martedì 8 ottobre 2024

Cult Of Personality - Living Colour (Epic, 1988)


 

Il "culto della personalità" è una forma di idolatria sociale che si configura nell’assoluta e cieca devozione a un leader, solitamente politico o religioso, a cui vengono attribuite doti di infallibilità. Un fenomeno che potremmo definire anche come l’anticamera della dittatura: la storia è zeppa di esempi di culto della personalità (Benito Mussolini, Adolf Hitler e Stalin, per citarne alcuni), spesso negativi, e a ben vedere, anche oggi, si corre il rischio di esaltare personaggi fortemente carismatici, ma spesso privi di un abito etico e culturale, consentendo loro di fare quello che vogliono, magari governando un paese, con indiscussa autorità. Sono soggetti, questi, intrinsecamente pericolosi, perché il consenso popolare, permette loro di fare qualunque cosa, di dire alla gente che uno più uno fa tre, ed essere creduti.

E’ questo il tema affrontato in Cult Of Personality, la canzone più famosa dei newyorkesi Living Colour, prima traccia del loro album d’esordio Vivid, datato 1988.

Il destinatario delle liriche era l’allora presidente degli Stati Uniti, Ronald Reagan, che quando il brano fu pubblicato, era quasi a fine mandato.

Cult of Personality, essendo un brano dal contenuto essenzialmente politico, si apre e si chiude con alcune citazioni famose:

E nei pochi momenti che ci restano, vogliamo parlare con i piedi per terra in una lingua che tutti qui possano facilmente capire”.

La canzone inizia, quindi, con queste parole di Malcolm X, tratte dal suo discorso "Message To The Grass Roots" del 1963, in cui caldeggiava l’unificazione di tutti gli afroamericani.

A fine canzone, inoltre compare anche parte di una famosa frase di John F. Kennedy pronunciata nel suo discorso di insediamento del 1961:

Non chiederti cosa può fare il tuo Paese per te, ma cosa puoi fare tu per il tuo Paese”.

E poi, ancora:

L’unica cosa che dobbiamo temere è la paura stessa

Questa, invece, è una citazione da un discorso di Franklin D. Roosevelt, tenuto il 4 marzo 1933. Roosevelt usò quelle parole per annunciare il suo programma "New Deal" e incoraggiare i cittadini degli Stati Uniti, appena usciti dalla grande deperessione, a superare i loro problemi economici.

La maggior parte della canzone prende di mira l'idolatria, ma il testo è anche ambiguo, perché la band non sembra distinguere fra personaggi positivi e negativi, fra bene e male, finendo per accomunare Mussolini e Kennedy, Stalin e Ghandi. In fin dei conti, visto anche il grande successo del brano, lo scopo venne comunque raggiunto: mettere alla berlina il culto della personalità e attaccare, in questo modo, Ronald Reagan, un presidente che, a parere dei quattro ragazzi di colore, ne aveva combinate di cotte e di crude, senza avere uno straccio di visione politica.

Il grande successo di Cult Of Personality arrivò grazie a MTV, che in quel momento storico era all’apice della sua potenza. Inizialmente, la rete non voleva mandare in onda il video di un brano tanto controverso, e a quel punto la Epic, che annoverava tra i propri musicisti anche Michael Jackson, si rifiutò di concedere il video di Smooth Criminal, se MTV non avesse passato anche la videoclip dei Living Colour. I responsabili della rete televisiva sostenevano che il brano non avrebbe mai avuto successo e che non potevano scommettere tempo e denaro su una band di egregi sconosciuti. Dan Beck, responsabile del marketing della Epic, ebbe l’intuizione di mostrare loro i rapporti di vendita del singolo in Colorado, stato dove la canzone stava facendo sfracelli, e alla fine l’ebbe vinta sui titubanti responsabili di MTV.

