITH YOU (Molly Tuttle Records, 2020)

 


Molly Tuttle è una ragazza predestinata, un talento così cristallino da aver attirato l’attenzione su di sé, prima ancora di iniziare una vera e propria carriera. Parlano i fatti. La Tuttle si è portata a casa due onorificenze di peso: quella della alla Folk Alliance International per la canzone dell’anno (You Didn’t Call My Name) e quella dell'International Bluegrass Music Association come chitarrista dell'anno, entrambe grazie al suo Ep Rise datato 2017. La lunga distanza, il full lengh d’esordio, arriverà solo due anni più, nel 2019, con la pubblicazione di When You’re Ready, disco che ha avuto più che discreti riscontri di vendite e un’accoglienza, da parte della critica, a dir poco calorosa.

 A inizio 2020, la Tuttle aveva iniziato a lavorare al sophomore, ma poi la situazione è precipitata: il covid, la pandemia, il lockdown, i morti, la vita artistica e concertistica dell’intero globo paralizzate. Lei, fieramente nashvilliana, ha pensato alla sua città, il cui nome, privato del suffisso “musica”, suona vuoto e senza significato; così, non potendo provare le nuove canzoni in compagnia dei suoi musicisti, ha accantonato i lavori per il nuovo album e ha pensato di guardarsi indietro e di scegliere un pugno di brani amati visceralmente. Ha così iniziato a lavorare a questo songbook di cover, ovviando al lookdown e al distanziamento sociale tramite l’utilizzo del pc: ha registrato le proprie basi, le ha spedite all’amico e produttore Tony Berg e poi a tutti i musicisti coinvolti nell’operazione (compaiono anche Ketch Secor degli Old Crow Medicine Show e Matt Chamberlain, batterista e stretto collaboratore di Tori Amos), in modo che le completassero.

Abbiamo lavorato alle canzoni come fanno gli astronauti”, scrive Molly nelle note di copertina, i file che giravano la rete per arricchirsi di nuove note a ogni nuovo invio. Ecco, quindi, spiegato il senso della copertina (la Tuttle triplicata sullo sfondo del cosmo) e il titolo del disco, che suggerisce il rammarico di non aver potuto registrare le canzoni con la presenza fisica dei suoi collaboratori e amici.

In scaletta, dieci canzoni quasi tutte distanti dal genere country folk e bluegrass, che solitamente rappresenta il piatto forte della casa: ci sono grandi classici (She’s A Rainbow da Their Satanic Majesties Request dei Rolling Stones e Standing On The Moon da Built To Last dei Grateful Dead) e riproposizioni di canzoni molto piu’ recenti, come Fake Empire dei The National, che apre il disco, Mirrored Heart di FKA Twigs e Sunflower Vol. 6 da Fine Line di Harry Styles.

Ogni brano è suonato con eleganza e gran classe, la voce della Tuttle si è arricchita di ulteriori sfumature e la sua straordinaria tecnica chitarristica è un dato di fatto incontrovertibile. I momenti migliori sono, però, la riproposizione della citata Standing On The Moon e la conclusiva How Can I Tell You, gioiellino datato 1971 e preso da Teaser And The Firecat di Cat Stevens, due brani, questi, che si sposano alla perfezione con la cifra stilistica della Tuttle. Il resto è, comunque, piacevole, anche se, a dire il vero, mancano quel colpo di coda o quell’intuizione che trasformano le cover in scaletta in qualcosa di davvero diverso e intrigante.

VOTO: 7

 


 

 

Blackswan, mercoledì 21/10/2020

martedì 20 ottobre 2020

UK - DANGER MONEY (Polydor, 1979)

 


Gli Uk sono durati il tempo di una folata di vento, tre anni in cui il supergruppo inglese ha rilasciato solo due album in studio e uno dal vivo. Eppure, a dispetto della rapidità con cui il progetto si è dissolto, il lascito della band resta decisamente importante. Nata da una costola dei King Crimson, la band fu fondata dal bassista e cantante John Wetton, dal batterista Bill Bruford e dal tastierista Eddie Jobson, a cui si unì quasi subito il chitarrista Alan Holdsworth, membro fondatore dei Soft Machine e reduce da una collaborazione coi Gong (Gazeuse! Del 1976).

