lunedì 21 aprile 2025

Elton John & Brandi Carlile - Who Believes In Angels? (EMI, 2025)

 


Un artista con un leggendario passato alle spalle, un’artista con un luminosissimo futuro davanti a sé. Elton John e Brandi Carlile, due mondi apparentemente inconciliabili anagraficamente (John è del 1947, Brandi del 1981), geograficamente (uno inglese, l’altra americana) e musicalmente (uno figura eminente del pop britannico, l’altra ex enfant prodige della scena folk statunitense, che negli anni ha però ampliato il proprio spettro espressivo) vengono a contatto e fanno scintille. Un azzardo perfettamente riuscito, nonostante non poche difficoltà iniziali.

Alla fine, nonostante le evidenti differenze, a prevalere sono stati i numerosi punti in comune, a partire dall’appartenenza di entrambi alla comunità LGBT, dallo sguardo nostalgico verso gli anni ’70, da condivisi eroi musicali e, soprattutto, dall’abitudine a intrecciare interessanti collaborazioni.

La Carlile, infatti, ha fondato le Highwomen, supergruppo con Amanda Shires, Natalie Hemby e Maren Morris, e ha lavorato con artisti del calibro di Soundgarden, Willie Nelson, Sting, Sam Smith e da ultimo con Joni Mitchell, con cui ha dato vita allo splendido live al Newport Folk Festival. Da parte sua, Elton John, oltre alla storica partnership con Bernie Taupin, annovera collaborazioni con Leon Russell (The Union del 2010), ha pubblicato un album di duetti (Duets nel 1993) e il suo ultimo disco, The Lockdown Sessions del 2021, è stato registrato durante la pandemia con artisti che spaziano da Dua Lipa e i Gorillaz a Eddie Vedder e Stevie Wonder.

In quel lavoro, compariva anche Brandi Carlile nella bella "Simple Things", che è stato il momento in cui le rispettive anime musicali hanno compreso di essere molto più affini di quanto si potesse prevedere. 

L'idea per un album insieme è venuta, successivamente a John, che la propose a Carlile durante un pranzo nella sua casa di Los Angeles dopo la conclusione della tappa americana del suo tour Goodbye Yellow Brick Road. Al momento del caffè, era tutto concordato: Andrew Watts avrebbe prodotto e Bernie Taupin avrebbe scritto i testi per quella che sarebbe stata un vero e proprio disco condiviso, con canzoni composte a otto mani. Le cose, almeno all'inizio, non andarono troppo lisce: Elton era esausto e irritabile, e ora sappiamo che dopo alcuni anni già difficili gli è venuto un grave problema alla vista, che (per il momento) lo ha reso di fatto cieco.

Poi, è scoccata la scintilla, e il risultato è stato un filotto di canzoni che è molto di più della somma delle sue due parti. In Who Believes In Angels? si percepisce la presenza di due musicisti perfettamente affiatati, le cui voci si fondono in modo impeccabile, e il pianoforte di uno e la chitarra dell’altra vivono in armoniosa sintonia. Ne deriva una scaletta coloratissima, frizzante e potente, in cui pop e rock si combinano dando vita a uno sguardo nostalgico sugli anni ’70, ma anche a momenti di travolgente entusiasmo luminoso e glitterarato, frutto di una sintonia registrata in modalità divertissement.

Al successo, poi, hanno contribuito un pugno di musicisti dal nobile pedigree, Chad Smith (Red Hot Chili Peppers), Pino Palladino (Nine Inch Nails, Gary Numan e David Gilmour) e Josh Klinghoffer (Pearl Jam, Beck), e la produzione quanto mai centrata di Andrew Watts (capace di resuscitare il suono del miglior John).

