Io sono
springsteeniano. Che equivale a dire io sono cattolico, protestante, buddista,
e così via. Per chiarezza espositiva verso chi ancora non lo sapesse,
Springsteen non è una semplice rockstar, ma una religione, una fede, un dogma
ineffabile. Questo film documentario, diretto da Baillie Walsh e prodotto da
Ridley Scott, ha proprio lo scopo di raccontare il Boss attraverso lo sguardo
(incantato) di innumerevoli fedeli, ops ! fans, sparsi in tutto il mondo. Tra
questi, noterete, ci sono i praticanti ortodossi, che ascoltano solo Bruce, che
ne parlano di continuo, che custodiscono dischi, biglietti, filmati come
fossero relique, e quelli, invece, come il sottoscritto, che nonostante la
passione, riescono a mantenere ancora un rapporto ottimale con la realtà
circostante (durante la visione, ho pianto solo tre volte e solo quando mi sono
alzato dal divano per baciare lo schermo). Una storia, quella che lega
Springsteen ai suoi fans, che non ha eguali al mondo, questo ce lo devono anche
i detrattori, e che si nutre di reciproci e continui tributi d’affetto. Perché
il boss, anche questo ci devono i detrattori, è capace come nessun altro di
abbattere la barriera che separa la rockstar dal pubblico, di essere ciò che
semplicemente è: un uomo comune in mezzo alla gente comune. Non stupisce più di
tanto allora, vedere il Springsteen far salire sul palco un finto Elvis e
consegnargli il microfono per cantare insieme All Shook Up, o consolare un fan
appena scaricato dalla fidanzata davanti a una platea emozionata, o fermarsi
per strada a suonare la chitarra insieme a dei completi sconosciuti. Questo è
il Boss che emerge da decine di racconti di fans, da cui trapela, in una
festante carrellata di interventi, un amore così intenso e viscerale da
lasciare a volte senza parole (il fan che si mette a piangere mentre spiega il
senso delle canzoni di Bruce). Un film gioioso, emozionato ed emozionante,
arricchito da una sezione bonus da far tremare le vene dei polsi :sei tracce
dall’ormai mitico live di Springsteen all’ Hyde Park di Londra del 2012,
proprio quello interrotto dalla polizia, e al quale partecipò anche Paul
McCartney. Insieme i due cantarono Twist
and Shout e I Saw Her Standing
There, lasciando il pubblico, nemmeno il caso di dirlo, a bocca spalancata. Da
quella serata, c’è anche una versione di Thunder Road che, a parere di scrive,
è tra le migliori di sempre. Grazie di tutto, blood brother: i love you.
MIGLIOR FILM:
ZERO DARK THIRTY di KATHRYN
BIGELOW
DJANGO UNCHAINED di QUENTIN TARANTINO
Due grandi cineasti sfornano due autentici capolavori. Difficile
scegliere quale dei due sia il migliore. Quindi opto per un ex aequo che,
credo, non dispiacerà a nessuno.
MIGLIOR LIBRO DELL’ANNO:
JOEL DICKER – LA VERITA’ SUL CASO HARRY QUEBERT
Furbetto e ruffiano fin che si vuole, ma il secondo romanzo di Dicker si
è rivelato un’autentica bomba. Intreccio irresistibile, colpi di scena a go go
e un finale all’altezza delle aspettative.
IL MOMENTO TRISTE:
LOU REED & DON GALLO
Il 2013 è stato un anno funestato da molti lutti eccellenti, alcuni dei
quali, per il sottoscritto, assai dolorosi. Con la morte di Lou Reed e di Don Gallo ho perso una parte di me stesso.
IL MOMENTO FELICE :
RADIOPANESALAME
Un’esperienza iniziata per gioco che mi ha fatto conoscere nuovi amici e
mi ha riempito le giornate di gioia. Oggi, la radio è cresciuta, in ascolti e
qualità. Il 2013 ha portato il sito (http://www.radiopanesalame.it/),
il 2014 porterà nuovi programmi e nuove entusiasmanti esperienze.
L’UOMO DELL’ANNO:
ANTONINO DI MATTEO
L’uomo che sta indagando sulla trattativa Stato-Mafia, minacciato di
morte dalla cupola, abbandonato dalle istituzioni che dovrebbero proteggerlo.
Un eroe dei nostri tempi, di cui nessuno parlerà mai abbastanza.
