giovedì 21 settembre 2023

SOEN - MEMORIAL (Silver Lining Records, 2023)

 


Formatisi nel 2004, attivi dal 2010, gli svedesi Soen sono arrivati al loro sesto album in studio dopo vari cambi di una line up che oggi, probabilmente, vede la sua forma definitiva. La band, che ha nel batterista Martin Lopez, ex Opeth, il suo leader e motore propulsivo, ha guadagnato sempre più popolarità con una miscela ben calibrata di potenza e melodia, un’idea di fondo, questa, che, album dopo album, si è sgravata di ogni elemento derivativo (vedi Tool), per acquisire uno stile definitivamente identitario. Ora, la band ritorna con questo nuovo Memorial, il seguito di Imperial, pubblicato nel 2021, dimostrando, ancora una volta, la grande abilità nel creare composizioni incisive ed emotivamente cariche. Il disco, infatti, contiene i consueti riff vibranti, probabilmente i più pesanti scritti fino a oggi, contemperati, però, da articolate digressioni prog, momenti più raccolti e introspettivi, accenni a sonorità più classiche e un importante impianto melodico, a volte anche un po' ruffiano, ma comunque efficace.

L'album si apre con la palpitante "Sincere", un brano che rappresenta alla perfezione il suono della band, fatto di saliscendi emotivi, ritornelli implacabili, chitarre taglienti e drumming esplosivo (monumentale, come sempre, la prestazione di Lopez), ma capace anche di toccare le corde della malinconia con avvolgenti stasi melodiche.

La forza dei Soen risiede proprio nella naturalezza con cui riescono a far convivere trascinanti groove e momenti più intimi, echi classici e modernità (la strofa di "Violence" sembra essere pescata da una canzone dei Twenty One Pilots), senza mai perdere, però, il filo del discorso.

La seconda traccia e primo singolo, "Unbreakable" è l’ennesima testimonianza di questa abilità di contemperare riff potenti, abilità tecnica e profondità emotiva, un mix che si esalta, poi, grazie al solito ritornello che si manda a memoria in un solo ascolto.

Tutto in Memorial è perfettamente rifinito, dal mixaggio ai brillanti arrangiamenti, e le composizioni, ancorchè figlie della stessa idea, suonano intense e ispirate, anche quando i giri del motore rallentano per lasciare spazio a momenti più morbidi, come "Hollowed", intensa ballata che vede ospite la nostra Elisa, "Vitals", i cui echi pinkfloydiani non sfuggiranno agli ascoltatori più attenti, o "Tragedian", dall’avvincente crescendo emotivo.

Memorial è, dunque, la prova provata dell’evoluzione dei Soen come collettivo, è un album che mette in mostra non solo la loro maturità musicale e la brillantezza del modo in cui il quintetto si approccia alla scrittura delle canzoni, ma anche l’indubbia capacità di creare un corpo di lavoro assolutamente accessibile, capace, cioè, di plasmare la materia metal in modo che riesca a essere accattivante anche a chi il metal non lo digerisce.

Se è impossibile parlare male di un lavoro così ben confezionato e rifinito, resta vivo, tuttavia, un pensiero laterale che pungola l’orecchio e rende meno esaltante il giudizio finale: con questo talento, si può fare di più, si può osare, abbandonando la strada, spesso imboccata, dell’appeal radiofonico, per avventurarsi in territori più sperimentali e progressivi. Opinione personale, che non inficia assolutamente la qualità di un disco di ottima caratura.

VOTO: 7,5

GENERE: Progressive Metal 




Blackswan, giovedì 21/09/2023

martedì 19 settembre 2023

ZOMBIE - THE CRANBERRIES (Island, 1994)

 


Il 20 marzo del 1993, l’IRA (Irish Republican Army) compie un attentato a Warrington, Cheshire, in Inghilterra, a seguito del quale vengono barbaramente uccisi due bambini, Jonathan Ball e Tim Parry. Un fatto di sangue orribile, che tocca nel profondo Dolores O’Riordan, tanto da spingerla a scrivere una canzone, Zombie, che sarà, inaspettatamente, il più grande successo commerciale dei Cranberries.