Tutto qui è clamorosamente glamour, ma senza ostentazione, a partire dalla coloratissima copertina, un abbagliante rétro anni Settanta con riferimenti a Tina Turner e ai Village People, a Amy Winehouse e Little Richard, quest'ultimo celebrato nello scattante secondo brano in scaletta, "Little Richard's Bible", che pare sia stato il momento di svolta in quelle sessioni di registrazione che all’inizio sembravano avviarsi verso il disastro.

E che lo sguardo sia rivolto verso il passato di eroi musicali condivisi, lo si comprende immediatamente, appena parte l’opener "The Rose Of Laura Nyro", omaggio commosso alla songwriter newyorkese venuta a mancare nel 1997. Un brano composito, che si apre con un lussureggiante intro di tastiere, citando la splendida "Eli’s Coming" (dall’iconico Eli And The Thirteenth Confession del 1968), prosegue con uno splendido assolo di chitarra blues che introduce alla più classica ballata alla Elton John. Una melodia sfavillante destinata a restare nel tempo, forse la vetta di un disco che ha davvero pochi momenti prescindibili (la seconda parte è meno riuscita della prima), e che rende onore a una musicista, della quale Elton John ha detto: “La idolatravo. L'anima, la passione, l'audacia senza riserve... come non avevo mai sentito prima”.

C’è grande musica in Who Believes In Angels?, a partire dalla title track, così deliberatamente nostalgica, ma di una nostalgia che cresce e si gonfia in palpiti di autentica felicità, grazie a un ritornello da mandare a memoria e cantare con una lacrima che scende lentamente sulle labbra dispiegate in un sorriso infinito.

Se la citata "Little Richard's Bible" è un rock’n’roll tutto glam ed energia, e quei tasti del pianoforte pestati ossessivamente riportano alla mente inevitabilmente "Saturday Night’s Alright (For Fighting)", "Never Too Late" è una ballata da capogiro, esatto punto di fusione fra due artisti in perfetta simbiosi.

Così, anche nel caso in cui i brani sono un po’ telefonati ("A Little Light", "Someone To Belong To"), l’interplay fra i due è il carburante nobile che tiene in piedi lo show, uno show nel quale John evita accuratamente pose da super star, per condividere democraticamente la scena con la più giovane Carlile.

La quale, dal canto suo, offre uno dei momenti più toccanti del disco con "You Without Me", toccante ballata dedicata alla figlia undicenne, che evoca la delicatezza sgranata di certe canzoni di Sufjan Stevens.

Chiude il disco "When This Old World is Done with Me", un brano di grande intensità, che lascia senza fiato: Elton guarda con gli occhi gravemente offuscati al traguardo degli 80 anni che si avvicina, e concilia il bellissimo testo di Taupin con una brillantezza melodica e armonica che solo i grandi. Potrebbe sembrare una conclusione sdolcinata, ma non lo è affatto, e la semplice combinazione di voce e pianoforte è davvero mozzafiato.  

E quando questo vecchio mondo avrà finito con me, Sappi solo che sono arrivato fin qui, Per essere fatto a pezzi, Spargetemi tra le stelle, Quando questo vecchio mondo avrà finito con me, Quando chiudo gli occhi, Liberatemi come un'onda dell'oceano, Riportatemi alla marea”.

Una canzone che suona come il canto del cigno, come un addio. La speranza è che Elton non "torni alla marea" tanto presto, e che continui a scrivere grande musica. Ma quando il sipario di velluto si chiuderà sulla sua straordinaria vita, questo brano sarà un valido promemoria della sua grandezza, tanto quanto qualsiasi altro brano di John al suo meglio.

Rendiamo allora merito all’angelo Brandi Carlile, sceso dal cielo per resuscitare la vera anima del vecchio leone, realizzando un'impresa quasi impossibile: unire la linea dove finisce un artista e inizia l'altro. Perché le dieci canzoni di Who Believes In Angels? non potrebbero esistere senza la presenza e il contributo reciproco. Un passato leggendario e un luminoso futuro che si fanno presente.