Il video musicale è stato diretto da Drew Carolan, un fotografo amico della band. Il filmato della band che esegue la canzone è stato girato all'Hammerstein Ballroom di New York City due giorni dopo la fine del tour europeo e un giorno prima che partissero per il tour americano. Un elemento chiave (e inquietante) del video è la bambina paralizzata come un Poltergeist davanti a un televisore. Corey Glover, in un’intervista dell’epoca, cercò di spiegare il concetto: "La bambina che guardava la televisione era come una prefigurazione del mondo in cui vivevamo, in cui le persone ottenevano le loro informazioni dalla televisione... Eravamo tutti" figli dell’era della televisione. Le nostre informazioni sono arrivate di prima mano in questo modo, ed è di questo che il video cercava di parlare: i momenti cruciali della tua vita, per la maggior parte, li hai visti in televisione."

E’ interessante notare, poi, che mentre il video si avvia alla conclusione, le immagini diventano sempre più veloci, sovraccaricando la comprensione della bambina. Lei scuote la testa incredula di ciò che vede, allunga la mano e spegne la tv, lanciando un messaggio chiarissimo sulle disfunzioni dell’informazione.

Una clip tanto azzeccata, che agli MTV Video Music Awards, Cult of Personality ha vinto il premio per la migliore performance sul palco, per il miglior artista esordiente e per il miglior video.

L’incredibile appeal della canzone è dovuto essenzialmente a due fattori, dovuti entrambi allo straordinario talento di Vernon Reid, fantasioso e tecnico chitarrista prestato dal jazz al metal: il riff di apertura, che negli Stati Uniti e in Australia è stato utilizzato come sigla di diversi programmi sportivi e pubblicità, e il pirotecnico assolo, che la rivista Guitar’s World ha inserito alla posizione 86 della classifica degli assolo più belli di tutti i tempi.

 


 

 

Blackswan, martedì 08/10/2024

lunedì 7 ottobre 2024

Bella Brown & The Jealous Lovers - Soul Clap (LRK, 2024)

 


Quello di Bella Brown (al secolo Carol Hatchett) è un nome che circola da parecchio tempo nel circuito funky soul di Los Angeles, una musicista apprezzata, anche se lontana dagli echi mediatici dello star system, che ha saputo, nel suo piccolo, dare lustro alla musica nera californiana attraverso collaborazioni e una vivacissima attività live. Negli ultimi 18 mesi circa, Bella Brown e i suoi Jealous Lovers (backing band che ha già collaborato con Stevie Wonder, Elton John, Prince, etc.) si sono fatti un bel nome, grazie a un singolo, Get Mine, uscito nel 2022 per LRK, dopo che era già stato pubblicato, con minori riscontri, nel 2018.  

Dal 2022, il legame di Bella con l'etichetta LRK si è consolidato e dopo quella prima canzone, la collaborazione ha prodotto altri quattro singoli di qualità e dal discreto successo: la sorniona e dolcissima "What Will You Leave Behind", il northern soul scapicollato di "Bang, Bang, Bang”, l'intrigante e orecchiabile “Living Proof” e la sfacciata “Soul Clap”, che dà il titolo a questo full lenght d’esordio.

Queste quattro tracce sono state, poi, inserite del primo album di Bella, nella cui scaletta hanno trovato posto altre cinque canzoni originali e una radio edit di "Soul Clap", brano che apre il disco con otto minuti di funky soul corale e trascinante. Entrambe le versioni, sia quella originale che quella editata, faranno battere i piedi e ciondolare la testa, aprendo le porte a quarantacinque minuti assolutamente goduriosi.

Se le altre tre canzoni "conosciute" non hanno perso nulla del loro fascino funk/soul senza tempo, non sono da meno anche gli altri brani in scaletta: l’intensa "Lady Time" sfoggia un groove intenso impreziosito con un tocco caraibico, “Coming For You” è un pezzo potente che evoca sonorità blaxpoitation, mentre la voce di Bella Brown rappa da autentica califfa, e “I Found You” veste sgargianti abiti vecchia scuola, un completino anni ‘60 spolverato e tirato a lucido.

E se “Fast As Lightning” graffia con le sue unghiate rock, “There Is Love”, è una ballata che accarezza il cuore con il suo andamento agrodolce e classicamente soulful.

