martedì 11 novembre 2025

Addicted To Love - Robert Palmer (Island, 1985)

 


Sono molte le canzoni che raccontano di un amore così totalizzante da creare dipendenza, così ossessivo da prendere il sopravvento sul processo decisionale del cervello, ma Robert Palmer ha trovato un modo nuovo per esprimerlo nella celebre "Addicted To Love", una hit numero uno negli States e un successo clamoroso anche a livello mondiale.

La canzone, originariamente, avrebbe dovuto parlare di abuso di sostanze, di dipendenza da droghe, alcol o cibo, ma alla fine Palmer ritenne che alleggerendo il tema e parlando d’amore, il brano sarebbe stato più attraente.

L’idea iniziale del musicista inglese era quello di fare di "Addicted To Love" un duetto, e individuò in Chaka Khan la partner ideale. I due si misero al lavoro e in men che non si dica registrarono la canzone; ma quando tutto era pronto per la pubblicazione, l’etichetta della Khan, la Warner Brothers, vietò l’utilizzo della voce della cantante statunitense, e Palmer dovette riregistrarla da capo.

Il brano, come anticipato, ebbe un grande successo, e non solo perché possedeva un tiro irresistibile, ma anche perché fu accompagnato da un video che divenne iconico.

Il clip mostra Palmer che canta di fronte a una "band" di bellissime ragazze che si assomigliano (vestono abiti identici e sono pesantemente truccate) e che fanno finta di suonare. La cosa divertente del video è che le modelle che posano come una band sono state selezionate proprio perché non sapevano suonare alcun strumento, e di conseguenza, ogni ragazza tiene il suo tempo e si muove a un ritmo diverso.

Chi erano le ragazze nel video? Ecco l’elenco: 

 

Julia Bolino (chitarra)

Patty Elias (chitarra)

Kathy Davies (batteria)

Julie Pankhurst (tastiera)

Mak Gilchrist (basso) 

 

La Gilchrist aveva lavorato in diversi spot pubblicitari, la Bolino e la Davies avevano partecipato ad altri video musicali, mentre sia la Pankhurst che l’Elias erano al loro esordio. Tutte ricordano che Palmer si mostrò molto professionale ed educato durante le riprese, anche quando un piccolo “inciampo” avrebbe potuto farlo arrabbiare. La "bassista" Mak Gilchrist, che allora aveva ventun anni, ricorda, infatti, che il regista Terence Donovan, per cercare di rendere l’ambiente più informale e rilassato, le fece ubriacare con del vino, e che lei, annebbiata dai fumi dell’alcol, perse l’equilibrio colpendo Palmer alla nuca con il manico del basso, facendogli così sbattere la faccia contro il microfono.

Il roboante riff di chitarra che apre la canzone giunse a Palmer in sogno. Nel 1988 dichiarò alla rivista Q: "Quel riff rumoroso mi ha svegliato. Sono sceso dal letto, ho preso il registratore, l’ho registrato e sono tornato a letto. La mattina dopo ho pensato: è fatta!”.

E fu così: Palmer, nel 1987, vinse il suo primo Grammy Award nella categoria Migliore Performance Vocale Rock Maschile proprio per "Addicted To Love". Un successo quasi inaspettato, visto che in precedenza la carriera del musicista stentava a decollare.

Palmer, infatti, aveva suonato in diverse band dalla fine degli anni '60 e pubblicò il suo primo album da solista nel 1974. Coprì una vasta gamma di generi, spesso inserendo sonorità caraibiche nella sua musica (viveva alle Bahamas), e ottenne un modesto successo in classifica, in particolare con i brani "Bad Case of Loving You" e "Every Kinda People". Nel 1985, tuttavia, trovò la sua formula vincente quando ricoprì il ruolo di frontman del supergruppo The Power Station, band che lo vedeva a fianco di Andy Taylor e John Taylor dei Duran Duran e di Tony Thompson degli Chic. La band ottenne un grande successo con "Some Like It Hot", un rock esplosivo che utilizzava la giusta dose di aggressività e sensualità. Palmer integrò quel sound nel suo album Riptide, pubblicato più tardi nel 1985, con i risultati che abbiamo appena raccontato.

Una curiosità. Questa fu la prima canzone a entrare nella Hot 100 americana con la parola "addicted" nel titolo e non ce n'è stata un'altra fino a quando i Simple Plan non scalarono le classifiche con una canzone intitolata appunto "Addicted", nel 2003.

