martedì 23 luglio 2024

Crazy On You - Heart (Mushroom, 1975)

 


Ci sono canzoni che attraversano il tempo e non perdono mai di attualità, possono essere vecchie di quarant’anni e adattarsi perfettamente a un contesto solo in apparenza lontanissimo da quello in cui sono state concepite. E’ il caso, ad esempio, di Crazy On You, hit leggendaria e terza traccia da Dreamboat Annie, album d’esordio degli Heart, datato 1975. Una canzone, questa, che esprime l’ansia di vivere in un mondo piagato dalla guerra e dalla criminalità, e che racconta lo spaesamento di una giovane donna, e di tutta una generazione, rispetto a un mondo dominato dal male e dall’orrore. Di certo, Ann Wilson, autrice delle liriche del brano, mai avrebbe pensato che le cupe parole di una parte del testo avrebbero avuto la stessa identica valenza anche nel 2024. La Wilson, che ai tempi aveva vent’anni, era seriamente preoccupata per la deriva presa dalla società in cui viveva: la guerra del Vietnam era ancora in corso, fatti criminosi riempivano le pagine dei giornali, la droga mieteva migliaia di vittime fra i giovani e dal 1973 il mondo viveva una grave crisi energetica.

La Wilson temeva per la propria generazione e per un futuro in cui le speranze di pace erano ridotte al lumicino. E’ l’angoscia a essere protagonista delle prime strofe di Crazy On You:

 

“Se abbiamo ancora tempo, potremmo ancora farcela

Ogni volta che ci penso, mi viene da piangere

Con le bombe e il diavolo, e i bambini continuano ad arrivare

Non c'è modo di respirare facilmente, non c'è tempo per essere giovani”

 

L’unico modo per trovare serenità, allora, e abbandonarsi nelle braccia del proprio ragazzo (che ai tempi era Mike Fisher, tecnico del suono) e cullare un sogno d’amore. E’ l’amore l’arma più potente contro il male di vivere:

“Il mio amore è la brezza della sera che tocca la tua pelleIl gentile, dolce canto delle foglie nel ventoIl sussurro che ti chiama nella notteE ti bacia l'orecchio al primo chiaro di lunaE non devi chiedertelo, stai beneAmore mio, il piacere è mioLasciami impazzire di te”.

Parole dolcissime, poetiche, che fanno da contrappunto a tutte le brutture della vita quotidiana. Versi che suonano come un “grazie a Dio ci sei tu”, àncora di salvezza, romito di quiete, isola deserta dove fuggire, tenendo lontano la malvagità dell’uomo.

E’ curioso come Crazy On You, prima di conquistare gli Stati Uniti e diventare una hit anche in alcuni paesi europei, ebbe i primi riscontri di vendite in Canada, dove la band si era trasferita per evitare che i membri maschi del gruppo fossero arruolati per andare a combattere la guerra in Vietnam. A Vancouver, gli Heart firmarono un contratto con una piccola etichetta chiamata Mushroom, e Crazy On You cominciò a prendere piede nelle trasmissioni radiofoniche grazie a Doug Pringle, un importante dj canadese che, letteralmente impazzito per il brano, lo passava in loop dalle frequenze di radio Montreal CHOM.

Gli anni trascorsi a Vancouver, però, rallentarono la visibilità degli Heart negli Stati Uniti, e Crazy On You raggiunse la trentacinquesima piazza delle charts americane solo nel giugno del 1976, mentre l’album, molto lentamente, giunse a vendere un milione di copie alla fine di quell’anno.

Uno degli elementi distintivi della canzone è la splendida intro di chitarra acustica suonata da Nancy Wlson, quarantacinque magici secondi, dopo i quali entra la chitarra elettrica di Roger Fisher, il fratello di Mike, che aveva ispirato le liriche del brano. Il testo fu scritto da Ann Wilson mentre era a letto in preda a una brutta influenza, e la stessa raccontò che la bellezza delle liriche, che aveva scritto nel delirio della febbre, ebbero un effetto rinfrancante e lenitivo, tanto che un paio di giorni dopo, la cantante era già in studio a lavorare al brano, il cui groove è apertamente ispirato a Question dei Moody Blues.  