Voto: 8

Genere: Pop, Rock

 


 


Blackswan, lunedì 21/04/2025

venerdì 18 aprile 2025

MacArthur Park - Richard Harris (Dunhill Records, 1968)


 

 

Un parco di Los Angeles, un amore finito, una struggente ballata passata alla storia per le liriche emozionanti e per quell’immagine, "cake out in the rain", così malinconica, così metaforica, così sconsolata.

 

Il MacArthur's Park si sta sciogliendo nell'oscurità

Tutta la dolce glassa verde che scorre giù

Qualcuno ha lasciato la torta fuori sotto la pioggia

Non penso di poterlo sopportare

Perché ci è voluto così tanto tempo per cuocerla

E non avrò mai più quella ricetta

 

MacArthur Park è un vero e proprio parco nel quartiere Westlake di Los Angeles, ma questo è l'unico riferimento tangibile delle liriche, che sono universali, che riguardano tutti coloro che hanno provato un lutto amoroso.

Jimmy Webb, l’autore del brano, spiegò che la canzone era autobiografica e che riguardava la fine della relazione con la sua ragazza dell’epoca. La torta e la pioggia vennero utilizzate come metafora della fine di un amore, e quei versi, divenuti, poi, tanto famosi, ai tempi apparivano non immediatamente comprensibili. Webb spiegò che scrisse il testo alla fine degli anni ’60, periodo in cui era abitudine scrivere versi surreali, che dessero un tocco psichedelico alla narrazione.  

La storia d'amore di cui parla Webb è quella che il musicista visse con Suzy Horton, e il MacArthur Park era il luogo in cui i due si incontravano per il pranzo, per le gite in pedalò e per dare da mangiare alle anatre. Lei lavorava dall'altra parte della strada in una compagnia di assicurazioni sulla vita, e incontrarsi proprio lì era la cosa più ovvia. Ma c’è di più, c’è qualcosa che Webb, probabilmente per pudore, non volle mai raccontare.

A farlo fu un altro musicista, Colin McCourt, che, tempo dopo, affermò di conoscere la storia vera, perché gliel’aveva raccontata in gran segreto proprio Webb. Il due aprile del 2011, durante un intervista al Daily Mail, McCourt disse: "Jim era innamorato di una ragazza che lo ha lasciato. Mesi dopo, ha saputo che si sarebbe sposata, proprio nel parco che dà il titolo alla canzone. Con il cuore spezzato, è andato al matrimonio e, non volendo essere visto, si nascose nella rimessa del giardiniere. Mentre si svolgeva la cerimonia all'aperto, ha iniziato a piovere a dirotto e la pioggia che scorreva lungo la finestra del capannone ha fatto sembrare che la torta di nozze si stesse sciogliendo”.

Questo episodio lasciò parecchi strascichi emotivi in Webb, il quale, quando scoprì che la sua ragazza si era sposata con un ingegnere telefonico di Wichita, trovò l’ispirazione per comporre un’altra canzone di successo, Worst The Could  Happen (“Ragazza, ho sentito che ti sposerai…E questa è la fine…Questo ragazzo è quello che ti fa sentire così al sicuro, Così sano e così sicuro, E tesoro, se ti ama più di me, Forse è la cosa migliore, Forse è la cosa migliore per te, Ma è la cosa peggiore che potesse capitarmi”).

Jimmy Webb scrisse "MacArthur Park" nell'estate del 1967 e offrì la canzone a Bones Howe, il produttore degli The Association, una band californiana di sunshine pop, per un possibile inclusione nel loro quarto album in studio. Howe adorava il brano, ma la band non voleva dedicare così tanto spazio sull'album al progetto di Webb, e quindi la rifiutarono.

La canzone finì, quindi, per essere interpretata da Richard Harris, che non era un cantante, ma un attore straordinario, che tutti ricordiamo per le sue interpretazioni in Un Uomo Chiamato Cavallo, Gli Ammutinati Del Bounty, Cassandra Crossing e anche Harry Potter (interpretò Albus Silente nei primi due episodi della saga). Richard Harris non era certo noto per le sue doti vocali, ma aveva fatto dei musical, incluso Camelot, dalla cui colonna sonora pubblicò come singolo How To Handle A Woman.