 


 

 

Blackswan, martedì 11/11/2025

lunedì 10 novembre 2025

Biffy Clyro - Futique (Warner, 2025)


 

Gli scozzesi Biffy Clyro sono tra le migliori band di rock da stadio in circolazione, di quel genere, cioè, che fa scatenare i fan sotto il palco (e loro, dal vivo, sono una bomba) e che occupa un posto privilegiato nelle scalette delle radio FM. Dopo trent’anni di carriera e dieci album all’attivo, il gruppo capitanato da Simon Neil continua a mantenere una coerenza artistica invidiabile, oltre a un ottimo livello di ispirazione, per quanto, a parere di chi scrive, non si è più ripetuta la magia di Only Revolution, autentico gioiellino datato 2009.

Dopo due buoni dischi come A Celebration Of Endings (2020) e The Myth Of The Happily Ever After (2021), i Biffy Clyro tornano sulle scene con un disco riuscitissimo, decisamente all’altezza dei loro migliori lavori. Alla base di questa nuova produzione, troviamo un’idea di fondo molto stimolante: alcuni dei momenti più importanti della nostra vita diventano tali solo con il senno di poi, generando la nostalgia che sboccia lentamente per un momento dell’esistenza che non abbiamo apprezzato appieno nell’attimo in cui lo abbiamo vissuto, non rendendoci conto che forse stavamo facendo qualcosa per l'ultima volta. Ecco, allora, il titolo Futique, una parola costruita sulla crasi fra futuro e antico.

Sotto il profilo squisitamente musicale, questa nuova fatica del power trio scozzese è un disco che vive d’urgenza, è suonato con il cuore, con il desiderio di restituire in gioia la fedeltà di migliaia di fan, e possiede un suono potente, calibrato, rotondo, che sprizza energia da tutti i pori.

Futique è, inoltre e probabilmente, una delle uscite più snelle e accessibili della band, un album più incline al pop di quanto ci si potrebbe aspettare, e ad eccezione di "Hunting Season" che spinge il piede su un acceleratore punk rock (salvo piazzare poi un ritornello di una solarità irresistibile) e dei riff sinuosi e del basso propulsivo di "Friendshipping" (un po’ prevedibile, ma esaltante), è anche decisamente privo di momenti pesanti.

Ciò non toglie che la scaletta sia confezionata con gusto e intelligenza, regalando grandi momenti di musica, anche quando i muscoli vengono tenuti ben celati sotto la maglietta. Ecco allora la melodia ruffiana di "Shot One" e le ritmiche danzerecce di "Dearest Amygdala", due brani che abbracciano certe sonorità anni ’80, o l’atmosfera cupa e meditabonda di "Woe Is Me, Wow Is You", una canzone che mette in evidenza le doti vocali di Neil e la capacità della band di piazzare, quando meno te l’aspetti, dei refrain irresistibili.

Se in alcuni dischi precedenti l’andamento della scaletta era altalenante, con grandi brani affiancati a episodi meno memorabili, in Futique lo standard resta elevato per tutti i quarantacinque minuti di durata, offrendo anche alcuni picchi vertiginosi. Così, se tenendo fede al concept che sta alla base dell’album, molti momenti della nostra vita, così come i brani musicali che ascoltiamo, acquistano significato solo se ripensati attraverso una nuova prospettiva, è altrettanto vero che sappiamo fin da subito quali sono i momenti speciali, così come quelle canzoni che passeranno dal nostro stereo ancora, ancora e ancora.

"A Little Love" e "True Believer", a esempio, sono entrambe delle hit assolute, vantano dei ritornelli enormi e godono di un energico lavoro di batteria di Ben Johnson (che è al massimo della forma per tutto il disco), mentre "Goodbye" è una struggente ballata radiofonica, zuccherina al punto giusto da evocare infiniti paesaggi malinconici.

Il trio riserva il meglio per la fine, con la fenomenale traccia conclusiva "Two People In Love", un brano meno accessibile degli altri, che sembra nato da una coraggiosa visione progressive: sei minuti in cui la splendida melodia di pianoforte si intreccia con una ritmica convulsa, il paesaggio sonoro celestiale che accompagna il ritornello innalza verso l’immensità del cielo e un outro esteso trasporta il brano verso un’incalzante deriva epica.

Futique è un disco godibile dall’inizio alla fine, attraverso il quale i Biffy Clyro offrono il meglio del loro arsenale, garantendo ai propri fan il miglior livello possibile d’ispirazione ed elargendo con generosità irresistibili melodie, capaci di farsi ricordare ben oltre l’ascolto dell’album. Impossibile, tanto per richiamare il tema che ha ispirato il disco, quando lo ascolteremo per l’ultima volta, ma di certo, visto l’ottimo risultato raggiunto, lo ascolteremo ancora per un bel po’.