A non conoscere la caratura artistica dei Counting
Crows e a essere un pò maliziosi, si potrebbe anche pensare che la band
capitanata da Adam Duritz sia al raschio del barile. Dal 2002, cioè dai tempi
di Hard Candy, i Corvi hanno rilasciato un solo disco di canzoni
originali (Saturday Nights & Sunday Mornings del 2008, peraltro composto di
materiale datato). Per il resto, è stato un susseguirsi di album live
(New Amsterdam e August And Everything After : Live At Town Hall ),
di best of (Films About Ghosts) e da ultimo di una raccolta, ancorchè
prestigiosa, di cover di brani altrui (Underwater Sunshine). Oggi, i Counting
Crows tornano sulle scene e, un pò a sorpresa, lo fanno con l'ennesimo
disco live, composto di canzoni registrate durante il loro tour americano del
2012. Verrebbe quindi da storcere il naso e soprassedere dall'acquisto di un
disco che probabilmente, appare quasi scontato, nulla aggiunge a quanto
già di buono conosciamo della band americana. Eppure, chi ha sempre seguito i
Counting Crows, sa benissimo che la dimensione live è quella in cui il gruppo
si esprime al meglio e soprattutto sa, dopo aver ascoltato l'ultimo lavoro in
studio uscito lo scorso anno, che ci troviamo di fronte a una band che vive il
suo stato di grazia, a prescindere da una certa carenza creativa. Per questo,
nonostante tutti i legittimi dubbi della vigilia, Echoes Of The Outlaw Roadshow
si rivela invece un gran bel disco, suonato al meglio da sette
musicisti, perfettamente a loro agio nel gestire l'alternanza fra suono elettrico
e acustico, e nel dosare in parti eguali cuore e tecnica. Anche la
scaletta è ben studiata ed evita con cura i luoghi comuni del greatest hits
live. Round Here c'è e non potrebbe essere altrimenti : non è solo la
magnifica canzone che tutti conosciamo, ma è soprattutto una sorta di condivisa
catarsi musicale, un rituale imprescindibile che lega i Counting Crows ai
propri fans fin dalla notte dei tempi. A renderla magica, non è solo la
strabiliante melodia, ma il modo sempre diverso con cui Duritz la propone,
cambiando gli accenti al cantato, dilatandone i tempi, intridendola di
soul oppure, come nel caso specifico, sporcandola di rock. L'unica altra
canzone tratta da August and Everything After è Rain King, mentre il resto
della scaletta pesca da tutti gli altri album più o meno in egual misura.
Citazione a parte merita la cover di Girl From The North Country di Bob
Dylan con cui il disco ha inizio e che Duritz reinterpreta con rara e ispirata
commozione. Da brividi.
2) NICK CAVE & THE BAD
SEEDS – LIVE FROM KCRW
Abbandonate (o solo accantonate) le
asprezze noise targate Grinderman, il nuovo Nick Cave ha dato alla luce, a
inizio anno, a un disco, Push The Sky Away,dall’andamento sommesso, composto di canzoni che si
muovono con passo felpato attraverso atmosfere spesso rarefatte, celando la
propria crepuscolare bellezza nell'ipnotica omogeneità di suoni distanti dal
consueto repertorio dell’ultimo re inchiostro. Insomma, un ritorno alla
ballata, al pianoforte, ad atmosfere tristi e malinconiche, a una scelta
stilistica figlia delle derive cinematografiche vissute da Cave a fianco del
fedele Warren Ellis. Questo Live From KCRW ricalca in toto, con l’eccezione
della conclusiva, scalciante, Jack The Ripper tratta da Henry’s Dream del 1992,
le sonorità di Push The Sky Away ed è costituito da una scaletta di canzoni
suonate in modo intimista, in un contesto raccolto, innanzi ad un pubblico di
centoottanta fortunati invitati per l’occasione. Registrato presso gli studi
californiani della KCRW e mixato magistralmente da un santone come Bob
Clearmountain (Rolling Stones, Bruce Springsteen, Tears For Fears, Tori Amos,
tra gli altri), il concerto si sviluppa attraverso ballate in cui a farla da
padrone è la voce profonda e tormentata di Cave, sorretta ottimamente da
organo, pianoforte, basso, chitarra e batteria, utilizzati sempre in chiave
elettro-acustica. Un disco suonato con precisione dai Bad Seeds, in cui però la
perizia tecnica non fa mai venir meno la tensione emotiva che pervade di
febbrile lirismo le dieci tracce dell’album (dodici nella versione in vinile,
in cui compaiono pure Into My Arms e God Is In The House). Una performance così
tanto convincente da farci sbilanciare affermando che questo è il miglior disco
dal vivo di Cave, migliore di Live Seeds (1993) e perfino del già notevole The
Abbatoir Blues Tour (2007). E' davvero difficile trovare il meglio in un
filotto di canzoni tutte egualmente appassionate. Ma l’iniziale Higgs Boson
Blues, uno dei brani più riusciti di Push The Sky Away insieme a Jubilee Street
(purtroppo qui assente) e la disperata The Mercy Seat, eseguita per pianoforte,
violino e voce, valgono da sole il prezzo del biglietto. Un disco dannatamente
bello, anzi bellissimo.
