sabato 30 giugno 2012

TRA MARIO E MONTI, PREFERISCO PIRLO


Balotelli mi sta sul cazzo, su questo non ci piove. Anche se è sempre meglio dell’altro Mario, quello che in combutta con un manipolo di ragionieri, millanta di governare il paese, fottendo il futuro ad almeno due generazioni. Potere delle banche e dell’ignavia di una classe politica di cialtroni, e per giunta ladri di polli. Balotelli ha dalla sua, almeno concettualmente, l’idea di un’Italia interregionale e multietnica, che si contrappone alla gretta contabilità di Monti, grazie a una bella ipotesi di integrazione e tolleranza ( un nero italiano che parla bresciano ed è nato a Palermo, da una coppia di ghanesi, trasmette belle suggestioni ). E poi, almeno, Balo non dice proprio tutte le cazzate prodotte dal suo unico neurone: talvolta qualcuno riesce a stopparlo mettendogli la mano sulla bocca. Certo, viene da ridere.Quello che fino a due giorni fa era considerato dall’opinione pubblica un emerito coglione, adesso diventa d’un tratto il golden boy dell’unità nazionale. E’ chiaro che sul talento del ragazzo non si discute : Mario il nero possiede un’arte pedatoria di natura divina, è assimilabile potenzialmente a giocatori del livello di Messi e Ronaldo, e se sarà capace, non dico di crescere, ma di arginare libido e atteggiamenti guasconi, probabilmente entrerà nella ristretta cerchia dei più grandi di sempre. D’altra parte, Mario è l’emblema della contraddizione degli eccessi : un campo di letame da cui nascono rose profumatissime, genio ( calcistico ) immenso e inettitudine alla vita. Non capire questo, confondere le afasie mentali con tecnica e fisicità del calcio, è da tromboni del bar sport, da quelli che il calcio lo leggono solo sulla Gazzetta. Ma come il suo più sobrio omonimo di governo, Mario non ci rappresenta, o almeno non rappresenta buona parte degli italiani. 



Che sono più fantasiosi, sensibili e meno ricattabili di Monti, che pensano al prossimo e alle future generazioni, e che non passano le giornate tra discoteche e zoccole, fra negozi d’abbigliamento e analfabeti di ritorno. No, c’è anche una bella Italia che, bisogna ricordarlo, in condizioni di normalità, non si identifica, e mai potrebbe farlo, con questa nazionale di pallonari viziati dalla vita, interdetti alla civiltà, indagati e scommettitori per indole. Ma la memoria nel nostro paese, si sa, ha le gambe cortissime e quello che si diceva non più tardi di tre settimane fa a proposito della compravendita di partite e scommesse a dir poco sospette, è stato spazzato via da un’impresa calcistica che ha dell’incredibile. Allora, domani, come sempre accade,  sarà lo sport a trionfare , e noi saremo pronti a sventolare il tricolore e a cantare l’inno, ad abbracciarci e baciarci dopo un eventuale goal di Mario, a riempire le piazze di lacrime e gioia nel caso l’undici azzurro battesse la Spagna. Tutto bello e tutto ipocrita. Funziona così il calcio, che è un romanzo avvincente solo se a scriverlo è la penna della retorica. E allora, retorica per retorica, quando i nostri cuori domani palpiteranno all’unisono, pensiamo almeno che a vestire i nostri colori, là a centrocampo, dove la battaglia infuria, c’è un italiano che ci somiglia un pò di più. Geniale, umile, discreto, coraggioso. L'understatement che inventa rabone e millimetrici assist. Si chiama Andrea Pirlo. Testa e cuore della nazione che non si riconosce nella mediocrità umana di quei due che portano il nome Mario.
Vamos a ganar!

