lunedì 30 settembre 2019

IL MEGLIO DEL PEGGIO



Anche Matteo Renzi ha un'anima. Green, come si usa dire oggi. Il fondatore del partito Italia Viva, sull'onda del fenomeno Greta Thumberg, ha annunciato che per ogni tesserato sarà piantato un albero. "Un albero vero", ha precisato compiaciuto. Non vorrei sembrare un bastian contrario, ma in questo caso preferirei meno alberi. E non perché sia indifferente al tema dell'ambiente. Tutt'altro. Trovo, invece, che l'iniziativa ecologista del senatore di Rignano sia l'ennesima operazione furbetta, finalizzata a sedurre gli elettori delusi con quello spirito levantino che da sempre lo contraddistingue. Romanzo Prodi se ne faccia una ragione. 
Alberi a parte, a dispetto di quanto sostiene il Mortadella, Italia Viva potrebbe pure avere la durata di uno yogurt ma che ci piaccia o no, abbiamo a che fare con un "genie du mal". L'importanza di chiamarsi Matteo, e non me ne voglia Oscar Wilde. Tutto è lecito per il senatore di Rignano, scissione inclusa. E poco importa aver curato la regia della fomazione del governo Conte, votarne la fiducia salvo poi sbattere la porta in faccia al Pd e cercare fortuna altrove. Ora, il neo segretario si atteggia a salvatore della patria. Però, prima viene Lui, Renzi. Le priorità vanno rispettate e dunque l'Italia può anche attendere. Con o senza alberi.

Cleopatra, lunedì 30/09/2019

sabato 28 settembre 2019

LAST TEMPTATION - LAST TEMPTATION (earMusic, 2019)

Amanti dell’hard rock vintage di tutto il mondo unitevi! L’esordio sulla lunga distanza dei Last Temptation, infatti, susciterà in voi la medesima eccitazione di un bimbo di fronte al bancone di una pasticceria. 
Questo disco, ve ne accorgerete subito, potrebbe essere stato inciso tranquillamente nel secolo scorso, magari in un decennio compreso tra la metà degli anni ’70 e la metà degli ’80, e gli unici tocchi di modernità, quando ci sono, richiamano al massimo la decade successiva.
La band fondata dal chitarrista Peter Scheithauer (Killing Machine, Belladonna, Temple of Brutality) e dal cantante Butcho Vukovic (Watcha, Showtime) impasta un roccioso hard rock, virato spesso verso sonorità di classic metal, pescando a piene mani fra suoni e attitudini di grandi del genere quali Rainbow, Black Sabbath, Deep Purple, Ronnie James Dio e Ozzy Osbourne. La presenza in studio, poi, di sessionisti dal lungo e nobile pedigree, come Bob Daisley (Ozzy Osbourne, Gary Moore, Rainbow) al basso, Vinny Appice (Dio, Black Sabbath) alla batteria, e Don Airey alle tastiere (Deep Purple, Rainbow) insuffla di energia un suono altrimenti datato e alza di parecchio il tasso tecnico dell’esecuzione.
Tutto già sentito e risentito, diranno prevedibilmente i detrattori, ed è quasi impossibile dar loro torto. Ogni brano è una cavalcata elettrica basata su un riff roccioso, su cui si dispiega il cantato e una sequenza micidiale di assoli, la sezione ritmica (con il grande Vinny Appice sugli scudi) è martellante, e la voce di Vukovic possiede un timbro che evoca a ogni piè sospinto quello di Ozzy Osbourne.
Tuttavia, a dispetto di un canovaccio prevedibile (ma non logoro), non sfuggirà agli appassionati di genere, che questa band possiede un tiro superiore a molte altre che si limitano al più classico dei copia incolla: il disco fila come un treno in corsa per tutti gli undici brani in scaletta (e nonostante la lunga durata del disco, ben cinquantatré minuti, non c’è un momento di cedimento), i cinque stanno sugli strumenti con piglio da ventenni, e le composizioni, pur non possedendo lampi di originalità, sono tutte incredibilmente buone. Valore aggiunto per chi ama un approccio duro e puro, poi, è che le melodie, pur presenti, si inchinano di fronte alla potenza delle esecuzioni e che, in tutto il disco, non c’è nemmeno l’ombra di un momento più raccolto o intimo, un lentone o una ballata.
I Last Temptation non smettono di randellare, a partire dai sei minuti sparati di I Win I Loose, per continuare con il singolo spacca ossa Blow A Fuse, in cui Ozzy Osbourne è più di una semplice fonte d’ispirazione, gli echi Deep Purple di Coming For You, o la splendida Nobody Is Free, il cui cupo riff invischiato di psichedelia e il cantato raddoppiato chiamano in causa addirittura gli Alice In Chains.
Insomma, un disco dall’ossatura decisamente vintage, ma dalla muscolatura guizzante e ben tonificata. Chi ama il genere, non resterà deluso.

