lunedì 17 novembre 2025

Eurythmics - Here Comes The Rain Again (RCA, 1983)

 


Per comprendere meglio la musica degli Eurythmics, duo composto dalla cantante Annie Lennox e dal polistrumentista Dave Stewart, bisogna accennare brevemente alla loro storia. Entrambi erano membri dei Tourists, band post punk attiva alla fine degli anni ’70, che abbandonarono nel 1980 per collaborare come duo e realizzare una musica che abbracciasse le nuove tendenze elettroniche. I due, che si incontrarono quando Lennox lavorava come cameriera a Sunderland, la città natale di Stewart, intrecciarono una relazione amorosa e vissero insieme per quattro anni, salvo porre fine alla loro relazione sentimentale, proprio poco prima di fondare gli Eurythmics. Scrivere e registrare come ex amanti creava, dunque, un'interessante tensione nelle loro canzoni, sempre pervase da un ambiguo mood malinconico, che era il marchio di fabbrica della scrittura di Stewart.

"Here Comes The Rain Again" è, in tal senso, un brano perfetto, perché possiede un mix di elementi apparentemente confliggenti, come l’accostamento di un si minore a un si naturale, che danno al brano un senso di sospensione. La canzone è triste, sofferta, quasi sconsolata (il testo tratteggia un paragone tra il sentimento di un amore non corrisposto con la pioggia che cade), tanto da risucchiare l’ascoltatore in una spirale discendente, anche se a un certo punto, quel verso “parlami come fanno gli amanti” sembrerebbe ribaltarne il senso. È quasi come vagare dentro e fuori dalla malinconia, avvolti dalla bellezza oscura di una rosa che sboccia mentre intorno il giardino avvizzisce.

Invece del tradizionale schema strofa-ritornello-strofa, "Here Comes The Rain Again" alterna una prima sezione ("Here comes the rain again") a una seconda ("So baby talk to me") con pochissime variazioni, a parte un breve bridge strumentale al centro del brano. Questo crea una sensazione di monotonia, come di pioggia che continua a cadere.

Il brano fu scritto dai due durante un soggiorno al Mayflower Hotel di New York. Stewart era uscito sulla 46esima strada e aveva comprato una delle prime tastiere Casio, lunga circa 50 centimetri con tasti molto piccoli. Era una giornata nuvolosa. Annie era seduta nella stanza d’albergo, mentre il songwriter provava la tastiera suonando brevi accordi malinconici, seduto sul davanzale della finestra.  E mentre Steward continuava a suonare, la Lennox, che guardava fuori dalla finestra il cielo grigio ardesia sopra lo skyline di New York, iniziò a cantare spontaneamente la frase "Here Comes The Rain Again".

La canzone fu, quindi, registrata in una vecchia chiesa trasformata in studio, ma nonostante lo studio non fosse ancora finito, l’etichetta condusse sul posto un’intera orchestra. Così trenta archi hanno dovuto improvvisare suonando nei corridoi e persino nei bagni. Il brano è stato poi mixato unendo l'orchestra ai suoni elettronici creati da un sequencer e da una drum machine.

Il video che accompagna il brano è stato girato nelle isole Orcadi, in Scozia, dove Annie Lennox canta la canzone dentro e intorno a una nave affondata. Per tutto il tempo, vediamo Dave Stewart che la riprende con una videocamera, come se la perseguitasse. "Tutti i video esprimono un mondo interiore che si intreccia tra me e Dave, le nostre tensioni emotive", dichiarò la Lennox alla rivista Q nel 1991.

La canzone fu distribuita come terzo singolo estratto dall’album Touch nel Regno Unito, e come primo singolo negli Stati Uniti, raggiungendo rispettivamente l’ottava piazza delle classifiche britanniche (divenendo così il quinto singolo consecutivo a raggiungere i primi dieci posti) e il quarto posto di Billboard 100.