Webb incontrò Harris sul palco del Coronet Theatre di Los Angeles, dove stavano allestendo uno spettacolo contro la guerra con Walter Pidgeon, Edward G. Robinson, Mia Farrow e alcuni altri. Nel tempo libero i due fecero amicizia, e a fine lavoro stavano dietro le quinte a parlare, suonare il piano e bere birra. Il legame si intensificò a tal punto che i due si proposero di fare un disco insieme. La cosa sembrava una boutade da ubriachi, finchè un giorno Webb ricevette un telegramma che così recitava: “Caro Jimmy Webb, vieni a Londra, facciamo un disco. Con affetto, Richard”. E disco fu: A Tramp Shining, che conteneva MacArthur Park, fu pubblicato nel maggio del 1968, la canzone raggiunse la piazza numero due di Billboard e il disco fu candidato ai Grammy.

Merito anche della voce di Harris, che pur non essendo un cantante professionista, aveva un timbro profondo, una perfetta dizione da attore e un’impostazione da crooner attraverso la quale diede a MacArthur Park quel surplus di drammaticità che il brano richiedeva.

Del brano, nel corso degli anni, ne vennero fatte centinaia di cover, ma quella di cui tutti si ricordano la si deve a Donna Summer.

Donna Summer ne registrò una versione disco molto complessa nel 1978 con i suoi produttori, Giorgio Moroder e Pete Bellotte. Moroder era alla ricerca di una canzone da rielaborare con Summer, e quando, per caso, ascoltò alla radio la versione di Harris di "MacArthur Park", decise immediatamente che quel brano era perfetto per l'estensione vocale della Summer. Ricca di sintetizzatori, fiati e cori di sottofondo, la versione di Summer durava 8:27 ed era la prima parte della "MacArthur Park Suite", che occupava l'intero lato D del suo album Live And More del 1978. La suite durava ben 17 minuti ed era ottima per le discoteche, ma non adatta per la radio. Quindi Moroder si mise al lavoro e ne trasse un singolo di 3 minuti e 54 secondi, che arrivò al primo posto in America. A questo punto, l'originale di Richard Harris era praticamente una reliquia, guadagnandosi solo occasionali trasmissioni radiofoniche sui vecchi successi, ma la Summer riportò in vita la canzone, grazie a una registrazione contemporanea che catturò anche l'attenzione degli ascoltatori più giovani.

 


 

 

Blackswan, veberdì 18/04/2025

giovedì 17 aprile 2025

Rose Cousins - Conditions Of Love, Vol.1 (Nettwerk, 2025)

 


Mancava da cinque anni, Rose Cousins, quarantasettenne canadese originaria di Prince Edward Island, esattamente da quel Bravado, uscito nel 2020, che l’anno successivo le valse il secondo Juno Award in carriera nella categoria Contemporary Roots Album.  

Dopo un lustro, eccola tornare sulle scene con un disco che si presenta come una sorta di concept album, il cui tema, come indica esplicitamente il titolo, è l’amore. Esiste tema più abusato? Che altro si può dire di un sentimento che è stato sviscerato in migliaia di canzoni, molte delle quali affette da quella distorsione del romanticismo chiamata “sentimentalismo”? Molto, a quanto pare, almeno per un'osservatrice acuta e una cantautrice audace come Rose Cousins, che evita accuratamente clichè stantii, scarta l’abusato sillogismo cuore: amore e le parole dolci e carezzevoli, per indagare, invece, su ciò che tale sentimento può essere, nel bene e nel male.