VOTO: 7 





Blackswan, sabato 28/09/2019


venerdì 27 settembre 2019

PREVIEW



La band hardcore svedese Raised Fist ha annunciato i dettagli del nuovo album Anthems, primo full-length del quintetto in quattro anni (settimo della discografia), disponibile dal 15 novembre su etichetta Epitaph.
Non c’è da scherzare col frontman della band Alexander 'Alle' Hagman: quando gli chiede cosa ne pensa del nuovo album, lui ha le idee molto chiare. Prodotto da Roberto Laghi e Jakob Herrmann ai Top Floor Studios di Gothenburg e agli Oral Majority Recordings, le canzoni del settimo album del quintetto svedese sono suonate con urgenza e intenzione brucianti. “Abbiamo lavorato molto più duramente su questo album. Per la prima volta nella nostra carriera, batteria e voce hanno avuto lo spazio e il tempo necessari per raggiungere lo stesso livello degli altri strumenti, della musica e delle melodie,” dice Hangman. “Proprio in questo momento, stiamo effettivamente producendo qualcosa che ha un suono nuovo.”
I Raised Fist volevano concentrare gli sforzi solo su dieci canzoni per mantenere l’album breve e l’intenzione chiara. Hangman spiega: “Dopo la cernita del materiale, abbiamo velocemente scoperto di avere buone basi per dieci canzoni. Abbiamo preso la decisione sul momento: questo disco sarebbe stato composto solo da quelle dieci canzoni. Se fosse apparso un altro brano migliore durante il processo, avremmo scartato una canzone già scelta. Non abbiamo mai fatto nulla di simile prima d’ora, ed è un grande passo avanti qualitativo rispetto al passato.”





Blackswan, venerdì 27/9/2019

giovedì 26 settembre 2019

IL SENTIMENTO DEL FERRO - GIAIME ALONGE (Fandango, 2019)

Agli inizi degli anni Quaranta, il maggiore delle SS Hans Lichtblau viene messo alla guida di un programma di ricerca che utilizza i prigionieri dei campi di concentramento come cavie, ma anche come assistenti, inquadrati nel Kommando Gardenia. Sullo sfondo degli esperimenti, la “soluzione finale del problema ebraico”, l’avanzata nazista in Russia e la colonizzazione dei territori dell’Est, poi, inaspettata, la disfatta e la caduta di Berlino. Del Kommando fanno parte Shlomo Libowitz, nato in uno shtetl polacco e convertitosi al sionismo nel Lager, e Anton Epstein, ebreo assimilato della borghesia praghese, convinto che l’unica risposta possibile alla barbarie sia il socialismo. Shlomo e Anton sopravvivono alla guerra e al trattamento di Lichtblau, testimoni scomodi di un mondo passato, eppure ancora capace di influire sul presente. A distanza di quarant’anni, per conto di mandanti diversi e in apparenza inconciliabili, i due reduci si mettono sulle tracce di Lichtblau, il quale, in America Centrale, combatte i sandinisti per conto della CIA, razzia villaggi e smercia droga. Quella di Anton e Shlomo è una vendetta tardiva, in una corsa contro il tempo, perché la vita potrebbe essere troppo breve per saldare tutti i conti. Una spy story in bilico tra due continenti e due epoche, un romanzo corale su una civiltà al tramonto.

Il Sentimento Del Ferro è un libro che fonde mirabilmente due generi (il romanzo storico e la spy story), utilizzando come espediente narrativo la suddivisione del racconto in due diversi piani temporali, il primo, che si sviluppa durante gli anni della seconda guerra mondiale e della persecuzione del popolo ebreo, il secondo, invece, quarant’anni dopo, in un mondo che ancora non ha chiuso i conti con il nazismo. Un scelta, questa, che presenta non poche insidie, ma che Alonge gestisce con sicurezza e indubbia bravura.
Dopo una prima parte preparatoria, in cui vengono introdotti i protagonisti del romanzo, la lettura si fa sempre più intrigante, grazie a un ritmo in crescendo, a numerosi colpi di scena e a momenti d’azione carichi di suspense.
Sarebbe, però, assai riduttivo relegare Il Sentimento Del Ferro, sic et simpliciter, fra le letture di intrattenimento, perché nelle quattrocentosessanta pagine del romanzo c’è davvero molto di più. La ricostruzione storica, infatti, è minuziosa, attenta, e le digressioni sono inserite nel racconto in modo tale da non appesantire la lettura, ma anzi, da renderla ancora più appassionante. Alonge, in questo è un maestro, riesce a raccontare il nazismo, i campi di sterminio, la nascita dello stato di Israele, la Russia degli anni ’80, la lotta dei sandinisti contro il dittatore Somoza e le squadracce dei Contras spalleggiate dalla Cia, con rigore e senza alcuna forzatura, conducendo il lettore avanti e indietro nel tempo senza mai perdere la barra del timone.
E c’è, poi, lo sguardo carico di pietas e di empatia verso le vittime di tutte le guerre e verso una tragedia, come quella dell’Olocausto, troppo spesso raccontata con retorica e senza misura. Ne Il Sentimento Del Ferro, invece, c’è la narrazione asciutta di un abominio, ma anche il taglio compassionevole e colmo di umanità di chi osserva ma non può fare a meno di schierarsi e identificarsi.
Tutto il romanzo, poi, è permeato da un interrogativo etico che rappresenta anche il significato ultimo della narrazione: ha senso vendicarsi dopo tanto tempo trascorso dal male subito? La vendetta porta alla pacificazione interiore, rimette davvero tutte le cose al loro posto, o è l’ennesimo fardello di dolore che graverà sulle spalle della vittima? La risposta, ovviamente, si trova nella coscienza del lettore, che, giunto alla fine del romanzo, si troverà fra le mani un libro emozionante ma anche capace di instillare pensieri e riflessioni non banali.