 


 

 

Blackswan, lunedì 17/11/2025

giovedì 13 novembre 2025

Idlewild - Idlewild (V2 Records, 2025)

 


In un anno segnato da grandi ritorni come il 2025, si affacciano nuovamente sulla scena anche gli scozzesi Idlewild, che non erano certo spariti dalla circolazione come successo ad altre band che hanno scelto di rilanciarsi nei mesi scorsi, ma che comunque non pubblicavano materiale nuovo da Interview Music, album datato 2019.

Quando gli Idlewild si sono presentati per la prima volta al pubblico sulla fine degli anni ’90, erano rumorosi, sfacciati, provocatori e dispensatori di un caos post-hardcore condensato in due minuti. Angoscia adolescenziale repressa o liberazione catartica, chiamatela come volete; ma mentre il millennio volgeva al termine e gli anni scorrevano via come la storia che si dissolve nella pioggia scozzese, una nuova visione scese sui ragazzi di Edimburgo.

L’aggressività iniziale e il tiro incrociato delle chitarre di un rumoroso punk rock ha lasciato il passo a un approccio decisamente più melodico, che seguiva le orme dei Teenage Fanclub e apriva la strada del cambiamento ai Biffy Clyro, in quella che potremmo definire la “variante scozzese”.

Da quel momento, la storia è cambiata, e due dischi, 100 Broken Windows (2000) e The Remote Part (2002) hanno aperto la strada del successo (molto relativo, vista la lontananza della proposta dal mainstream) alla band, il cui suono, basato soprattutto sull'eccellente lavoro chitarristico di Rod Jones (a volte pulsante, a volte croccante, ma sempre melodico), incorporava elementi pop, aperture college rock alla R.E.M. ritornelli innodici e un mood malinconico come le brume di Scozia.

È chiaro che questo periodo è un'epoca a cui guardano con affetto, perché nell'album numero dieci, intitolato in modo significativo a se stessi, la rivisitano ampiamente. Un titolo che è un punto fermo, un affermazione d’orgoglio per quanto fatto e l’abbrivio per una nuova stagione. Recuperare il passato, per poterlo riscrivere. Creare un album con la volontà di giocare sui propri punti di forza avrebbe potuto dare vita a una banale scaletta dal rendimento decrescente. Invece, inaspettatamente, Idlewild è un promemoria fresco e mirato dell'esclusiva miscela di melodie gioiose e della musicalità intelligente e caustica della band.

Il disco inizia con "Stay Out Of Place", un mid tempo che possiede ancora il tiro delle chitarre ruggenti e stridenti di Rod Jones, mentre Roddy Woomble sembra aver perfezionato ulteriormente la propria voce di media estensione. È essenzialmente ciò che ci si aspetterebbe se si chiedesse all'intelligenza artificiale di generare una tipica canzone degli Idlewild, ma quella che avrebbe potuto essere una stanca ripetizione suona invece fresca, sicura e coinvolgente.

"Like I Had Before" fa un ulteriore passo indietro, è un ritorno a casa, lo sguardo nello specchietto retrovisore per vedere se è ancora possibile scrivere momenti di rock entusiasmante.

Il ringhio chitarristico di Jones è presente anche nella frastagliata "Make It Happen", un altro brano caratteristico degli Idlewild, scattante, attraversato da dissonanze venate di punk e caratterizzato da un ritornello semplice ma coinvolgente.

Forse due ballate come "It’s Not The First Time" e "(I Can’t Help) Back Then You Found Me", costruite con grande mestiere, pagano un po’ pegno a intenti radiofonici, ma anche se meno brillanti rispetto al resto della scaletta, non abbassano poi di tanto il livello.

Gli Idlewild del XXI secolo sanno, infatti, scrivere ancora gran belle canzoni come "I Wish I Wrote It Down", che palesa l’amore della band scozzese per i R.E.M., "Permanent Colours", che porta con sé un'energia synth pop gotica, e la splendida conclusione lasciata a "End With Sunrise", forse la versione più moderna degli Idlewild, che trova nella malinconia cinematografica della sua trama melodica il vertice di un disco pienamente riuscito.