Quando gli Heart, nel 2013, furono introdotti nella Rock and Roll Hall of Fame, per la prima volta dal 1979, si riunì sul palco la formazione originale della band, e cioè Ann e Nancy Wilson, Roger Fisher, Howard Leese, Steve Fossen e Mike Derosier. Gli organizzatori, tuttavia, dovettero sudare le classiche sette camicie, perché inizialmente le due sorelle Wilson si rifiutarono recisamente di avere a che fare con i vecchi compagni d’avventura. Alla fine, si trovò un compromesso: insieme solo una canzone, Crazy On You, e poi l’altra super hit, Barracuda, suonata però con la band del momento, insieme a un pugno di ospiti da far tremare le vene dei polsi: Chris Cornell, Mike McCready (Pearl Jam) e Jerry Cantrell (Alice in Chains).

 


 

 

Blackswan, martedì 23/07/2024

lunedì 22 luglio 2024

Airbag - The Century Of The Self (Karisma Records, 2024)

 


L’espressione anglosassone “less is more”, cioè dare una risposta semplice a un bisogno complesso, ben si adatta a The Century Of The Self, sesto album in studio dei norvegesi Airbag, band originaria di Oslo, attiva dal 2004. Solo cinque canzoni, ma dal minutaggio corposo, che scorrono placide, come un lento fiume tranquillo. Sembra non succeda mai niente, eppure questi quarantasette minuti di musica sono densi di emozioni che nascono per sottrazione o da quasi impalpabili stratificazioni, in un flusso che è pacificazione, meditazione, malinconico intimismo.

Creatura nata da un’idea di due compagni di liceo, Asle Tostrup (voce) e Bjørn Riis (chitarra e basso), a cui, nel 2011, si è aggiunto il batterista Henrik Bergan Fossum, gli Airbag hanno ricevuto rapidamente il plauso della critica per una miscela distintiva di rock progressivo, ambient e alternative, influenzata dai loro eroi musicali di gioventù, tra cui i Pink Floyd e i Radiohead (non è un caso che il nome Airbag sia preso in prestito dalla canzone di apertura del capolavoro dei Radiohead del 1997, OK Computer). 

Composto tra il maggio del 2022 e il gennaio del 2024, The Century of the Self conferma lo status degli Airbag come una delle band più importanti emerse dalla scena progressive norvegese degli ultimi decenni. Dalle note iniziali dell'opener "Dysphoria", fino alle chitarre cariche di emozione della chiosa "Tear It Down", questo si presenta come un album seducente e suggestivo, che non ha bisogno di artifici o pirotecnici arrangiamenti per esprimere la sua straordinaria carica melodica.

E’ progressive, ma un progressive asciutto, senza fronzoli, in cui gli strumenti sono al servizio della canzone e non, come talvolta accade, il contrario. È un disco, poi, accessibile e facile da ascoltare, in cui la band evita di esibire la superiorità tecnica del virtuosismo fine a se stesso, per arrivare al sodo di una musica essenziale, che fluisce senza scossoni, e in cui la differenza la fanno piccole variazioni sul tema, che esaltano la bellezza di melodie immediatamente assimilabili

Ci sono passaggi dell’album in cui la musica sembra estremamente semplice, ma questa è un’impressione ingannevole, smentita dall’abilità artistica necessaria nel comporre canzoni di una bellezza così delicata e stratificata con cura artigianale. Se spesso quello del progressive è un linguaggio logoro, quella contenuta in Century Of The Self è un’esperienza di ascolto che supera di slancio i clichè del genere, rivelando più profondità a ogni successivo ascolto.

