giovedì 10 luglio 2025

Colin Walsh - Kala (Fazi, 2025)

 


Che fine ha fatto Kala? A Kinlough, una cittadina irlandese che si affaccia sul mare, è l'estate del 2003. Un gruppo di amici quindicenni sta vivendo il momento più bello della vita: i primi amori, le prime sbronze, l'amicizia viscerale come può esserlo solo a quell'età. È un'estate vissuta come se dovesse durare in eterno. È l'estate che cambierà per sempre le loro vite. Kala Lanann, carismatica leader del gruppo, trasgressiva e spericolata, al culmine di quella stagione scomparirà senza lasciare traccia. Quindici anni dopo, tre dei vecchi amici si ritrovano nella cittadina. Helen, Joe e Mush, un tempo inseparabili, ormai hanno preso strade diverse e si sono lasciati tutto alle spalle. Negli stessi giorni, però, vengono ritrovati dei resti umani nel bosco di Caille, lo stesso bosco dove Kala viveva con sua nonna. È l'inizio di un nuovo incubo. Mentre passato e presente cominciano a sovrapporsi, i tre amici sono costretti a confrontarsi ancora con la tragedia che li lega, cercando di mettere fine a quella storia una volta per tutte. Sullo sfondo di una città soffocata dai suoi stessi segreti, Kala descrive il costo a volte brutale dell'appartenenza, ma anche il contrasto tra vendetta e perdono, condanna e redenzione.

 

Tre amici di lunga data si ritrovano a Kinlough, ridente cittadina irlandese dove sono cresciuti e, quindici anni prima, erano amici inseparabili. Joe ha coronato i suoi sogni musicali, è diventato una rockstar di successo, ma affoga il proprio vuoto interiore nell’alcool. Helen si è trasferita in Canada, dove è diventata una giornalista freelance, squattrinata e disillusa. E poi, c’è Mush, il bel ragazzo dal volto sfigurato, che da Kinlough non è mai partito e, sconfitto dalla vita, lavora come commesso nella caffetteria di mamma. Joe, dopo un brutto infortunio, torna nella cittadina natale per tenere un concerto, mentre Helen fa ritorno a casa dopo anni per partecipare al matrimonio del padre. Nello stesso momento, vengono ritrovati dei resti umani che, si scopre, appartengono a Kala, ex fidanzata di Joe e amica del cuore sia di Helen che di Mush, scomparsa misteriosamente nel 2003.

Il ricongiungimento dei tre amici e la macabra scoperta, sono l’innesco per un romanzo esplosivo, che indossa gli abiti del thriller, sotto i quali, però, si nasconde molto di più. Narrata dal punto di vista dei tre protagonisti, la storia di Kala oscilla fra passato e presente, fra gli anni della spensierata adolescenza e dell’amicizia assoluta, e l’oggi, specchio di un fallimento generazionale che non fa sconti. Siamo a metà strada, dunque, fra romanzo di formazione, un percorso di luci e ombre che conduce alla perdita dell’innocenza, e la critica sociale di una società che ha perso i suoi valori, sostituiti dall’effimero dei social, dall’apparire a tutti i costi, e dall’egoismo e l’isolamento come unici scudi di difesa alla violenza del mondo.

Nella cornice bucolica di Kinlough, nell’apparente tranquillità di una piccola cittadina fotografata sul finire dell’estate, prende forma un dramma che è tanto personale quanto universale. Perfetto crocevia fra Dio di Illusioni di Donna Tartt e Ohio di Stephen Markley, Kala affronta i temi della perdita, dell’amicizia, del perdono, e soprattutto dei conti che tutti dobbiamo fare con il nostro passato, cercando, se possibile, una sorta di pacificazione tra ciò che eravamo e ciò che siamo diventati.

C’è una violenza strisciante nella pagine di Kala, un affastellarsi crudo e ustionante di rimorsi, di rimpianti, di non detti, di omissioni, che si gonfia pagina dopo pagina fino all’esplosione finale, un redde rationem che rimette in ordine le tessere del puzzle, lasciando molti cuori spezzati, ma suggerendo anche che la perdita, per quanto definitiva, può essere sanata con la forza catartica del perdono (in tal senso il finale è di una bellezza tanto semplice quanto emozionante).