Blackswan, sabato 30/06/2012

giovedì 28 giugno 2012

SONATA A KREUTZER - LUDWIG VAN BEETHOVEN



Quando Lev Tolstoj, nel 1888, ascolta per la prima volta la sonata per violino e pianoforte di Ludwig Van Beethoven detta a Kreutzer, conosce perfettamente il concetto per cui spesso l’arte altro non è che una replica della vita. Ma certo non può immaginare che quella musica, così meravigliosamente sensuale, finirà proprio per rispecchiarsi nella sua di vita, in un intreccio indissolubile di realtà e finzione, di letteratura e verità.
Durante l’esecuzione della sonata, a fianco di Lev Nikolaevic sono seduti il pittore Repin e e l’attore Andreev Burlak. Tutti e tre rimangono così ammaliati dal potere di quel brano tanto seducente e carnale, che decidono di rendere l’impressione suscitata dalla musica attraverso gli strumenti della loro arte. Tuttavia, Repin mollò subito il colpo, mentre Burlak decedette nel maggio del 1988, senza avere il tempo di realizzare alcunché. Solo Tolstoj rispettò l’impegno preso e scrisse di getto la prima stesura del romanzo, che vedrà la pubblicazione qualche anno più tardi, nel 1891, con lo stesso titolo della sonata di Beethoven. 


La storia raccontata nel breve romanzo è, ad un primo piano di lettura, il più classico dei melodrammi della gelosia. Il protagonista, Pozdnyšev, presenta alla propria moglie, appassionata di pianoforte, un avvenente musicista, che in poco tempo inizia a frequentare con assiduità la casa della coppia. Lentamente, ma inesorabilmente, si fa largo nell’immaginazione del marito il dubbio che fra la moglie e l’uomo stia nascendo una tresca. All’inizio sono solo sospetti, che però prendono le sembianze della consapevolezza quando Pozdnyšev ascolta i due, lei al pianoforte e lui al violino, eseguire la Sonata a Kreutzer di Beethoven. Tuttavia, convinto che il musicista stia per partire ed uscire per sempre dalla sua vita, Pozdnyšev si assenta di casa alcuni giorni per curare i propri affari in provincia. Una lettera della moglie, ricevuta due giorni dopo la partenza, riaccende la gelosia dell'uomo: il violinista non è partito e le ha già fatto visita. Pozdnyšev ritorna precipitosamente a casa, dove arriva in piena notte. Trovandola a tavola con il musicista, in preda alla rabbia, l'uomo pugnala la moglie.
Se il tradimento vi sia effettivamente stato non è dato di sapere, e a Tolstoj poco importa, dal momento che a tal proposito nulla dice. Lo scopo del grande romanziere russo è semmai quello di raccontare, attraverso il potere evocativo della musica, l’ingannevole deriva imboccata dalle suggestioni della carne e della gelosia, ma anche, e soprattutto, la vita di due persone all’interno del matrimonio, luogo di rancori, prepotenze e prevaricazioni ( vedasi anche La Morte di Ivan I’lic ), in cui la donna è sottomessa all’uomo da un vincolo molto simile a quello della prigionia. La gelosia non è più una questione di attrazione non corrisposta e di amore, ma più semplicemente di possesso, di proprietà. Quella del matrimonio come contesto di sottomissione della donna all’uomo non è per Tolstoj un’idea nuova ( il brogliaccio che ispirò Sonata a Kreutzer risale a metà degli anni ’60 ), ma qui finalmente viene sviluppata in tutte le sue squallide dinamiche e e nelle esiziali conseguenze che ne derivano.


L’arte, però, come dicevamo all’inizio, replica la vita. E allora forse non è un caso, che più o meno il medesimo episodio narrato nel romanzo, accadde veramente allo scrittore russo, quando, molti anni più tardi, la moglie Sofia, depressa per la morte del figlioletto Vanja, si invaghi del musicista Sergej Ivanovic Taneev, che per qualche tempo frequentò la casa dei coniugi Tolstoj.
Ma cos’ha di tanto ammaliante la sonata di Beethoven ? Perché travolge di sensualità, accende di passione, brucia letteralmente la carne? Provate ad ascoltarla e mentre lo fate vestite i panni dell’uxoricida Pozdnyšev che, già disturbato dal sospetto,  assiste all’esecuzione dei due presunti fedifraghi. Il pianoforte è la donna, il violino è l’uomo; da un lato, le forme arrotondate del piano e una distesa di tasti da sfiorare, dal’altro la forma allungata del violino e il movimento inequivocabile delle mani che si muovono rapide sulla tastiera e tengono in mano l’archetto. Sono già gli strumenti a richiamare la sensualità. 