Soul Clap è un disco riuscito, molto classico nel suo svolgimento, ma intrigante per scrittura ed esecuzione strumentale (con una band di questo pedigree non era possibile aspettarsi di meno). Si ha, inoltre, la sensazione che Bella Brown si tenga ben lontano da facili compromessi e trucchetti per scalare le classifiche, ma che preferisca semmai concentrarsi sulla musica, lasciare che siano le ottime parti strumentali a farla da padrone, per suggerire un effetto finale da jam, come se stesse registrando dal vivo in uno dei piccoli club che ha calcato nei primi anni di carriera.

Il risultato è un album brillante e decisamente divertente, che permette di utilizzare plausibili accostamenti, che in futuro vedremo se confermati, con Sharon Jones, Tina Turner e con Betty Davis (anche se nello specifico manca un surplus di rabbia). Comunque sia, buona la prima.

Voto: 7

Genere: Funky, Soul, R&B

 


 

Blackswan, lunedì 07/10/2024

giovedì 3 ottobre 2024

Raffaella Fanelli - La Verità Del Freddo (ChiareLettere, 2018)

 


Hanno già ordinato la mia morte…” Maurizio Abbatino parla e racconta quello che ha visto e vissuto in prima persona. Anni di delitti, di vendette, di potere incontrastato su Roma e non solo. Misteri italiani, dal delitto Pecorelli all’omicidio di Aldo Moro, fino alla scomparsa di Emanuela Orlandi. Protagonista di una stagione di sangue che ha segnato la storia più nera del nostro paese; fondatore e capo, con Franco Giuseppucci, della banda della Magliana, Abbatino è l’ultimo sopravvissuto di un’organizzazione che per anni si è mossa a braccetto con servizi segreti, mafia e massoneria. In queste pagine racconta la genesi della banda, le prime azioni, la conquista della città, gli arresti, le protezioni in carcere e fuori, l’inchiesta avviatasi oltre vent’anni fa a partire dalle sue confessioni. Può considerarsi il prologo di Mafia capitale: “Ritornano dei cognomi, si rivede un metodo… Abbastanza per pensare che le traiettorie del vecchio gruppo criminale non si siano esaurite” ha affermato l’attuale capo della Procura di Roma, Giuseppe Pignatone. Nel libro scorre la storia d’Italia vista con gli occhi di un criminale sanguinario che ha fatto arrestare altri criminali sanguinari. Molti di loro sono tornati liberi. Lui no. Aspetta, dice, la sua esecuzione. “Sono tornato dove tutto è cominciato. Perché è qui che deve finire.”

 

Una bella serie tv e un altrettanto bel film hanno reso note le vicende della banda della Magliana al grande pubblico, ammantandole, forse involontariamente, di un’ingiustificata aura di romanticismo. Questo capitolo della più recente Storia italiana, però, di romantico non ha proprio nulla. Sono stati, invece, anni oscuri, grondanti di sangue e pervasi di terrore, le cui esiziali propaggini hanno preso nuova forma e nuova linfa vitale, arrivando fino a noi col nome non meno inquietante di Mafia Capitale (“Ritornano i cognomi, si rivede un metodo…”).

Maurizio Abbatino, detto Crispino o il Freddo, di quella banda fu uno dei boss più spietati, un killer risoluto e sanguinario, che dopo una vita di efferati delitti (“Non so dire quante volte ho ucciso. Ma ricordo i nomi di tutte le mie vittime. La cosa strana è che non riesco a contarle”) ha deciso di collaborare con la giustizia, di fare nomi e cognomi, di raccontare le dinamiche di un sistema lucido, feroce e implacabile, che per decenni ha spadroneggiato su Roma e non solo.

Questa storia, filtrata attraverso lo sguardo disincantato di Abbatino, oggi anziano e malato, viene raccontata in una lunga intervista, che il boss della Magliana ha rilasciato alla brava e coraggiosa Raffaella Fanelli (Repubblica, Panorama, Oggi, etc.), giornalista d’inchiesta che ha reso avvincente come un romanzo duecentosessanta pagine che si leggono tutte d’un fiato, e col fiato sospeso.