1) RY COODER & CORRIDOS
FAMOSOS – LIVE IN SAN FRANCISCO
Sembrava
incredibile che uno dei più grandi musicisti e compositori del secolo
scorso, in attività fin dal lontano 1965, si fosse limitato a un solo live
in più di quarant'anni di carriera. L'unica testimonianza di Cooder on stage,
infatti, si intitola Show Time, è stato pubblicato nel lontano 1977,
e contiene registrazioni tratte da due live act tenutisi al Great American
Music Hall di San Francisco, le notti del 14 e 15 dicembre del 1976. Oggi, a
distanza di ben 36 anni, l'immenso chitarrista di Santa Monica torna finalmente
con un nuovo disco dal vivo e, guarda caso, registrato ancora a San
Francisco e ancora nello stesso teatro, questa volta però il 31 agosto e il 1
settembre del 2011. Della line up di quel lontano show del '77 ci sono
nuovamente Flaco Jimenez (alla fisarmonica) e Terry Evans (ai cori), che nello
specifico vanno a integrare un numerosissimo parterre de roi, composto dai
Corridos Famosos (tra cui anche Joachim Cooder alla batteria e
Robert Francis al basso) e La Banda Juvenil, big band messicana di dieci
elementi che aveva già acconpagnato Cooder nella registrazione dell'ottimo Pull
Up Some Dust And Sit Down (2011). In scaletta, alcuni classici già presenti nel
disco del 1977 (Volver,Volver, School Is Out, The Dark End Of The Street),
brani più recenti (il reggae'n'gospel sincopato e tarantolato di Lord Tell Me
Why) e alcune cover, tra cui la celeberrima Goodnight Irene, traditional
portato al successo da Leadbelly, e uan rilettura in chiave elettrica di
Vigilante Man di Woody Guthrie, con la chitarra di Ry davvero sugli scudi.
Tuttavia, non è solo un filotto di canzoni strepitose, che fondono in un
abbraccio indissolubile rock, americana, blues e folk mariachi, a rapirci tanto
il cuore quanto le orecchie. Ciò che davvero incanta di questo live denso,
umorale, e variegatissimo, è la caratura tecnica dei musicisti all'opera e
l'inaudita qualità dell'esecuzione. In queste dodici tracce infatti ci sono
proprio tutti gli elementi che rende leggendaria una performance live: un suono
calibrato e impetuoso, la perfetta coesione e interazione fra tutti i
componenti della band, una tecnica mostruosa (d'altra parte, stiamo parlando di
gente che suona con Ry Cooder, mica pizza e fichi), e soprattutto un
trasporto e un'intensità tali, da trasformare in momenti di gioioso ascolto
anche le pause fra un brano e l'altro, quando Ry presenta le canzoni e scherza
col pubblico. Live in San Francisco contiene numerosi episodi davvero indimenticabili
(tra gli altri, The Dark End Of The Street, Wooly Bully e la graffiante Crazy
'bout an Automobile), tanto che, se volessimo abbandonarci al compiacimento
dell'iperbole, verrebbe da dire che questo è uno dei dischi live più belli del
nuovo millennio. Dal momento invece che voglio mantenere un profilo decisamnete
più basso, chioso la recensione parafrasando una fulminante battuta usata
da Carlo Verdone in una mitica scena del film Io e Mia Sorella: "n'artro
pianeta!". Le canzoni, Ry Cooder e questo disco.
Così
gli Arcade Fire, dall'alto dello scranno accademico, vendono per alta cucina
una sbobba insipida cucinata con tutti gli avanzi trovati in frigor.
Ovviamente, il piatto è servito con grande eleganza e attenzione quasi
maniacale a quei suoni di tendenza che piacciono alla gente che piace :
samples, elettronica a go go, overdubs, florilegio d'archi e un certo piglio
trash da dancefloor. Ma nonostante gli sforzi di apparire glamour, versatili ed
eccentrici, il risultato finale è di una mediocrità disarmante. Nel marasma
generale, non c'è una canzone che riesca a farsi notare, non uno scatto
d'ingegno che ricordi i momenti migliori della band. A voler salvare il
salvabile, scelgo Here Comes The Night Time e You Already Know, che restano
comunque episodi minori. Il resto del disco, invece, palesa solo una sicumera
che mi ricorda quel pessimo vizio italico con cui gli arroganti apostrofano i
loro interlocutori : lei non sa chi sono io ! Tutte chiacchiere e distintivo,
risponderebbe De Niro/Al capone come in un'epica scena de Gli Intoccabili. Era
meglio tenere un basso profilo e vivere di rendita. Invece 'sta noia
ammorbante, dispiegata peraltro in due cd (ah, cosa riesce a combinare il senso
dell'onnipotenza!), mette tutto a repentaglio. Aridatece Funeral !