Blackswan, giovedì 26/09/2019

mercoledì 25 settembre 2019

THE SLOW SHOW - LUST AND LEARN (Pias, 2019)

Talvolta, le logiche del mercato discografico mi sfuggono completamente e faccio fatica a comprendere come alcuni dischi, non semplici, certo, ma molto belli, siano relegati alla nicchia della nicchia, snobbati dagli ascoltatori, e questo ci può stare, ma nemmeno presi in considerazione dalla stampa specializzata.
E’ il caso di questo terzo disco degli inglesi The Slow Show, su cui non è stata scritta una riga, nonostante sia una delle pubblicazioni più interessanti di questo 2019. La band, originaria di Manchester, non è certo una di quelle che aggrediscono il mercato con singoli di facile presa né sono oggetto di battage mediatici volti a ingenerare attesa e interesse da parte del pubblico. Ciò nonostante, in quasi dieci anni di carriera, gli Slow Show, grazie a canzoni votate al minimalismo e ricche di suggestivi paesaggi sonori, sono riusciti a crearsi un discreto seguito soprattutto in Francia, Germania e Olanda. Di loro, però, nel nostro paese, non si è accorto quasi nessuno, ed è un vero peccato, perché Lust And Learn è uno di quei dischi che lasciano il segno e ruba infiniti ascolti alle nostre orecchie e al nostro cuore.
La musica degli Slow Show si muove entro i confini tracciati da band come Elbow, Tindersticks e, soprattutto per una certa somiglianza fra il timbro del cantante, Rob Goodwin, con quello di Matt Berninger, è possibile un qualche accostamento anche ai The National. Eppure, a prescindere da questi evidenti punti di contatto, il marchio di fabbrica del gruppo inglese resta personalissimo.
Da un lato, la varietà di suoni e gli arrangiamenti inusuali, creano un’importante stratificazione, con i vuoti, i silenzi e le esitazioni che si gonfiano all’interno della stessa canzone, fino a creare, in certi casi, un effetto quasi orchestrale. In tal senso la scrittura di Goodwin può apparire calligrafica, ma così non è: soprattutto dall’ascolto in cuffia, è chiaro quanto ogni nota sia necessaria alla resa finale di un brano, e l’uso di archi, cori chiesastici e caldi tocchi di elettronica gentile stiano perfettamente in equilibrio, cogliendo sempre la misura esatta.
Dall’altro lato, poi, gli sfarfallii, le evanescenze, le angeliche voci femminili, le volute ascensionali o le dilatazioni orizzontali dei soundscapes trovano un eccitante contrappunto nella voce di Goodwin, crooner dell’anima, dal baritonale timbro ultraterreno, in cui confliggono estasi contemplativa, afflizione e affettazione dandy.
Lust And Learn è un disco che, fin dal primo ascolto, tocca i sentimenti più profondi dell’ascoltatore. E’ tutto un evocare, un suggerire languori, un toccare le corde dello struggimento malinconico. Eppure, per quanto la malinconia sia il collante delle dodici canzoni in scaletta, non si coglie mai dolore o rimpianto, perché lo sguardo è sereno, pacificato, in alcuni momenti attraversato anche da un’euforia ingenua, quasi fanciullesca (St. Louis). C’è una contemplazione pacata, in queste canzoni, un riaffiorare di ricordi lontani e un’evocazione di immagini, che evitano però di impaludarsi nella vischiosa fanghiglia dell’autocommiserazione, per suggerire, invece, una serena accettazione della perdita: ciò che amavo non c’è più, ma sono felice che ci sia stato e tanto basta.
In tal senso è molto esplicita la copertina del disco: quella natura incontaminata sullo sfondo è la stessa che accarezza di epica le composizioni di Goodwin. Ma è anche lo sguardo rivolto verso il futuro di un uomo solo che tiene per mano i fantasmi della propria vita o il memento di una perdita che la musica ha evocato. Non c’è futuro né speranza se non si rielaborano i traumi o i lutti, gli amori perduti o gli affetti persi per strada, ma nessuno può davvero affrontare l’esistenza che gli resta senza il bagaglio della propria vita passata. Lust And Learn, brama e impara, così è la vita.
Difficile indicare le canzoni più belle di un disco che non perde un briciolo della propria intensità dalla prima all’ultima nota. Ma so per certo che brani come Eye To Eye, Breatheair, The Fall o Exit Wounds sono pervasi da una tendenza all’assoluto emotivo così invasiva da impedirmi di uscire da un loop di ascolto che dura ormai da due settimane. Sentirsi un tutt’uno con la musica che si ascolta è un’emozione impagabile.

VOTO: 9





Blackswan, mercoledì 25/09/2019

martedì 24 settembre 2019

PREVIEW




Wave, il nuovo album dell’artista canadese Patrick Watson, sarà disponibile dal 18 ottobre via Domino in tutto il mondo e via Secret City per il Canada. Wave è il follow-up di Love Songs For Robots del 2015.
Assieme all’annuncio dell’album è stato pubblicato anche il video di “Dream For Nothing”, diretto da Joël Vaudreuil. Parlando della canzone, Watson dice: “Quando torni a casa e la tua casa non assomiglia a quella che hai lasciato e la strana sensazione di essere così lontano da quello che avevi in mente che la tua pelle non si adatta più. E sei in uno stato di incredulità con uno strano sorriso stampato in faccia e ti chiedi: cosa farò adesso?”.
Il sesto album di Watson parla di un’onda che ti rovescia quando ti rendi conto che tutto ciò che hai nella vita può essere cancellato in un momento – e di imparare a non annegare nel processo. Durante la realizzazione del disco, Patrick ha perso la madre, si è separato e il suo batterista, con lui da sempre, ha abbandonato il gruppo. Watson si è portato un quaderno sotto le onde e ha composto canzoni sulla malinconia. Parlano di come a volta tu sia costretto a cantare una canzone d’amore a te stesso quando nessun altro lo fa, facendoti guidare dal suono e imparando a fidarti del fatto che da qualche parte dovrai atterrare. È molto intimo e personale ed è il più umile di tutti i suoi dischi.
Riflettendo sugli eventi della sua vita personale e avendo iniziato la sua carriera di cantante nel coro della chiesa, Watson nota: “Si tratta della differenza tra cantare un assolo sulla tomba di uno sconosciuto e cantarne uno al funerale di tua madre.”
L’album contiene anche “Broken” e “Melody Noir”, i singoli pubblicati rispettivamente nel 2017 e nel 2018, durante la lavorazione dell’album.





