venerdì 29 novembre 2019

KATE DAVIS - TROPHY (Solitaire Recordings, 2019)

Uno dei dischi più belli e intriganti dell’anno esce a firma di un’artista da noi praticamente sconosciuta. Non si tratta però dell’esordio di una musicista alle prime armi, perché Kate Davis ha alle spalle anni di gavetta e una storia davvero interessante. Nata a West Linn, Oregon, nel febbraio del 1991, Kate ha iniziato fin da piccola a studiare violino, poi è passata al contrabbasso ed ha suonato entrambi gli strumenti nella Portland Youth Philharmonic. 
La svolta è avvenuta nel 2009, quando si è iscritta alla Manhattan School Of Music, dove ha proseguito lo studio del contrabbasso, spostando il suo interesse verso il jazz e il Great American Songbook, e ha iniziato a comporre proprie canzoni. Alunna modello, da subito considerata un astro nascente della musica jazz, nel 2014 ha avuto l’onore di aprire un concerto di Josh Gobran al Mann Music Center di Philadelphia, e, sempre nel 2014, la sua esecuzione di All About That Bass di Meghan Trainor, insieme a Scott Bradlee (piano) e Dave Tedeschi (batteria) ha ricevuto su youtube otto milioni di visualizzazioni, consacrandola definitivamente come talentuosa artista emergente, e ottenendo sperticate lodi da parte di stelle del calibro di Herbie Hancock, Ben Folds e Alison Krauss.
Eppure, nonostante la lunga gavetta in ambito jazz, questo Trophy è un disco lontanissimo per contenuti dalle origini artistiche della Davis. Le dodici canzoni in scaletta, infatti, si muovono per territori indie rock, in cui protagonisti assoluti sono la chitarra e la bella voce della songwriter dell’Oregon. A detta della stessa artista, Trophy è un disco che vuole indagare sull’adolescenza e sulle vite dei millenians, anche se poi, a ben ascoltare, i testi riguardano soprattutto temi per adulti, e affrontano questi argomenti con una scrittura lirica, profonda e intelligente, che probabilmente pochi adolescenti potrebbero comprendere. Indie rock, dicevamo, sviluppato attraverso l’utilizzo prevalente delle chitarre, e sebbene i paragoni con altre giovani artiste del momento si potrebbero sprecare (Sharon Van Etten – insieme alla quale la Davis ha scritto Seventeen, Courtney Barnett, etc), l’importante gavetta della Davis, ha permesso alla songwriter di elaborare uno stile personalissimo.
Ciò che, infatti, colpisce è il clamoroso senso per la melodia, l’approccio lo-fi al suono, che però non è mai povero, grazie ad arrangiamenti misurati ma capaci con poco di avvolgere ogni singolo brano, e la struttura dei pezzi, apparentemente semplicissima, eppure mai prevedibile.
Fin dalla prima canzone in scaletta è subito chiaro che siamo di fronte a una musicista di livello superiore alla media: Daisy pesca dal cilindro una chitarra che ricorda quella di Liz Phair in Fuck And Run, per raccontare lo strazio per la morte del padre, il senso di smarrimento e la mancanza di uno scopo che aiuti a tirare avanti. E sorprende ascoltare questa giovane donna, creare una trama melodica perfetta e parlare di cose tanto profonde in modo così asciutto, sensato e diretto.
E’ tutto il disco, però, a essere di straordinario livello. Un morbidissimo arpeggio di chitarra avvolto in un sospiro d’archi e la carezzevole voce di Davis rendono I Like Myself la più emozionante ballata ascoltata quest’anno, Cloud è una canzone d’amore adolescenziale, che tira dritta su con un robusto fingerpicking elettrico verso un ritornello che non lascia scampo, Open Heart è una riflessione sulle vite senza scopo dei millenians, sviscerata attraverso l’acuta metafora di un’operazione a cuore aperto, e si chiude in un drammaticissimo finale elettrico. Sarebbero da citare tutte, queste meravigliose canzoni, ma ci limitiamo a segnalare Burning Accidents, che si veste di colori beatlesiani, l’ossatura di Salomè, che è ruvida e grunge (ed è impossibile non cogliere echi di nirvaniana memoria), e la title track, che chiude il disco con una melodia languida, ben presto stravolta da un beat ossessivo e da un crescendo sempre più potente.
Non è mio costume eccitarmi eccessivamente per un artista o un disco, e cerco sempre di tenere a bada gli entusiasmi, soprattutto quando scrivo, per trasmettere impressioni e pareri il più obiettivi possibili. Di fronte a un album di questa caratura, però, è davvero difficile non farsi prendere dal batticuore. Perché Trophy è, senza ombra di dubbio, il disco di cantautorato femminile più bello dell’anno e Kate Davis un artista con davanti a sé un futuro grande così. 

VOTO: 8





Blackswan, venerdì 29/11/2019

giovedì 28 novembre 2019

PREVIEW




Il 2020 vedrà il ritorno di Baxter Dury con il suo nuovissimo album The Night Chancers. Ad anticiparlo, il primo singolo “Slumlord”, con un video diretto da Tom Haines. The Night Chancers segue Prince Of Tears del 2017 ed è il suo sesto album in studio.
“The Night Chancers parla dell’essere colti nel tentativo di essere liberi, parla di qualcuno che lascia la stanza dell’hotel alle tre del mattino. Sei in una stanza immensi con questi rubinetti magnifici e tutto il resto ma dopo che tutti se ne sono andati all’improvviso tutto ciò che senti sono i rubinetti che gocciolano e tutto ciò che vedi sono i detriti della nottata. Poi, improvvisamente, nella stanza accanto esplode una grande festa. Questo è accaduto a me.”
L’album è stato co-prodotto dal collaboratore di lunga data Craig Silvey (Arcade Fire, John Grant, Arctic Monkeys) ed è stato registrato agli Hoxa Studios nel maggio del 2019.
Da storie elettrizzanti che finiscono in disperazione (“Night Chancers”) agli assurdi blogger che si aggrappano inutilmente alle sottane della moda (“Sleep People”) attraverso i sordidi stalker da social media della vita reale (“I’m not Your Dog”), le vignette ritratte nell’album si basano tutte sugli angoli del mondo visitati da Dury.