Walsh scrive benissimo, regala momenti di riflessione esistenziali profondi e si prende cura di ogni sfaccettatura psicologica dei suoi personaggi, vivi e vividi ben oltre l’ultima pagina del romanzo. Su tutti, Kala, l’involontaria protagonista della tragedia, l’assente/presente, il fantasma che chiede giustizia, la molla che fa scattare nei tre amici il meccanismo della consapevolezza e un bisogno ineludibile di pietas, di comprensione, di condivisione, di pacificazione. Kala, bellissima e imperfetta (l’occhio storto che attenua l’incantevole simmetria del viso), perfetta icona di ogni gioventù, così testarda, ribelle e voluttuosa, eppure fragile, ingenua, malinconica e disperatamente sola. Kala, che è tutto questo, ma che simboleggia anche un’umanità empatica, che non si arrende, che lotta, che cerca la verità, costi quel che costi.

E c’è di più. Questo straordinario romanzo d’esordio è anche, limitandosi a un primo e più superficiale piano di lettura, un palpitante thriller, addirittura impetuoso nella seconda parte, in cui il lettore verrà accompagnato da Walsh, pagina dopo pagina, tra colpi di scena e accelerazioni adrenaliniche, a svelare il mistero della scomparsa di Kala.

Romanzo dell’anno? Probabilmente, si.

 

Blackswan, giovedì 10/07/2025

martedì 8 luglio 2025

Kadavar - I Just Want To Be A Sound (Clouds Hill, 2025)


 

La formula alchemica di queste canzoni rispecchia, a prescindere dall’ambientazione fosca e vagamente sepolcrale, la stessa di sempre: un mix di hard rock, space, psichedelia e doom che guarda principalmente agli anni ’70.”

Scrivevo così, solo sei anni fa, a proposito di For The Dead Travel Fast, l’ultimo album rappresentativo dei teutonici Kadavar, così come li avevamo sempre conosciuti fin dal loro omonimo esordio del 2012. Poi, qualcosa è iniziata a cambiare con Isolation Tapes (2020), un disco meno vibrante e rumoroso, più influenzato dal progressive e dalla psichedelia, un’opera atmosferica, intensa e struggente, e dal grande impatto emotivo. A distanza di un lustro, arriva, dunque, questo nuovo I Just Want To Be A Sound, che i fan di vecchia data, gli stessi che non avevano gradito la svolta del suo predecessore, attendevano, ponendosi numerosi interrogativi su cosa avrebbe fatto l’amata band.

In tal senso, se un album come Isolation Tapes aveva destabilizzato che si attendeva il solito turbinio elettrico, questo nuovo album si presenta come un definitivo taglio con il passato, è qualcosa che forse nessuno si sarebbe mai aspettato. E questo perché le dieci canzoni in scaletta rappresentano non solo un cambiamento, ma addirittura uno stravolgimento. Dei vecchi Kadavar, infatti, è rimasto ben poco, e l’album sembra davvero concepito lungo coordinate agli antipodi di quei territori che erano frequentati con tanto successo.

E’ evidente che chi ha amato la band fin dalla prima ora si troverà spiazzato e, diciamocelo, anche un filo incazzato: I Just Want To Be A Sound è un disco orecchiabile e aperto al mainstream, in cui la rabbia, l’energia e il sudore di un tempo vengono sostituiti da un approccio pop rock melodico. L’album è colorato e cangiante, la psichedelia è presente, non è certo quella che apriva a travolgenti cavalcate lisergiche, semmai un ingrediente più leggero e volatile.

Se come recita il titolo, dunque, lo scopo di quest’album era quello di centrare un suono, in tal senso il risultato è pienamente raggiunto, e sotto questo punto di vista il disco suona coeso. Ma non sono più i Kadavar.

L’ariosa title track apre il disco, mostrando subito la nuova mano di carte: è melodica in modo solare, il ritornello è da acchiappo e qualcuno coglierà nell’incedere volatile qualche fragranza riconducibile agli U2 più pop. 

Il riff ruvido di Hysteria è un tranello, perchè il brano, una sorta di filastrocca elettrica, si muove in modo prevedibile e un po’ scialbo. Un piccolo ringhio, ma senza corpo e anima. Non meglio, il sabba psichedelico di "Regeneration", che tra battiti di tamburi e tastiere space cerca la melodia vincente senza però trovarla.

E’ questo un po’ il trend dell’album: i suoni sono spettacolari, ma le canzoni restano prevalentemente insipide, una sorta di vorrei, ma non posso ("Let me Be A Shadow").

Non mancano, tuttavia, momenti decisamente convincenti: "Sunday Mornings" è una ballata d’atmosfera avvolta di synth e di malinconia che dopo qualche minuto decolla in una convulsa deriva space rock, mentre "Star" è languida psichedelia che cita i Pink Floyd e si libra nell’etere sulle note di una melodia, questa volta, davvero notevole.