Eppure non basta solo questo rendere folli, ad accecare tanto da legittimare l’omicidio come plausibile soluzione di un tradimento. C’è la musica, soprattutto, i cui fraseggi ricalcano perfettamente il rituale del corteggiamento amoroso. Ascoltate: entra subito il violino, e si presenta con bandalzosa gentilezza, col portamento raffinato del gentiluomo che si accosta con discrezione alla donna, con una scusa banale ma efficace. Lei, la donna (e il pianoforte ), risponde con ritrosia, si schermisce e arrossisce di timidezza. Superato il primo momento, nel quale si intrecciano imbarazzo e una certa malcelata eccitazione, ecco che l’uomo si fa più spavaldo e si lascia andare a una battuta di spirito. Lei, ancora irresoluta tra desiderio e convenzione sociale, sorride appena e si fa un pò più ciarliera, abbandonando i primi freni inibitori e dimostrando di apprezzare le attenzioni del corteggiatore. Inizia un crescendo. Violino e piano, uomo e donna, fotografati  in un dialogo che si fa sempre più brioso e serrato, tra ammiccamenti, sfioramenti, ilarità, doppi sensi, frivolezze, languori, sguardi che lentamente avvampano di passione e presagi di una voluttà che bussa alle porte del futuro ma che le note invece rendono già concretamente presente. C’è da perderci la testa, quel tanto che basta a spianare la strada al folle disegno della gelosia. Proprio come accade all'uxoricida Pozdnyšev.




 Blackswan, giovedì 28/06/2012

mercoledì 27 giugno 2012

ROCK PILLS

MALTED MILK - GET SOME
Genere : Funk, Blues, Soul
Strano a dirsi ( e ad ascoltarsi ), ma questi Malted Milk non  vengono da qualche metropoli statunitense come San Francisco o Detroit ma da Nantes, capoluogo della Loira. Strano, perchè le dieci canzoni di questo frizzantissimo cd non hanno nulla di europeo, ma richiamano alla mente il meglio della produzione musicale afroamericana. Funk anni ' 70 ( l'inizio esplosivo di Human Wave ), blues pompati, ballatoni soul stracciamutande ( Sweet Baby ) e qualche chiarore pop-dance che non dispiace affatto. Il tutto condito da un uso predominante di affilatissime chitarre elettriche e da eleganti arrangiamenti che nulla tolgono a un sound che resta sempre energico e divertito. D'altra parte, questa è gente che ha fatto da spalla al boss del blues, Big Joe Turner, ed è stata finalista, nel 2007, del Menphis International Blues Challenge. Mica pizza e fichi. Golosissimo.
VOTO : 7,5
CRY BABY AND THE HOOCHIE COOCHIE BOYS - SWEET THING
Genere : Rock-Blues

I Cry Baby And The Hoocie Coochie Boys condividono con Slash i natali musicali, dal momento che anch'essi provengono dall'area di Stoke on Trent, contea dello Staffordshire, Inghilterra. Il genere però si discosta notevolmente dalla muscolare proposta hard rock del capellone ex Guns 'n Roses, dal momento che questo sestetto, capitanato dal chitarrista e cantante Graham Sells, suona, senza troppi compromessi, un blues venato di classicismo e di anni ' 70, che non disdegna, qui e là, qualche sfiziosa influenza southern. Sudato, grintoso e grezzo quanto basta, Sweet Thing avvincerà tutti li amanti del genere.