Blackswan, giovedì 28/11/2019

mercoledì 27 novembre 2019

MIRANDA LAMBERT - WILD CARD (RCA, 2019)

E’ curioso come il 2019 abbia visto alcuni artisti, tra i più seguiti della scena country, cimentarsi in dischi ben lontani dalla propria comfort zone. Mi viene in mente Sturgill Simpson, con il suo Sound & Fury, disco di pop rock curioso, inaspettato e, comunque centrato, o il mainstream di plastica di The Owl, della Zac Brown Band, che, absit iniuria verbis, è forse il peggior disco ascoltato quest’anno. Ora, ci prova anche una stella di prima grandezza come Miranda Lambert che, giunta al suo settimo album in studio, rilascia questo Wild Card (titolo azzeccatissimo), una raccolta di canzoni con cui la songwriter texana si cimenta con generi di solito poco frequentati.
Un disco clamorosamente mainstream e clamorosamente radiofonico, in cui la plurivincitrice di Grammy Awards esce dallo steccato dell’americana, per cimentarsi in uno zibaldone musicale in cui confluiscono pop (molto), rock, blues, soul, country, declinati con una maestria concessa solo ai grandi. C’è tutto e il contrario di tutto in Wild Card, e forse solo chi, come la Lambert, vive nell’Olimpo degli artisti più amati dagli americani, poteva permettersi un tale azzardo. D’altra parte, la fama e il successo sono spesso il grimaldello necessario per aprire la porta della libertà artistica, ma da sole, ovviamente, non bastano. Servono ispirazione, serve fantasia, serve soprattutto la capacità di scrivere, comunque, grandi canzoni, e la Lambert, in tal senso, è una sicurezza.
Ciò premesso, è inevitabile fare una premessa: questo è un disco che farà storcere il naso ai puristi del suono americano, perché Wild Card, pur mantenendo alcuni episodi e una strumentazione prevalentemente roots, è soprattutto un album aperto alla contaminazione, in cui si respira libertà creativa in ogni singola traccia. Se è vero che le quattordici canzoni in scaletta possiedono un mood smaccatamente radiofonico, è altrettanto vero che la Lambert evita di prostrarsi alle mode del momento, e cerca semmai strade alternative, riesumando anche suoni clamorosamente retrò.  
Alla consolle, in tal senso, ha fatto un lavoro clamoroso il tanto vituperato Jay Joyce (Eric Church, Patty Griffin, Emmylou Harris), che ha arricchito ogni canzone di idee e spunti inaspettati, modellando suoni che, spesso, sono lontanissimi da ciò che conoscevamo di Miranda.
Il disco si apre con White Trash, che è un blues imbastardito con l’elettronica: pimpante, volutamente easy e accattivante e, per certi versi, tutto il contrario da quello che ti aspetteresti da un brano blues. Poi, ascolti quei suoni, l’alternanza tra pieni e vuoti, l’utilizzo della resofonica e l’assolo di chitarra a metà brano e capisci che questa canzone è tutt’altro che banale. Quando parte poi la successiva Mess With My Head puoi davvero immaginare le urla di disappunto di tutti gli ortodossi americanisti che puntano il dito accusando la Lambert di apostasia. Eppure, questa canzone così deliberatamente leggera e pop, dice apertamente che Miranda non guarda in faccia a nessuno e ha coraggio da vendere. E ci vuole fegato per sfornare un pezzo che avrebbe potuto scrivere Katy Perry dieci anni fa e ammantarlo, poi, di sonorità ’80, con molto più gusto, peraltro, di chiunque altro, e sono tanti, oggi provi a fare le stesse cose. E diciamocelo, senza fare quelli che se la tirano: il ritornello è perfetto, lo canticchi dopo un solo ascolto, e la struttura del brano, apparentemente insipida, è invece lontanissima da schemi preconfezionati (ascoltate l’assolo di chitarra e il successivo raccordo con la strofa e ditemi dove l’avete già ascoltato prima).
C’è da perderci la testa in questo disco, in cui il mood continua a cambiare, i generi si susseguono uno all’altro senza soluzione di continuità, legati solo dal fil rouge dell’inventiva. In questo flipper stilistico ed emozionale, si passa dal blues gospel di Holy Water (i suoni delle chitarre sono da urlo), al divertissement adolescenziale di Way Too Pretty For Prison, alla sfuriata punk blues di Locomotive, alla pop wave anni ’80 di Track Record.
Poi ci sono anche lente passeggiate nei territori che Miranda conosce meglio: il mid tempo malinconico di Fire Escape (il ritornello manda KO per quanto è bello), gli struggimenti d’amore e la melodia cristallina di How Dare You Love, con quel suono che arriva da un disco di cantautorato anni ’70 (lo stesso suono che troverete nella filastrocca Pretty Bitchin’), il country sbilenco di Tequila Does (elegante e inconsueto come una bella donna un po’ alticcia) o il distillato di nostalgia della conclusiva Dark Bars.
C’è la concreta possibilità che Wild Card venga bastonato a sangue dalla stampa nostrana: troppo poco roots, troppo pop, troppo lontano da ciò che conosciamo della Lambert. Eppure, se si ascolta il disco senza preconcetti, aperti alla possibilità che un artista possa cambiare, cercare nuove strade, evolversi, se si accetta che il pop non sia necessariamente una iattura, ma una forma espressiva con un nobile pedigree, e che essere mainstream, con intelligenza e gusto, è la cosa più difficile da realizzare, quando si scrivono canzoni, questo nuovo capitolo della discografia della Lambert suonerà esattamente per quel che è: un gran disco. E da appassionato di musica americana e da fan della prima ora, mi permetto di aggiungere che è il suo migliore di sempre, Pistol Annies comprese.