Non sono solo episodi noti a chi ha guardato la serie tv o il film (come il rapimento Grazioli o l’uccisione del Libanese, per citarne un paio): La Verità Del Freddo, infatti, scava più nel profondo, cercando di dare un’interpretazione (a volte solo parziale) a molti fatti di cronaca che hanno segnato la storia del nostro paese degli ultimi cinquant’anni, dal rapimento di Moro all’omicidio Pecorelli, dalla sparizione di Emanuela Orlandi all’attentato a Papa Giovanni Paolo II.

Lo scenario tratteggiato dalle dichiarazioni del Freddo è quello di un verminaio senza fondo, in cui delinquenza organizzata e mafia intessono relazioni e alleanze con servizi segreti, istituzioni politiche e religiose, in un intreccio di do ut des, ricatti e connivenze, contro cui i pochi fedeli servitori dello Stato nulla poterono fare, perché osteggiati, depistati e spietatamente assassinati (uno su tutti il giudice Occorsio).

Una storia di sangue, tradimenti e insabbiamenti che arriva fino a Mafia Capitale (la figura di Carminati, uomo nero della Magliana e padre padrone di Roma nei decenni successivi), quando, poco prima dell’inizio del processo, Abbatino viene privato dello speciale regime di protezione per i collaboratori di giustizia, decisione che suona contemporaneamente come avvertimento e minaccia. 

La verità Del Freddo è un viaggio attraverso decenni di storia che aspettano ancora delle risposte definitive, palpitante come un thriller, tragico e inquietante come la deriva di un paese terminale, incapace di fare i conti con il proprio passato, e il cui futuro si prospetta sempre più buio.

Blackswan, giovedì 03/10/2024

martedì 1 ottobre 2024

The Dead Daisies - Light 'Em Up (SPV, 2024)

 


Un supergruppo dalle porte sempre aperte, da cui sono entrati e usciti, e continuano a farlo, musicisti straordinari che hanno segnato, ognuno a modo proprio, la storia del rock. Questa, in poche parole, la fotografia più nitida dei Dead Daisies, una band che, a dispetto di una line up instabile, continua a sfornare ottimi dischi, senza perdere un grammo dell’intensità espressiva e, per converso, senza cambiare una virgola, o quasi, di una proposta tetragona di fronte al tempo che passa e alle mode del momento.

Dopo due album, ha levato le tende Glenn Hughes (Deep Purple, Trapeze, Black Country Communion), mentre per quest’ultimo full length ha fatto ritorno in batteria il cantante John Corabi, già presente fra il 2015 e il 2019, che si affianca così al nuovo bassista Michael Devin (Whitesnake), e alle certezze Doug Aldrich, David Lowy (chitarre) e Tommy Clufetos dietro le pelli.

La proposta, come dicevamo, resta la solita, e cioè un hard rock potente e trascinante, che senza Hughes ha perso i predominanti elementi blues e funky, in favore di un approccio più ruvido, ma non meno elettrizzante. Ciò che stupisce è come, nonostante gli svariati cambi di line up, la band continua a suonare con un affiatamento a dir poco travolgente, alzando, nello specifico, anche l’asticella della qualità rispetto al precedente Radiance (2022), un disco piacevole, ma abbastanza ordinario.

Light ‘Em Up, invece, offre poco più di trentacinque minuti di ottima musica, in cui il gruppo si riconnette alle sua profonde radici rock’n’roll, sfoderando una grinta che riesce a far tremare i vetri delle finestre attraverso bordate di elettricità che mettono a rischio le casse dello stereo. Agli acuti di Hughes, uno che a settant’anni dà ancora la paga a tanti giovani ventenni, si è sostituito il timbro ispido e graffiante di Corabi, perfettamente a suo agio nell’aggredire i padiglioni auricolari con un cantato tanto duttile quanto intriso di whiskey e arrochito dal fumo.

La title track schizza via a velocità supersonica su un riff rubato a Angus Young, una partenza violenta e in derapata che mette subito in chiaro le cose. Più scanzonata ma non meno ruvida è la successiva "Times Are Changing", in cui emerge prepotente quell’anima rock’n’roll di cui dicevamo, mentre "I Wanna Be Your Bitch" corre dritta come un fuso, un’onda di sudicia energia che non fa prigionieri.