Con questa line up, composta da alcuni dei migliori musicisti di area prog, la band pubblica nel 1978 l’omonimo esordio, che Rolling Stone colloca al trentesimo posto fra i dischi progressive più belli di tutti i tempi. L’album, supportato da un lungo tour, venne accolto bene dalla critica e discretamente dal pubblico, e arrivò a vendere in pochi mesi 250.000 copie, grazie al traino dei singoli Mental Medication e In The Dead Of The Night.

Come spesso accade, però, quando nel pollaio si aggirano troppi galli, il fragile equilibrio interno si rompe quasi subito: Wetton e Holdsworth non si sopportano, il primo è più propenso a virare verso un suono marcatamente radiofonico, il secondo, ha sposato, invece, l’ortodossia complessa di trame jazz rock. Jobson si schiera con Wetton, mentre Bruford dà l’ultimatum: se se ne va Alan, me ne vado anche io. E così fu: ciao Alan e ciao Bill. Il batterista saluta e prende la porta, rivendicando i diritti su alcuni brani che aveva scritto per un eventuale sophomore. Perdita importante, ma non esiziale, visto che alla corte di Wetton arriva Terry Bozzio, un giovane drummer che ha fatto esperienza, e che esperienza, suonando con Frank Zappa.

Vista l’impossibilità di trovare un chitarrista che fosse all’altezza del predecessore, la band riparte come trio e pubblica, nel 1979, Danger Money, album forse meno celebrato e meno redditizio in termini di vendite, ma bello tanto quanto (o forse di più) l’esordio. D’altra parte, ci suonano tre fenomeni, che nonostante la precarietà del progetto, dimostrano un’intesa perfetta e plasmano uno stile coerente e ben definito, un amalgama equilibrato in cui convergono progressive e impatto radiofonico, arrangiamenti complessi e melodie irresistibili, digressioni strumentali e immediatezza pop.

Non è solo tecnica, però: Danger Money è un disco suonato con passione, a volte addirittura travolgente nel suo impeto che lambisce una certa attitudine all’improvvisazione più scapigliata e, talvolta, perfino territori contigui all’ hard rock.

La scaletta si apre con la title track, e inizia un vero e proprio viaggio: le tastiere aliene di Jobson e il drumming di Bozzio, che posticipa la battuta su un tempo quadrato, evocano distanze siderali e spazio profondo. Svisata di hammond e il brano decolla: la voce calda di Wetton, i controtempi di Bozzio, le mille tastiere di Jobson, tiro ansiogeno, ritornello acchiappone. Ulteriore stacco, e siamo di nuovo persi nel cosmo ostile evocato da un synth cupo e marziano, che spinge la canzone verso l’ultimo giro di giostra.

La successiva Randevouz 6:02 abbassa la tensione e mitiga l’ansia, evoca scenari malinconici, marcatamente british, e un’atmosfera plumbea. Le note di piano sembrano sgocciolare come pioggia, le foglie volteggiano nel vento, l’autunno è una sensazione fisica, tangibile, e l’unico conforto arriva dalla voce calda di Wetton, avvolgente come una sciarpa di lana che mitiga lo sferzare del vento.

Un momento più meditabondo, quasi una stasi sentimentale, un grumo nostalgico che viene spazzato via, però, dalla successiva The Only Things She Needs, incedere saltellante, drumming nervoso, tastiere ansiogene e basso potente, per un brano che è tutto un saliscendi, tra accelerazioni adrenaliniche e aperture melodiche accerchiate dai tamburi impazziti di un Bozzio stratosferico.

Apre la seconda facciata Caesar’s Place Blues, il cui incipit è attraversato dagli stessi umori malinconici di Randevouz, disturbati, però, dal violino elettrico di Jobson, vero protagonista di un brano che accelera quasi subito il passo in una corsa irrequieta e concitata, scarmigliata dai ripetuti, folli assoli del tastierista.

La successiva Nothing To Lose è il brano più breve del lotto, canzone radiofonica e di facilissima presa, architrave del Wetton pensiero, che troverà, di lì a breve, forma compiuta nella proposta Aor degli Asia, gruppo che il bassista fonderà con l’amico Steve Howe, all’inizio degli anni ’80 (ricordate Heat Of The Moment?).