Voto: 8 





Blackswan, mercoledì 27/11/2019

martedì 26 novembre 2019

PREVIEW




Conosciuto come frontman della band vincitrice di Mercury Prize Klaxons e dopo aver registrato con gli Arctic Monkeys e creato il progetto Shock Machine, James Righton annuncia la pubblicazione del suo primo album solista The Performer, prevista per il 20 marzo 2020 sull’etichetta dei Soulwax DEEWEE. Svela inoltre il video della title track, che è anche il primo singolo estratto dall’album.
Sono l’uomo che si esibisce sul palco o sono il papà che cambia i pannolini?”, racconta James sul conflitto che si nasconde tra le note della title track. “Mi sto godendo il momento e sto facendo qualcosa di bello o sono terribilmente triste? Trovo molto interessante l’idea di mettersi addosso un abito e diventare una persona diversa”.
L’album The Performer entra in netto contrasto con l’edonismo elettronico dei precedenti lavori di James con i Klaxons. Ripercorre diverse tappe della musica a partire dal 1970. Sfiora l’art-lounge dei Roxy Music, il groove tintinnante dei R.E.M., la sontuosa psichedelia degli ultimi Beach Boys e le abilità di scrittura di Nick Lowe. Più semplicemente, parte da alcuni elementi classici per dar vita a brani assolutamente attuali.
Queste influenze permeano la title track dell’album, che ne è anche il primo singolo. Da un lato, il dramma esistenziale nel dover conciliare la sua carriera da artista con la semplicità della vita in famiglia. Dall’altro, una via di fuga: diverse identità riescono a coesistere senza mai predominare l’una sull’altra.
L’album The Performer è stato scritto e prodotto da James Righton con l’aiuto di alcuni collaboratori. Troviamo James Ford (The Last Shadow Puppets, Simian Mobile Disco) al basso su due brani e alla batteria per tutti gli altri, Sean O’Hagan (High Llamas, Microdisney) che ha contribuito agli arrangiamenti, Jorja Chalmers (Bryan Ferry) al sassofono e ancora Josephine Stephenson (Thom Yorke, Ex:Re) che ha collaborato ad altri arrangiamenti.
È stato registrato in diversi studi, tra cui quello in casa di James e lo Studio One di Bryan Ferry. È stato poi mixato da David e Stephen Dewaele (aka Soulwax, aka 2manydjs) presso la DEEWEE a Ghent, Belgio.





Blackswan, martedì 26/11/2019

lunedì 25 novembre 2019

CHRIS HORSES BAND - DEAD END & A LITTLE LIGHT (A-Z Blues, 2019)

La prima cosa che vi verrà da pensare, ascoltando a scatola chiusa Dead End & A Little Light, è di essere al cospetto di una grande rock band americana. Considerazione lusinghiera, per la Chris Horses Band, certo, ma che parte dell’erroneo prius logico che in Italia non si possano fare grandi dischi rock. E invece, guarda un po', questi cinque ragazzi, tutti molto giovani (Chris Horse, chitarra e voce; Mattia Rienzi, chitarra; Marco Quagliato, basso; Marco Tirenna, batteria; Giulio Jesi, sax) sono italianissimi, arrivano dal Veneto e, attraverso una campagna di crowdfunding, pubblicano il loro esordio per la nostrana e prestigiosa AZ Blues, da sempre sinonimo di qualità.
Otto canzoni, per un minutaggio che supera i quaranta minuti, in cui una miscela di rock, southern, blues e funky viene rielaborata con una vitalità e una freschezza davvero sorprendenti: se da un lato, infatti, si colgono immediatamente le fonti d’ispirazione (Widespread Panic, Lynyrd Skynyrd, Pearl Jam, etc.), dall’altro, non ci sono tracce di sterili copia incolla o della replica pedissequa di un suono. Questi ragazzi, infatti, conoscono molto bene la materia, ma sono già tanto maturi da riuscire a dribblare i clichè di genere e rielaborare un suono noto con originalità e idee.
Le canzoni, da questo punto di vista, possiedono una struttura articolata, che supera di slancio il frusto schema strofa/ritornello; inoltre, l’attitudine jammistica, supportata da un considerevole dispiego di mezzi tecnici, dà ulteriore sostanza e vigore ai brani, e i fraseggi di sax, che punteggiano tutte le canzoni in scaletta, rappresentano quella variabile “impazzita” che rende il suono della CHB decisamente personale.
Tutto gira a mille, da queste parti: la qualità del songwriting, le linee vocali efficacissime, gli arrangiamenti solidi, il suono avvolgente, il gusto per gli assoli e le capacità tecniche da navigati musicisti, cosa a dir poco stupefacente, se si pensa a quanto siano giovani questi ragazzi.
Quindi, mettete nello stereo Dead End & A Little Light, alzate il volume a palla e godetevi queste otto canzoni di scintillante classic rock. Si parte dal tracimante groove funky dell’iniziale Dead End, si passa attraverso i potenti echi zeppeliniani della fragorosa In Silence, ci si perde nell’esuberanza sudista di The Only Shelter (il giro di basso che richiama i Creedence Clearwater Revival, il suono delle chitarre che rimanda agli Allman) e si viene sballottati dal funky caracollante della divertita A Little Light, in cui la band gioca con stoppate e ripartenze, dimostrando una consapevolezza di mezzi e un affiatamento davvero unici.
Una menzione a parte va alla lunga e fascinosa This Old Town, la cui nostalgica melodia viene avvolta da brume psichedeliche per poi sciogliersi in un’infuocata coda strumentale. Il vertice, questo, di un disco appassionato, sincero e meravigliosamente suonato, che contribuisce a restituire al tanto vituperato rock made in Italy tutta l'attenzione che merita.