VOTO : 6,5
U2 - U22
Genere :Power Pop

E' un problema solo mio probabilmente, ma da tempo non seguo più con passione le vicende del combo irlandese. Anzi, sono convinto che se gli U2 fossero spariti una ventina di anni fa, dopo la pubblicazione del bellissimo Achtung Baby, sarebbe stato meglio per tutti. Loro avrebbero mantenuta intatta la gloria imperitura acquisita sul campo grazie ai primi quattro, inarrivabili, dischi, e noi ci saremmo risparmiate tante, altrettante inarrivabili, ciofeche. Che la band di Bono Vox, da tempo impegnato a predicare piuttosto che a comporre belle canzoni, sia una formidabile macchina da guerra, nessuno lo può mettere in discussione, e i loro mastodontici live multimediali, U22 compreso, non smettono di ricordarcerlo. Nè si può pretendere che un gruppo di ben pasciuti e imborghesiti cinquantenni possa ancora esibire la stessa urgenza espressiva di capolavori combat rock del calibro di War. Ma oramai, è da tempo che, quella che fu una delle più grandi gruppi rock del pianeta ( almeno fino all'autoreferenziale avventura americana ), continua a rimasticare il solito frusto clichè di un power pop buono per gli stadi e per le classfiche da MTV. Che cos'è dunque U22 ? Nient'altro che un greatest hits live, suonato dai nostri quattro con impiegatizia professionalità, cantato benissimo da un Bono che, istrione, gigioneggia, omaggiando addirittura Frank Sinatra, e mixato con perizia certosina.Tutto perfetto, virgole comprese, e privo di sbavature. Di cuore, sudore, rabbia, sporcizia, e qualunque altra cosa che abbia a che fare con il rock, nemmeno l'ombra. E così, alla fine dell'ascolto, si incassano le stesse emozioni procurate da una passeggiata fra il reparto detersivi di un supermercato discount. Meglio allora rispolverare Under A Blood Red Sky, coi suoi suoni grezzi e le stonature di The Edge in versione Guitar Hero. Era tutta un'altra storia. Si chiamava passione.