Voto: 8

Genere: Rock, Pop 




Blackswan, lunedì 10/11/2025

giovedì 6 novembre 2025

Lathe Of Heaven - Aurora (Sacred Bones Records, 2025)

 


Che il post punk e le sue derivazioni dark wave abbiano trovato negli ultimi anni terreno fertile per un impetuoso revival è un dato di fatto. Le band che tornano a rimasticare le sonorità che andavano per la maggiore negli anni ’80 crescono come funghi: alcune con l’intento di interpretare quel suono in chiave moderna, plasmandolo per renderlo alternativo e appetibile a un pubblico più giovane, altre, invece, spinte da intenti evidentemente nostalgici, riprendendolo sic et simpliciter, e accompagnandolo con l’inevitabile citazione dei tanti eroi che resero leggendaria quell’epoca lontana.

In questa seconda schiera di artisti, possono essere annoverati i newyorkesi Lathe Of Heaven, che giunti con Aurora al loro secondo album, continuano in un viaggio immersivo negli anni ’80, replicandone tutte le caratteristiche: accordi prevalentemente in minore, tappeti di synth carichi di melodie malinconiche, il basso pulsante come architrave, chitarre stridenti, un suono carico di eco, un tocco di batteria elettronica, furiose cavalcate accese da urgenza punk.

Le canzoni create dalla band capitanata da Gage Allison non sono solo un recupero nostalgico, ma coinvolgono completamente i sensi dell’ascoltatore, creando la sensazione di essere fisicamente presenti in quella magica decade. Chi ha vissuto in prima persona quegli anni, tornerà ragazzo, c’è da scommetterci, e si ricorderà la propria collezione di dischi dell’epoca, composta dai capolavori di Cure, Echo & The Bunnymen, Killing Joke, Psychedelic Furs, Sister of Mercy, etc.

Alla base di Aurora, però, non c’è l’ombra di copia incolla: a fronte di un pregevole lavoro di recupero filologico, ci sono anche grandi canzoni, e se il mood resta quello crepuscolare del genere, le melodie, soprattutto nella prima metà, sono esplosive e pop, tanto da rivestire l’album di una glassa zuccherina che lo rende tanto contagioso quanto suggestivo. In tal senso, Aurora è un disco dark wave orecchiabile e raffinato, che sceglie anche una strada contigua al lo-fi, soprattutto nella seconda parte, risultando al contempo traboccante di languori malinconici e ritornelli uncinanti. 

L’iniziale "Exodus" indica in modo evidente le intenzioni dei Lathe of Heaven, mentre synth levitanti, percussioni galoppanti e ritornelli svettanti preparano la scena per ciò che verrà. La successiva "Aurora" è di una bellezza che toglie il fiato, e grazie all’irresistibile melodia del ritornello e alla voce di Allison che ricorda molto quella di Richard Butler sembra un outtakes da Mirror Moves dei Psychedelic Furs. Uno degli apici del disco e, probabilmente il momento più struggente e romantico: "La poesia della perdita, non pronunciata sulle tue labbra, sapendo che sei ancora lì, quando non c'è più niente, Perso in pura devozione, tracciando il paradiso che giace accanto a te".

Sotto il profilo delle liriche (i testi sono presenti nel booklet del cd), la scelta delle parole di Allison è ricercata e poetica, raggiungendo a tratti vertici inaspettati per una rock band. Così quando in "Just Beyond the Reach of Light" canta di essere trafitto dal potere dell'amore, sopra una valanga di tamburi fragorosi al rallentatore ("Sono intrappolato nella sua carezza, un'eclissi misericordiosa, Per farmi sentire vivo ancora una volta”), una lacrimuccia di inesplicabile felicità, complice anche lo splendido impianto melodico, inevitabilmente riga il volto.  

Se "Portrait Of A Scorched- Earth" (dedicata al genocidio di Gaza) è un tirata rabbiosa che ricorda certe cose dei primi Cure, evocati anche nella sottile lucentezza e nella ritmica incalzante di "Oblivion", "Kaleidoscope" chiude la prima parte dell’album con quel mood triste – allegro, che ti fa girare vertiginosamente la testa, in un connubio stranissimo di estasi e lacrime.  