Sigilla il disco la conclusiva Carrying No Cross, magistrale esempio di rock sinfonico, vetta della produzione degli Uk e mini suite tra le più riuscite ed emozionanti del decennio. L’immagine dello spazio, utilizzata per raccontare l’iniziale Danger Money, viene nuovamente evocata in apertura di brano: una navicella fluttua alla deriva nel cosmo profondo, gli sfarfallii del synth di Jobson disegnano una volta celeste cupa e minacciosa, mentre la voce arresa e disperata di Wetton suggerisce un senso di tragedia imminente. Si galleggia in balia degli elementi fino a quando la situazione precipita, tra echi King Crimson che anticipano un impetuoso crescendo: è la furia cosmica, una furente pioggia di meteoriti e tamburi battenti, vorticosa e imponente come le tastiere tenebrose e schizoidi di Jobson dalle mille mani, minacciosa come le linee metalliche del basso di Wetton. Un senso di pericolo che si attenua solo nel finale, quando la navicella Uk sembra aver superato la tormenta e si acquieta, nel suo peregrinare senza meta, sul motivo melodico iniziale, questa volta leggermente accarezzato da un sospiro di sollievo.

Chiosa magistrale di un disco splendido, ma anche gran finale di una stagione brevissima e nata fuori tempo massimo (sono gli anni del post punk e della new wave), visto che di lì a poco la band si scioglie, regalando alla storia Night After Night, un ultimo disco live, che celebra il funerale di una band dalla vita breve ma straordinariamente ricca di emozioni. Vita brevis, ars longa, occasio praeceps, experimentum periculosum, iudicium difficile: "la vita è breve, l'arte è lunga, l'occasione fuggevole, l'esperimento pericoloso, il giudizio difficile”.

 


 

 

Blackswan, martedì 20/10/2020

lunedì 19 ottobre 2020

IL MEGLIO DEL PEGGIO

 


Parliamoci chiaro: se è vero che nessuno poteva aspettarsi un meteorite come il Covid 19, è altrettanto vero che abbiamo preferito l’uovo alla gallina. Quante volte abbiamo visto quei film catastrofici alla “Virus letale” e dire: “ma va, figuriamoci se capita”. Eppure l’inimmaginabile e’ successo e ci troviamo nuovamente a fare i conti con un orizzonte plumbeo e imperscrutabile. E’ bastata una maledetta estate per ricacciarci in un incubo senza fine con il virus che sembra volerci implacabilmente punire. E che ha mostrato in tutta la sua drammatica evidenza la mediocrità e la miopia della classe dirigente. Politici, imprenditori, manager, sindacati, scienziati, giornalisti. Nessuno, salvo qualche rara eccezione, ne esce a testa alta. 

La comunicazione si è spesso rivelata fallace e fuorviante: quelli che “il virus clinicamente non esiste più” o l’orda sgangherata e imbecille dei “non mask” dovrebbero auto isolarsi sine die per evitare altri danni. I mezzi di informazione, con qualche raro distinguo, hanno spesso strizzato l’occhio agli strepiti sguaiati di una certa politica farlocca. Abbiamo compreso una volta per tutte quanto sia limitata la visione della classe manageriale orientata solo al profitto e poco o niente alla salute dei propri dipendenti. 

Il governo, gli amministratori regionali, i sindaci e tutti gli attori di questo dramma collettivo, sia pur con diverse gradazioni di responsabilità, dovrebbero interrogarsi seriamente sulle soluzioni da adottare subito per la salute pubblica. Interventi che non hanno niente a che vedere con provvedimenti da specchio per le allodole, come il coprifuoco o la chiusura anticipata di certi locali. Mentre per gli assembramenti in altri contesti (trasporti) si continua a fare orecchie da mercante. E aggiungo, consapevolmente, perché ignorare certe realtà conviene per opportunismo politico. A fare le cose a casaccio sono bravi tutti. Analizzare i problemi con una visione critica è prerogativa di pochi. E purtroppo “quei pochi“ sono ineluttabilmente in via di estinzione.

Cleopatra, lunedì 19/10/2020




venerdì 16 ottobre 2020

PREVIEW

 

Maxïmo Park annunciano oggi il nuovo album Nature Always Wins in uscita il 26 febbraio e condividono il nuovo singolo “Baby, Sleep”.

L’annuncio segue la pubblicazione del primo singolo lo scorso mese, Child Of The Flatlands, brano maestoso e psichedelico che cresce lentamente e che getta uno sguardo al significato di luogo e il suo impatto sull’identità – il tutto accompagnato da un video curato dal designer sperimentale e artista visuale (già collaboratore di Daniel Avery) Greg Hodgson. Il brano è stato descritto come “assolutamente bellissimo” da Lauren Laverne su BBC 6 Music delineando così i presupposti per il nuovo ambizioso lavoro Nature Always Wins.