Una canzone appassionata e politicamente militante, che nasce dalla rabbia e dall’orrore, e che la cantante scrisse, puntando il dito sulla lotta irlandese per l'indipendenza, una guerra che sembrava, in quegli anni, non potesse finire mai (“It's the same old theme, Since nineteen-sixteen”).

Zombie è il primo singolo estratto da No Need To Argue (1994), secondo album in studio della band irlandese, e rappresenta un cambiamento nel suono, che dopo un esordio più morbido e intimista, vira decisamente verso il rock, segnando un forte allontanamento da canzoni leggere e sognanti come Linger e Dreams, per abbracciare testi più impegnati. Il tal senso, Zombie è una canzone che parla di pace, quella pace tra Inghilterra e Irlanda, che ai tempi sembrava impossibile e che oggi, dopo gli accordi del venerdì Santo (10 aprile 1998) sembrerebbe ancora reggere.

Eppure, questa canzone, il cui senso era di schierarsi contro la follia della guerra e sottolineare come a farne le spese sono quasi sempre gli innocenti (“Another head hangs lowly, child is slowly taken, and the violence caused such silence, who are we mistaken?”), avventurandosi nella mischia politica del tempo, suscitò non poche polemiche, soprattutto in chi vedeva nelle liriche della O’Riordan una sorta di implicito endorsement in favore dell’invasore inglese.

Sarà. Ma quando la band iniziò a suonare dal vivo la canzone, ottenendo ancor prima della pubblicazione dell’album, un notevole successo, accadde l’inaspettato. Il 31 agosto 1994 l'IRA, dopo ben venticinque anni di conflitto armato, dichiarò il cessate il fuoco, suscitando in qualcuno il sospetto che una tregua fosse meno controproducente che ritrovarsi a fare i conti con l’esposizione mediatica di altre canzoni che mettessero a rischio l’onore del movimento.

Il video del brano fu girato da Samuel Bayer (quello, per intenderci, di Smells Like Teen Spirit dei Nirvana), che era andato a Belfast, poco prima del cessate il fuoco, per ottenere filmati realistici della zona di guerra, tanto che, quelli che si vedono nella clip sono davvero soldati britannici e bambini locali. Bayer intercala queste scene con immagini della band che suona e con quelle, decisamente sorprendenti, di Dolores O'Riordan, in piedi accanto a una croce e ricoperta di vernice dorata. Un’idea, questa, della stessa cantante, che, da un lato, voleva che le immagini fossero cromaticamente impattanti, e dall’altro, voleva, attraverso il simbolo della croce, evocare il dolore e suscitare sentimenti di natura religiosa.

La canzone tornò in auge ventiquattro anni dopo la sua pubblicazione, quando, il 19 gennaio del 2018, la metal band dei Bad Wolves ne pubblicò una cover (la trovate sul loro esordio, intitolato Disobey), a cui Dolores O’Riordan doveva prestare la propria voce, proprio il giorno in cui la cantante morì (15 gennaio 2018). Prima di pubblicare il video, in cui la O’Riordan veniva evocata da un’attrice ricoperta di vernice dorata, ci fu un lungo di battito fra la band, il loro manager e la casa discografica (Eleven Seven) sull’opportunità o meno di pubblicare Zombie come singolo. Alla fine, Il gruppo optò per la pubblicazione della cover, ma decise di donare i proventi della vendita ai tre figli della O'Riordan, riuscendo a dare un risvolto positivo alla tragedia di quella morte inaspettata e prematura.