Conditions of Love, Vol. 1 è un disco asciutto nella sua esposizione sonora, si sviluppa prevalentemente sull’alchimia fra pianoforte e voce, eppure risulta al contempo rotondo e ricco di piccole ma decisive sfaccettature. La Cousins cammina in punta di piedi in territori emotivi sdrucciolevoli, in cui un passo falso potrebbe far precipitare la narrazione nel melodramma: pochi elementi per affrontare e raccontare cos’è oggi l’amore, attraverso un breve ma intenso cammino che conduce l’ascoltatore attraverso varie fasi di cui lo stesso si compone, quali l’innamoramento, l’euforia, la condivisione, la frustrazione, la perdita.

Mentre percussioni leggere, elementi di elettronica e vellutati arrangiamenti di archi e fiati sottolineano (occasionalmente) l'umore che permea le singole canzoni, la voce potente e versatile della songwriter canadese è ciò che davvero crea l'atmosfera, una sorta di spazio riflessivo che consente all'ascoltatore di condividere esperienze, languori, struggimenti.

Un percorso, dicevamo, che ha un inizio e una fine: il disco si apre con lo strumentale "To Be Born (Ouverture)", un luminoso drive di piano contornato da eterei svolazzi vocali, e si chiude con "How Is This (The Last Time)", in cui le note di pianoforte sono sgocciolate lentamente, mentre la Cousins canta con trattenuta mestizia “How Is This (The Last Time) You’ll Close Your Eyes”. Il cammino dell’amore è inscindibile dall’esistenza, le nostre vite iniziano esattamente come inizia un amore, ci s’innamora e si ama, e poi, inevitabilmente arriva la fine di tutto, gli occhi si chiudono, il nostro cuore smette di battere, una relazione arriva al capolinea, restano i ricordi, vissuti nei giorni di una solitudine mai così totalizzante.

In mezzo a questa parentesi, otto brani che sezionano l’amore, lo raccontano con originalità, ne abbracciano luci e ombre, non smettendo mai, nemmeno per un istante, di commuovere.

Sono anche lacrime di gioia, come avviene durante l’ascolto "I Believe in Love (and it's very hard)", la cui melodia solare e contagiosa irraggia palpiti di incontenibile felicità, invitando all’ottimismo e alla speranza. Costruire un amore è fatica, è dubbio: occorre saper preservare la propria libertà ma anche condividerla, si devono scalare montagne di incomprensioni ed egoismo, ma vale la pena lottare, vale la pena provarci.

La Cousins scrive grandi canzoni e scrive liriche appassionate, senza perdere mai la barra di una visione che è al contempo poetica, ma anche scarna, asciutta. Le sue canzoni hanno bisogno di poco per farsi notare, così come poche parole servono per esprimere concetti mai banali, creando una magia unica.

Due dei brani di Conditions of Love, "Denouement" e "Forget Me Not", sono per lo più strutturati solo su elenchi di parole, ma nella loro progressione creano qualcosa di davvero potente. In "Denouement", la prima strofa usa un semplice elenco di parole per catturare la potente scarica di adrenalina che si prova entrando in contatto con qualcuno di attraente, qualcuno con cui poter creare una relazione: "Caso, Vasta distesa, Circostanza, Seconda occhiata, Cogli l'occasione, Nuova storia d'amore, Prendi la mia mano, Posso avere questo ballo?”.

Forget Me Not", pianoforte e voce arricchite da un superbo arrangiamento d’archi, possiede una struttura simile, con nomi di fiori cantati su una lenta e lussureggiante melodia con disarmane intensità. Un brano meravigliosamente evocativo che sembra riguardare il raggiungimento di qualcosa di permanente e reale durante il nostro tempo sulla terra, in cui la natura appare come un elemento determinante per il ricordo.  