Ne è passato di tempo dai giorni di gloria della band, eppure, nonostante qualche disco non completamente centrato, la band scozzese si offre al 2025 con rinnovata energia. Non siamo ai livelli di 100 Broken Windows, ma questa nuova fatica racconta di una band che può vantare un grande passato e, ora, anche un promettente presente fatto di sfumature, di poesia e di melodia, combinate perfettamente con la chitarra incisiva e spigolosa che definisce il suono di questi Idlewild, oggi come allora.

Voto: 7

Genere:  Rock

 


 

 

Blackswan, giovedì 13/11/2025

martedì 11 novembre 2025

Addicted To Love - Robert Palmer (Island, 1985)

 


Sono molte le canzoni che raccontano di un amore così totalizzante da creare dipendenza, così ossessivo da prendere il sopravvento sul processo decisionale del cervello, ma Robert Palmer ha trovato un modo nuovo per esprimerlo nella celebre "Addicted To Love", una hit numero uno negli States e un successo clamoroso anche a livello mondiale.

La canzone, originariamente, avrebbe dovuto parlare di abuso di sostanze, di dipendenza da droghe, alcol o cibo, ma alla fine Palmer ritenne che alleggerendo il tema e parlando d’amore, il brano sarebbe stato più attraente.

L’idea iniziale del musicista inglese era quello di fare di "Addicted To Love" un duetto, e individuò in Chaka Khan la partner ideale. I due si misero al lavoro e in men che non si dica registrarono la canzone; ma quando tutto era pronto per la pubblicazione, l’etichetta della Khan, la Warner Brothers, vietò l’utilizzo della voce della cantante statunitense, e Palmer dovette riregistrarla da capo.

Il brano, come anticipato, ebbe un grande successo, e non solo perché possedeva un tiro irresistibile, ma anche perché fu accompagnato da un video che divenne iconico.

Il clip mostra Palmer che canta di fronte a una "band" di bellissime ragazze che si assomigliano (vestono abiti identici e sono pesantemente truccate) e che fanno finta di suonare. La cosa divertente del video è che le modelle che posano come una band sono state selezionate proprio perché non sapevano suonare alcun strumento, e di conseguenza, ogni ragazza tiene il suo tempo e si muove a un ritmo diverso.

Chi erano le ragazze nel video? Ecco l’elenco: 

 

Julia Bolino (chitarra)

Patty Elias (chitarra)

Kathy Davies (batteria)

Julie Pankhurst (tastiera)

Mak Gilchrist (basso) 

 

La Gilchrist aveva lavorato in diversi spot pubblicitari, la Bolino e la Davies avevano partecipato ad altri video musicali, mentre sia la Pankhurst che l’Elias erano al loro esordio. Tutte ricordano che Palmer si mostrò molto professionale ed educato durante le riprese, anche quando un piccolo “inciampo” avrebbe potuto farlo arrabbiare. La "bassista" Mak Gilchrist, che allora aveva ventun anni, ricorda, infatti, che il regista Terence Donovan, per cercare di rendere l’ambiente più informale e rilassato, le fece ubriacare con del vino, e che lei, annebbiata dai fumi dell’alcol, perse l’equilibrio colpendo Palmer alla nuca con il manico del basso, facendogli così sbattere la faccia contro il microfono.

Il roboante riff di chitarra che apre la canzone giunse a Palmer in sogno. Nel 1988 dichiarò alla rivista Q: "Quel riff rumoroso mi ha svegliato. Sono sceso dal letto, ho preso il registratore, l’ho registrato e sono tornato a letto. La mattina dopo ho pensato: è fatta!”.

E fu così: Palmer, nel 1987, vinse il suo primo Grammy Award nella categoria Migliore Performance Vocale Rock Maschile proprio per "Addicted To Love". Un successo quasi inaspettato, visto che in precedenza la carriera del musicista stentava a decollare.