 


Nature Always Wins è una sorta di esame approfondito sulla nozione del sé , dell’identità in quanto band e di quella dell’umanità in generale. Il titolo dell’album fa riferimento al famoso dibattito Natura contro Cultura. L’argomento di discussione è se il cambiamento è in grado di avvenire sotto l’influenza del tempo, della prospettiva e dell’ambiente, o se siamo destinati ad essere vincolati dalla nostra genetica, chiedendoci “chi siamo, chi vogliamo essere e abbiamo controllo su tutto ciò?”

Perfezionando l’approccio del trio, la scrittura è iniziata la scorsa estate con Smith, Lloyd e English, alla ricerca di un quarto membro diverso – un produttore che sarebbe stato anche musicista. L’arrivo del produttore di Atlanta e vincitore di un Grammy Ben Allen (Animal Collective, Deerhunter) ha permesso alla band di suonare e creare in libertà. Questa libertà fu presto messa in discussione dal lockdown, che impose alla band di sfruttare al massimo le tecnologie a disposizione per registrare in tempo reale da una parte all'altra del mondo – loro a Newcastle e Liverpool e Allen ad Atlanta.

Il primo singolo “Baby, Sleep” è un mondo di energia pop guidato dall'inconfondibile chitarra di Duncan Lloyd e dai fraseggi abili di Paul Smith.

Paul Smith commenta:

Sono così felice che siamo riusciti a fare questo album durante il lockdown, visti i tempi impegnativi per tutti. Dopo quasi 4 anni da Risk To Exist, volevamo esplorare nuovi territori musicali (per noi) senza sacrificare il nostro stile caratteristico e i nostri testi sinceri. Come sempre, il trascorrere del tempo si fa sentire, ma i brani contengono tanto affetto per il passato e sono presenti cenni occasionali al tempo difficile che stiamo vivendo.

Baby Sleep offre uno sguardo leggero alla natura surreale della mancanza di sonno, e il modo in cui distorce la normalità in una società capitalistica.”

Il titolo dell’album è stato rivelato dal superfan Greg James di BBC Radio 1 in una parodia divertente di Celebrity Mastermind tra lui e il cantante Paul Smith.

 


 

 

Blackswan, venerdì 16/10/2020

giovedì 15 ottobre 2020

LYDIA LOVELESS - DAUGHTER (Honey, You're Gonna Be Late Records,2020)

 


Sono passati ben quattro anni da Real (2016), ultimo album in studio della songwriter originaria di Columbus. Quattro anni difficili, in cui Lydia Loveless ha dovuto fare i conti con un divorzio, una brutta storia di moleste sessuali e il trasferimento dall’amato Ohio verso la Carolina del Nord, per inseguire il palpiti di un nuovo amore. Quattro anni che hanno lasciato ferite non ancora rimarginate e cicatrici, che hanno aggiunto al consueto approccio verace e diretto anche scorie di vulnerabilità, una diversa consapevolezza che ha mitigato la baldanza e la sfrontatezza che da sempre connotava le sue canzoni.

Lydia Loveless, oggi, è un’altra donna e quindi necessariamente un’altra artista. Si è ammorbidita, ha imboccato la strada dell’introspezione e, come nel precedente Real, ha iniziato a flirtare più decisamente con il pop, evitando certi graffi che avevano connotato i suoi primi lavori. Tuttavia, nonostante cambiamenti più che evidenti, il suo stile resta unico e immediatamente riconoscibile: quella voce da gatta imbronciata, sempre sul punto di tirare fuori gli artigli, le chitarre che rubano la scena al resto della strumentazione, e quell’innata capacità di scrivere canzoni dalle melodie a presa rapida, che colpiscono il centro del bersaglio al primo colpo, restano il piatto forte della casa.

Daughter, volendo ricorrere a un termine abusato, è il classico disco della maturità, quello che raggruma in dieci tracce tutto il meglio di un’artista che ha saputo costantemente rinnovarsi senza mai tradire se stessa. Un disco dall’impianto solido e dal suono omogeneo in cui splendide ballate si alternano a brani decisamente più pimpanti.