Blackswan, martedì 24/09/2019

lunedì 23 settembre 2019

IL MEGLIO DEL PEGGIO




Ogni estate che se ne va lascia un ricordo. Diceva Gustave Flaubert: "Un'estate e' sempre eccezionale, sia essa calda o fredda, secca o umida". Per il nostro Paese è stata politicamente eccezionale. E così capita che in un pomeriggio di agosto mentre la canicola impazza e hai solo voglia di addentare una fetta di cocomero sotto l'ombrellone, che ti ritrovi seduto a guardare Salvini in Parlamento a cannoneggiare contro un "governo dei no", farneticando su congiure a suo danno da parte di Grillo, Renzi, Merkel e del Fantasma Formaggino. 
Non ancora pago di una estenuante campagna elettorale h 24 che ci ha condotti stremati alle europee, che già l'iperattivo (sui social) ex Ministro dell'Interno e Dintorni annuncia sfracelli e piazze piene contro i poltronari di palazzo. Come se il profumo della cadrega non avesse inebriato pure lui. Come se la crisi (surreale) di governo da lui innescata non avesse a che fare con il potere. Pensavamo, a torto, di esserci liberati di un soggetto abile solo a ingolfare il web di esternazioni, perlopiu' dannose, e di facili slogan ripetuti a nastro per imbambolare gli sprovveduti. Ci illudevamo di prendere almeno una pausa da un personaggio aduso solo ad apparire, attività in cui mostra una innata propensione, in costume da bagno circondato da cubiste, mentre balla sulle note dell'inno di Mameli. Dal Papeete, la sede distaccata del Viminale, Salvini impartiva ordini, dettava la linea politica. Un caso più unico che raro. 
Un Capitano- così ama definirsi- degradatosi a mozzo nel giorno più pazzo della storia repubblicana. È bastato un discorso articolato e garbato di un Premier a demolire l'inconsistenza e la sgangheratezza di un ministro troppo ridondante, per usare un eufemismo. Ridondante nell'ego quanto l'altro Matteo, novello scissionista. Il senatore di Rignano si riprende la scena. Per il bene dell'Italia. Tutti lo fanno per il bene del Paese. Persino Giovanni Toti. Questa è la loro narrazione. Peccato che il gioco è bello quando dura poco.

Cleopatra, lunedì 23/09/2019

sabato 21 settembre 2019

PREVIEW




Blanco White, il progetto dell’artista di base a Londra Josh Edwards, annuncia l’attesissimo album d’esordio On The Other Side, in uscita il 3 aprile 2020 su Yucatan Records. Dopo la pubblicazione del singolo “On The Other Side” avvenuta questa estate, Josh presenta oggi il sognante video del nuovo brano “Papillon”, diretto dal regista Javier Lara.
Sul brano, Josh racconta: “‘Papillon’ è ispirato all’omonimo libro di Henri Charrière. È stato un libro molto importante per uno dei miei amici e ha avuto un effetto simile anche su di me. La maggior parte della narrazione si svolge nell’acqua, quindi volevo che anche questa canzone avesse una sorta di velo luccicante nonostante le increspature”.
Avendo studiato prima chitarra a Cadiz in Spagna e poi il charango (uno strumento andino) a Sucre in Bolivia, lo scopo di Josh è quello di fondere elementi della musica andalusa e latino americana a delle sonorità più vicine alla sua realtà attuale. Finora, Blanco White ha pubblicato tre EP, The Wind Rose, autoprodotto nel 2016, Colder Heavens, prodotto da Ian Grimble (Bear’s Den, Matt Corby, Daughter) nel 2016, e Nocturne nel 2018. Durante questi anni, Josh è riuscito a portare la sua musica in giro per il mondo e ad ottenere numeri strabilianti sulle piattaforme di streaming. Il nuovo album è stato per la maggior parte registrato a Londra ed è stato prodotto dallo stesso Josh e mixato da Jake Jackson degli Air Studios con la collaborazione di Dani Spragg.





Blackswan, sabato 21/09/2019

venerdì 20 settembre 2019

SPOON - EVERYTHING HITS AT ONCE: THE BEST OF SPOON (Matador, 2019)

Se Sheryl Crow ha deciso di non pubblicare più album in studio, perchè ormai nessuno compra più dischi e tutti si fanno le loro playlist, i texani Spoon vanno in direzione diametralmente opposta e rilasciano addirittura un best of. Un’operazione che, se vogliamo, possiede logica stringente: quella, cioè, di riappropriarsi della propria musica proponendola al pubblico con un filo conduttore che dipenda esclusivamente dalle scelte dell’artista e non dal capriccio del singolo fruitore. Una sorta di controrivoluzione culturale, anacronistica e conservatrice, certo, ma che punta a combattere il depauperamento artistico della musica, garantendo a chi è veramente interessato una cronologia di ascolto ragionata e anche un’ottima resa sonora.
Patrimonio di pochi nel nostro paese, ma con un cospicuo seguito e grande notorietà negli States (per dire: il candidato democratico alle presidenziali, Pete Buttigieg, utilizza la loro The Way We Get By in apertura dei suoi comizi), la band originaria di Austin, dopo ventitre anni di carriera e sette full lenght all’attivo, ha sentito il bisogno di mettere un punto fermo e fare un bilancio della musica lasciata alle spalle.
Tredici canzoni in tutto (una, però, è un brano nuovo, No Bullets Spent), che pescano da cinque album a partire dal 2001 (i primi due sono stati accantonati) e che ripropongono quasi tutto il meglio che abbiamo potuto ascoltare in due decenni (con qualche dolorosa assenza: mancano, a parere di chi scrive, Don’t Make Me A Target e la bella cover di I Just Don’t Understand). Una scaletta che suona meravigliosamente bene e che evidenzia come fil rouge lo stile riconoscibilissimo del quartetto capitanato da Britt Daniel, un indie rock di qualità, che aggira il prevedibile e che viene declinato con accenti diversi.
Così a fianco della menzionata e celebre The Way We Get By, pimpante brit pop in quota ninenties (Supergrass), si trovano gli ammiccamenti amarognoli e nostalgici della superba Do You, il funky sinuoso di I Turn My Camera On, la chitarra croccante di I Summon You, il beat trascinante di You Got Yr Cherry Bomb, i graffi rock di Rent I Pay, il tiro post punk di Got Nuffin o il riff impetuoso di Hot Thoughts, ultima hit in ordine di tempo.
A chi mai potrà interessare questo best of? Difficile dirlo. Probabilmente ai completisti e a coloro che, leggendo questa e altre recensioni su Everything Hits At Once avranno il desiderio di scoprire questa validissima band americana. Con la speranza, poi, che vadano a recuperare almeno Gimme Fiction (2005) e Ga Ga Ga Ga Ga (2007), due tra i migliori dischi di indie rock a stelle e strisce del decennio scorso.