2) GOGOL BORDELLO – PURA VIDA
CONSPIRACY
Pura Vida Conspirancy è un disco sciapo e senza
mordente, che ripresenta sempre la solita solfa ma leccata a uso e consumo del
grande pubblico. Sorvoliamo sulla copertina orripilante che già la direbbe
lunga sul contenuto in scaletta; e ti perdoniamo, caro Hutz, anche quel titolo
ammiccante a sonorità latino americane che, si sa, piacciono tanto a chi non
possiede una coscienza musicale che vada oltre i balli di gruppo in un
villaggio Alpitour. Qui, però, sono proprio le canzoni a fare pena : banali,
prive di verve, tese a centrare il ritornello vincente che si trasforma, fin
dal primo ascolto, in un innocuo involucro di plastica. Tanto che, arrivati
alla patetica Malandrino (e siamo solo al terzo pezzo di un lotto di dodici
canzoni), verrebbe già voglia di lanciare il cd dalla finestra. Insomma, siamo
arrivati alla vittoria dell’imborghesimento su una filosofia musicale che, non
più tardi di qualche anno fa, sembrava vivere a cento all’ora e a “regole
zero”. Il disco, ne sono sicuro, piacerà comunque, perché il mondo è pieno di cazzoni
che amano lustrare il pedigree da etno-freakettoni, sostenendo che i Gogol
Bordello sono fottutamente alternativi. Un tempo, forse si. Un disco del
genere, invece, lo si può passar tranquillamente in una balera estiva senza
dispiacere gli avventori. Quanta tristezza.
1)
MGMT – MGMT
Sul futuro degli MGMT avrei scommesso ogni cosa.
Loro due, Andrew VanWyngarden e Ben Goldwasser, mi sono sempre apparsi come gli
enfantes prodige di un eclettismo musicale germogliato fin dentro quei due
cognomi troppo strambi per appartenere a newyorkesi doc. Come un'astronave psichedelica
alla deriva nella galassia Stg. Pepper, la musica degli MGMT ha saputo
riscrivere il linguaggio pop rock, prendendo il meglio della tradizione,
declinandolo con una pronuncia dalla modernità assoluta e contaminandolo
vieppiù con scorie futuriste di luccicante bellezza. Due dischi
imprescindibili all'attivo : Oracular Spectacular (2007), opera cardine
del primo decennio del nuovo millennio, arcobaleno luminescente che fondeva
kraut rock, Beatles, Bowie, elettronica, rave e synth pop, e Congratulations
(2010), spiazzante seguito che confermava il talento, all'apparenza infinito,
di due giovani, insolenti e visionari, proiettati a velocità supersonica verso
l'Olimpo dei più grandi di sempre. Oggi, quel baldanzoso viaggio verso la
gloria eterna, che non più di tre anni fa sembrava inarrestabile, s'è
bruscamente interrotto. Sarebbe bastato un altro disco dello stesso livello o
anche solo un pugno di grandi canzoni, e il cerchio si sarebbe definitivamente
chiuso. MGMT, quarto album della band (il primo però era stato pubblicato sotto
il moniker The Management), ci racconta invece di una forza propulsiva che si è
esaurita, di un'astronave che fluttua nel cosmo della creatività, tenendo
a mala pena la rotta grazie alla forza d'inerzia. Se un tempo il progetto di
VanWyngarden e Goldwasser appariva figlio di un ambizione giovanile e sventata,
che però il pentagramma concretizzava egregiamente, adesso questa
musica sembra invece generata esclusivamente dalla presunzione di sentirsi
onnipotenti. Non bastano pochi episodi centrati come I Love You Too, Death, per
salvare un disco senz'anima, costruito a tavolino, algido prodotto
di copia e incolla elettronici e masturbazioni di liquefatta
psichedelia. Tutto suona cervellotico, farraginoso, inutile e di una noia
letifera. Dispiace ammetterlo, perchè sul futuro degli MGMT avrei scommesso
ogni cosa. Invece, coitus interruptus. Peccato.
Dunque, ci siamo:
ecco la top five del killer per il 2013. Una scelta non facile visto che, come
ho anticipato, è stato un anno ricco di soddisfazioni musicali. Alla fine, ho
deciso di premiare con il primo posto il nuovo lavoro di Jason Isbell,
Southeastern, che non è solo un grande disco sotto il profilo artistico, ma possiede
soprattutto il merito di essere un opera sentita, diretta, sincera. E la sincerità,
nell’arte, come nella vita, alla fine fa la differenza.