VOTO: 8





Blackswan, lunedì 25/11/2019

sabato 23 novembre 2019

PREVIEW



I Circa Waves annunciano il nuovo album SAD HAPPY. L’album è formato da due parti diametralmente opposte che usciranno in forma completa il 13 marzo su Prolifica Inc. [PIAS]. Il lato ‘Happy’ sarà già disponibile sulle piattaforme digitali dal 10 gennaio. Ascolta il nuovo singolo “Jacqueline”
Con il suo groove contagioso, “Jacqueline” è una nuova dimostrazione del pop gioioso e vivace della penna di Kieran Shudall, che si sta dimostrando uno dei giovani cantautori più prolifici in Gran Bretagna. Caratterizzato da un ritornello accattivante che fa ‘Good times are coming around the bend’ , “Jacqueline” è immediatamente riconoscibile ed è un altro grande passo in avanti per i Circa Waves. Il brano fa parte di una setlist già ricca di inni. Riguardo ai temi presenti in Sad Happy, Kieran afferma:
“Viviamo in un mondo diviso in due parti. Un momento stai vivendo una crisi esistenziale causata dal cambiamento climatico e quello dopo ti ritrovi a ridere distratto da un argomento insignificante. Trovo che questa vicinanza tra tristezza e felicità sia così discordante, bizzarra e affascinante. Il nostro cervello passa da un’emozione all’altra così velocemente che felicità e tristezza non si escludono più a vicenda. Questa è l’idea dietro a Sad Happy ed è il tema che sostiene l’album. Sad/Happy è stato scritto nella mia casa a Liverpool ed è ispirato dalla zona che mi circonda e dall’amore che provo per la mia città. Percorre i pensieri su mortalità, amore e osservazione delle persone."
Sad Happy è stato scritto e prodotto da Kieran Shudall e mixato dai vincitori di un Grammy Dan Grech-Marguerat e Matt Wiggins. L’annuncio dell’album arriva dopo la pubblicazione dell’album What’s It Like Over There? entrato nella Top 10 britannica. In un’era in cui le barriere musicali sono state demolite, la scrittura prolifica di Kieran, la voglia di suonare dal vivo dei Circa Waves e la particolarità della loro etichetta, stanno consolidando la reputazione del quartetto di Liverpool come una delle band più dinamiche ed elettrizzanti del Regno Unito.
I Circa Waves annunciano inoltre il tour britannico in qualità di headliner. Partiranno il 27 marzo alla O2 Academy di Glasgow e passeranno dalla Brixton Academy di Londra il 03 aprile, concludendo nella loro città natale Liverpool il 04 aprile. Nel mese di gennaio invece saranno in tour in Europa in supporto ai Two Door Cinema Club. Per maggiori informazioni sul tour, visita: https://www.circawaves.com/





Blackswan, sabato 23/11/2019

venerdì 22 novembre 2019

JOHN FOGERTY - 50 YEAR TRIP:LIVE AT RED ROCKS (BMG, 2019)

Il 2019 è stato un anno speciale per I fan dei Creedence Clearwater Revival: prima, infatti, la pubblicazione integrale del live act di Woodstock, tenuta nei cassetti per fin troppo tempo, e ora, questo nuovo 50 Year Trip: Live At Red Rocks, album dal vivo registrato il 20 giugno di quest’anno nella suggestiva location che dà il titolo al disco, per celebrare i cinquant’anni di carriera di Fogerty (in realtà, sarebbero qualcuno in più, se si tiene conto degli esordi con i Golliwogs).
In attesa, quindi, di un nuovo album in studio (si vocifera di un disco che sarebbe pronto per il 2020), Fogerty sforna l’ennesimo live, con una scaletta che non riserva alcuna sorpresa, tanto che la prima domanda che viene da porsi è se davvero vale la pena spendere soldi per acquistarlo. Domanda oziosa per i completisti, come il sottoscritto, un po' meno per gli altri. E’ vero, però, che se anche risapute e conosciute a memoria, queste diciannove canzoni sono talmente belle, che riascoltarle anche in questa nuova veste, male non fa.
Il live, poi, nonostante la prevedibilità della proposta, è davvero notevole: aria di festa, più che di celebrazione, band affiatatissima (ci sono anche i due figli di Fogerty a dare manforte) e un approccio grintoso e potente, sfrontatamente ruvido. La voce di Fogerty è un po' più sottile di un tempo e graffia meno, e l’impressione è che qualche ritocco in fase di post produzione sia stato fatto (l’entusiasmo del pubblico è tenuto sottotraccia e il sing along è limitato alla sola Have You Ever Seen The Rain).
Tuttavia, il disco fila via che è un piacere, con momenti anche di grande intensità: Keep On Chooglin’ è un treno in corsa che deraglia a 200 all’ora, la cover di I Heard It Through The Grapevine, un classico del repertorio CCR, è a dir poco travolgente, The Old Man Down The Road è vibrante sotto il fuoco incrociato di chitarre bollenti. Per il resto, a parte Lodi, i grandi classici della band e di Fogerty solista ci sono tutti, ed è sempre una gran gioia riascoltare capolavori come Born On The Bayou, Down On The Corner, Centerfield, Fortunate Son, Bad Moon Rising e Proud Mary, solo per citarne qualcuna. 50 Year Trip: Live At Red Rocks non è certo un disco indispensabile, soprattutto per chi già conosce a menadito la storia e la discografia di una delle band più importanti di sempre. Tuttavia, che a 74 anni suonati, la camicia a scacchi più famosa di sempre, continui a stare sulla breccia con tanto ardore, è una sensazione bellissima e impagabile.

VOTO: 7





Blackswan, venerdì 22/11/2019

giovedì 21 novembre 2019

BIG STAR - THIRTEEN (Ardent Records, 1972)



Thirteen, una delle gemme del disco d’esordio dei Big Star, #1Record (1972), non è una canzone triste nel vero senso della parola. Eppure, ditemi chi, dopo aver ascoltato questa perla uscita dalla penna di Alex Chilton e Chris Bell, non si sia ritrovato con gli occhi umidi e il groppo in gola.
Testo e musica inducono a fluttuare a mezz’aria, rapiti in un’estasi mnemonica dai pastelli tenui, che aprono un varco temporale in cui l’ascoltatore si abbandona nell’abbraccio della nostalgia, separandosi per pochi istanti dalle cose mortali. Thirteen è una canzone sui tredici anni scritta per chi tredici anni non li ha più, eppure non ha mai smesso di sentirsi un po' bambino e di guardare al futuro con gli occhi illuminati dalla speranza e il cuore gonfio di ingenuo entusiasmo. Non solo una canzone, bensì un sussurro vitale, un monito a non dimenticare chi eravamo, uno sprone a godere delle piccole grandi cose che rendono bella l’esistenza: la musica, l’amore, il piacere della condivisione.
Definita dal chitarrista dei Buffalo Tom, Bill Janovitz, “a perfect melancholy ballad", Thirteen racconta, attraverso moduli folk e pop, una storia d’amore adolescenziale, una delicata liason tra ragazzini che ci riporta sui banchi di scuola e ci ricorda quanto eravamo goffi ai nostri primi appuntamenti. Un arpeggio di chitarra acustica, i morbidi cori che ci sfiorano carezzevoli i capelli e un testo semplice e diretto sono l’ossatura di una canzone che si sofferma sull’ingenuo corteggiamento di un ragazzo a una ragazza (“Won’t You Let Me Walk You Home From School, Won’t You Let M Meet You At The Pool”) e, nel contempo, omaggia la passione per la musica rock nel verso “Rock And Roll Is Here To Stay” e nella citazione di Paint It, Black dei Rolling Stones.
Due minuti e trentaquattro secondi di perfezione assoluta, di languori e palpiti che da adolescenziali diventano adulti e ci raccontano esattamente chi siamo. Non è una canzone triste, Thirteen, ma è inevitabile che durante l’ascolto una lacrima ci bagni il volto, mentre la musica e i ricordi si fondono in una suggestione unica, personale, che possiede però la forza di un abbraccio universale.