I Just Want To Be A Sound rappresenta un nuovo capitolo nella carriera dei Kadavar, è l’inizio di una svolta che porta la band berlinese a esplorare territori fino a oggi sconosciuti. Come tutte le prime volte, il passo è incerto. Se da un lato, la volontà di abbracciare un nuovo suono è perfettamente soddisfatta, dall’altro, le canzoni non sono tutte all’altezza dell’idea che sta alla base. Mancano grandi brani, di quelli da mandare a memoria, e non sempre l’aspetto melodico, che è il grimaldello necessario per aprire le porte al grande pubblico, riesce a essere pienamente convincente. Il risultato è un disco che sta in una terra di mezzo e sembra destinato a scontentare un po’ tutti. Il coraggio, però, va premiato e la sufficienza è, pertanto, piena.

Voto: 6,5

Genere: Rock, Pop

 


 


Blackswan, martedì 08/07/2025

lunedì 7 luglio 2025

Landslide - Fleetwood Mac (Reèrise, 1975)

 


Una delle canzoni più famose dei Fleetwood Mac, una ballata senza tempo, introspettiva e struggente. E’ il settembre del 1974, Stevie Nicks vuole a tutti i costi sfondare nel mondo della musica, ma le cose non vanno esattamente come aveva immaginato. Da anni, la cantante lavora come cameriera e donna delle pulizie per mantenere in vita il suo sogno, e si sente vecchia, nonostante i suoi ventisette anni, e terribilmente stanca. Un sera, nella casa di Phoenix, dove vivono i suoi genitori, il padre la prende da parte e le dice che le vuole bene, che non smette di credere in lei, ma che forse è passato troppo tempo senza che la musica abbia ripagato tutti i suoi sforzi. “Prenditi altri sei mesi” la incalza” “e se le cose non dovessero andare come vuoi, puoi sempre tornare a studiare, pagheremo tutto noi, non devi preoccuparti”.

Poco dopo, la Nicks insieme al fidanzato e pigmalione artistico Lindsey Buckingham se ne va ad Aspen, in Colorado, a casa di un amico. Affascinata dal panorama di montagne innevate, la songwriter prende la sua chitarra, si siede in soggiorno e compone Landslide in cinque minuti netti, dopo aver pensato: “tutta questa neve potrebbe semplicemente crollarmi addosso e non c'è niente che io possa fare al riguardo”. Un pensiero che confluisce nei versi iniziali del brano.

 

Ho scalato una montagna e mi sono voltata

E ho visto il mio riflesso sulle colline coperte di neve

Finché la frana non mi ha portato giù

Oh, specchio nel cielo, cos'è l'amore?

 

Landslide è una canzone triste, su questo non ci piove, che può essere interpretata come un brano che racconta i cambiamenti che influiscono su una storia d’amore, creando dubbi, perplessità, paure. Di sicuro, è una canzone che parla del tempo che passa, di come le persone affrontino i cambiamenti, di come la crescita modifichi la percezione che abbiamo della realtà e degli affetti che ci circondano. In tal senso, il brano ha molto a che vedere con il rapporto tra la Nicks e il proprio padre.

 

Può il bambino dentro il mio cuore elevarsi?

Posso navigare attraverso le mutevoli maree dell'oceano?

Posso gestire le stagioni della mia vita?

Beh, ho avuto paura di cambiare

Perché ho costruito la mia vita attorno a te

Ma il tempo ti rende più audace

Anche i bambini crescono

E anch'io sto invecchiando

 

Il cordone ombelicale inevitabilmente si allenta, la bambina deve trovare la sua strada, non può più dipendere dal padre, e anche se il distacco fa paura, l’esistenza chiama altrove, la montagna della vita deve essere scalata con le proprie gambe.

Qualche tempo dopo, la notte di Capodanno del 1974, Mick Fleetwood chiamò la Nicks chidendole se lei e Buckingham volessero unirsi ai Fleetwood Mac. Dei sei mesi che il padre aveva concesso a sua figlia ne restavano ancora tre, e il traguardo, finalmente, era a un passo. Lindsey Buckingham e Stevie Nicks, ai tempi, stavano registrando come duo usando il nome Buckingham-Nicks, avevano già pubblicato un album e stavano progettando di includere Landslide nel prossimo, che invece finì nell’omonimo album dei Fleetwood Mac datato 1975.