5) BUDDY GUY – RHYTHM
& BLUES
Scrivere una recensione su Buddy Guy è talmente
facile che se fossi un giornalista professionista non mi farei pagare nulla,
perchè sarebbe un pò come rapinare un pensionato fuori le Poste o prendere a
schiaffi un bimbetto per sottrargli un pacchetto di caramelle. Basterebbe,
infatti, raccontare, ma solo un pò, senza dilungarsi troppo, chi è questo
signore che ha letteralmente inventato la chitarra rock nel blues, che è stato
il lume tutelare e la guida stilistica di artisti del calibro di Eric Clapton,
Jeff Beck, Keith Richards, per portare a termine il compitino e guadagnarsi la
pagnotta. D'altra parte, tutti i fans di Guy, o anche solo chi ama il blues e
una chitarra suonata come Dio comanda, non perderebbero mai tempo a
leggere una recensione così. Uno che ha fatto il chitarrista per Muddy Waters e
Howlin' Wolf, che ha vinto sei Grammy Awards, che ha pubblicato capolavori come
Hoodoo Man Blues (1965) con Junior Wells e Stone Crazy ! (1981), non si
legge, si compra a scatola chiusa. Quindi, questa prolusione, queste parole e
tutte quelle che seguiranno sono assolutamente inutili. Tuttavia, visto che
scrivo gratis e per diletto, e non mi approprio indebitamente del denaro
altrui, qualcosina in più la dico. Ad esempio, che Rhythm & Blues è un
disco doppio, un cd dedicato al rhythm e uno al blues (ma in realtà i
generi si sovrappongono senza una rigorosa suddivisione), ed è composto da
una scaletta di ventun canzoni, ciascuna delle quali è un piccolo
capolavoro artigianale di perizia tecnica (la band che accompagna Guy è
composta da gente del calibro di Tom Hambridge - autore o coautore di
quasi tutti i brani - e David Grissom) e intensità emotiva. Inoltre, come
ciliegiona sulla torta, Buddy si è portato in studio un pò di amici
per qualche ospitata extralusso : la Muscle Shoal Horns ai fiati
(addirittura scintillanti nell'iniziale Best In Town), Beth Hart (ormai è
ovunque) che giganteggia nella clamorosa What You Gonna Do About Me, e tre
quinti degli Aerosmith (Perry, Tyler e Whitford) che dardeggiano in Evil Twin
(ci sarebbero anche Keith Urban e Kid Rock, su cui è meglio sorvolare
visto che costano un punto al voto finale che darò al disco). Altre cose
inutili da dire? Ah, già. Rhythm & Blues è un vademecum su come si suona
la chitarra elettrica : riff, soli, slide, wah wah e un'esuberanza fisica sullo
strumento che ti aspetteresti da un ventenne e non da uno che ha gli stessi
anni di Berlusconi. Disco memorabile, recensione supeflua.
4) NICK CAVE AND THE BAD SEEDS – PUSH THE SKY
AWAY
Il rischio, quando ci si trova a recensire un
disco di Nick Cave, è quello di prenderla alla lontana, come se
ripercorrere il cammino tortuoso intrapreso da questo poliedrico artista
(musicista, sceneggiatore e scrittore), fosse necessario a comprendere il senso
di ogni sua opera. In realtà l'esercizio sarebbe inutile e stucchevole, dal
momento che non esiste un filo logico che lega il rock anarcoide dei Birthday
Party a un disco introspettivo come, ad esempio, No More Shall We
Apart, nè una motivazione che giustifichi il passaggio dal progetto punk-noise
dei Grinderman o dalla vivacità di Dig, Lazarus, Dig ! (ultima prova
a nome Bad Seeds) alle atmosfere sommesse e quasi oniriche di questo Push
The Sky Away. L'unica certezza è che Cave procede istintivamente, segue la
passione del momento e vi si dedica anima e corpo, senza pianificare le tappe
di un progetto che in realtà non esiste. Oggi, il rocker australiano è in palla
per il cinema, scrive colonne sonore (Lawless, The Road) e sceneggiature, e
condivide questa passione con Warren Ellis, l'influente "seme
cattivo" con cui collabora ormai da tempo.(in coppia hanno
rilasciato White Lunar nel 2009). Forse in questo modo si può spiegare il senso
di Push The Sky Away, un album che suona come un concept dal
fortissimo impatto visivo, che suggerisce ed evoca tramite immagini, quasi
fosse un lungo piano sequenza in chiave rock. Non un disco semplice nè di
facile assimilazione, ma un'opera che, come per un film refrattario al
montaggio, richiede all'ascoltatore una predisposizione istintiva
alla lentezza e all'elusione poetica. Le nove canzoni che lo
compongono hanno infatti un andamento sommesso, si muovono con passo felpato
attraverso atmosfere spesso rarefatte, celando la propria crepuscolare bellezza
nell'ipnotica omogeneità di suoni distanti dal "solito" Cave. Le
melodie restano infatti sotto traccia, quasi si nascondono ai primi ascolti,
per poi essere svelate in tutto il loro nitore da un particolare che