 


 

 

Blackswan, martedì 19/09/2023

lunedì 18 settembre 2023

ALICE COOPER - ROAD (earMusic, 2023)

 


Non voglio nemmeno pensare che ci sia al mondo qualcuno che non conosca Alice Cooper. Pertanto, è del tutto inutile snocciolare numeri e accennare a una storia musicale che ha lasciato segni indelebili, ispirando, e continuando a ispirare, schiere di musicisti. Basti sapere solo che il maestro degli incubi è tornato con l'album in studio numero ventinove (!), e alla veneranda età di settantacinque anni, non solo ha ancora molte cose da dire, ma le dice benissimo. Road non è, dunque, lo stanco lavoro, di chi ha superato abbondantemente gli anni della pensione, ma un disco che vede il rocker di Detroit rivivere nella sua forma migliore: grandi canzoni, backing band in palla, produzione impeccabile (Bob Ezrim) e, come sempre, testi traboccanti di ironia.

Quest'uomo non si ferma mai, e se sommi gli album solisti e gli album di puro divertimento pubblicati con il progetto parallelo degli Hollywood Vampires, parli di oltre sessant’anni di carriera, per la maggior parte passati in turnèe. E come sia in grado di sostenere questi ritmi, è un autentico mistero. Road, in tal senso, è un concept album dedicato alla strada, quella che ha percorso per milioni di chilometri, passando da un concerto all'altro, ma anche strada come metafora della vita, l'orizzonte davanti, perchè il futuro non è scritto, uno sguardo allo specchietto retrovisore, perchè il passato non si rinnega mai. E qui, nonostante le settantacinque primavere, Alice di vita ne mette tantissima, con un'esuberanza che lascia attoniti. E' lui, folle come sempre, e questa musica è la sua, folle come sempre. Un copione già scritto, forse. Ma la vera forza è quella di saperlo reinterpretare ogni volta col sorriso (ghigno, rectius) sulle labbra. Puro divertimento rock'n'roll: un po' giullare, un po' rocker, tanta elettricità, tanta ironia, il desiderio guascone di continuare a ballare alla faccia di chi l'ha già dato per morto.

Senza dubbio ci sono parecchi fan che vivono nel passato e pensano che Alice abbia raggiunto il suo apice negli anni ‘70/’80. Una considerazione, questa, solo in parte condivisibile, perché il Cooper di oggi è ancora in grado di produrre materiale di livello, e Road, in tal senso, ne è pieno.

L'album si apre con l’autobiografica "I'm Alice", una dichiarazione d’intenti e un’orgogliosa affermazione autocelebrativa, che ricorda la spavalderia degli anni '70: riff taglienti, retrogusto stradaiolo, testi attraversati da un filo di sfacciata ironia, e quella teatralità nella pausa parlata che evoca il fantasma di Vincent Price. Il modo perfetto per aprire un album che presenta davvero pochi punti deboli e inanella invece una serie di canzoni che sembrano costruite per funzionare meravigliosamente bene anche dal vivo, come, ad esempio, la successiva "Welcome To The Show", un brano figlio degli anni ’80, i cui coretti e il lavoro di chitarra sono vecchi di decenni e, ciò nonostante, in un batter d’occhio, mandano a fuoco le casse dello stereo.

Un uno due scalpitante, una partenza a razzo, per un viaggio grazie al quale Alice Cooper attraversa tutte le tappe della sua immensa carriera. "All Over The World", dedicata alla pletora inesausta di concerti tenuti nel corso della sua vita, aggiunge i fiati a un riff di chitarra decisamente seventies e a quella voce scorbutica a cui il tempo non ha tolto un briciolo di espressività, "Dead Don’t Dance" è puro metal con retrogusto Black Label Society trainato da un’infuocata linea di basso (Chuck Garric), "Go Away" è una sgommata rock’n’roll che richiama il Cooper più classico, mentre "White Line Frankenstein", con l’ospitata di Tom Morello alle sei corde, è un altro pezzo metal che esplode in un ritornello implacabile.

"Big Boots" è ancora puro rock’n’roll, spinto a tutta velocità dal basso di Garric e dal contrappunto del pianoforte verso un chorus uncinante, "Rules Of The Road", nello stesso modo, schizza rapidissima, mentre la pesante e cupa "The Big Goodbye" (grande assolo di Nita Strauss) guarda a un futuro, si spera il più lontano possibile, in cui le chitarre verranno appese al chiodo e tutto sarà finito. "Road Rats Forever" apre a bomba la parte finale dell’album, raggrumando in quattro minuti le caratteristiche della perfetta canzone rock: sezione ritmica impetuosa, riff feroce, assolo infuocato, contrappunto pianistico e ritornello fulminante. Decisamente uno degli high lights del disco.