La seconda metà di Aurora si orienta, invece, verso un sound più punk, che spinge forte il piede sull’acceleratore di "Matrix Of Control" o si lascia trascinare dai tamburi battenti e le chitarre graffianti di "Catatonia", due brani che accantonano le belle melodie per mordere selvagge alla gola. "Infinity's Kiss" ribadisce l’essenza di questa seconda parte del disco, in cui le raffinate inclinazioni melodiche e i synth fiorenti si mettono al servizio di un tiro più livido e crudo.

Un cambiamento di dinamica quasi stridente rispetto al lato A, che offre, tuttavia, maggior varietà alla proposta, accontentando anche quegli ascoltatori più inclini verso un suono pesante, che richiama alla mente Killing Joke e Bauhaus.

Chiudono il disco altre due belle sberle in faccia ("Automation Bias" e "Rorschach"), cantate da Allison petto in fuori e muscoli in bella mostra, suggellando una prova di altissimo livello, che esplora i vari volti della dark wave ottantiana attraverso una consapevolezza unica.

Se questo è il genere che più amate fin da quando eravate ragazzi, se il disco dei Cure dello scorso anno continua a girare nei vostri lettori con inarrivabile soddisfazione, date allora una chance ai Lathe Of Heaven e ad Aurora: scommetto che sarà il vostro disco del 2025.

Voto: 8

Gnere: Post Punk

 


 

 

Blackswan, giovedì 06/11/2025

martedì 4 novembre 2025

The Apartments - That's What The Music Is For (Talitres, 2025)


 

Peter Milton Walsh è uno dei più grandi songwriter in circolazione, eppure i suoi Apartments, un progetto musicale che nel 2025 compie quarant’anni di attività, vive dell’amore incondizionato solo di una piccola nicchia di ascoltatori. Underrated, direbbero gli anglosassoni, cioè sottovalutato. I motivi sono vari e sovrapponibili: Walsh ha sempre mantenuto il basso profilo dell’outsider e la sua musica, così colta, raffinata e umbratile, è destinata a un pubblico che vive costantemente con l’autunno nel cuore alla ricerca della voluptas dolendi, del desiderio di vivere il proprio dolore, filtrandolo atraverso gli occhi di una malinconia agrodolce.

Nativo di Sydney e cresciuto a Brisbane, Peter Milton Walsh esercita la sua professione di cantautore dal 1978, da quando cioè, ha militato, per un paio d’anni, nei Go-Betweens, gruppo iconico del movimento indie rock australiano. Un recinto evidentemente troppo stretto per chi aveva già in testa gli Apartments, una sorta di progetto solista intorno al quale hanno ruotato nel tempo la bellezza di diciotto diversi musicisti.

Walsh e la sua creatura da sempre suonano una musica d’atmosfera per ascoltatori malinconici, filtrata dallo sguardo consapevole di un dandy che ha perso tutto e riflette sugli struggimenti esistenziali, guardando il mondo alla luce del crepuscolo, sorseggiando un bicchiere di scotch. Questa è musica per chi è in credito nei confronti della vita, per chi ha rimpianti che non riesce ad accettare o lutti che non riesce ad elaborare. Le canzoni degli Apartments sono canzoni da notte fonda, vissuta in compagnia dei propri fantasmi, sono canzoni che profumano di foglie calpestate mentre si cammina da soli nella nebbia, canzoni per chi guarda la grigia risacca del mare in inverno, il cuore in tumulto come le onde livide che si schiantano sulla marina.

Musica per gente persa e per perdenti, per chi sceglie la solitudine di una panchina sotto la pioggia. Per espiare le proprie colpe, per ripensare a ciò che non è stato e non sarà, per cercare nelle tessiture melodiche di Walsh quella pace interiore, a cui altrimenti non arriverà mai.

Sono solo otto le canzoni di questo nuovo That’s What The Music Is For, un titolo bellissimo, che lascia spazio a ogni possibile interpretazione. A cosa serve la musica? A cosa servono queste otto canzoni avviluppate nella malinconia dell’autunno?

Ognuno di questi brani è una triste elegia che parla di relazioni finite o destinate a finire. Sono canzoni che abitano i luoghi oscuri della mente e dell’anima, laddove si raggrumano mestizia, lucida comprensione, ma anche rimpianti, amarezza, delusione e rammarico.