inizialmente non era stato colto. Push The Sky Away ha bisogno, forse più di
ogni altro disco di Cave, di continue attenzioni : come quando leggiamo una
pagina di un romanzo che percepiamo ricca di contenuti, e che torniamo a
rileggere più volte perchè la comprensione sia completa, definitiva. Così
facendo, scopriamo che queste canzoni, ascolto dopo ascolto, nonostante
gli scarni arrangiamenti e l'andamento all'apparenza monocorde,
sanno coglierci di sorpresa ed scuoterci, all'improvviso, con le
extrasistole di palpiti intensificatisi alla distanza. Silenzi e piene
orchestrali, la voce profonda e umorale di Cave, il pulsare trip hop della
sonnolenta We No Who U R, l'organo e le voci angeliche della title track, gli
accenni di elettronica a convivere con arrangiamenti d'archi, gli echi sinistri
dell'immensa Jubilee Street (qui Cave è ai suoi vertici compositivi),
il lirismo straziante di Mermaids e i quasi otto minuti di Higgs Boson Blues,
in cui il suono inquieto dei Bad Seeds torna a dialogare col
ribollire del nostro sangue. Chi saprà avere pazienza e accetterà
che lo scorrere del tempo sia metronomo delle proprie emozioni,
riuscirà ad ottenere il massimo da Push The Sky Away. Che in senso assoluto
non è un disco imprescindibile, ma in soggettiva può creare forte
dipendenza.
3)
JONATHAN WILSON – FANFARE
Ascoltare Fanfare è come aggirarsi per le
bancarelle di un mercatino delle pulci. Puoi attraversarlo rapidamente,
gettando uno sguardo superficiale a destra e a manca, e ciò che ti rimarra in
mente sarà solo l'impressione di aver attraversato un luogo vitale e chiassoso,
nel quale voci, colori e oggetti si sovrappongo, indistinguibili, in una
festante confusione. Ma se ti prendi del tempo, ti aggiri fra gli oggetti in
vendita, li tocchi, ne soppesi l'intrinseco valore o ne indaghi la bellezza
esteriore, allora finisci per scoprire verità interessanti e preziose, che a
uno sguardo disattento sarebbero sfuggite. Devi spulciare, soffiare via la
polvere, fare attenzione ai particolari, un pò come se ti soffermarsi a passare
le dita sulle finiture di una rilegatura che da pregio al libro che hai in
mano. Un particolare, anche piccolo, che alla fine risulta decisivo ed esalta
la bellezza del tutto. Jonathan Wilson, chitarrista, cantante, pianista,
polistrumentista, tecnico del suono e produttore (Dawes), ci ha aperto le porte
del suo personale mercatino folk rock e ci ha invitato a entrare. Già nel
2011, con Gentle Spirit si era presentato al mondo come un esperto
collezionista dei suoni che negli anni '70 andavano per la maggiore dalle parti
di Laurel Canyon. Eppure, nonostante lo sguardo rivolto a quell'epoca
leggendaria, l'approccio del musicista californiano non sembrava quello di un
passatista, di uno cioè che conserva la tradizione perchè incapace di
vivere con piena soddisfazione il presente. Le quindici canzoni di Gentle
Spirit infatti non riesumavano un suono, semmai lo sviluppavano
nuovamente, indirizzandolo verso strade non ancora (troppo) battute. E fu
un pò come riprendere un cammino interrotto e puntare ancora verso
l'orizzonte, dopo essersi rifocillati e aver riempito lo zaino di
provviste.
Due anni dopo da quel disco, Fanfare porta a
compimento la prima parte di un percorso che approda in un mondo per
certi versi inesplorato, come se Wilson, con un misterioso esperimento
alchemico, avesse rivitalizzato il meglio di una generazione arricchendolo però
di nuove intuizioni. Da quegli anni memorabili richiama in carne e
ossa Jackson Browne, David Crosby e Graham Nash; si fa pervadere
dallo "spirito gentile" di Joni Mitchell che ispira angeliche
soluzioni melodiche dalle sfumature jazzy (l'iniziale title track); chiede
una mano a Mike Campbell e Benmont Tench (membri degli
Heartbreakers di Tom Petty), due musicisti che l'americana la masticano da
tempo e anche bene; e per finire si avvale della collaborazione di
Pat Sansone, che coi suoi Wilco ci ha insegnato che le parole
"alternative" e "pop" possono vivere in felice
condominio con la roots music. Il resto invece è tutta farina del suo sacco di
compositore eccellente. Ed è una farina macinata dopo aver consumato di
ascolti Pacific Ocean Blue, capolavoro inquieto e visionario di un altro
Wilson, che faceva di nome Dennis e che fece la Storia insieme ai Beach
Boys del fratello Brian. Il nuovo rock californiano di Jonathan è
tutto questo e altro ancora : c'è Dylan, ci sono i Byrds, e ad
ascoltare bene, Fanfare pesca anche dai suoni provenienti dall'altra
sponda dell'oceano, visto che qui e là echeggiano i Pink Floyd e i Beatles.