Sebbene gli Airbag abbiano un'identità musicale distintiva, come dicevamo, le influenze dei Pink Floyd e dei (primi) Radiohead sono evidenti, e ci sono anche sfumature che richiamano alla mente i Porcupine Tree. Durante questo inusuale viaggio sonoro, poi, l’ascoltatore proverà svariati stati d’animo: la cupa linea di basso che traina "Erase" lambisce territori post punk, trasmettendo un senso di ansiogena inquietudine, "Tyrants and Kings" (anche qui il basso in bella evidenza) ammicca a sonorità rock mainstream, declinate sempre con gran parsimonia di arrangiamenti, "Awakening" è una morbida ballata acustica, che sembra uscita dalla penna di Steven Wilson, l’iniziale "Dysphoria" è un volo radente su una melodia minimal a cui vengono aggiunte le spezie di una chitarra dal sapore pinkfloydiano. Chitarra, poi, che è la protagonista assoluta della conclusiva, e lunghissima "Tear It Down", brano che oscilla tra i fremiti malinconici di poche note di synth e di un piano elettrico con vista su OK Computer, le leggere extrasistole di un drumming in controtempo e l’epicità di coinvolgenti assoli di chitarra.  

Il timbro vocale di Tostrup, così apertamente emotivo, lascia respirare la musica, ritagliandosi pochi, ma efficacissimi spazi, mentre è soprattutto il basso di Bjørn Riis, lasciato alto nel mix, a prendersi la scena, evocando la caratura tecnica di altri iconici bassisti prog.

The Century Of The Self non è solo un grande disco, ma conferma ulteriormente la qualità compositiva di una band, il cui merito evidente è quello di insufflare nuova linfa vitale nel cuore di un genere, che troppo spesso ristagna in tropi logori e privi di mordente.

Voto: 8

Genere: Progressive, Alternative

 


 

 

Blackswan, lunedì 22/07/2024

giovedì 18 luglio 2024

Jordan Harper - Tutti Sanno (Neri Pozza, 2024)


 

Da un balcone di quell’hotel è precipitato Jim Morrison, John Belushi è morto di overdose in una delle sue stanze, in un’altra hanno vissuto per un anno Sharon Tate e Roman Polanski: no, il Chateau Marmont, dove Mae Pruett è stata spedita nottetempo a «trattare un problema», decisamente non è un posto qualunque. Non che il lavoro di Mae sia un lavoro qualunque. Nella Los Angeles dello showbiz che fabbrica montagne di denaro, delle magioni principesche che affacciano su misere tendopoli, Mae Pruett ha una specialità: tenere il nome dei suoi clienti – ricchi, potenti, talvolta depravati – fuori dal raggio dei media, ripulire macchie di reputazione, gestire imbrogli e imbarazzi. Con ogni mezzo necessario. E gli occhialoni scuri di Hannah Heard, divetta in declino, nascondono una situazione che è pane per i suoi denti. Ma quando, di lì a poco, il suo capo e mentore Dan Hennigan viene ucciso sul Sunset Boulevard, Mae all’improvviso si ritrova sola di fronte alla Bestia, una rete occulta di potere e corruzione che ha sul libro paga, oltre a lei, una legione di avvocati, pierre, servizi di sicurezza, investigatori – occhi, orecchie, braccia, pugni. La Bestia che stringe tra i suoi artigli la città degli angeli. Nel suo dibattersi, Mae percorrerà le strade della fluorescente megalopoli, soffocata dal fumo dei roghi, popolata dalle gang in guerra, da influencer impillolati e rifatti, predatori a caccia di carne giovane, poliziotti sporchi, anime perdute. E dovrà decidere da che parte stare.