VOTO : 5
Blackswan, mercoledì 27/06/2012

martedì 26 giugno 2012

IN VINO VERITAS


Questa cappa di umidità mi impedisce di avere i ricordi così chiari, anzi... ma mi ritiro un po' in Killerania, per vedere che aria butta... Non molto dissimimile direi, comunque andiamo avanti.Chissà perchè, forse dovendo recarmi a Barolo, mi viene in mente l'omonimo vino e di conseguenza un piccolo incontro di anni fa, che mi ha lasciato un retrogusto sorpredente. Un mio collega doveva essere il corrispondente per uno dei primi concerti dei " Simply Red" e li ricordo proprio così nella loro prima formazione nella metà degli anni ottanta , quando ancora il loro leader Mick Hucknall portava il caratteristico taglio di capelli e si era slacciato dai complessini punk inglesi.Il caratterino del nostro rosso era già evidente con i compagni di band, sapeva e credeva nella potenza della sua voce  e presagiva che l'avrebbe portato lontano. Questo comportava esaudire già fin d'allora ogni suo capriccio di scelte musicali e personali, che alcune si rivelarono un flop, ma le altre lo portarono ai vertici delle classifiche mondiali.E in questo periodo , tra la funkeggainte " the Right Thing" e gli insulti per la strana condotta di Hucknell , che mi inserisco. Il resto è solo storia. Si cambia band , ci si affida prevalentemente alla voce, si fanno delle grandi cavolate , si investe il denaro in solide attività, si spende il denaro in modo scellerato, ci si sposa , non ci si realizza e ..si torna indietro! Ma fatemelo ricordare ancora "vino novello" con la sua testa assimetrica e una voce da urlo, che interpretava " Heaven" del mio mito David Byrne in maniera straordinaria, tanto da non saper scegliere se era migliore l'originale o la cover. Sentimmo il concerto a Nizza nel Thèatre des Verdures, un luogo suggestivo che conteneva circa 3000 persone, invece che le 1000 omologate. E pazienza! Il tutto non fu malvagio, la musica era buona , diciamo che non è quella che  fa tirare le corde del mio animo, ma dovevo ammettere la bravura del tutto. Con fatica arrivammo dopo lo spettacolo, nei camerini degli artisti, più simili a grotte preistoriche che luoghi dove cambiarsi  e ringraziai il Signore di non essere io la responsabile della piccola intervista. Mick era circondato da bottiglie di vino, quasi tutte vuote , e ora si capisce la predilezione per questa bevanda , e la sua fiorente tenuta agricola a  Sant'Alfio, sulle pendici dell'Etna dove produce un pregiato rosso doc , denominato "Il Cantante". Rosso come i suoi capelli farneticava parole insulse , a base di donne , scelte, party e " scopate". Scusate , usare un eufemismo è un manierismo in questo caso. E cosa volevate chiedergli? Quante donne si faceva in un'ora , come gli piaceva , aveva posizioi preferite, l'Italia era un paese che si avvicinava ai suoi gusti sessuali? Non c'era verso di fargli parlare d'altro , anche durante gli intervalli , tra una tracannata di vino e una grattata ai paesi bassi! Imbarazzante! Lo rividi spesso in un bar sul lungomare di Imperia in estate , che si ingolfava con qualsiasi cosa fosse vino e i suoi discorsi non erano molto dissimili da quelli iniziali. Poi seppi della sua disintossicazione dall'alcool ( non so se riuscita o meno) e per essere stato lungamente un "lover addicted."...Poverello, credetemi malgrado tutto , un po' di pena me ne fa anche se non si parla proprio di una persona gradevole e simpatica. Ma la sua voce mi incantava e fatemelo solo ricordare immerso negli accordi di " Heaven" che mi fanno letteralmente toccare il cielo con un dito...almeno quello! Alla prossima miei cari...




NELLA , martedì 26/06/2012


lunedì 25 giugno 2012

PANINARI VS DARK PARTE 2°


Capite dunque che di fronte al dilagare di questo cazzismo ( che infetterà successivamente ogni strato sociale, sia in verticale che in orizzontale, durante gli anni del berlusconismo ), le frange di gioventù non omolagate al panino si trovarono a reagire riunendosi a loro volta in comunità.Si crearono, quindi, in poco tempo, due popolazioni, che avevano come nemico comune il paninaro, ma che erano comunque belligeranti anche fra di loro : i Metallari e i Dark. Considerato che per ideologia politica e cultura non potevo essere paninaro, e che per gusti musicali non potevo nemmeno fare il metallaro ( il metal mi piace molto, ma quello anni ’80 mi fa cagare come una tavoletta di Euchessina ), non mi rimase che schierarmi dalla parte dei Dark. Ovviamente, anche l’abbigliamento gotico aveva un costo, ma potevi aggirare l’ostacolo con relativa facilità. Siccome non avevo i soldi per vestirmi da Inferno, noto negozio milanese di via Torino, specializzato in camice di raso nere e croci rovesciate, saccheggiavo le bancarelle del mercato e il guardaroba dismesso di mio padre e mio nonno. L’anfibio era un must, sia d’inverno e, ahimè, anche d’estate. Il che comportava vesciconi pazzeschi ai piedi, che peraltro profumavano sempre di quella classica flagranza di verbena che si può apprezzare se si tiene un topo morto per un mese nel frigo di casa.Il resto del look prevedeva quello che oggi i modaioli chiamano total black, e cioè calze, pantaloni e camicia nera ( le mie mutande avevano tonalità nere, ma per tutt’altri motivi ). Sopra, si indossavano spolverini, cappotti e palandrane dai colori smorti ( e più eri smorto più eri dark ). 