Blackswan, giovedì 21/11/2019

mercoledì 20 novembre 2019

PREVIEW




Il 2020 sarà un grande anno per i Deacon Blue. Hanno annunciato un nuovo album, City Of Love, che vede la band sfornare undici nuove brillanti tracce legate da una credenza singolare: che persino negli angoli di una città o in una vita senza luce, la speranza può prevalere.
City Of Love (schedulato per il 6 marzo) è la quarta uscita di un periodo prolifico dei Deacon Blue che dura da sette anni. I loro ultimi tre album hanno riportato la band nella Top 20 britannica. Ciò ha alimentato una rinascita creativa che ha restituito la band non solo alle playliust radiofoniche mainstream ma anche al tipo di locali che si addicono all’eredità di una band che vanta sette milioni di album venduti, di cui due al numero 1, e quattordici hit singles.
Ricky Ross: “Non vediamo l’ora che ascoltiate City Of Love e di tornare on the road, a suonare vecchi e nuovi brani. Ogni volta che andiamo in tour sembra una festa perché i nostri fan sono ancora lì ed è una cosa fantastica per noi.”
L’album uscirà in CD digipak, LP e digitale oltre a un’edizione limitata in vinile colorato acquistabile esclusivamente sul sito ufficiale della band www.deaconblue.com





Blackswan, mercoledì 20/11/2019

martedì 19 novembre 2019

JONATHAN DEE - I PROVINCIALI (Fazi Editore, 2019)

Howland, Massachusetts. Mark Firth è un imprenditore edile con grandi ambizioni ma scarsa competenza negli affari, tanto da aver affidato tutti i suoi risparmi a un truffatore; lo sa bene sua moglie Karen, molto preoccupata per l'istruzione della figlia: sarebbe davvero oltraggioso se dovesse ritrovarsi nei pericolosi bassifondi della scuola pubblica. Il fratello di Mark, Jerry, è un agente immobiliare che ha mollato la precedente fidanzata sull'altare e ha una relazione con la telefonista della sua agenzia. C'è poi Candace, la sorella, che è insegnante alla scuola pubblica locale e coltiva una relazione clandestina con il padre di una delle sue allieve.
La famiglia Firth è il nucleo centrale di una estesa nebulosa di personaggi, tutti abitanti di Howland. L'intera cittadina attraversa una crisi economica che influenza le vite di tutti, accentuata dai sentimenti ambivalenti che la gente del posto nutre nei confronti dei weekender newyorkesi. Sarà proprio uno di questi a far precipitare il fragile equilibrio della comunità. Dopo l'11 settembre infatti il broker newyorkese Philip Hadi, sapendo grazie a "fonti riservate" che New York non è più un posto sicuro, decide di traslocare a Howland insieme a moglie e figlia...
 
Un uomo cammina per le strade di New York diretto a incontrare un avvocato che lo rappresenta in una causa per truffa. E’ il 12 settembre 2001, il giorno successivo l’attentato alle torri gemelle. L’uomo è indifferente al dolore e allo strazio che lo circonda e ha come unica preoccupazione quella di non trovare aperto lo studio legale. Appare subito chiaro che non si tratta di una bella persona: ha precedenti penali, è un pervertito, è meschino e subdolo.
Così si apre I Provinciali, con questo personaggio che scompare dopo le prime cinquanta pagine, ma che rappresenta l’abbrivio metaforico per la trama che si svilupperà successivamente. Non una figura buttata lì a caso, ma l’innesco ferocemente cinico che introduce al corpo centrale del romanzo, la metafora di un’umanità alla deriva e di un popolo, quello statunitense, che ha perso i suoi valori fondanti, il simbolo di un “sogno americano” sbriciolato di fronte all’insensatezza della violenza e all’indifferenza verso le sorti dei propri simili.
Dopo questa introduzione, la narrazione si sposta da New York a Howland e protagonista della trama diventa la famiglia Firth, coagulo di incomprensioni, violenze psicologiche, risentimenti, piccole ripicche e afasie comunicative. Vite di piccolo cabotaggio, intorno a cui ruota la comunità di Howland, piccolo paesino del Massacchusetts dalla socialità e delle dinamiche immutabili nel tempo, e la cui pigra esistenza è scossa solo dall’alternarsi delle stagioni.
Poi, ecco l’improvviso arrivo di Hadi, ricco broker newyorkese, che riesce a farsi eleggere sindaco del piccolo centro. Da questo momento in poi, il romanzo, prima incentrato sul tema della dissoluzione della famiglia, sull’ipocrisia dei rapporti umani e sulla deriva etica di protagonisti incapaci di guardare fuori dal proprio misero orticello, scarta verso il tema politico.
Il ricco Hadi, apparentemente socievole, disponibile e generoso, è in realtà la controfigura in piccolo di Trump. La sua politica, fatta prima di elargizioni di prebende e poi di imposizioni, si svela presto per quello che è: un esercizio di potere che non prevede opposizione e democrazia, perché il parere del popolo è, a detta del nuovo sindaco, sostanzialmente inutile.
Hadi diventa primo cittadino perché famoso e facoltoso, certo, ma anche perché non ha nessun rivale in grado di poter competere. E assurge al potere nell’indifferenza generale. E’ questo per Dee il male grande dell’America e di ogni civiltà contemporanea: la perdita della volontà politica e del desiderio di partecipazione della gente, che punta sempre il dito contro un generico “potere” o “governo”, di cui non sa nulla e a cui nulla è in grado di chiedere, se non di non aumentare le tasse. Nessuna visione, nessuna progettualità, nessun interesse per le generazioni future. La gente di Howland è troppo presa dalle propria piccole faccende da non essere interessata ad altro, e non c’è uno sguardo sulla politica che non sia squisitamente privato.
L’unica forma di resistenza ad Hadi è rappresentata dal populismo (Jerry), che è prevalentemente reazione a prescindere, guidata dal ragionamento aprioristico che tutto ciò che è potere è male. Anche chi però la pensa in questo modo, e sono pochi, non ha però la forza né la volontà di coagularsi in un pensiero e in una forma d’azione più strutturata che non sia quella di un’anonima protesta o di un vile teppismo.
In questa visione cinica, ma perfettamente centrata, della comunità politica statunitense non c’è per Dee spazio per molte speranze. In questo popolo insipido, grigio e narcotizzato dai bisogni materiali, emergono Candace, uno dei pochi personaggi positivi del libro, che fa intravvedere un briciolo di empatia verso chi la circonda, e Haley la figlia adolescente di Mark che, in un gesto di piccola ribellione nel finale del libro, suggerisce un apparente scorcio di speranza. Haley rappresenta la gioventù, anzi la parte migliore della gioventù americana: sente dentro di sé il sopruso, l’ingiustizia sociale e prova a ribellarsi. Non riesce, però, ad andare fino in fondo alla sua protesta, perché le mancano le argomentazioni e la consapevolezza.
Nel vuoto di valori, in questa società che non ha un obbiettivo e non è strutturata culturalmente, nessuno è vincitore. E quando Hadi decide di mollare il suo ruolo di sindaco, il governo della piccola città implode, mostrando il suo volto più rapace e lasciandoci in balia di un dubbio, forse senza risposta: è meglio essere governati da un ricco che pensa ai bisogni della gente chiedendo però in cambio una supina obbedienza, oppure da una democrazia impoverita di denaro e contenuti, che può operare solo attraverso l’imposizione di tasse e gabelle?