VOTO: 7,5





Blackswan, venerdì 20/09/2019

giovedì 19 settembre 2019

PREVIEW




Van Morrison annuncia i dettagli del suo nuovo album: si intitolerà Three Chords And The Truth, sarà pubblicato il 25 ottobre su Exile/Caroline International e sarà disponibile su CD, vinile e in tutti gli store digitali.
Three Chords And The Truth è davvero un lavoro meraviglioso, contiene quattordici composizioni inedite che rappresentano alla perfezione lo stile di Van Morrison e mostrano le incredibili doti di uno dei cantautori più acclamati al mondo. Il suo sesto album in quattro anni Three Chords And The Truth prova ancora una volta come Van Morrison sia uno dei più grandi artisti di sempre.  
Three Chords And The Truth è stato scritto e prodotto da Van Morrison, fa eccezione il brano “If We Wait For Mountains” che l’artista ha scritto insieme a Don Black. Sull’album troviamo anche la collaborazione del leggendario chitarrista Jay Berliner e un duetto con Bill Medley dei The Righteous Brothers (“Fame Will Eat The Soul”). Sul processo di registrazione dell’album, Van Morrison racconta: “Mi ci sono immerso completamente… Quando gli altri suonavano, era come se rivedessi me stesso nelle loro note. Quindi penso ci sia una forte connessione.”
Van Morrison annuncia anche un tour in supporto del nuovo album e una serie di cinque date davvero speciali al Palladium di Londra a marzo. Qui tutte le date, per biglietti e ulteriori informazioni visita www.vanmorrison.com/live





Blackswan, giovedì 19/09/2019

mercoledì 18 settembre 2019

SLEATER-KINNEY - THE CENTER WON'T HOLD (Caroline International, 2019)

Crocevia della morte fra la rabbia militante delle riot grrrl (le Bikini Kill e le Babes In Toyland stanno solo a un tiro di schioppo) e le derive rumorose della Gioventù Sonica, il terzetto originario di Olympia ci hanno regalato almeno un paio di dischi (Call The Doctor e Dig Me Out) da conservare fra i capitoli più preziosi della nostra discografia nineties. Poi, a partire da Hot Rock del 1999, un po’ si sono perse, accantonando la ferocia iniziale per abbracciare una forma canzone più convenzionale e meno urticante. L’ultimo capitolo della loro storia risale al 2005, ed è segnato da The Woods, quello che per molti rappresentava il disco della rinascita (un nuovo suono, caratterizzato anche da assoli di chitarra e arricchito da scorie psichedeliche) e che invece segnò, tra lo stupore e il disappunto dei numerosi fans, il loro scioglimento.
Orfani di tanto amore, i fan hanno atteso quasi dieci anni, finché nel 2015 i sogni si sono avverati: Corin Tucker, Carrie Brownstein e Janet Weiss sono tornate sulle scene con No Cities To Love, un disco che fin dalle prime note ci rimandava immediatamente al loro momento di maggior creatività. Se qualcuno pensava che dieci anni di silenzio e la raggiunta maturità (le tre ex ragazze sono ormai tutte ultraquarantenni) avrebbero fiaccato lo spirito e la tensione che animava Dig Me Out, è stato servito: le dieci canzoni, per una durata complessiva di poco più di trenta minuti, sono infatti ciò che maggiormente si avvicina alla forza iconoclasta di quel fantastico disco.
In No Cities To Love c’era, in definitiva, tutto lo Sleater Kinney pensiero: lo stridere disturbante delle due voci (la Tucker a ringhiare la melodia e la Brownstein a giocare sul contrappunto disturbante), gli spigoli acuminati di riff assassini, l’ardore scompigliato di assalti sonori all’arma bianca, i testi abrasivi e senza fronzoli. Inevitabile, dunque, che l’attesa per questo The Center Won’t Hold, durata quattro anni, fosse a dir poco spasmodica, soprattutto per chi, come il sottoscritto, non si è perso un capitolo della storia delle tre ragazze americane. Fin dal primo ascolto, però, è evidente che ciò che eravamo pronti ad ascoltare oggi non c’è più. The Center Won’t Hold, infatti, viaggia in direzione diametralmente opposta a No Cities To Love, è un disco di pop in abiti indie, più contiguo all’elettronica che allo sferzante sferragliare delle chitarre, esteticamente moderno, ricco di melodie, alcune delle quali di sicura immediatezza.
Una svolta decisiva nel suono dei Sleater-Kinney a cui ha contribuito, direi in modo massiccio, la presenza di St. Vincent in cabina di regia. Una delusione? In parte si, ma non, però, a cagione della nuova veste sonora. Il disco è molto piacevole, le soluzioni degli arrangiamenti, che dovranno certamente essere metabolizzati dai vecchi fan, sono intriganti e vi è una sensuale eleganza formale altamente seduttiva. Quello che manca, soprattutto nella parte centrale del disco, sono le canzoni: non c’è nulla di veramente brutto o deludente, ma nulla che provochi un sussulto o che emozioni veramente.
Certo, momenti di valore non mancano. La title track che apre il disco con atmosfere bluesy illividite da ipnotiche ritmiche industrial, che sfociano in un lampo di antica ed elettrica ferocia, è un ottimo biglietto da visita. Anche Hurry On Home, con la ritmica arrembante e il bel tiro melodico, l’ossatura rock contornata dallo sfarfallio di synth di Reach Out o la ballata per pianoforte e voce di Broken che chiude il disco, sono canzoni all’altezza della fama delle Sleater.
Tutto il resto, nonostante la ricchezza di suoni e la facilità dei ganci melodici, sembra non possedere la stessa forza delle canzoni citate, come se l’aver incanalato l’antica irruenza nell’alveo di una forma esteticamente più rifinita e moderna avesse prodotto una normalizzazione dell’ispirazione. Non da buttare, anzi, ma sicuramente un disco non all’altezza del glorioso passato.