"Baby Please Don’t Go" è un’ottima ballata, funziona bene, ma suona davvero poco Cooper, mentre la penultima "100 More Miles" assume connotati orrorifici e un tocco bluesy, prima di gonfiarsi di oscuri presagi e elettricità.

Il disco si chiude con la cover live di "Magic Blues" degli Who, introdotta da un riff che omaggia anche Jimi Hendrix, e non è un caso. Perché Alice Cooper vive e muore per lo spettacolo, perché Alice Cooper, riannodando in questo modo i fili della storia, che ha contribuito a scrivere con canzoni che sono diventate leggendarie, colloca sè stesso nell’Olimpo dei più grandi di sempre. Non con arroganza, ma con consapevolezza. La stessa, che rende Road l’ennesimo, importante, capitolo di una carriera selvaggia, indomita, e per certi versi, inarrivabile. 

VOTO: 8

Genere: Rock, Hard Rock




Blackswan, lunedì 18/09/2023

venerdì 15 settembre 2023

99 LUFTBALLONS - NENA (CBS, 1983)

 


L’abbiamo canticchiata, l’abbiamo ballata, l’abbiamo inserita nelle compilation che creavamo per le nostre feste; eppure, questa allegra canzoncina pop aveva un significato ben più profondo di quello che le attribuivamo. Nena, nata Gabriele Susanne Kerner, inserì, infatti, il brano nell’omonimo album di debutto della sua band, allo scopo di puntare il dito contro la paranoia e l'isteria collettiva che circolavano in quegli anni, in cui ancora si parlava di guerra fredda.

Nella canzone, Nena e l'ascoltatore (“Tu e io in un piccolo negozio di giocattoli” recita il testo) acquistano 99 palloncini rossi e, dopo averli gonfiati, li lasciano volare in cielo, per puro divertimento. Questi palloncini, però, vengono intercettati dai radar militari come oggetti non identificati, ed entrambe i blocchi ostili, quello occidentale e quello orientale, fanno decollare gli aerei e dichiarano l’allerta per contrastare il rischio di quello che viene percepito come un attacco nucleare, quando in realtà è un innocuo gioco per bambini.

Il testo della canzone, sebbene difficile da interpretare, possiede un ulteriore significato e parla dei sogni del popolo tedesco che si sono progressivamente sgretolati dopo la seconda guerra mondiale. I 99 palloncini rappresentano, quindi, i tanti sogni che ogni persona e l’intera nazione ha avuto, ma alla fine del brano, quel che resta di tutte le speranze, è un unico palloncino, un unico sogno, che Nena, però, lascia andare, quasi in segno di resa (“In questa polvere quella era una città. Se potessi trovare un souvenir solo per dimostrare che il mondo era qui. Ed ecco un palloncino rosso. Ti penso e ti lascio andare”)

Fu il chitarrista di Nena, Carlo Karges, ad aver avuto l'idea per la canzone mentre assisteva a un concerto dei Rolling Stones a Berlino Ovest (la musica fu scritta dal tastierista, Uwe Fahrenkrog-Petersen). A un certo punto, durante lo spettacolo, la band rilasciò un mucchio di palloncini. Carlo osservò uno di quei palloni volare oltre il muro, verso Berlino Est, e immaginò un radar che captava quell'unico pallone e lo scambiava per un aereo nemico.