Quando nel 1997 la band pubblicò il disco dal vivo The Dance, Lindsey Bickingham, che aveva mollato i Fleetwood Mac per dieci anni, si riunisce al gruppo e partecipa al tour di promozione dell’album. Stevie Nicks e Lindsey Buckingham eseguivano la canzone da soli sul palco, spesso con gli occhi lucidi di emozione. Queste intense esibizioni diventarono una costante anche nei tour successivi, poiché i fan erano sempre ansiosi di vedere gli ex amanti condividere quel momento toccante, che poteva variare in intensità, da un semplice sfiorarsi delle mani a un appassionato sguardo colmo di sottintesi.

La Nicks ha sempre insistito sul fatto che quelle erano emozioni vere, e non una semplice recita. A tal proposito, durante un’intervista per la rivista Rolling Stone, disse: "Sali sul palco e la fiamma dell’antico amore si riaccende. Poi, quando torni nei tuoi camerini, è finita. Ma finché sei sul palco, tutto è reale".

 


 

 

Blackswan, lunedì 07/07/2025

giovedì 3 luglio 2025

Buckcherry - Roar Like Thunder (Earache, 2025)

 


Sarà anche una banalità, ma talvolta si ha la prova provata che il rock’n’roll fa bene alla salute, e mantiene giovani nonostante il tempo che passa inesorabilmente. E’ il caso dei losangelini Buckcherry, che festeggiano i trent’anni di carriera, ma suonano ancora come dei ventenni divorati dal sacro fuoco della musica.

Formatisi in California nel 1995, nel corso degli anni, la band ha superato rotture, cambi di formazione e le sabbie mobili del lockdown e della pandemia. Josh Todd, cazzutissimo frontman, nonostante abbia acquisito di recente lo status di grandfather, è ora l'unico membro originale, affiancato da Stevie Dacanay (chitarra), Billy Rowe (chitarra), Kelly LeMieux (basso) e Francis Ruiz (batteria).

L'undicesimo album della band, Roar Like Thunder, esplode di energia pura e di una spavalderia che ha pochi eguali, è un disco che si rifiuta di invecchiare, mostrando i muscoli, alzando il volume, e incarnando lo spirito selvaggio del quintetto, gagliardo e traboccante d’entusiasmo come se si fosse appena affacciato sulla scena.

I Buckcherry hanno registrato l'album ai Sienna Recording Studios di Nashville, collaborando nuovamente con il produttore di vecchia data, Marti Frederiksen (Aerosmith, Mötley Crüe e Ozzy Osbourne) e con il tecnico del suono Anthony Focx, noto per il suo lavoro con Metallica e Aerosmith. Il risultato è un disco moderno e incisivo, ma saldamente radicato nella tradizione hard rock, che sfrutta i punti di forza della band: riff audaci e vertiginosi, ritornelli di facile presa e, soprattutto, la voce di Josh Todd, sempre potente e grintosa, nonostante i cinquantacinque anni indicati dall’anagrafe.

La title track, "Roar Like Thunder", chiarisce subito che da queste parti non si fanno prigionieri, scatta travolgente con un ritmo da treno in corsa e piazza un ritornello che ti rimane in testa per giorni. Mettete le cinture e tenetevi forte, perché l’alta velocità rischierà di farvi capottare. "When The Sun Goes Down" è pura adrenalina punk rock, è arrabbiata e sporca, quel che basta per lasciarvi l’unto sotto le unghie, mentre "Come On" richiama i classici AC/DC con il suo groove martellante e le chitarre che friggono di spavalda elettricità.

Ci sono momenti in cui la band si attiene un po' troppo alla stessa formula e se sperate qualche cambio di rotta, qui non la troverete. Alcuni testi sfiorano i cliché (beh, che vi aspettate, che Josh Todd smetta di parlare di donne e alcol?), e un paio di brani sembrano già ascoltati decine di volte, ma, ciononostante, l'energia e la convinzione tengono alto il livello. Insomma, i Buckcherry fanno sempre lo stesso disco, ma lo sanno fare benissimo.

Poi, ogni tanto aggiungono qualche nuova spezia, e allora ben vengano canzoni come "Blackout", evidente omaggio ai Rage Against The Machine, o "I Got Bloom", che gira dalle parti degli Aerosmith più incazzati e tira bordate alzo zero grazie a un arrangiamento di ottoni sputa fuoco.

Nel lotto c’è anche "Hello Goodbye", un midtempo telefonatissimo ma egualmente centrato nel ritornello e la conclusiva "Let It Burn" tiratissimo shock rock, che entra in derapata nei padiglioni auricolari facendoli sanguinare.