Non è un caso che l’iniziale "It’s A Casino Life" tra note di piano sgocciolate e un mesto drive di chitarra acustica si apra con i versi “Close My Eyes..And You’ll Come Back”, fotografando la tristezza di desideri irrealizzabili, ma anche il risentimento per una sconfitta tanto amorosa quanto personale, racchiusa in liriche che non lascino spazio all’happy ending: “Sei sempre stata la mia causa persa preferita”.

Lo schema si ripete in "Afternoons" ("Ho amato il mondo che è venuto con te") e in "A Handful Of Tomorrow" ("Ti ho amato mentre la musica suonava"): sempre la stessa atmosfera musicale malinconica e dolorosa, lenta e prolungata, come un sogno da cui il cantante fatica a svegliarsi. Un pianoforte dolce, una chitarra, una fremente angoscia lirica.

Sottili variazioni tonali emergono con gli ascolti. La bella voce di Natasha Perot porta grazia nel duetto di "Afternoons", la batteria di Nick Kennedy è più marcata in "A Handful Of Tomorrow", così come la voce di Walsh è segnata da un’amarezza senza fine, mentre "Another Sun Gone Down" è attraversata dalla tromba accorata di Jeff Crawley. Sono particolari, dettagli cesellati che richiedono svariati ascolti per capirne la portata e essere apprezzati in pieno.

Walsh scandisce le liriche con la sua voce unica, che pronuncia ogni parola come se fosse una lacrima da assaporare. Accade soprattutto nella title track in cui il songwriter immagina di fermare il passare del tempo attraverso le proprie canzoni: "Di nuovo novembre, è tempo di arrendersi al buio", canta, "Riporta indietro i giorni in cui eri presente, È a questo che serve la musica."

C’è un pungolo di macabra ironia che segna "Death Would Me My Best Career Move", un brano attraverso il quale Walsh riflette sulla propria carriera. Nonostante la qualità stellare del suo songwriting, il musicista australiano ha avuto scarso successo commerciale nei suoi quasi cinquant'anni di attività. È inquietante, dunque, sentirlo suggerire che "la morte sarebbe la mossa migliore per la mia carriera". E’ però la lucida visione di un destino artistico che spesso riserva il successo e l’attenzione meritata, solo dopo il decesso. Quante volte è capitato? A quanti straordinari musicisti?

Walsh si guarda dentro, cerca nell’intimità dei sentimenti più inaccessibili il senso della propria scrittura, ma è anche un artista che ha chiare idee politiche, attraverso le quali giudica il mondo che lo circonda. “Stasera, posso scrivere i versi più tristi, So che sembra difficile trovare la speranza. Potresti lasciare questo paese. Sei sicuro di doverlo fare? Resteresti a lottare per qualcosa di buono?” canta Walsh all'inizio di "The American Resistance", che altro non è se non un'altra storia d'amore fallita, quella tra cittadino e patria: "L'America è caduta ora, La resistenza sorge in ogni città". Militante e battagliero, a modo suo.

La disillusione trova il suo culmine nell'epica e cupa canzone di sei minuti "You Know We’re Not Supposed To Feel This Way", che chiude il disco. "Lei dice che non lo sopporto, lo sopporto comunque, altrimenti non potrei andare avanti", canta Walsh. E’ questo dunque il senso della musica, l'arte che ha il potere di lenire il dolore, di cristallizzare sentimenti rendendoli universali, e di spingerci ad andare avanti, nonostante tutto. Tenendo in vita, forse, quei grandi amori che se ne sono perduti per sempre: "Se canto questa canzone forse non scomparirai", e ancora "Ne ho viste così tante andare e venire, La musica resta, il cantante se ne va" recita Walsh, anche se il protagonista sa bene nel profondo dell’anima che sta combattendo una battaglia persa. Nessuno tornerà mai. Eppure lo deve fare. Perché l’arte e, nello specifico, la musica, non solo rendono la vita migliore, ma hanno anche il potere di consegnare un piccolo frammento del nostro cuore all’eterno.

"Sei lì nelle canzoni che lascerò dietro di me?"

Voto: 9

Genere: Songwriter, Pop

 


 


Blackswan, marttedì 04/11/2025

lunedì 3 novembre 2025

The Standells - Ditry Water (Tower, 1965)


 

Il titolo "Dirty Water", hit degli Standells datata 1965, si riferisce al notoriamente inquinato Charles River di Boston, che, ai tempi, era diventato un ricettacolo di rifiuti industriali. La canzone, tuttavia, suona come una celebrazione di Boston, e non contiene alcun monito o riflessione ecologica.