 

C’è una Los Angeles rutilante, fascinosa, regno del cinema, degli influencer e delle star che puoi incontrare al bar, all’ora di colazione. Un mondo in cui dominano l’effimero dell’apparire, i party e i locali alla moda, le palestre, i cibi macrobiotici e gli abiti di tendenza, mentre il sole splende alto a illuminare vite appagate dalla frenesia metropolitana. Dietro le immagini seducenti della cartolina, però, esiste anche un’altra città, fatta di poveracci costretti a vivere in tendopoli sporche e malsane, di traffico e di smog, di droghe e di spaccio, di poveracci disposti a tutto pur di sbarcare il lunario.

Questo contesto contraddittorio è letteralmente fagocitato da un sistema di potere e di corruzione ad altissimo livello (la Bestia), una rete occulta che protegge chi ha soldi per pagare, che svela e nasconde segreti a seconda del tornaconto del momento, che non esita ad utilizzare poliziotti corrotti e poveri disperati come braccio armato di una violenza pret a porter.

Mae Pruett, giovane ambiziosa, fa parte di questo sistema, è chiamata a salvare il culo a quei potenti che hanno bisogno di aiuto, di salvare l’immagine o di nascondere sotto il tappeto la sporcizia dei loro piccoli e grandi misfatti, costi quel che costi. Chris, che in passato ha avuto una relazione con Mae, della quale è disperatamente innamorato, è un ex poliziotto, il cui passato torbido, segnato dalla violenza, dalla corruzione e dall’abuso di steroidi, ha decretato la sua espulsione dal dipartimento. Ora lavora per una società di sicurezza e viene mandato a risolvere “problemi”, a minacciare o picchiare, a seconda dei desiderata di chi lo paga.

Quando Dan, il mentore della Pruett, viene ucciso in circostanze misteriose, Mae e Chris si ritrovano a indagare sull’omicidio, che scopriranno essere solo la punta dell’iceberg di qualcosa di marcio che la Bestia vuole insabbiare.

Tutti Sanno è un grande e inquietante noir, un romanzo che inchioda alla lettura fino all’ultima pagina, che insuffla ansia e pompa adrenalina. Harper scrive da Dio, la sua prosa asciutta, ma efficacissima, richiama alla mente mostri sacri come Don Winslow, Michael Connelly e addirittura James Ellroy.

Non sono, però, solo i colpi di scena costanti e il ritmo serrato a rendere la lettura imperdibile: Tutti Sanno è anche la foto in bianco e nero, e nitidissima, di una società eticamente alla deriva, in cui la violenza, l’immagine e il tornaconto personale sono il carburante di un mondo che, dietro l’apparente e fascinosa aura di un sogno americano alla portata di tutti, nasconde una realtà di vizi e perversioni che non si fa scrupoli a mietere vittime anche fra i più deboli e innocenti. Harper ha, inoltre, il merito di scandagliare l’animo dei suoi due protagonisti, accompagnandoli attraverso un difficile e pericoloso percorso di redenzione: due anime afflitte dal rimorso e dai sensi di colpa, che decidono di combattere il sistema, costi quel che costi, per emendare i rispettivi peccati e fare, finalmente, la cosa giusta.

 

Blackswan, giovedì 18/07/2024

mercoledì 17 luglio 2024

Poverty Train - Laura Nyro (Columbia, 1969)

 


Quarta traccia da Eli and the Thirteenth Confession (1968), quello che è generalmente considerato il lavoro più accessibile e famoso di Laura Nyro, anche se probabilmente non quello di maggior successo commerciale (la palma va al successivo New York Tendaberry), Poverty Train è un brano inquietante, in cui la songwriter statunitense veste i panni di una tossicodipendente persa nel bel mezzo di un trip allucinato e terrificante, dopo aver assunto una dose.

Le liriche non ammettono fraintendimenti, e trasmettono, in chiave quasi horror, immagini che grondano angoscia e paura: 

Puoi vedere i muri ruggire,

vedere il tuo cervello sul pavimento

Diventa Dio, diventa storpio, diventa funky…” 

 

La droga è il male, si presenta vestendo le sembianze di Satana, la protagonista della canzone ne è fin troppo consapevole, ma un gorgo la risucchia e non può farci nulla: 

 

Ho appena visto il Diavolo e mi sta sorridendo

Ho sentito le mie ossa piangere,

Diavolo, perché deve essere così?