99 Luftballons fu pubblicato per la prima volta come singolo in Germania, nel 1983. La casa discografica della band, la CBS, non voleva assolutamente rischiare a livello commerciale e inizialmente si rifiutò di pubblicarlo Stati Uniti, dove temeva il flop, visto anche l’uso nei testi della lingua tedesca. Poi, un giorno, un disc jockey della stazione radio KROQ di Los Angeles trovò una copia del 45 giri e iniziò a mandarlo in onda. Fu così che Nena si ritrovò a registrare la versione inglese del brano con il titolo tradotto in 99 Red Balloons. Inaspettatamente, però, le maggior parte delle stazioni radio statunitensi continuavano a suonare la versione originale tedesca, che diventò una vera e propria hit, salendo al numero 2 di Billboard il 3 marzo 1984 (la prima piazza era occupata stabilmente da Jump di Van Halen). In Inghilterra, invece, ad aver successo, fu la versione in lingua inglese, che rimase in vetta alle classifiche per tre settimane nel marzo 1984 e fu la prima di due canzoni a tema guerra fredda che quell'anno raggiunse la vetta delle chart del Regno Unito (l’altra fu Two Tribes dei Frankie Goes To Hollywood).

Una curiosità: un'altra sola canzone in lingua tedesca è stata un grande successo negli Stati Uniti: Rock Me Amadeus di Falco, infatti, conquistò la vetta delle classifiche americane, due anni dopo, nel 1986.

 


 

 

Blackswan, venerdì 15/09/2023

giovedì 14 settembre 2023

SPIRITUAL FRONT - THE QUEEN IS NOT DEAD (Prophecy, 2023)

 


Dopo quasi venticinque anni di carriera e a distanza di un lustro dall’ottimo Amour Braque, i romani Spiritual Front (Simone Salvatori, Francesco Conte e Andrea Freda, a cui, per l’occasione, si sono aggiunti il bassista Daniele Raggi e alcuni ospiti illustri) pubblicano questo The Queen Is Not Dead, un album interamente composto di canzoni prese dal songbook degli Smiths. Un’operazione assai rischiosa, perché mettere mano al repertorio di una delle band più seminali degli anni ’80 (e aggiungerei, di sempre) è un po’ come camminare bendati in un campo minato, basta un piede messo male e si finisce per combinare danni irreversibili.

Invece, questa raccolta, confezionata nello splendido artwork di Marco Soellner che trasfigura con accenti lugubri (un teschio al posto del volto di Alain Delon) la copertina dell’epocale The Queen Is Dead (1986) e che gioca ironicamente col titolo di quell’album (non sfuggano, quindi, i riferimenti al recente decesso della Regina Elisabetta), è un lavoro davvero ben fatto, in cui il materiale originale viene riletto con rispetto filologico e con la devozione di un fan che, basta un ascolto per rendersene conto, la musica degli Smiths l’ha vissuta in prima persona.

A dispetto della copertina, che evoca il disco più famoso pubblicato dalla band mancuniana (tra l’altro, già riletto, nel 1996, da svariati artisti inglesi, in una bella raccolta intitolata The Smiths Is Dead), l’album mette in fila svariati classici del gruppo capitanato dalla premiata ditta Marr e Morrissey, diventando così una sorta di best of, a cui non manca proprio nulla per affascinare vecchi fan e sedurre eventuali neofiti.

In scaletta, infatti, vengono affrontate canzoni famosissime come "Still Ill", "Ask", "Bigmouth Strikes Again", "How Soon Is Now?", "This Charming Man", "Please, Please, Please Let Me Get What I Want", e altre canzoni forse meno note, ma non per questo meno seducenti come "Shoplifters Of The World Unite", "Barbarism Begins At Home" e "Girl Afraid".

Come accennato, l’approccio al materiale è assolutamente rispettoso, la band si muove con estrema consapevolezza fra le pieghe di canzoni immortali, concedendosi solo qualche piccolo ritocco in fase di arrangiamento e utilizzando con misura gli archi, che avvolgono sapientemente melodie già di per sé memorabili.

Manca forse un pizzico di coraggio che avrebbe permesso un approccio meno rigoroso, ma in fondo va benissimo così: The Queen Is Not Dead è un’appassionata lettera d’amore spedita indietro nel tempo, che toglie la polvere a un songbook straordinario e ringrazia con sentito affetto una delle band più importanti della nostra storia musicale.

VOTO: 7

GENERE: pop, rock 




Blackswan, giovedì 14/09/2023