Blackswan, martedì 19/11/2019

lunedì 18 novembre 2019

IL MEGLIO DEL PEGGIO



Mentre il senatore di Rignano sull'Arno, tra una stoccata e l'altra all'esecutivo, fa scouting a destra, sinistra e in Forza Italia, l'altro Matteo assume sempre più le sembianze di Mr.Wolf. Il premier in pectore Salvini non ha perso occasione di tenere un comizietto (con tanto di selfie in una Piazza San Marco letteralmente allagata) nella martoriata Venezia, alle prese con la devastazione provocata dall'acqua alta. Come è triste Venezia, cantava Charles Aznavour.  
Ancor più triste, aggiungo, lo è per via di altre calamita' naturali come la visita di Silvietto in galosce assieme a Renato Brunetta con i soliti proclami sull'urgenza di completare il Mose e l'invettiva contro i 5 Stelle, oppositori per definizione delle opere pubbliche in genere. Tutto come da copione. Peccato che per il Mose, a causa di ruberie di ogni sorta, sono stati condannati due governatori del centrodestra. Ma queste sono inezie per Silvietto. 
Come lo sono per il Capitano Salvini, il quale approfittando della ghiotta ribalta, lancia slogan a spron battuto:" Invece di dare 3 miliardi a chi usa la carta di credito anziche' i contanti, mi auguro che l'intero Parlamento si unisca a sostegno dei popoli di Venezia, Pellestrina, Matera, Altamura e di tutte le persone che in una notte hanno perso i risparmi di una vita. ..Il Mose va finito". A parte le proposte concrete che il Capitano avrebbe in serbo per il funzionamento di un'opera rivelatasi inservibile per il deterioramento causato da corrosione, mi domando se sia ancora tollerabile che nel terzo millennio ci si trovi a investire sull'emergenza e non sulla prevenzione. La dura verità e' che forse non meritiamo un tesoro inestimabile come l'Italia che non sappiamo ( o non vogliamo) proteggere. Intanto, si continua a coltivare il proprio orticello e tutto il resto vien da se'.

Cleopatra, lunedì 18/11/2019

sabato 16 novembre 2019

LAURA COX - BURNING BRIGHT (earMusic, 2019)

Se vi piacciono il rock e la chitarra elettrica, se avete bisogno di uno scossone per svegliarvi al mattino o una generosa carica di adrenalina per caricarvi in vista della serata, segnatevi il nome di Laura Cox e ascoltate questo disco. Vi esorto a farlo, non perché me ne venga in tasca qualcosa, ma perché Burning Bright è pronto per essere la new sensation rock del 2019 e Laura Cox uno dei nomi di cui ci si ricorderà in futuro. 

Non è un caso, infatti, che questa ragazza parigina, nonostante si muova in un circuito lontano da quello anglosassone, sia riuscita a far circolare con insistenza il suo nome fra gli appassionati, guadagnandosi milioni di visualizzazioni sul suo canale Youtube e vendendo con il suo esordio, Hard Blues Rock del 2017, più di diecimila copie nella sola Francia. Ora la Cox, con un paio di anni in più di concerti ed esperienza sulle spalle, si prepara al grande salto, complice anche una band di musicisti cazzuti assai: Mathieu Alblac alla chitarra, François C. Delacoudre al basso e Antonin Guérin alla batteria, tutti bravissimi a corroborare l’istinto feroce della giovane cantante e chitarrista.
Le dieci canzoni di Burning Bright racchiudono le passioni musicali di Laura, la quale definisce il proprio stile come Southern Hard Blues: il piatto forte della casa è composto da classic rock, hard rock e blues, le cui fonti di ispirazione, non serve sbattersi troppo, sono facilmente individuabili. Eppure, la Cox, nonostante siano evidenti i rimandi stilistici, possiede una freschezza forgiata nell’acciaio inossidabile della giovinezza e della gagliardia. Questa, infatti, è musica arrembante, che guarda dritta negli occhi l’ascoltatore prima di prenderlo a sportellate. Non è un disco di suoni estremi, certo, ma l’impatto sonoro resta devastante. Rock in purezza, verrebbe da dire, potente e diretto, che si ispira ai grandi classici, ma che sa picchiare duro con un arsenale nuovo di zecca.
Non mancano anche momenti più rilassati, e ballate come Just Another Game, dagli afrori sudisti, o la conclusiva, più ruvida, Letters To The Otherside, dimostrano che la Cox, sotto la scorza da rocker, conosce anche il sapore della dolcezza. Il meglio, però, la giovane e bella francesina lo dà quando pigia il piede sull’acceleratore, sgommando senza ritegno. La rincorsa dell’iniziale Fire è un bel biglietto da visita: riff urticante, voce che graffia, ritornello a presa immediata e un assolo da far strabuzzare gli occhi. La successiva Bad Luck Blues getta nuova benzina al fuoco, grazie a un riff zeppeliniano e a continue, vibranti ripartenze. E a parte i due brani citati prima, è davvero poco il tempo concesso all’ascoltatore per rifiatare: si fila via dritti come fusi attraverso il groove funky di Freaking Out Loud, al caracollante hard rock blues di As I Am, devastata nel finale da una furia cieca e incontenibile, o alle ruvidezze southern dell’intensa River.
Prodotto da Howie Weinberg (Aerosmith, Oasis, The White Stripes), Burning Bright è un disco di grande impatto fisico, pervaso da una vitalità a tratti debordante, e possiede tutte le carte in regola per ravvivare quel sacro fuoco del rock che, oggi, spesso, sembra aver perso il calore di un tempo. Chapeau!