L’amore, però, conosce anche lati oscuri, angoli di dolore, prima nascosti, poi sempre più evidenti, che finiscono inevitabilmente per risucchiare ogni briciolo di felicità: si chiamano egoismo e incomunicabilità. In "Needed You", la malinconica melodia appena screziata da beat elettronici, accompagna la voce arresa della Cousins che canta “How Can You Help Me, When You Can’t Help Yourself, You’re Wasting Your Wishes, And You Can’t Even Tell”, mentre in "Wolf And Man" altra struggente melodia tratteggiata da una linea di pianoforte dolce amara, la presa di coscienza dell’incomunicabilità è totale: “I Am The Wolf, You Are The Man, How We Expect To Understand, I Am An Animal, You Are Only Human”.

Conditions of Love, Vol. 1 è un disco che, pur nella sua immediatezza, ha bisogno di più ascolti per svelare la bellezza di ogni nota e di ogni parola, e, nonostante un esplicito romanticismo di fondo, cerca strade non battute per parlare d’amore con intelligenza e originalità. Solo trentasette minuti, ma assolutamente perfetti, chiusi dai trenta secondi di assoluto silenzio alla fine di "How is this (the last time)": una conclusione mozzafiato che lascia spazio al cuore dell’ascoltatore, alle sue riflessioni, ai suoi ricordi. Un vuoto che solo la speranza può colmare, dicendoci che, in questi giorni bui, in questo folle mondo dove l’odio spadroneggia, seguire il percorso impervio dell’amore è la strada giusta. E’ dura, ma alla fine “amor vincit omnia”.

Voto: 9

Genere: Songwriter, Pop

 


 

 

Blackswan, giovedì 17/04/2025

mercoledì 16 aprile 2025

Steven Wilson - The Overview (Fiction/Virgin, 2025)

 


Un disco, quarantadue minuti, due sole canzoni. Potrebbe sembrare una follia, e probabilmente lo è, per chi non ha mai masticato progressive e non conosce il genio irrequieto di Steven Wilson, il quale con The Overview punta a vette elevate. Verso i cieli e oltre, verso i confini più remoti dell'immaginazione umana, e anche di più. Sembra appropriato che questo viaggio interstellare sia in linea con la sua etica di artista: andare coraggiosamente dove nessuno è mai andato prima. O, almeno, sorprendere il suo pubblico e non ripetersi troppo spesso.

Da questo punto di vista, Wilson ha sempre cercato nuove strade espressive: il pop rock anni '80 di To The Bone, il pop elettronico di The Future Bites e i diversi generi ibridati in The Harmony Codex. A questo punto, non può stupire un concept album composto da due lunghe tracce. Di musica smaccatamente progressive.

Ancora più sorprendente è la sua scelta di utilizzare tematicamente "l'effetto panoramica", un cambiamento cognitivo che si dice sia sperimentato dagli astronauti quando guardano la terra dallo spazio. Ciò ha dato a Wilson la giusta "prospettiva" per l'album, tentando di collegare l'infinita vastità dello spazio esterno alle nostre miopi preoccupazioni egocentriche qui sulla terra. Grande idea.

Tuttavia, l'album nella sua interezza non esplora così tanto terreno nuovo a livello musicale come si potrebbe supporre. Sebbene abbia uno dei gusti musicali più eclettici di chiunque in questa galassia, con The Overview Wilson tira un po’ il freno a mano e riprendere una materia vecchia, sebbene rimodellata con gusto.

In effetti, musicalmente l'album sembra una retrospettiva di tutto ciò che è Wilson. Si possono, infatti, ascoltare tante citazioni specifiche di momenti passati (Porcupine Tree), così come la struttura di queste due epiche lunghe suite è già stata sperimentata prima con The Incident, disco dei Porcupine Tree datato 2009, in cui diverse canzoni indipendenti erano unite insieme in un unico brano esteso.

The Overview resta, tuttavia, un'idea grandiosa ed epica, una celebrazione di ciò che è venuto prima, certo, ma anche un modo per rilegge con modernità il proprio songbook.