"Amo quell'acqua sporca

Boston, sei casa mia"

Un omaggio alla città, dunque, la cui sporcizia è un elemento distintivo ma anche un connotato affettivo: sarà anche sporca, ma è casa mia e la amo comunque. Questo il succo. 

La canzone, nel corso degli anni, è diventata un inno di Boston e un motivo di orgoglio per la città, e ciò nonostante sia stata scritta ed eseguita da ragazzi californiani, che di Boston conoscevano poco o niente.

Gli Standells, infatti, erano una garage band di Los Angeles e "Dirty Water" è considerato un super classico del genere. Per chi non mastica troppo la materia, il garage rock (nome che deriva dall’abitudine di musicisti amatoriali di suonare nei garage di casa) fu in voga tra la fine degli anni '50 e l’inizio anni '60 e annoverò fra le sue fila band seminali come The Wailers, The Kingsmen, The Trashmen e, appunto, The Standells (recentemente il genere è stato riportato in auge da gruppi come The Strokes, The White Stripes, The Von Bondies e The Detroit Cobras, solo per citarne alcune). 

La canzone fu composta dal produttore degli Standells, Ed Cobb, un altro californiano che un tempo faceva parte dei Four Preps e che è passato alla storia per aver scritto anche la celebre "Tainted Love", registrata originariamente dalla cantante soul Gloria Jones nel 1964, ma che divenne un successo clamoroso grazie ai Soft Cell di Mark Almond, nel 1981.

Cobb scrisse "Dirty Water" durante una visita a Boston che finì male. "Ero con una ragazza", disse alla rivista Blitz. "Due tizi hanno cercato di aggredirci, ma sono scappati. Così, quando sono tornato in hotel, ho scritto la canzone". Un po’ come se un musicista palermitano celebrasse Milano decantando le acque del Lambro (che, fortunatamente, così sporco non è), dopo aver subito una tentata rapina.

Quindi, ricapitolando: il fiume è sporco, il brano nasce da un’aggressione avvenuta nelle strade di Boston, il protagonista è circondato da rapinatori e ladri (“muggers and thieves”), fa fatica a rimorchiare perché le ragazze non possono uscire di casa (il verso "Frustrated women have to be in by 12 o'clock" si riferisce al coprifuoco osservato all'epoca dalle studentesse della Boston University), mentre sulla città aleggia ancora l’incubo dello strangolatore (“have you heard about the strangler?”, con riferimento a Albert DeSalvo, serial killer arrestato nel 1964). Ciò nonostante, il ragazzo della canzone è felice di vivere in questa squallida città. Beato lui.

"Dirty Water" fu pubblicata per la prima volta alla fine del 1965 dall'etichetta Tower, una sussidiaria della Capitol Records, e il brano debuttò il 30 aprile 1966 nelle classifiche Cash Box, raggiungendo l'ottavo posto. Conquistò, poi, l’undicesima piazza anche nella classifica dei singoli di Billboard, l'11 giugno dello stesso anno.

Un grande successo per una band che fino ad allora si era sempre posizionata nelle parti bassissime della charts statunitensi, che fu replicato anni dopo, quando la canzone venne adottata dalle squadre sportive professionistiche di Boston. La squadra di baseball dei Boston Red Sox fu la prima a utilizzarla, suonandola dopo le vittorie casalinghe del 1997. Seguirono l'esempio anche la squadra di basket dei Celtics e la squadra di hockey dei Bruins, rendendola la canzone più associata allo sport di Boston e, di conseguenza, alla città nel suo complesso. Queste squadre divennero molto forti negli anni tra il 2000 e il 2010, vincendo i campionati a mani basse, il che contribuì a far crescere ulteriormente l'entusiasmo per "Dirty Water".

Una nota di colore. Gli Standells, all’apice del successo, fecero apparizioni in film di serie B degli anni '60 come Get Yourself a College Girl e Riot on Sunset Strip. Il top, però, lo raggiunsero per essere apparsi nella seguitissima serie TV I mostri, episodio n. 26 intitolato "I mostri più strani!" (serie tv passata anche da noi, una prima volta, negli anni ’70, e poi, anche nel decennio successivo). In quell'episodio, gli Standells interpretano se stessi e offrono alla famiglia Munster una bella somma per usare la loro casa come studio di registrazione per una settimana. La famiglia Munster accetta e va ad alloggiare in un hotel, ma la nostalgia per la loro abitazione li fa rientrare a casa prima del previsto, solo per scoprire che gli Standells stanno organizzando uno scatenatissimo party.

 


 

 

Blackswan, lunedì 03/11/2025