Il casino era d’estate, stagione in cui l’abbigliamento si faceva più ricercato e usufruire dei capi anni ’60 di mio padre non era più possibile ( il rischio poi era quello di andare in giro vestito  più simile a un giovane balilla di mussoliniana memoria che a un principe della notte ).In faccia e in testa, veniva esibito un tripudio di kitsch : quintalate di gel ( e/o albume d’uovo ) a tener ferma la cresta, mascara a profusione, badilate di biacca per rendersi pallidi, rossetti dai colori improbabili, orecchini a croce, e tanta, tanta fantasia. Dal momento che io non potevo né truccarmi né tenere in testa cespugli di robertsmithiana memoria ( mio padre mi avrebbe preso a randellate, fratturandomi pesantemente un paio di ossa, pur di non farmi uscire di casa ), il mio look era più simile a quello di un pretino di provincia: capelli corti, sobrie camicie abbottonate al collo e pantaloni della cresima. Avevo anche un mitico spolverino marrone scuro, appertenuto a mio nonno, sul quale campeggiava, indelebile, la macchia di una scatarrata prodotta dal vecchio in chissà quale frangente ( e questo era un particolare che, sostenevo con orgoglio, mi dava un tocco molto punk ). A parte il look da necrofori, di buono c’era che almeno il substrato culturale doveva essere di spessore, visto che le letture facevano curriculum. 

Quindi, Sartre, prima di tutto , e il suo esistenzialismo masturbatorio, e poi, Camus e Lo Straniero, a cui si era ispirato Robert Smith per la stesura di Killing An Arab. Il motivo per cui, almeno nell’anima, mi sentivo molto dark, era la musica. Post punk e New Wave, ovviamente. I dischi cult erano parecchi e mi limito a citarne solo alcuni.In primis,  Pornography dei Cure, vera discesa negli inferi della depressione , classicone di ogni festa che avesse un senso (  e vi assicuro che limonare con in sottofondo One Hundred Years era un bel casino davvero, dal momento che prevalentemente ti veniva molto da piangere e pochissimo da toccare le tette) ; In The Flat Field dei Bauhaus, disco che, non ho mai capito bene perché, più degli altri dava lustro infinito alla militanza goth; e per finire, Unknown Pleasures, capolavoro dei Joy Division, opera presbiteriana e post punk, mandata in loop a ogni ora della giornata, anche quando, seduto sulla tazza del cesso, ti cimentavi nella lettura di Topolino ( e la distonia produceva inarrivabili effetti intestinali ).



Blackswan, domenica 24/06/2012

sabato 23 giugno 2012

PANINARI VS DARK - PARTE 1°


“Non si esce vivi dagli anni ’80 “ cantava Manuel Agnelli qualche anno fa. E chi come me ha vissuto quegli anni nel momento post adolescenziale della formazione, sa esattamente cosa intende il cantante degli Afterhours. La mia generazione è quella cantata da Cobain e dagli altri alfieri del grunge, la generation X, quella dei belli e dei dannati. Soprattutto dannati, direi. Siamo nati negli anni sessanta e ci siamo quindi persi il ’68, il power flower, la California e un sacco di cose fichissime che avevano a che fare con la creatività. Gli anni settanta li abbiamo vissuti in un paio di TepaSport a domandarci perché i nostri fratelli maggiori indossassero dei trampoli al posto delle scarpe e dei pantaloni che terminavano con una vela spiegata al vento.Anni contraddittori e difficilissimi quelli, non v'è dubbio, ma vitali come mai. E che musica, poi: dal prog al punk, dal cantautorato all’hard, si suonava di tutto. I fasci erano fasci, non sedevano in parlamento, ma facevano il loro, cioè sprangavano, e la sinistra era solo il PCI di Berlinguer e Ingrao ( salvo qualche stronzo che andava in giro a gambizzare la gente ). 