Apre Dead Writer ed è un tuffo al cuore, una delle migliori canzoni mai scritte dalla cantantessa dell’Ohio: mood malinconico, linea melodica in crescendo e la voce, quasi salmodiante, che si srotola dolente e appassionata su un tappeto sonoro intrecciato da tre chitarre perfettamente in equilibrio. Chitarre che corroborano il passo più rapido di Love Is Not Enough, brano dallo stile inconfondibile e amara riflessione sulla vita, in cui sono le persone peggiori quelle che riescono sempre a ottenere ciò che vogliono. Wringer, che racconta le ferite del suo divorzio, accelera ulteriormente il passo su un croccante riff di chitarra acustica, mentre Can’t Think, nonostante la centralità delle percussioni, è pervasa da tristezza arresa.

La Loveless si cimenta anche al pianoforte, nelle trame cupe di September, avvolta nella seconda parte dal violoncello e dal controcanto di Laura Jane Grace, mentre nella conclusiva Don’t Bother Mountain, Lydia azzarda con l’uso delle percussioni elettroniche e dei synth per contornare una canzone che parla delle speranze del suo nuovo amore.

Una scaletta dal profilo altissimo, in cui ogni canzone funziona alla meraviglia, dall’arpeggio scintillante che colora Whene You’re Gone alla meravigliosa title track, il miglior brano del disco, un omaggio al pop rock dei Fleetwood Mac, in cui la Loveless veste i panni di Stevie Nicks, regalando una prova vocale di grande intensità.

Pur in un contesto riconoscibilissimo, Daughter è un disco diverso da quanto ascoltato in precedenza, in cui è evidente che i traumi e i cambiamenti degli ultimi anni abbiano modificato la visione e la prospettiva della musicista, influendo con decisione sulle liriche e in qualche misura anche sulla struttura delle canzoni. Forse questo è l’inizio di un nuovo corso, che si era già intravisto in Real, o forse, più semplicemente, è un’opera dettata dalle circostanze, un lavoro estemporaneo e di transizione, una parentesi per poi tornare nuovamente all’impetuosa baldanza degli esordi. Comunque sia, Daughter resta un gran disco. Non lasciatevelo sfuggire.

 


 

 

Blackswan, giovedì 15/10/2020

mercoledì 14 ottobre 2020

PREVIEW

 


Mark Kelly, tastierista della band progressive rock Marillion, annuncia oggi il nuovo album solista Mark Kelly’s Marathon in uscita il 27 novembre su earMUSIC. In compagnia di Guy Vickers, Oliver M. Smith (voce), Pete “Woody” Wood (chitarra) John Cordy (chitarra), Henry Rogers (batteria) e di suo nipote Conal Kelly (basso), Mark Kelly è riuscito a rendere la sua visione realtà. Anche Steve Rothery dei Marillion ha partecipato all'album, suonando la chitarra solista in "Puppets". Durante la Marillion Couch Convention lo scorso weekend, Mark Kelly ha presentato per la prima volta il progetto ai fan. 

La Couch Convention ha segnato la premiere del video che accompagna il nuovo brano, filmato ai Real World Studios di Peter Gabriel.

Mark Kelly’s Marathon sarà disponibile su CD + DVD Digipack in edizione limitata e numerata (che include la “Real World Session”), LP, CD Digipack e in digitale dal 27 novembre su earMUSIC. 

 


 

 

Blackswan, mercoledì 14/10/2020

martedì 13 ottobre 2020

VICTMIS - CULTUR CLUB (Virgin, 1983)

 


Talvolta, la fortuna di una band o di un artista è legata esclusivamente al successo di una sola canzone, così bella e famosa da mettere in secondo piano un’intera carriera. Sono canzoni cannibali, che divorano il contesto e il contorno, in un processo di immedesimazione che non lascia spazio ad altro. Ad esempio: vi ricordate i The Knack per qualcosa d’altro che non sia My Sharona? Dubito. Più o meno la stessa cosa è accaduta ai Culture Club di Boy George con Do You Really Want To Hurt Me, tratto dall’album d’esordio Kissing To Be Clever (1982) e in parte con Karma Chameleon, tratta dal successivo best seller, Colour By Numbers (1983).

Canzoni riconoscibili fin dalle prime note a ogni latitudine del globo terreste, brani così iconici che nell’immaginario collettivo rappresentano un’immediata equazione con l’intera carriera dei Culture Club. E il resto? A meno che non siate fan della band, spesso e volentieri viene dimenticato. Peccato, perché di belle canzoni la band capitanata da Boy George ne ha scritte parecchie.