Palmer, infatti, aveva suonato in diverse band dalla fine degli anni '60 e pubblicò il suo primo album da solista nel 1974. Coprì una vasta gamma di generi, spesso inserendo sonorità caraibiche nella sua musica (viveva alle Bahamas), e ottenne un modesto successo in classifica, in particolare con i brani "Bad Case of Loving You" e "Every Kinda People". Nel 1985, tuttavia, trovò la sua formula vincente quando ricoprì il ruolo di frontman del supergruppo The Power Station, band che lo vedeva a fianco di Andy Taylor e John Taylor dei Duran Duran e di Tony Thompson degli Chic. La band ottenne un grande successo con "Some Like It Hot", un rock esplosivo che utilizzava la giusta dose di aggressività e sensualità. Palmer integrò quel sound nel suo album Riptide, pubblicato più tardi nel 1985, con i risultati che abbiamo appena raccontato.

Una curiosità. Questa fu la prima canzone a entrare nella Hot 100 americana con la parola "addicted" nel titolo e non ce n'è stata un'altra fino a quando i Simple Plan non scalarono le classifiche con una canzone intitolata appunto "Addicted", nel 2003.

 


 

 

Blackswan, martedì 11/11/2025

lunedì 10 novembre 2025

Biffy Clyro - Futique (Warner, 2025)


 

Gli scozzesi Biffy Clyro sono tra le migliori band di rock da stadio in circolazione, di quel genere, cioè, che fa scatenare i fan sotto il palco (e loro, dal vivo, sono una bomba) e che occupa un posto privilegiato nelle scalette delle radio FM. Dopo trent’anni di carriera e dieci album all’attivo, il gruppo capitanato da Simon Neil continua a mantenere una coerenza artistica invidiabile, oltre a un ottimo livello di ispirazione, per quanto, a parere di chi scrive, non si è più ripetuta la magia di Only Revolution, autentico gioiellino datato 2009.

Dopo due buoni dischi come A Celebration Of Endings (2020) e The Myth Of The Happily Ever After (2021), i Biffy Clyro tornano sulle scene con un disco riuscitissimo, decisamente all’altezza dei loro migliori lavori. Alla base di questa nuova produzione, troviamo un’idea di fondo molto stimolante: alcuni dei momenti più importanti della nostra vita diventano tali solo con il senno di poi, generando la nostalgia che sboccia lentamente per un momento dell’esistenza che non abbiamo apprezzato appieno nell’attimo in cui lo abbiamo vissuto, non rendendoci conto che forse stavamo facendo qualcosa per l'ultima volta. Ecco, allora, il titolo Futique, una parola costruita sulla crasi fra futuro e antico.

Sotto il profilo squisitamente musicale, questa nuova fatica del power trio scozzese è un disco che vive d’urgenza, è suonato con il cuore, con il desiderio di restituire in gioia la fedeltà di migliaia di fan, e possiede un suono potente, calibrato, rotondo, che sprizza energia da tutti i pori.

Futique è, inoltre e probabilmente, una delle uscite più snelle e accessibili della band, un album più incline al pop di quanto ci si potrebbe aspettare, e ad eccezione di "Hunting Season" che spinge il piede su un acceleratore punk rock (salvo piazzare poi un ritornello di una solarità irresistibile) e dei riff sinuosi e del basso propulsivo di "Friendshipping" (un po’ prevedibile, ma esaltante), è anche decisamente privo di momenti pesanti.

Ciò non toglie che la scaletta sia confezionata con gusto e intelligenza, regalando grandi momenti di musica, anche quando i muscoli vengono tenuti ben celati sotto la maglietta. Ecco allora la melodia ruffiana di "Shot One" e le ritmiche danzerecce di "Dearest Amygdala", due brani che abbracciano certe sonorità anni ’80, o l’atmosfera cupa e meditabonda di "Woe Is Me, Wow Is You", una canzone che mette in evidenza le doti vocali di Neil e la capacità della band di piazzare, quando meno te l’aspetti, dei refrain irresistibili.