Il diavolo ha giocato con mio fratello,

Il diavolo ha scacciato mia madre

Ora le lacrime nei canali di scolo stanno inondando il mare” 

 

La canzone, come spesso accade, nasce da esperienze personali. Un cugino della Nyro, a cui la cantante era molto legata, morì per overdose da eroina un anno dopo la pubblicazione della canzone (nel brano, però, si menziona la cocaina). La stessa songwriter era un’assidua fumatrice d’erba, ma generalmente si teneva lontana dalle droghe pesanti, ad eccezione di una volta, che provò ad assumere LSD, esperienza che le procurò le terribili allucinazioni che poi vennero descritte in Poverty Train.

Da allora, la Nyro smise di assumere acidi, dei cui effetti esiziali si accorse immediatamente. A proposito di quell’episodio, la cantante raccontò: “E’ stato il giorno in cui sono diventata una donna… Durante l'esperienza, dei mostri, metà uomini e metà ratti, entrarono nella mia stanza e mi minacciarono dai muri. Ho raccolto le forze per resistere e dopo nove ore di combattimento spirituale si sono ritirati... Ho vinto la lotta per me stessa. Ho smesso di essere una perdente e sono diventata invece una vincitrice."

Poverty Train fu una delle canzoni (insieme a Wedding Bell Blues e Eli's Coming) che la Nyro eseguì durante la sua sfortunata apparizione al Monterey Pop Festival del 1967, una pietra miliare nella storia della controcultura, che vide il debutto di artisti quali Janis Joplin e Otis Redding. La Nyro soffrì molto quella partecipazione, si sentiva, infatti, ancor prima di iniziare, un pesce fuor d’acqua, totalmente fuori contesto: come poteva lei, cantare canzoni soul jazz raffinate, vestita di un lungo abito nero, davanti a un pubblico hippie accorso per ascoltare Jimi Hendrix?  

Secondo la leggenda, la folla subissò di fischi la cantante, che umiliata fuggì dal palco in lacrime, chiedendo poi al documentarista D.A. Pennebaker di rimuove la sua performance dal film che stava girando sull’evento. Pennebaker obbedì, ma quando le riprese del live act della Nyro comparvero in DVD nel 2002, era chiaro che la cantante aveva catastrofizzando un incidente, che incidente non era.

Anche se il pubblico del concerto, infatti, non era completamente coinvolto nel suo spettacolo, i "fischi" che la Nyro aveva sentito erano in realtà esclamazioni positive di apprezzamento. Insomma, non un successo, ma nemmeno una completa debacle: la cantante, semplicemente, aveva sbagliato contesto, e quel continuo retropensiero l’aveva condizionata emotivamente. Quel pubblico, tra il quale circolavano parecchie sostanze psicotrope, era lì, infatti, per ascoltare la musica che andava per la maggiore, il folk, la psichedelia e l’hard rock, ma nessuno avrebbe mai potuto fischiare una musicista, la cui sensibilità, per quanto distante, era accompagnata da uno strabiliante talento.   
 



 
Blackswan, mercoledì 17/07/2024

martedì 16 luglio 2024

Alcest - Les Chants De L'Aurore (Nuclear Blast, 2024)


 

Il francese Neige, padre padrone del progetto Alcest, è un artista dal talento immenso, forse troppo sottovalutato rispetto a venticinque anni di carriera in cui ha dato lustro al blackgaze, un genere meticcio nel quale confluiscono metal, shoegaze e post rock. Giunto al sesto album in studio, il quarantenne polistrumentista sforna uno dei suoi dischi migliori (ma quali non lo sono?), in cui, come sempre, è il vibrante impatto emotivo a essere la chiave di lettura. 