VOTO: 6,5





Blackswan, mercoledì 18/09/2019

martedì 17 settembre 2019

PREVIEW




Everything Else Has Gone Wrong, il nuovo album dei Bombay Bicycle Club, sarà pubblicato il 17 gennaio su Caroline International/Island Records. Questo album segue l’acclamato So Long, See You Tomorrow pubblicato nel 2014, nominato ai Mercury Music Prize e #1 in classifica.
Il nuovo disco è stato per la maggior parte registrato negli Stati Uniti insieme al produttore John Congleton (St. Vincent, Sharon Van Etten, War On Drugs), che ha vinto un Grammy Award, e include anche il nuovo pulsante singolo “Eat, Sleep, Wake (Nothing But You)”. Il video del singolo è stato girato in Ucraina e diretto da Louis Bhose, che per un po’ di tempo ha seguito la band in tour come tastierista e si è poi affermato come regista diventando un punto di riferimento per molti altri artisti tra cui Michael Kiwanuka & Tom Misch, Lewis Capaldi, The Big Moon e Loyle Carner.
Sul titolo del nuovo album, il cantante e chitarrista dice: “Questo album è per chiunque abbia mai cercato e trovato conforto nella musica nel momento del bisogno, che si trattasse di farla o semplicemente di ascoltarla. Per me parla della frustrazione che deriva dal non sapermi esprimere mai appieno con gli altri, da tutte quelle conversazioni rimaste in sospeso o che hanno dato vita a fraintendimenti. Io comunico attraverso la musica, mi affido a lei”.
I Bombay Bicycle Club sono cresciuti e si sono evoluti molto rispetto al 2009, anno di pubblicazione del loro album d’esordio I Had The Blues But I Shook Them Loose, quando erano ancora dei teenager. Negli ultimi anni sono state davvero poche le band inglesi capaci di evitare le etichette e formare una fanbase così solida e variegata in tutto il mondo. Con un innato senso della melodia e del ritmo, la band ritorna sulle scene proprio quando anche le chitarre tornano ad essere un elemento fondamentale della musica inglese. 
In concomitanza con l’annuncio dell’album, i Bombay Bicycle Club svelano una serie di date nel Regno Unito e in Irlanda che si aggiungono a quelle negli Stati Uniti e a quelle per la celebrazione dei 10 anni di I Had The Blues But I Shook Them Loose che hanno registrato il tutto esaurito in pochi secondi.
Ritrovarsi a suonare insieme è stata una sorpresa inaspettata per tutti noi, eppure dal primo istante in cui abbiamo iniziato a provare abbiamo capito che era come se fossimo stati sul palco anche la sera prima. Quando suoniamo, sia in studio che dal vivo, si crea una bella energia e non vediamo l’ora di portare i nuovi brani in giro per il mondo”, dice Jack.





Blackswan, martedì 17/09/2019

lunedì 16 settembre 2019

KAISER CHIEFS - DUCK (Polydor, 2019)

A eccezione del frizzante Employment, datato 2005, non è che i Kaiser Chiefs si siano mai distinti per particolari intuizioni creative. Il loro pop rock melodico e danzereccio forse reggerà bene l’impatto con le classifiche, ma da un punto di vista artistico continua a ripetere stancamente i medesimi chichè (clamorosamente british) già consunti da tempo.
Indistinguibile da molte band coeve (Maximo Park, Franz Ferdinand, Kooks, Arctic Monkeys etc.), il quintetto di Leeds (orfano ormai da sette anni della mente pensante, Nick Hodgson), ha avuto notorietà internazionale nel 2007 con un singolo spacca classifiche come Ruby, per poi traccheggiare in una innocua mediocrità artistica, che ha alternato dischi piacevoli (The Future Is Medieval del 2011) a imbarazzanti cadute di stile (Education, Education, Education, War del 2014), belle melodie di facile presa ben confezionate (Meanwhile Up In Heaven, Little Shocks, Parachute, etc) alla reiterata riproposizione del consunto menù della casa.
Questo nuovo Duck, che vede nuovamente in cabina di regia Ben H. Allen (che aveva già messo mano a Education, Education, Education, War) coadiuvato, questa volta, da Iain Archer (Snow Patrol, James Bay e Jake Bugg), non sposta di un centimetro il baricentro di una musica di cui, ormai, sono svelati tutti i pregi e tutti i difetti. La consueta miscela di brit pop, rock e indie, un filo di retrogusto eighties, due buoni singoli come Record Collection e People Know How To Love One Another, prevedibili ma pimpanti e divertenti, qualche buona canzone, capace di farsi ricordare anche dopo il primo ascolto (The Only Ones) e chincaglieria beatlesiana luccicante e colorata (Kurt vs Frasier – The Battle For Seattle). Il tutto condito da chiassosa esuberanza, divertita leggerezza e un filo di tamarragine.
I fan della prima ora apprezzeranno sicuramente, per gli altri il consiglio è quello di approcciarsi al disco senza eccessive pretese. Se lo scopo è solo quello di divertirsi, azzerando le funzioni intellettuali, Duck assicura quaranta minuti di piacevole spensieratezza. E’ innocuo, di sicuro male non vi farà.