Se in alcuni dischi precedenti l’andamento della scaletta era altalenante, con grandi brani affiancati a episodi meno memorabili, in Futique lo standard resta elevato per tutti i quarantacinque minuti di durata, offrendo anche alcuni picchi vertiginosi. Così, se tenendo fede al concept che sta alla base dell’album, molti momenti della nostra vita, così come i brani musicali che ascoltiamo, acquistano significato solo se ripensati attraverso una nuova prospettiva, è altrettanto vero che sappiamo fin da subito quali sono i momenti speciali, così come quelle canzoni che passeranno dal nostro stereo ancora, ancora e ancora.

"A Little Love" e "True Believer", a esempio, sono entrambe delle hit assolute, vantano dei ritornelli enormi e godono di un energico lavoro di batteria di Ben Johnson (che è al massimo della forma per tutto il disco), mentre "Goodbye" è una struggente ballata radiofonica, zuccherina al punto giusto da evocare infiniti paesaggi malinconici.

Il trio riserva il meglio per la fine, con la fenomenale traccia conclusiva "Two People In Love", un brano meno accessibile degli altri, che sembra nato da una coraggiosa visione progressive: sei minuti in cui la splendida melodia di pianoforte si intreccia con una ritmica convulsa, il paesaggio sonoro celestiale che accompagna il ritornello innalza verso l’immensità del cielo e un outro esteso trasporta il brano verso un’incalzante deriva epica.

Futique è un disco godibile dall’inizio alla fine, attraverso il quale i Biffy Clyro offrono il meglio del loro arsenale, garantendo ai propri fan il miglior livello possibile d’ispirazione ed elargendo con generosità irresistibili melodie, capaci di farsi ricordare ben oltre l’ascolto dell’album. Impossibile, tanto per richiamare il tema che ha ispirato il disco, quando lo ascolteremo per l’ultima volta, ma di certo, visto l’ottimo risultato raggiunto, lo ascolteremo ancora per un bel po’.

Voto: 8

Genere: Rock, Pop 




Blackswan, lunedì 10/11/2025

giovedì 6 novembre 2025

Lathe Of Heaven - Aurora (Sacred Bones Records, 2025)

 


Che il post punk e le sue derivazioni dark wave abbiano trovato negli ultimi anni terreno fertile per un impetuoso revival è un dato di fatto. Le band che tornano a rimasticare le sonorità che andavano per la maggiore negli anni ’80 crescono come funghi: alcune con l’intento di interpretare quel suono in chiave moderna, plasmandolo per renderlo alternativo e appetibile a un pubblico più giovane, altre, invece, spinte da intenti evidentemente nostalgici, riprendendolo sic et simpliciter, e accompagnandolo con l’inevitabile citazione dei tanti eroi che resero leggendaria quell’epoca lontana.

In questa seconda schiera di artisti, possono essere annoverati i newyorkesi Lathe Of Heaven, che giunti con Aurora al loro secondo album, continuano in un viaggio immersivo negli anni ’80, replicandone tutte le caratteristiche: accordi prevalentemente in minore, tappeti di synth carichi di melodie malinconiche, il basso pulsante come architrave, chitarre stridenti, un suono carico di eco, un tocco di batteria elettronica, furiose cavalcate accese da urgenza punk.

Le canzoni create dalla band capitanata da Gage Allison non sono solo un recupero nostalgico, ma coinvolgono completamente i sensi dell’ascoltatore, creando la sensazione di essere fisicamente presenti in quella magica decade. Chi ha vissuto in prima persona quegli anni, tornerà ragazzo, c’è da scommetterci, e si ricorderà la propria collezione di dischi dell’epoca, composta dai capolavori di Cure, Echo & The Bunnymen, Killing Joke, Psychedelic Furs, Sister of Mercy, etc.