VOTO: 7,5





Blackswan, sabato 16/11/2019

venerdì 15 novembre 2019

PREVIEW




I We Sell The Dead affermano che: "Il termine Black Sleep è una metafora per la morte. 'Eternal Sleep' viene usato più frequentemente, ma volevamo un'espressione che suonasse sinistra ma anche delicata. Perchè questa breve vita che viviamo è una cosa bellissima. Sbatti le palpebre ed è finita. Ancora più importante è il fatto che la morte non è nemica. L'indifferenza e una vita senza senso lo sono. Moriremo tutti prima o poi. La vita non è aspettare che ciò accada, ma è prendere tutto quello che hai per trarne il meglio."
La band nacque nel 2016 da un'idea di Niclas Engelin (In Flames/Engel) e Jonas Slättung (Drömriket). Si unì a loro Apollo Papathanasio, il frontman dei Firewind e Spiritual Beggars, alla voce. Gas Lipstick, il batterista presente nel primo album ed ex HIM, è stato sostituito dal batterista degli Engel Oscar Nilsson, per motivi logistici. Inoltre ora è presente Petter Olsson, tastierista a tempo pieno. 
Black Sleep sarà disponibile dal 21 febbraio su earMUSIC su CD, LP e in digitale. 





Blackswan, venerdì 15/11/2019

giovedì 14 novembre 2019

KADAVAR - FOR THE DEAD TRAVEL FAST (Nuclear Blast, 2019)

Giunti al quinto album in studio, i berlinesi Kadavar aggiungono un altro tassello a una discografia in crescendo e, probabilmente, sfornano la loro prova migliore. Un disco, questo, che presenta, peraltro, alcuni elementi di novità rispetto alle opere precedenti.
Se infatti le coordinate dell’hard rock forgiato dal gruppo teutonico partono da molto lontano e continuano a guardare con insistenza al passato, le nove tracce che costituiscono la scaletta di For The Dead Travel Fast sono pervase da un mood cupo, ossianico, costruito attraverso atmosfere notturne e inquiete. Un taglio gotico immediatamente rilevato dalla copertina e dal titolo dell’album, e che trova la sua ispirazione, a detta del leader, il cantante e chitarrista Christoph "Lupus" Lindemann, nell’ascolto della colonna sonora di Suspiria scritta dai Goblin di Claudio Simonetti.
La formula alchemica di queste canzoni rispecchia, a prescindere dall’ambientazione fosca e vagamente sepolcrale, è la stessa di sempre: un mix di hard rock, space, psichedelia e doom che guarda principalmente agli anni ’70. Nello specifico, però, è stato fatto un ottimo lavoro sia in fase di scrittura che in fase di produzione, con brani articolati, complessi, tutt’altro che accomodanti e lineari, ma ricchi di improvvisi cambi tempo e idee spiazzanti.
I due minuti iniziali di The End introducono immediatamente alle atmosfere gotiche del disco: una cantilena lenta, ultraterrena, che inquieta, subito spazzata via dalle chitarre sfrigolanti che aprono alle sonorità space rock di The Devil’s Master, batteria martellante, basso distorto, riff peso e una voce che pare arrivare dall’oltretomba.
Nonostante la potenza del suono, i Kadavar riescono comunque a tratteggiare melodie sinuose che producono un effetto straniante nell’accostamento alle atmosfere presbiteriane e a riff di chitarra neri come la pece. Evil Forces, ad esempio, possiede un accattivante taglio NWOBHM, pur evocando lo spirito maligno di Ozzy Osbourne, Children Of The Night, dal titolo clamorosamente sabbathiano, ha un inizio arrembante, sfocia poi in un riff alla QOTSA, con strofa e ritornello ruffianissimi, che solo la svolta finale verso sonorità doom, introdotta da un assolo a tutto wah wah, riporta nell’alveo della narrazione, mentre Saturnales, è una lenta ballata avvolta in spire psichedeliche e spettrali.
Nel disco, inoltre, convivono, sfuriate elettriche sferraglianti (Demons In My Mind), con brani dalla struttura più complessa, che quasi lambiscono il progressive (Dancing With The Dead), creando una contrapposizione sonora che dà la misura di quanto varia e affascinante sia la proposta del trio teutonico.
Un disco, insomma, da non perdere, soprattutto per chi è rimasto legato a un suono che riporta ai grandi fasti dell’hard rock in chiave Hawkwind e Black Sabbath, ma vuole evitare letture pedisseque in favore di un’interpretazione più libera e personale. E i Kadavar, senza ombra di dubbio, sono al momento una delle band che riesce ad aggiungere elementi di novità ad un canovaccio altrimenti logoro.