Prendiamo, a esempio, il citato Colour By Number, che si apre proprio con Karma Chameleon, un brano dai numeri terrificanti: numero uno negli Stati Uniti per quattro settimane, numero uno in Inghilterra per sei settimane, numero uno in altri quindici paesi del mondo e, udite udite, un milione e centomila copie vendute solo nel Regno Unito. Vendite da capogiro, insomma, che trainano tutto il disco nell’Olimpo delle vendite, facendo guadagnare ai Culture Club la bellezza di dodici dischi d’oro e venti di platino.

Colour By Numbers, però, non è solo Karma Chameleon, perché in scaletta ci sono altre bellissime canzoni, di cui non sempre, purtroppo, ci si ricorda. Le ritmiche pimpanti e l’amara riflessione sulla deriva etica dell’uomo di Mister Man, la melodia irresistibile e le spezie latino americane di It’s A Miracle e l’intensa, appassionata Black Money. Tutte passate, nel corso degli anni, in secondo piano. Soprattutto non ci si ricorda mai abbastanza di Victims, brano che sigilla il disco e, probabilmente, una delle più belle ballate del decennio.

Anima pop soul e impianto orchestrale, Victims è una disperata canzone d’amore, di quelle a cui è impossibile resistere senza sentire il groppo stringere la gola e languori malinconici accarezzare il cuore. E come spesso accade, le più riuscite canzoni d’amore hanno alla base dolore e sofferenza, l’impossibilità di vivere alla luce del sole i propri sentimenti o il tracollo emotivo causato da una rottura.

La storia che si cela dietro Victims è la stessa che ha ispirato anche altre canzoni scritte da Boy George, come a esempio la super hit Do You Really Want To Hurt Me: la liaison del cantante con il batterista della band, Jon Moss. E’ lo stesso George a raccontarlo nella sua biografia Take It Like A Man, confessando che spesso le sue liriche erano lettere aperte scritte al musicista con cui condivideva (anche) la carriera artistica. I due si amavano, ma di un amore galeotto e indicibile: Moss non aveva mai dichiarato la propria omosessualità, e si guardò bene dal farlo, visto che all’epoca era sposato con prole.

L’impossibilità di vivere apertamente la relazione faceva soffrire terribilmente Boy George, che non se ne faceva una ragione e continuava, attraverso i testi delle sue canzoni, a mandare messaggi all’amato Jon. Messaggi, peraltro, abbastanza espliciti, che se per il mondo restavano semplicemente belle liriche, per il destinatario dovevano essere veri e propri pungoli nel cuore. Boy George è la vittima destinata di un amore infelice, e nel testo lo afferma chiaramente e con un certo mal celato risentimento: “Ma tu sei sempre lì, come un fantasma nei miei sogni” e ancora “Prendi il controllo delle tue emozioni, fai un viaggio nel piacere sconosciuto”.

Liriche appassionate e tristi, che però non riuscirono a forzare la reticenza di Moss. Il quale, solo qualche anno più tardi, quando i giorni migliori dei Culture Club erano già passati, confessò agli altri componenti della band il suo amore e la sua relazione con Boy George. Meglio tardi che mai.

 


 

 

Blackswan, martedì 13/10/2020

lunedì 12 ottobre 2020

IL MEGLIO DEL PEGGIO



”Il ministro della Salute Speranza ha detto che si parla troppo di calcio e poco di scuola? Io penso che qualche volta bisognerebbe pensare prima di parlare. Lo sport è un diritto, come la scuola e il lavoro, non è una cosa che ci viene data così”.