VOTO: 6,5





Blackswan, lunedì 16/09/2019

sabato 14 settembre 2019

PREVIEW




Gli Higher Power, quintetto di Leeds (UK) noto per il distintivo mix di grunge, hardcore e funk, firmano per Roadrunner Records e annunciano la pubblicazione del loro nuovo album dal titolo “27 Miles Underwater”, in uscita venerdì 24 gennaio 2020 (in Italia solo in versione digitale). La band presenta inoltre il nuovo singolo dal titolo Seamless”.
“‘Seamless’ è stata una delle ultime canzoni che abbiamo scritto per l’album”, spiega il cantante Jimmy Wizard parlando del nuovo brano. “È nata in maniera del tutto spontanea e naturale, mentre la scrivevamo sapevamo già sarebbe stata il primo singolo di ‘27 Miles Underwater’. Rappresenta perfettamente tutto ciò che è questo album”.
Registrato con il produttore Gil Norton ai Modern World Studios di Tetbury (UK), “27 Miles Underwater” segue Soul Structure”, album di debutto inserito da Revolver tra i “20 Migliori Album del 2017”. 27 Miles Underwater” è già disponibile in pre-order.
Formati dai fratelli Jimmy Wizard (voce) e Alex Wizard (batteria), dai chitarristi Louis Hardy e Max Harper e dal bassista Ethan Wilkinson, gli Higher Power si sono velocemente imposti sulla scena musicale inglese ad inizio 2015 con il loro primo e omonimo demo. Incurante delle barriere musicali e con uno spiccato amore per la scena hardcore newyorkese, la band ha in breve tempo conquistato il Regno Unito. Sempre nel 2015, esce il secondo demo “Space to Breathe”. Nel 2017 gli Higher Power pubblicano il loro primo album Soul Structure”, acclamato dalla critica internazionale e caratterizzato da un approccio unico in grado di unire funk, rap, rock e psychedelia.





Blackswan, sabato 14/09/2019 

venerdì 13 settembre 2019

SHERYL CROW - THREADS (Big Machine, 2019)

Mai come in questo caso è doveroso partire da una notizia che solo in parte ha a che vedere con la recensione di quest’album. Threads, stando alle dichiarazioni di Sheryl Crow che ne hanno anticipato l’uscita, sembrerebbe, infatti, essere l’ultimo disco in studio della songwriter del Missouri. La musica è cambiata, nessuno più ascolta un disco per intero, tutti si fanno playlist, e allora che senso ha pubblicare full lenght che ormai hanno perso ogni fascino e attrattiva? Questo in sostanza il pensiero della Crow, che alle soglie dei sessant’anni ha deciso di tirare i remi in barca, almeno per quanto riguarda questo aspetto della sua carriera. Continuerà a tenere concerti e a scrivere canzoni, ma niente più dischi.
Una circostanza, che getta una luce particolare su Threads, raccolta di canzoni inedite e cover, in cui Sheryl duetta con amici e ospiti, tutti di notevole peso artistico. Una sorta di celebrazione di celebrazione di quasi trent’anni di carriera, un testamento spirituale, una grande festa d’addio o il canto del cigno, scegliete voi la definizione che ritenete più opportuna.
Sta di fatto che per quest’ultimo capitolo, la Crow ha fatto le cose in grande, convocando a sé un parterre de roi da far tremare le vene nei polsi. Insomma, ci sono quasi tutti, da Willie Nelson a Keith Richards, da Stevie Nicks a Jason Isbell, da James Taylor a Neil Young. Tanta carne al fuoco, dunque, e forse troppa: il disco, infatti, è molto lungo e non tutto risulta essere all’altezza delle aspettative. E’ come se la Crow, presa da brama completista, avesse voluto inserire in questo lungo addio tutto quello che aveva nei cassetti.
Intendiamoci, non c’è nulla di veramente inascoltabile, a parte forse la stucchevole chiusura di For The Sake Of Love in duetto con Vince Gill, ma alcune canzoni sono, per così dire, prescindibili (The Worst con KeithRichards, Story Of Everything con Chuck D, Andra Day e Gary Clark Jr e Don’t con Lucius). Il resto invece non è affatto male, con alcuni vertici di livello altissimo.
Se l’iniziale ed esuberante, Prove You Wrong (con Stevie Nicks e Maren Morris), una Live Wire dalle cadenze bluesy (con Bonnie Raitt e Mavis Staples) o la radiofonica Wouldn’t Want To Be Like You (con St. Vincent) confermano un ritrovato stato di forma, quando Sheryl si trova a duettare con vecchi mostri sacri, la bellezza del disco subisce un’impennata. I duetti con Willie Nelson (la struggente Lonely Alone), Kris Kristofferson (l’intensa Border Lord) e quello con Emmylou Harris (Nobody’s Perfect), infatti, rientrerebbero di diritto in un prossimo greatest hits della songwriter statunitense.
Una menzione a parte merita l’antimilitarista Redemption Day in duetto con Johnny Cash, canzone che “the man in black” aveva già inciso per American VI: Ain’t No Grave, e che oggi vede nuova luce con le parti vocali di Sheryl aggiunte postume. Emozionante vetta di un disco bello, anche se non eccelso, che rende comunque l’addio alle scene della Crow un po' più doloroso.