Wilson amalga il tutto, stratifica le canzoni sovrapponendo
le partiture, toglie la polvere, spazza via la nostalgia e il
citazionismo, porta una manciata di raggi di sole e si diverte a
giocare con la sua visione (moderna) di psichedelia. Complesso senza essere
cerebrale, sfaccettato senza diventare mai tortuoso, Fanfare è un disco che
necessita di ripetuti ascolti e di una predisposizione al volo pindarico, a
lasciarsi condurre verso i quattro punti cardinali di un mappamondo musicale le
cui coordinate di navigazione appaiono chiare solo al momento dell'approdo.
Come nel mercatino di cui si diceva all'inizio, serve prendersi il tempo
giusto, ascoltare e aspettare. Solo così, fra le bancarelle di Wilson troverete
alcune delle cose più preziose di questo 2013.
2) TEHO TEARDO & BLIXA
BARGELD – STILL SMILING
Come ogni sabato, entro nel mio negozio di dischi
preferito per fare la scorta settimanale di musica. Mi muovo con consumata
perizia fra uno scaffale e l'altro, sapendo esattamente dove troverò
i cd che mi interessano. Tuttavia, questa volta, le note provenienti dallo
stereo sistemato dietro il bancone, attraggono la mia attenzione e mi
deconcentrano. Scorro le copertine dei cd con disattenzione, aguzzo le orecchie
e interrompo il flusso consolidato di movimenti abituali. Mi giro verso il
commesso e chiedo lumi sul disco che stiamo ascoltando. E' il nuovo lavoro di
Teho Teardo con Blixa Bargeld, mi risponde. Teardo mi dice qualcosa, ma la mia
mente non riesce a produrre collegamenti plausibili. Una breve ricerca su
internet, appena arrivato a casa, dipana ogni nebbia : una
lunga carriera solistica in ambito industrial e tante colonne sonore (Il
Divo, La ragazza del Lago, L'amico di Famiglia, Lavorare Con Lentezza). Il nome
di Blixa, invece, crea immediati rimandi : Nick Cave, i Bad Seeds e
soprattutto quel gruppo tedesco, gli Einsturzende Neubauten, che non riesco mai
a pronunciare completamente senza attorcigliarmi la lingua. Ma i nomi, importano
relativamente. La musica che sto ascoltando è talmente straniante, e al
contempo coinvolgente, che voglio quel cd a prescindere. Nei giorni
successivi, Still Smiling, è sempre nel lettore : lo passo una, due, tre, dieci
volte, senza alcuna soluzione di continuità. La cosa strana è che più
lo ascolto e maggiormente cresce in me la curiosità di riascoltarlo, come se
ogni volta, ogni singola volta, non fosse sufficiente per
coglierne l'intima essenza. La ricchezza dei suoni, le stratificazioni e i
continui cambi di registro confondono. Se la struttura architettonica del disco
appare esteriormente un complesso armonioso ed equilibrato, andando a fondo,
soffermandosi sulle singole canzoni, si percepisce invece la complessità di un
messaggio consapevolmente controverso, un ondivago percorso musicale che
si esprime nella seducente dicotomia fra pieni e vuoti, barbagli di sole e
silenzi crepuscolari, epica e intimismo, puntuta ironia e languori
malinconici. l disco è pervaso da una schizofrenia di fondo, certo trattenuta e
incanalata, che è soprattutto schizofrenia del linguaggio. Linguaggio musicale,
dal momento che le composizioni si sviluppano sul contrasto spiazzante fra il
calore di strumenti ad arco (violinio, viola, violoncello) e la freddezza
(post)industriale di un'acuminata elettronica. Ma anche, e soprattutto,
linguaggio inteso come comunicazione, come collante indispendabile per una
musica (e una società) che sia realmente mitteleuropea. Non è un caso che
il disco sia cantato in tre lingue, inglese, italiano e tedesco; non è un caso
che la voce, profonda e morbida di Blixa, più che cantare, declami, lentamente,
con limpida scansione metrica, come a voler essere comprensibile a
tutti; ne è un caso che il disco si apra con la splendida Mi
Scusi, con cui Bargeld si accosta al nostro universo culturale ("il latino
fatto a scuola a un livello cavernicolo") e linguistico ( " l'accento
no, non se ne va"), con la sensibilità e l'umiltà dell'uomo
saggio innanzi al terreno sdrucciolevole dell'inesplorato. Con quella grazia e
quell' attenzione che dovrebbe uniformare ogni rapporto umano alla ricerca di
un punto in comune. Comunicare, entrare in contatto. Eppure, non è agevole
trovare in Still Smiling luoghi comuni o termini di paragone che facilitino la
comprensione. Ogni rimando è poco più che fuggevole. Mi sono venuti in
mente gli Area, John Parish, Yann Tiersen (soprattutto nel dipanarsi
ellittico della malinconica Come Up And See Me), i citati Einsturzende
Neubauten, ma è stato l'attimo di una sensazione. Poi, ogni canzone si defila,
reinserendosi nell'alveo di una genialità cristallina e pressochè
indefinibile. Così verrebbe da dire che, innanzi a questa sinfonia del
contrasto, a questa sconvolgente sinergia musicale degli
opposti, forse è meglio finirla qui, limitarsi riconoscere l'immensa
statura di Still Smiling e attendere, braccia conserte, il mese di dicembre.