Le “argute” parole di mister Mancini, attuale ct della Nazionale di calcio, si potrebbero commentare da se’ se non fosse che meritano una doverosa precisazione. Intanto, perché al Mancio evidentemente sfugge la differenza tra diritto e priorità. Il ministro aveva osservato nei giorni scorsi, riferendosi alla serie A, quanto siano urgenti la priorità del lavoro negli ospedali e l’attenzione alle scuole, precisando che in questo momento un aumento di capienza negli stadi per il pubblico non è una soluzione praticabile a fronte della crescita esponenziale dei contagi. Ma il mister Mancini non ci sta e indossati i panni dello scienziato di turno, sulla scia dei Briatore e dei Bocelli, rintuzza con puntuali dati statistici: “Credo che la situazione di oggi non sia quella di marzo e che forse l’Italia sia una nazione senza troppi problemi rispetto alle altre realtà. Vedo troppi pessimisti, la vita deve andare avanti. E anche il calcio:visto che è all’aperto secondo me è possibile riaprire gli stadi a più persone”. Una riflessione va fatta. Se i tifosi di calcio si trasformano in 60 milioni di commissari tecnici e di allenatori di calcio quando gioca la Nazionale o la squadra del cuore, non significa che su un tema delicato come la salute pubblica si debba assumere le sembianze di 60 milioni di scienziati ad honorem. Di conseguenza, fatto salvo ogni diritto di opinione, Mancini e il cucuzzaro di tuttologi dovrebbero rivolgere a se stessi l’invito a pensare prima di parlare e aggiungo a lor signori un promemoria:concentratevi su questioni strettamente legate al vostro ambito e dispensateci da questo insopportabile tono da saputelli. Di “Soloni” in Italia c’è ne sono già abbastanza.

Cleopatra, lunedì 12/10/2020

domenica 11 ottobre 2020

HOWARD JONES - LIVE ACOUSTIC AMERICA (Mercury/Warner Music 1996)

 


Abile tessitore di irresistibili trame melodiche, pianista e tastierista tecnico e versatile, autore forse non originalissimo, ma capace comunque di sfornare hit spacca classifica, Howard Jones, sessantacinquenne musicista originario di Southampton, vive i suoi anni di gloria nel decennio eighties, diventando artista iconico dell’allora imperante synth pop.

La carriera di Jones, dopo la solita gavetta, prima con la band prog dei Warrior e poi come one man show, ha inizio nel 1984 (grazie ai buoni offici di John Peel) con la pubblicazione di Human’s Lib, best seller che gli garantisce fin da subito l’attenzione dei media e un imponente stuolo di proseliti. Numeri impressionanti per un esordiente, dal momento che il disco conquista la prima piazza delle charts britanniche, dove rimane per cinquantasette settimane, vince due dischi di platino e piazza quattro singoli nella top twenty britannica: New Song al terzo posto, What Is Love? al secondo, Hide And Seek al dodicesimo e Pearl In The Shell al settimo. Non male per il non più giovanissimo Jones (allora ventottenne), che da artista semisconosciuto diventa star di rilevanza mondiale.

Il successo si ripete l’anno successivo con il sophomore Dream Into Action, che spopola in Inghilterra e nel mondo, trainato da un altro pugno di irresistibili singoli: Things Can Only Get Better, Like To Get To Know You Well, Life In One Day e Look Mama.

Il clamore mediatico intorno alla figura di Jones, però, comincia a scemare, e pur mantenendo un nutrito stuolo di aficionados, il musicista comincia a perdere un po' di colpi, sia a livello di vendite, con l’ottimo One To One (1986), che d’ispirazione (il poco ispirato Cross That Line del 1989). Anche il nuovo decennio si apre con questa tendenza, e pur mantenendo una caratura artistica più che dignitosa, il pianista britannico pare sempre più lontano dai fasti di metà anni ’80.

Quando Jones pubblica il suo primo disco dal vivo, Live Acoustic America (1996), è iniziata già da qualche anno la fase calante della carriera, e Jones, da popstar acclamata si è trasformato in musicista affidabile, elegante artigiano di una musica meno “glitterata” ma capace comunque di raggiungere ancora orecchie e cuore di uno zoccolo duro di fan appassionati.

Non è un caso, quindi, che il 28 aprile del 1992, data in cui il concerto viene registrato, il Variety Arts Theater di Los Angeles sia sold out e che Jones decida di pubblicare un live interamente acustico, voce, pianoforte e le percussioni della straordinaria Carol Steele (Peter Gabriel, Joan Baez, Steve Windwood, Tears For Fears), come a voler tracciare un solco con il glorioso passato (successivamente, negli anni ’00, Jones pubblicherà due dischi intitolati Piano Solos).

Diciassette tracce in scaletta in cui il pianista affronta il meglio del proprio repertorio (manca Hide And Seek, ed è un vero peccato), si abbandona a brevi digressioni pianistiche, sfiorando jazz e classica e dimostrando di essere pianista sopraffino, e tira a lucido Come Together dei Fab Four, cover abusatissima, ma qui riletta con gran piglio.