VOTO: 7,5





Blackswan, giovedì 14/11/2019

mercoledì 13 novembre 2019

PREVIEW



WILL SAMSON, il nuovo album PARALANGUAGE esce il 06 dicembre su Wichita Recordings [PIAS].
Paralanguage è il quinto album di Will Samson e il primo su Wichita Records. Il suono del musicista di origini britanniche esplora la musica ambientale, elettronica, sperimentale e acustica. L'album contiene contributi di altri musicisti come il collaboratore di lunga data Beatrijs De Klerck (violinista che ha suonato anche con A Winged Victory For The Sullen e Christina Vantzou), Ben Lester che ha lavorato con S. Carey e Sufjan Stevens e ha aggiunto la sua pedal steel a "Beyond The Dust", Jeremy Boettcher (che si esibisce anche con S. Carey) al contrabbasso in "The Human Mosaic", mentre il cantautore canadese Michael Feuerstack è la voce di supportp in "The Smallest Sliver".
Will Samson ricorda ancora i suoi primi – e unici – esperimenti con la psilocibina. Per qualche tempo, dopo la morte di suo padre nel 2012, il musicista britannico ha sofferto di lieve PTSD [disturbo da stress post-traumatico], incapace di elaborare il dolore provocato dalla natura improvvisa della scomparsa. Gli ci vollero diversi anni, tuttavia, prima che si sentisse abbastanza sicuro di esplorare le possibilità che si diceva offrisse questo popolare composto. Alla fine, lui e la sua ragazza si ritirarono in campagna per un giorno.
Il quinto album di Samson, Paralanguage, è stato per molti versi ispirato dalle sue esperienze successive e tenta anche di emularle. Infatti la sua voce su due tracce ‘Ochre Alps’ e ‘Flowerbed’, su cui ha lavorato per diversi mesi, furono scritte e registrate in due pomeriggi trascorsi a micro dosi.
Forse non sorprendentemente, Paralanguage – il titolo scelto perché i temi centrali dell’album affrontano il modo in cui “il nostro corpo, e non solo la nostra mente, conserva ricordi ed emozioni” – è l’album più coeso di Samson fino ad oggi. C’è un tenero filo che attraversa tutte le otto canzoni, da ‘Calescent’, eloquente brano d’apertura, alla nostalgia sfocata di ‘Lacuna’, dalla dolce serenità di ‘Beyond The Dust’ alla fragilità redentrice di ‘The Smallest Sliver’.
Anche la voce di Samson non ha mai suonato in modo così commovente, impegnato e confidente, il suo bramoso falsetto toccante quanto il suo gentile tenore – i paragoni con Sufjan Stevens e Patrick Watson non sono fuori luogo – mentre gli arrangiamenti sono intricati ma mai ostentati, con parti programmate in modo dettagliato inseparabili dal calore della strumentazione analogica. “Forse,” osserva Samson, “è un riflesso del sentirsi più centrati e radicati.”
Registrato in gran parte nel suo studio di Bruxelles, Paralanguage è una testimonianza del suo desiderio di cercare la pace non solo su disco ma nella vita. Un omaggio alla sua natura curiosa. In definitiva, è anche un memoriale per il padre, la cui tragica scomparsa ha ora inavvertitamente prodotto una fonte di consolazione magica per tutti noi. Come Samson canta in ‘The Smallest Sliver’: “Sometimes my love feels too big for my body/ So I have to let it go.”





Blackswan, mercoledì 13/11/2019

martedì 12 novembre 2019

AIRBOURNE - BONESHAKER (Spinefarm Records, 2019)

Ogni volta che devo recensire un nuovo disco degli Airbourne mi sento profondamente in imbarazzo. E’ davvero difficile, infatti, raccontare il disco di una band che, a voler essere generosi, si ispira apertamente agli Ac/Dc, e a voler essere cinici, ne è semplicemente un moderno clone.
Gli Airbourne, infatti, arrivano dall’Australia (strano, eh?) e hanno lo stesso, identico suono del gruppo capitanato da Angus Young. Non solo. In queste canzoni, troverete anche la medesima struttura dei pezzi e, absit iniuria verbis, idee replicate con certosina precisione da quelle già ascoltate dalla matrice originale (il riff della conclusiva Rock’n’Roll For Life e quel basso martellante non sono forse gli stessi di Let There Be Rock?).
E allora il quesito sorge spontaneo: ha senso acquistare e ascoltare l’album di una band che, secondo i più feroci detrattori, ne scimmiotta pedissequamente un’altra? Oppure ne vale la pena perché, in fin dei conti, chi ha sempre amato gli AC/DC, tutto sommato troverà motivo di divertimento anche ad ascoltare le gesta dei nipotini Airbone? Ai posteri, l’ardua sentenza e, soprattutto, “de gustibus non est disputandum”. A noi, il compito di raccontarvi questo nuovo album, il quinto nella carriera del combo australiano, prodotto per l’occasione da quel genio indiscusso di Dave Cobb.
E la mano di Cobb si sente eccome. Non perché sia invasiva, ovviamente, ma proprio perché riesce sempre a raggiungere il miglior risultato, lasciando spazio alla creatività degli artisti, esaltandone le peculiarità, e prevalentemente, preferendo sottrarre invece che aggiungere. E dal momento che gli Airbourne sono una band clamorosamente derivativa, Cobb ha deciso di mettere in evidenza soprattutto l’ottimo impatto live che la band possiede di suo. Il disco, infatti, suona scarno, essenziale, vibrante, come se (ed è così) fosse suonato in presa diretta, buona la prima e nessun ritocco, o quasi, in post produzione. La durata del disco (solo trenta minuti) contribuisce a esaltare l’impatto sonoro della band e ad accentuare l’approccio selvaggio alle canzoni: mezzora tirata a un volume esagerato tanto da far vibrare i vetri delle finestre e non avrete troppo tempo per ricordavi che queste canzoni le avete già ascoltate almeno un migliaio di volte.
Perché, se è vero che gli Ac/Dc fanno da decenni lo stesso disco, a volte bene e a volte male, gli Airbourne sono la fotocopia di quel disco sempre uguale. Certo, alla band australiana manca quel furore iconoclasta, quell’ironia dissacrante e quella rabbia belluina che era il marchio di fabbrica della premiata ditta Young & Scott; però è altrettanto vero che la venerazione per l’originale è sentita e verace e che la band capitana da Joel O’Keeffe non lesina nulla in termini di sudore e grinta.
Le canzoni? Compatibilmente con tutto quello che abbiamo detto finora a proposito di fonti di ispirazione e replica di un suono, non sono male: il disco fila spedito col piede a tavoletta tra riff e assoli a profusione e gagliardissimi up tempo. Bumout The Nitro, Backseat Boogie e Blood In The Water le migliori del lotto. Solo per amanti del genere, ovviamente.

VOTO: 6,5





Blackswan, martedì 12/11/2019