Ma  noi e la nostra cazzo di generazione, ci siamo persi tutto, ma proprio tutto,  e abbiamo iniziato ad avere consapevolezza negli anni ’80. Che è stato un po’ come farsi un bagno di merda senza maschera e boccaglio. Certo, in quel decennio non tutto era pessimo, come si crede: abbiamo vinto il mondiale più bello della storia del calcio, ci siamo beccati il post punk e la new wave e gruppi fantastici come i Gun Club, i Pere Ubu, i Gang Of Four, per citarne alcuni, e abbiamo avuto l’unico Presidente della Repubblica ( Sandro Pertini ) che ci abbia fatto sentire orgogliosi di essere italiani. Ma erano per lo più  tempi annacquati e inutili, dominati ( come oggi ) da personaggi di bassissimo profilo etico e da un disperato bisogno di edonismo.Leggetevi American Psycho di Bret Easton Ellis e capirete : solo forma e niente sostanza, l’apparire come cardine di una filosofia  di vita impostata su pettinature cotonate, giacche con spalline abnormi e cocktail di scampi all’avocado. In Italia, dove si viveva all’ombra del grande, si fa per dire, sogno reaganiano, la vacuità del contesto sociale si concretizzava nella figura del Paninaro, nuovo barbaro dalla faccia perennemente abbronzata, che passava le proprie giornate assiso sul sellino di una moto Zundapp, manco fosse lo scranno papale da benedizione urbi et orbi.

La sterminata popolazione dei paninari era contraddistinta da alcune peculiarità, il cui pensiero mi procura ancora oggi rigurgiti post prandiali. Da un punto di vista squisitamente estetico, che poi era anche l’unica cosa che contava, il paninaro indossava capi di abbigliamento per un valore complessivo di almeno un milione di lire del vecchio conio, tanto che se ne rapivi uno e chiedevi il riscatto, ci facevi una fortuna. Timberland ai piedi, pantaloni Americanino rigorosamente blu con orlo alto che gridava “Hey amico lo sai che ho l’acqua in casa ?”, calze Burlington a rombi ( l’unica marca di calze per comprare le quali dovevi accendere un mutuo in banca ), camicette e borsette Naj Oleari ( quelle con gli orsetti, le coccinelle, le macchinine e disegnini assortiti de sta ceppa ) cinturone Charro ( cinturone, non cintura ) con la fibbia delle dimensioni di un freesbe, felpa Best Company, e il fottutissimo piumino Moncler. Il paninaro ortodosso esibiva un’abbronzatura giallognola anche il giorno dei morti, sfoggiava capigliature cotonate e vaporose e si nutriva ovviamente di hamburger, acquistati presso i negozi della famosa catena Burghy ( Mac Donald arriverà molto più tardi ). La popolazione paninara era alloglotta, in quanto si esprimeva solo estemporaneamente in italiano, preferendo alla lingua di Dante un dialetto gergale molto colorito. 

Alcuni esempi :la ragazza veniva definita Sfitinzia, il paninaro era il Gallo e il super paninaro era il Gallo di Dio; i genitori erano appellati Sapiens, i comunisti erano i China, gli sfigati semplicemente Scarafaggi ( per la cronaca, io ero uno scarafaggio cinese ).Quando un paninaro esternava apprezzamento, utilizzava la locuzione “ Troppo Giusto !”, quando si approcciava a una sfitinzia esibiva due fantastici neologismi, Tacchinare o Cuccare, e quando deciva di farsi un giro in moto si superava con un inarrivabile “ Andiamo a ruotare “. Capisaldi culturali di questa scuola del pensiero debole erano il Drive In , programma di intrattenimento prodotto da Mediaset ( ma va ???? ) e caratterizzato da un livello di imbecillità che nei decenni a venire raggiunse il suo massimo splendore, Top Gun, film con Tom Cruise, giovane e bellissmo aviatore, nel quale il paninaro finiva per immedimarsi, e il cosidetto Synth Pop, cha aveva come paladini gente di spessore del calibro di Duran Duran, Spandau Ballet e Wham ! ( e qui un bestemmione ci starebbe benissimo ).


Segue....
( La seconda puntata verrà pubblicata nei prossimi giorni, magari domani )


Blackswan , sabato 23/06/2012