Funziona tutto bene, in questo live: le brillanti melodie pop, spogliate dai paludamenti synth, rivelano un’affascinante anima soul, il lavoro della Steele è efficacissimo e dà nerbo all’esecuzione, e non manca neppure il singalong del pubblico, con cui Jones interagisce divertito.

In scaletta, un filotto di canzoni straordinarie, da Don’t Always Look At The Rain a No One Is To Blame, da What Is Love? a New Song, da Like To Get To Know You Well a Things Can Only Get Better. Il tutto, per una serata appassionata, divertente e, inevitabilmente pervasa da languori di nostalgia canaglia, che spinge inevitabilmente alla lacrimuccia quella generazione che negli eighties aveva vent’anni e che a riascoltare queste canzoni torna con la mente e i ricordi ai giorni felici della giovinezza.

 


 

 

Blackswan, domenica 11/10/2020

 

giovedì 8 ottobre 2020

THE AVETT BROTHERS - THE GLEAM 3 (Loma Vista, 2020)

 


Dopo le contaminazioni pop di True Sadness (per qualcuno il peggior capitolo della loro carriera) e il discreto, ma non certo esaltante, Closer Than Together, i fratelli Seth e Scott Avett, pubblicano il terzo capitolo della serie The Gleam, iniziata nel 2006, prima del passaggio a una major, del successo di vendite (in America gli Avett Brothers sono un’istituzione) e della vittoria del Grammy.

Un disco fatto in casa, dall’impostazione semplice ed essenziale, con cui la band, originaria della Carolina del Nord, torna alle proprie origini nostrane. Un disco che riscopre le radici e gioca le sue carte migliori, ancora una volta, nella melodia, che nello specifico diviene il punto di forza di ciascuna delle otto canzoni in scaletta. Sebbene questo sia sempre stato un elemento essenziale fin dall'inizio, nel corso degli anni, qualcosa è cambiato nella proposta dei fratelli Avett, i quali hanno ampliato la line up della band e hanno puntato soprattutto sulla costruzione di brani innodici, ottimi per i loro travolgenti live act (uno sguardo a youtube, per capire cosa sono in grado di fare questi ragazzi quando salgono su un palco).

The Gleam 3 , come i suoi due predecessori, è, quindi, un omaggio ai tempi andati, una rimpatriata per misurarsi con un suono più tradizionale e meno manipolato: chitarra, banjo, mandolino, spiccioli di pianoforte e il fidato bassista Bob Crawford, alle prese con il contrabbasso. Niente di più. Ne consegue che questo nuovo lavoro è un disco asciutto, sobriamente arrangiato, che cerca soprattutto di percorrere la strada della sincera emozione, di una veracità rurale e di melodie che sgorgano semplici ma potenti, direttamente dal cuore.

Canzoni, però, che come era accaduto nel precedente Closer Than Together, puntano anche lo sguardo sull’America di oggi, sulla deriva etica di un paese che appare sempre più in affanno (ogni riferimento a Trump non è puramente casuale). Ciò avviene, ad esempio, nella struggente I Should’ve Spent The Day With My Family, brano che esprime l'angoscia provata quando la giornata inizia con la notizia che c'è stata un'altra sparatoria a scuola: la tragedia che incombe per tutto il giorno, il senso d’impotenza, la paura, il dolore, la frustrazione di vivere in un paese dove le armi dettano legge e di non poter fare granchè per difendere la propria famiglia.

Un episodio drammatico, che si inserisce in un contesto decisamente più leggero e solare, in cui spiccano per bellezza Victory, Women Like You e The Fire, appassionate ballate d'amore, così vibranti e sincere da far battere il cuore e scendere una lacrima.  La sincerità e l’immediatezza delle composizioni, nonostante la breve durata del disco, garantiscono solidità all’impianto e consentono praticamente a ogni brano di suonare in modo altrettanto sorprendente. Queste sono canzoni guidate semplicemente da una necessità emotiva, indipendentemente dalla forma, che nello specifico si immedesima con la stessa sostanza.

Quelli di Gleam 3 sono gli Avett al meglio, quelli che fanno ciò che hanno sempre fatto, ma spinti, questa volta, semplicemente dal desiderio di condividere la loro umanità, anche a costo di sacrificare la verve in nome di una toccante vulnerabilità. Un bagliore, come evoca il titolo, che illumina questi giorni bui con la forza disarmante della verità.

VOTO: 8

 


 

 

Blackswan, giovedì 08/10/2020