Tanto, il disco più bello dell'anno, lo abbiamo già trovato (invece, è
secondo solo per un pelo).
1) JASON ISBELL – SOUTHEASTERN
Un Jason Isbell pettinato, sbarbato, elegante nel
suo completo scuro, ci guarda in un intenso primo piano di copertina. Una foto
certamente bella, ma che non ci trasmetterebbe nulla di
particolare se non fosse per quegli occhi tristi. Occhi di chi ha dovuto
spalare tonnellate di merda per poter tornare a guardare il chiarore del cielo,
di chi ha vissuto intensamente ogni istante, di chi ha conosciuto l'abisso e
quindi una lenta resusserrezione. La fuoriuscita dai Drive By Truckers (tre
dischi e anni di lunghissime ed estenuanti turnè), il divorzio dalla prima
moglie Shonna Tuker, la scommessa di una carriera solista, la scimmia
dell'alcol che ti afferra alla gola e non ti molla, il dolore della solitudine,
l'amore ritrovato, un nuovo matrimonio con Amanda Shires, e poi finalmente, la
libertà dal vizio, il ritorno a una vita normale. C'è tutto in quella foto di
copertina: un uomo ripulito ma anche un passato che ha lasciato
strascichi, cicatrici e ferite ancora sanguinanti, la speranza e il
ricordo della perdizione. Le dodici canzoni di Southeastern sono
esattamente come gli occhi di Isbell, ci raccontano quel passato, quella
tristezza, gli abusi dell'alcol, un nuovo inizio. Piccole storie che sono come
confessioni, le parole che dispiegano i lembi di un sudario ed espongono le
piaghe, l'anima martoriata di un uomo che è ancora vivo, a dispetto di tutto.
Questa è la sincerità di chi non ha più nulla da nascondere e da perdere, di
chi vuole lasciarsi tutto alle spalle e ricominciare la vita proprio dove
inizia l'arte, la musica, la forza taumaturgica del rock. Non ci sono lacrime,
nè autocommiserazione, solo una maturità compositiva che scarnifica la
malinconia, che preferisce raccontare invece che spiegare, trovare un
motivo per ripartire (I've grown tired of traveling alone, won't you ride
with me, won't you ride?- il country agrodolce di Traveling Alone)
invece che recriminare. Sono canzoni pervase da dolorosa quiete, accese
talvolta da antiche scintille southern (la possente Super 8), dal passo
appena accelerato del folk rock (Stockholm) o dalla spinta vitale di
una sferragliante elettricità (Flying Over Water). Piccoli intermezzi, però,
quasi fossero una voce a stento trattenuta in un dialogo dai toni intimi e
confidenziali. Ed è proprio attraverso la dimensione acustica che Isbell riesce
a raccontarsi al meglio, attraverso fragili bozzetti che, ascolto dopo ascolto,
divengono grandi canzoni, di quelle da serbare nel cuore per una vita intera: i
fantasmi della dipendenza nell'iniziale Cover Me Up, la crepuscolare Live Oak,
il pianoforte discreto e nostalgico di Songs That She Sang In The Shower, il
lirismo neilyounghiano di Yvette, il pugno allo stomaco di Elephant, storia
sgomenta di malattia e morte.
Southeastern è un disco autunnale, vestito di
pallido sole, di vento, di passeggiate all'alba, di foglie che danzano
nell'aria e si posano sui nostri passi, secche riminiscenze di una vita
passata, che una foto in bianco e nero ha immortalato per sempre.
Come gli occhi tristi di Jason Isbell che ci si aggrappano all'anima e non ci
lasciano più.