Per realizzare questo concetto cosmico, Wilson ha arruolato amici e familiari, ma The Overview è ancora in gran parte un album solista. Oltre a voci, chitarre acustiche ed elettriche, tastiere, programmazione della batteria, sound design e pianoforte, Wilson suona anche quasi tutto il basso dell'album. Padre e padrone del progetto.

Un disco di prog, dicevamo, ma molto più prog di The Raven That Refused To Sing o di Hand. Cannot. Erase. E’ un disco prog moderno, se mi è concesso l’accostamento fra due parole apparentemente in conflitto, un prog del XXI Secolo, che, tuttavia, mostra inevitabilmente certe influenze del passato, non ultima la nota passione di Wilson per i Pink Floyd, il cui The Dark Side Of The Moon è il non citato punto di riferimento per il concept. Sono solo piccoli accenni, però: le tastiere di Adam Holzman e il sassofono sognante che conclude il brano finale, "Permanence". Ogni tanto, poi, come dicevamo, emergono motivi musicali tratti dal passato dei Porcupine Tree, una sequenza di accordi a cascata o un ritornello armonico, quelli che potremmo definire i biglietti da visita di Wilson. Eppure niente che offuschi la freschezza della proposta.

Musicalmente, il senso travolgente del grandioso contribuisce molto a catturare la vasta, fredda distesa dello spazio. Anche dal punto di vista dei testi, Wilson e i suoi comprimari musicali riescono nell'impresa ardua di coniugare epica, trascendenza e terrena realtà. Nella sezione "Objects: Meanwhile" di Objects Outlive Us, ad esempio, Andy Partridge degli XTC accosta perfettamente la banalità della vita quotidiana con la realtà a volte terrificante del cosmo in versi come "L'autista è in lacrime, per i suoi arretrati di pagamento. Eppure, nessuno sente quando un sole scompare in una galassia lontana”. E quando la moglie di Wilson, Rotem, intona enormi numeri collegati allo spazio in un monotono robotico e distaccato monologo nella sezione di apertura di "Perspective", si percepisce la dura, ostile e buia realtà dello spazio stesso. Si percepisce la morte.

The Overview è un disco impegnativo e un ascolto (da fare rigorosamente in cuffia) che può essere scoraggiante per chi non è aduso al genere. Per chi ama Wilson e il prog in genere, questo nuovo album, invece, rappresenterà un'esperienza avvincente, inizialmente straniante forse, ma ricca di fascino e di momenti decisamente emozionanti. E’ un viaggio, un lungo viaggio nell’immensità dello spazio. Ci vuole un po’ di coraggio, ma ne vale la pena.

Voto: 8

Genere: Progressive

 


 

 

Blackswan, mercoledì 16/04/2025

lunedì 14 aprile 2025

I Want a New Drug - Huey Lewis & The News (Chrysalis, 1983)

 


Voglio un nuovo farmaco

Uno che non mi farà star male

Uno che non mi farà schiantare la macchina

O farmi sentire spesso un metro

Voglio un nuovo farmaco

Uno che non mi farà male alla testa

Uno che non mi farà seccare troppo la bocca

Oppure farmi gli occhi troppo rossi

 

No, niente sostanze psicotrope: la "droga" di cui Huey Lewis canta in questa canzone sono le donne. Non hanno gli effetti collaterali della maggior parte sostanze chimiche come secchezza delle fauci, occhi rossi, irritazioni al viso, ecc., eppure creano dipendenza, una dipendenza buona, perché, come il cantante ha più volte ribadito: “la vita è amore, e l’amore è la risposta”.

 

Voglio un nuovo farmaco…

Uno che mi fa sentire

Come mi sento quando sono con te

Sono solo con te

Sono solo con te, tesoro

 

La canzone, che fu scritta da Lewis insieme al suo chitarrista, Chris Hayes, è stato uno dei cinque brani di successo dell'album Sports (1983), una pietra miliare degli anni '80 che ha venduto sette milioni di copie solo negli Stati Uniti, raggiungendo la prima piazza delle classifiche americane, in un anno, il 1984, dominato da best seller quali Thriller, Born in the U.S.A., Purple Rain e la colonna sonora di Footloose.