Stilisticamente, Roar Like Thunder è puro Buckcherry sound: riff incalzanti, ritmi adrenalinici e un mood orgogliosamente ancorato allo sleaze e alla spavalderia dell'hard rock classico. La band, inoltre, porta con sé, esibendole come una medaglia, le sue influenze, dagli AC/DC agli Aerosmith, ma possiede la consapevolezza e la grinta per farle proprie.

Insomma, Josh Todd non cerca di inseguire le mode, e non ha mai smesso di essere coerente al proprio credo, che è quello di offrire un rock’n’roll diretto, sudatissimo e fiero delle proprie origini. Quindi, se avete voglia di zompare come grilli tra il salotto e il soggiorno, alzate il volume dello stereo e scatenatevi al suono di Roar Like Thunder. Con buona pace dei vicini e, se siete anzianetti come il sottoscritto, anche della cervicale. 


Voto: 8

Genere: Hard Rock




Blackswan, giovedì 03/07/2025

martedì 1 luglio 2025

It's Been Awhile - Staind (Elektra, 2001)

 


Entrare nel tunnel della dipendenza, smarrirsi nel buio dell’anima, allontanare tutti coloro che posso aiutarti a riprendere fiducia in te stesso, a combattere il male di vivere. Fare un passo avanti verso la disintossicazione, e due indietro, e perdersi, ogni volta, in un loop vizioso, che risucchia verso l’abisso, togliendo ogni speranza alla resurrezione. In questa canzone, il cantante Aaron Lewis si sta fustigando, in quello che è lamento misto a rabbia e autocommiserazione. Il motivo è che ha perso l'unica donna che avrebbe potuto curare le sue dipendenze, donargli la giusta serenità per rimettersi in piedi e ripartire. E ha perso il supporto del padre, che ha fatto di tutto per aiutarlo.  Così, il ciclo autodistruttivo continua, mentre il tempo passa inesorabilmente e il baratro è sempre lì pronto ad accoglierlo, per un definitivo ed esiziale sprofondo.

 

And it’s been awhile

Since I can say that I wasn’t addicted

And it’s been awhile

Since I can say I love myself as well

And it’s been awhile

Since I’ve gone and f**ked things up

just like I always do

And it’s been awhile

But all that shit seems to disappear

when I’m with you

 

A leggere le liriche della canzone, sembra quasi impossibile che, ai tempi, Lewis vivesse una delle relazioni più sane e stabili della storia del rock. Il cantante degli Staind, infatti, aveva iniziato a frequentare la sua Vanessa nel 1997, prima che la band diventasse famosa. La coppia si è poi sposata l’anno successivo, e quando gli Staind hanno iniziato ad accumulare successi, Vanessa è stata una fonte incrollabile di supporto per Lewis, gestendo, spesso da sola, anche la crescita dei loro tre figli. 

Perché, allora, questa canzone è così cupa, così disperatamente arresa? Il motivo risiede esclusivamente nella personalità del cantante e nella sua visione pessimista e malinconica della vita: le parole di Lewis sono sempre state espressione di un dolore e di una depressione profondamente radicate nel suo animo. Così, a prescindere da ogni giudizio sulla qualità artistica della loro musica, è stato quasi inevitabile che queste rappresentazioni frontali dell'angoscia abbiano colpito nel segno molti ascoltatori, creando un legame emotivo strettissimo fra la band e il suo pubblico.

Senza girarci troppo intorno, se Aaron Lewis non era un allegrone, i suoi fan non erano da meno. Le parole del cantante avevano un peso, soprattutto perché condivise con molte anime fragili che provavano il suo stesso male di vivere. Così, quando nel 2001, un fan della band si suicidò mentre ascoltava una registrazione della sua stessa voce che cantava la canzone degli Staind Outside, Lewis cadde in un periodo di profonda prostrazione.

It's Been Awhile fu scelta come primo singolo da Break The Cycle, il terzo album in studio della band, ed è di gran lunga il più grande successo commerciale degli Staind, quello che diede loro visibilità internazionale. Trainato dalla canzone, Break The Cycle arrivò al primo posto in America e vendette oltre 5 milioni di copie (di cui 767.000 nella prima settimana). Il disco ebbe un discreto successo anche in Italia, dove Break The Cycle si affacciò quasi alla top ten, raggiungendo la tredicesima piazza in classifica.

 


 

 

Blackswan, martedì 01/07/2025