Les Chants de l’Aurore, rispetto ad altri episodi precedenti, è però un disco traboccante di luce e di colori, un album in cui l’ago della bilancia pende dalla parte di un’emotività gioiosa. Le sette canzoni in scaletta fluiscono e rifluiscono, illuminandosi di lampi melodici accecanti, che poi si dissolvono nella quiete avvolgente di una natura, richiamata, fin dal titolo, dalla misteriosa bellezza dell’alba.

Chitarre riverberate e stratificate, muri di elettricità che si sgretolano di fronte alla potenza invasiva di un tessuto melodico solo a tratti scartavetrato dal furore improvviso di inserti di screaming, mutuati dal black metal, e da un drumming infuocato, che però nulla toglie alle suggestioni cinematografiche e al candore di momenti introspettivi dolcissimi.

Il disco si apre con "Komorebi", termine giapponese che indica la luce che filtra, che tocca l’anima concedendo pace dopo giorni travagliati. Un’esplosione di felicità, il sole che lentamente sorge all’orizzonte in tutta la sua maestosa bellezza, il ritorno alla vita, l’oscurità di brutti sogni che si dissolve nella luminosa carezza dell’astro nascente. Senza rinnegare il proprio approccio shoegaze, il drumming furibondo di Winterhalter e le chitarre che debordano di elettricità, Neige tratteggia un delicato paesaggio naturistico, che trabocca di positività, mentre voci angeliche accompagnano un finale trasognato.

La successiva "L’Envol" si muove sulle stesse coordinate, il riff di chitarra è melodicamente concupiscente, i momenti di stasi, le chitarre riverberate, l’arpeggio sottile di un’acustica che compare all’improvviso suggeriscono un volo a braccia aperte nell’immensità del cielo, e, poi, una caduta libera, in picchiata dalle nuvole. E quando il suolo si avvicina, il cuore è ebbro di gioia, mentre cresce l’estasi di uno schianto emotivo che lascia senza fiato.

In "Amethyste" le trame si fanno poco più ruvide, l’intreccio più complesso, la batteria accelera, le chitarre prendono fuoco, mentre la voce di Neige gioca tra timbro pulito, che spinge verso la luce, e lo screaming che, prima, in lontananza, evoca la tenebra come un dolore obliato che ritorna, e poi, più da vicino, trova spazio, furente, in un luminoso arpeggio in cui respira una melodia senza tempo.

"Flamme Jumelle" è addirittura spiazzante, trasforma in oro l’elettricità sfilacciata di un dream pop declinato con una sapienza che lascia senza fiato, mentre "’Enfant De La Lune" è un continuo sali scendi, in cui il furore black metal divampa come un incendio e intorno, a ondate, arrivano emozioni indecifrabili, la voce si fa languida, quasi soave, prima che il drumming si faccia battente e spinga verso una luce sfolgorante, quasi mistica.

Se la breve "Riminiscence" si muove leggiadra sulle note di un pianoforte e sul ronzio di un violoncello, aprendo le porte a suggestioni classiche, e la conclusiva "L’Adieu" suona come una transizione aggraziata dalla luce accecante del giorno alla frescura della sera, il sole che tramonta in lontananza, la magia dell’ora blu che avvolge di sentimento il nostro cuore finalmente pacificato.

Potremmo definire Les Chants de l’Aurore come un disco concettuale, che rappresenta il trionfo della luce sull’oscurità, la rivincita della natura sull’orribile realtà che ci circonda, un ritrovato predominio della poesia sul prosaico scorrere dei giorni. Forse, però, si toglierebbe respiro a queste sette scintillanti composizioni, si farebbe un torto a questo album meraviglioso, la cui forza evocativa centra in pieno il bersaglio più importante che si prefigge la musica: emozionare.

Voto: 9

Genere: Blackgaze, Dream Pop, Post Rock

 

 



Blackswan, martedì 16/07/2024