Una tripletta iniziale che mette in mostra i muscoli pulsanti di una band che sa il fatto suo: non solo la grande prova di Corabi, ma due chitarre spietate, che evitano fronzoli e inutili orpelli stilistici, e una sezione ritmica che avanza poderosa come uno schiacciasassi. Basta ascoltare la linea di basso di Devin in "I’m Gonna Ride", omaggio esplicito agli Ac/Dc, o quella ancor più possente di "Take A Long Line", esiziale punto di collisione fra un trasporto eccezionale di metallo e una Ford Thunderbird del ’57 guidata da un Elvis strafatto di metanfetamine, per capire a che folle velocità girino queste canzoni innervate di adrenalina pura.

Una corsa che rallenta solo nell’ariosa melodia di "Love That’ll Never Be", virile power ballad di ruvido romanticismo e nel conclusivo cadenzato rock blues con cui "Take My Soul" chiude un album a dir poco eccitante, forse anche superiore dell’acclamato Holy Ground del 2021. Bomba!

Voto: 8

Genere: Hard Rock 




Blackswan, martedì 01/10/2024

 

 

lunedì 30 settembre 2024

The Police - King Of Pain (A&M, 1983)

 


C'è un fossile intrappolato nell'alta parete di una scogliera
C'è la mia anima lassù
C'è un salmone morto congelato in una cascata
C'è la mia anima lassù
C'è una balena arenata sulla spiaggia dal riflusso della grande marea
C'è la mia anima lassù
C'è una farfalla intrappolata nella tela di un ragno
C'è la mia anima lassù

Questi versi depressi e grondanti sofferenza rappresentano il senso di Sting per il dolore. King Of Pain è, infatti, una canzone intima e molto personale, attraverso la quale il cantante dei Police cercava di rielaborare un momento infelice della propria vita. Sting, infatti, si era recentemente separato dalla sua prima moglie, l'attrice Frances Tomelty, e, in quei giorni turbolenti, non andava d'accordo con gli altri due membri della band, con i quali, spesso e volentieri, si trovava in disaccordo su svariate scelte artistiche. Con questo brano, allora, Sting cerca di darsi una scossa, si incorona King Of Pain e prova ad analizzare, per superarlo, il proprio tormento interiore.  

C'è una piccola macchia nera sul sole di oggi. 

La canzone inizia con questo famoso verso, a proposito del quale, il cantante in un’intervista a Musician, disse: “Ho evocato simboli di dolore e li ho collegati alla mia anima. Una macchia nera sul sole mi ha colpito come un'immagine molto dolorosa”.

Questo verso, che evoca immediatamente l’umore cupo di chi si trova a fare i conti con qualcosa che disturba la propria serenità, nacque in seguito a un evento specifico. Durante i giorni in cui il suo matrimonio stava collassando, Sting era seduto sotto un albero del suo giardino, e mentre rimuginava sulla fine della sua storia d’amore, vide il sole tramontare e notò delle macchie solari. Quando Trudie Styler, la sua nuova compagna, vedendolo solo e depresso, lo raggiunse in giardino, Sting le disse: "Oggi c'è una piccola macchia nera sul sole. Quella lassù è la mia anima". Trudie alzò discretamente gli occhi al cielo e, vagamente infastidita dall’umore di quello che, tempo dopo, sarebbe diventato suo marito, disse: “Eccolo di nuovo, il re del dolore.”

Sting scrisse King Of Pain nel 1982 a Goldeneye, una tenuta in Giamaica precedentemente abitata da Ian Fleming, che lì scrisse molti dei romanzi di James Bond, e registrò il primo abbozzo del brano utilizzando un piccolo sintetizzatore Casio. Quel suono tintinnante piacque molto a Copeland, che, però, ebbe l’idea di renderlo un po’ più organico e pieno, utilizzando uno xilofono. L’utilizzo dello xilofono per la canzone è stato uno dei pochi suggerimenti che Sting accettò dai suoi compagni, con i quali, a causa del suo egocentrismo, era, ormai, ai ferri corti. Tanto che alla fine delle registrazioni di Synchronicity, in cui venne inclusa King Of Pain, il trio si sciolse e Sting iniziò una proficua carriera solista.  

 


 

Blackswan, lunedì 30/09/2024