VOTO: 7 





Blackswan, venerdì 13/09/2019

giovedì 12 settembre 2019

PREVIEW




I Weezer, band multi-platino vincitrice di un Grammy Award, presentano il nuovo singolo dal titolo “The End of the Game”, disponibile da ora in streaming e accompagnato da un inedito video ufficiale. Prodotto da Suzy Shinn, “The End of the Game” anticipa il quattordicesimo album in studio della band californiana dal titolo “Van Weezer” e atteso per maggio 2020. L’ispirazione per il nuovo album arriva dalle radici musicali metal della band. Cos’ha a che fare il metal con i Weezer? Molto più di quanto è possibile immaginare. Rivers è un grande fan dei KISS, Brian adora i Black Sabbath, Pat ama Van Halen e i Rush e Scott è da sempre fan degli Slayer e dei Metallica. L’ultima volta che l’hard rock è entrato nella musica dei Weezer è stato nel 2002 con l’amato album “Maladroit”. “Van Weezer” eleva ai massimi livelli il suono di quell’album, grazie anche alla produzione di Suzy Shinn. 
"The End of the Game" è il primo singolo inedito dalla pubblicazione di “Weezer (The Black Album)” e dalla collezione di cover “Weezer (The Teal Album)”. Insieme, i due album hanno totalizzato oltre 100 milioni di streaming in tutto il mondo. La band ha venduto più di 10 milioni di album solo negli Stati Uniti e oltre 35 milioni di album in tutto il mondo. Il loro catalogo include megahit come “Buddy Holly”, “Undone (The Sweater Song)”, “Say It Ain’t So”, “El Scorcho”, “Hash Pipe”, “Island In The Sun”, “Beverly Hills” e “Pork and Beans”. 
I Weezer saranno impegnati in un tour mondiale negli stadi insieme ai Green Day e ai Fall Out Boy. The Hella Mega Tour, in collaborazione con Harley-Davidson, prenderà ufficialmente il via il 13 giugno 2020 a Parigi e toccherà svariate città in tutt’Europa (in Italia il 10 giugno a Milano all’Ippodromo Snai), in Gran Bretagna e Nord America.





Blackswan, giovedì 12/09/2019

mercoledì 11 settembre 2019

EAGLES OF DEATH METAL - BOOTS ELECTRIC (Universal Music, 2019)

Nel precedente disco degli EODM, Zipper Down (2015), risaltava in scaletta una cover, stramba assai, di Save a Prayer dei Duran Duran. Quella reinterpretazione, rimasta un unicum per quattro anni, oggi diventa il leit motiv di Boots Electric (Performing The Best Songs We Never Wrote), disco, come si evince dal titolo, composto esclusivamente di reinterpretazioni di brani pescati dal repertorio di altri musicisti.
Jesse Hughes, si sa, ha sempre avuto un approccio irreverente alla sua arte, che può piacere o meno, ma di sicuro non è mai prevedibile. I suoi Eagles Of Death Metal, infatti, tutto suonano fuorchè il genere che si potrebbe immaginare nel nome, e questo raccolta, che omaggia le influenze del suo leader, pesca dai più svariati generi, a volte distantissimi dall’immagine di rock band data dal combo californiano.  
Il motivo per cui ho deciso di fare un disco di cover” ha spiegato Hughes in un’intervista rilasciata poco dopo l’uscita di Boots Electricè che adoro lo spettacolo e adoro il rock e quando amo qualcosa la tengo in grande considerazione. Questa raccolta di canzoni raccoglie quelle che mi ha fatto venire voglia di fare musica. Immagino che questa sia la mia lettera d'amore a tutti coloro che mi hanno ispirato”.  
Come si diceva, la scaletta non è affatto omogenea, in quanto a fonti d’ispirazione, alcune assolutamente plausibili, altre decisamente sorprendenti. Ci sono i Kiss di God Of Thunder ad aprire le danze, i Guns And Roses di It’s So Easy e gli Ac/Dc di High Voltage e It’s A Long Way To The Top, fuse in un’unica traccia, ma tutte rilette secondo un approccio che evita il copia incolla, grazie a ritmiche diverse e a un suono che sta a metà fra il glam e un psichedelia sfocata.
Poi ci sono i brani che proprio non ti aspetti, e che rendono decisamente interessante la raccolta. Abracadraba della Steve Miller Band, classicone del 1982 che scalò le classifiche di mezzo mondo, resa molto sexy grazie alla presenza della cantante Shawnee Smith, che duetta con Hughes, Careless Whisper di George Michael, che contro ogni probabilità, risulta davvero ben riuscita, in questa versione mutilata del celebre assolo di sax e resa più grintosa e ricca di glamour, o una irriconoscibile Moonage Daydream da Zyggy Stardust di David Bowie, qui suonata in chiusura e presentata in una stramba veste sonora, come se fosse presa da una vecchia e gracchiante registrazione fatta da Robert Johnson o Charley Patton.
Sono, però, proprio questi azzardi, coraggiosi e intelligenti, a rendere Boots Electric un disco, di cui forse potevamo fare a meno (ma quale disco di cover è veramente indispensabile?), ma che alla resa dei conti si fa apprezzare proprio per lo sguardo inconsueto e irriverente. 

VOTO: 6,5





Blackswan, mercoledì 11/09/2019