Alla base di Aurora, però, non c’è l’ombra di copia incolla: a fronte di un pregevole lavoro di recupero filologico, ci sono anche grandi canzoni, e se il mood resta quello crepuscolare del genere, le melodie, soprattutto nella prima metà, sono esplosive e pop, tanto da rivestire l’album di una glassa zuccherina che lo rende tanto contagioso quanto suggestivo. In tal senso, Aurora è un disco dark wave orecchiabile e raffinato, che sceglie anche una strada contigua al lo-fi, soprattutto nella seconda parte, risultando al contempo traboccante di languori malinconici e ritornelli uncinanti. 

L’iniziale "Exodus" indica in modo evidente le intenzioni dei Lathe of Heaven, mentre synth levitanti, percussioni galoppanti e ritornelli svettanti preparano la scena per ciò che verrà. La successiva "Aurora" è di una bellezza che toglie il fiato, e grazie all’irresistibile melodia del ritornello e alla voce di Allison che ricorda molto quella di Richard Butler sembra un outtakes da Mirror Moves dei Psychedelic Furs. Uno degli apici del disco e, probabilmente il momento più struggente e romantico: "La poesia della perdita, non pronunciata sulle tue labbra, sapendo che sei ancora lì, quando non c'è più niente, Perso in pura devozione, tracciando il paradiso che giace accanto a te".

Sotto il profilo delle liriche (i testi sono presenti nel booklet del cd), la scelta delle parole di Allison è ricercata e poetica, raggiungendo a tratti vertici inaspettati per una rock band. Così quando in "Just Beyond the Reach of Light" canta di essere trafitto dal potere dell'amore, sopra una valanga di tamburi fragorosi al rallentatore ("Sono intrappolato nella sua carezza, un'eclissi misericordiosa, Per farmi sentire vivo ancora una volta”), una lacrimuccia di inesplicabile felicità, complice anche lo splendido impianto melodico, inevitabilmente riga il volto.  

Se "Portrait Of A Scorched- Earth" (dedicata al genocidio di Gaza) è un tirata rabbiosa che ricorda certe cose dei primi Cure, evocati anche nella sottile lucentezza e nella ritmica incalzante di "Oblivion", "Kaleidoscope" chiude la prima parte dell’album con quel mood triste – allegro, che ti fa girare vertiginosamente la testa, in un connubio stranissimo di estasi e lacrime.  

La seconda metà di Aurora si orienta, invece, verso un sound più punk, che spinge forte il piede sull’acceleratore di "Matrix Of Control" o si lascia trascinare dai tamburi battenti e le chitarre graffianti di "Catatonia", due brani che accantonano le belle melodie per mordere selvagge alla gola. "Infinity's Kiss" ribadisce l’essenza di questa seconda parte del disco, in cui le raffinate inclinazioni melodiche e i synth fiorenti si mettono al servizio di un tiro più livido e crudo.

Un cambiamento di dinamica quasi stridente rispetto al lato A, che offre, tuttavia, maggior varietà alla proposta, accontentando anche quegli ascoltatori più inclini verso un suono pesante, che richiama alla mente Killing Joke e Bauhaus.

Chiudono il disco altre due belle sberle in faccia ("Automation Bias" e "Rorschach"), cantate da Allison petto in fuori e muscoli in bella mostra, suggellando una prova di altissimo livello, che esplora i vari volti della dark wave ottantiana attraverso una consapevolezza unica.

Se questo è il genere che più amate fin da quando eravate ragazzi, se il disco dei Cure dello scorso anno continua a girare nei vostri lettori con inarrivabile soddisfazione, date allora una chance ai Lathe Of Heaven e ad Aurora: scommetto che sarà il vostro disco del 2025.

Voto: 8

Gnere: Post Punk

 


 

 

Blackswan, giovedì 06/11/2025