Nessuno dei cinque successi fu clamoroso, ma furono pubblicati ciascuno a circa tre mesi di distanza l’uno dall’altro, a partire da "The Heart of Rock & Roll" alla fine del 1983 e terminando con "Walking on a Thin Line" alla fine del 1984, mantenendo così Huey Lewis & The News in classifica per un anno intero. E quando i singoli di Sports finirono, la band pubblicò la più grande hit della sua carriera, "The Power of Love", tratta dalla colonna sonora del film Ritorno Al Futuro.

Huey Lewis ha spiegato che "I Want A New Drug" gli era venuta in mente nel bel mezzo dei postumi di una sbornia. Dopo una lunga notte di bagordi, il musicista si svegliò con un gran mal di testa, e dopo aver preso un paio di aspirine, corse all’appuntamento che aveva con il suo avvocato editoriale dei tempi, Bob Gordon. In macchina, con i finestrini abbassati nel tentativo di ritrovare un minimo di lucidità, ebbe l’illuminazione, e arrivato a casa del legale chiese penna e foglio e scrisse in pochi minuti il testo della canzone.

Il brano ebbe successo anche grazie all’iconico video che l’accompagnava. All'epoca, MTV aveva solo tre anni di vita, ma era diventata un veicolo di marketing cruciale. Huey Lewis & the News ne capirono l'influenza, e realizzarono video per tutti i loro singoli, diventando così una delle band più popolari di quella rete televisiva.

Nella clip, Lewis si sveglia con gli occhi annebbiati dai postumi di una sbornia, si veste e guida la sua auto sportiva verso uno yacht in attesa. Quindi prende un elicottero per andare a un concerto dove si esibirà. La sequenza clou, quella che ha reso leggendario il video, è quando Lewis infila la testa in un lavandino pieno di acqua ghiacciata e viene inquadrato dal basso con gli occhi aperti, mentre canta la canzone sommerso: nessun effetto speciale, ma un colpo di genio assoluto.

Chi rischiò letteralmente la vita per girare il video del brano fu Signy Coleman, una modella di San Francisco che interpreta la ragazza che il cantante vede in bicicletta e poi in barca, e che si presenta al concerto di Huey Lewis & the News. Lo spettacolo ripreso nella clip era reale e lì presenti vi erano vere fan di Lewis. Fan sfegatate che, appena si accorsero dell’arrivo della Coleman, iniziarono a insultarla e a tirarle i capelli, mettendo in piedi un improvvisato linciaggio. Fu il servizio d’ordine a respingere il violento assalto e a scegliere per le riprese alcune donne che non manifestassero intenti omicidi.

Inizialmente, l’etichetta di Lewis, la britannica Chrysalis, fece resistenze a pubblicare la canzone con la parola “drug” nel titolo, ma dopo che il brano fu presentato dal vivo, riscuotendo parecchio successo, si giunse al compromesso di pubblicare il 45 giri con il titolo di “I Want A New Drug (Called Love)”.

La canzone ebbe anche strascichi giudiziali. Lewis, infatti, fece causa a Ray Parker Jr., che aveva “rubato” la melodia di "I Want A New Drug" per la sua hit "Ghostbusters". La somiglianza, effettivamente, era notevole, e Parker, capito che l’esito del processo sarebbe stato sfavorevole, si accordò con Lewis in via stragiudiziale, con il versamento di una cospicua somma. Quando, però, anni dopo, nel 2001, Lewis svelò alla stampa i termini dell’accordo, la situazione si ribaltò, e l’autore di "Ghostbusters" fece causa al musicista newyorkese per aver violato la riservatezza di una transazione, che doveva rimanere per sempre segreta.

 


 

 

Blackswan, lunedì 14/04/2025