lunedì 27 marzo 2023

KLONE - MEANWHILE (Kscope, 2023)

 


E’ un vero mistero come una band dalla straordinaria caratura artistica, come quella dei transalpini Klone, sia tutt’oggi oggetto di culto per un numero di fan davvero esiguo rispetto alla bravura del gruppo. Nonostante una corposa discografia e una carriera sviluppatasi in ben ventiquattro anni, la band progressive metal francese, infatti, è rimasta per lungo tempo ai margini del circuito mediatico.

Le cose sono parzialmente cambiate negli ultimi anni, quando i Klone hanno firmato per la Kscope, l’etichetta britannica che annovera fra le sua fila Steven Wilson, i Porcupine Tree, gli Anathema e i No Man, che ha pubblicato il loro precedente Le Grand Voyage del 2019. Questa svolta ha influito anche sul suono della band, che ha iniziato ad ammorbidire la propria proposta, utilizzando una tavolozza di colori meno accesi, che hanno diluito la potenza di fuoco delle origini. Il risultato di questo cambiamento, tuttavia, non è certo un tradimento nei confronti dei propria fan, quanto semmai un’evoluzione naturale, che ha reso le canzoni dei Klone meno pesanti ma non per questo meno suggestive.

In tal senso, Meanwhile è un disco solido, diretto e ombroso, perfettamente bilanciato fra progressive, metal e un gustoso impianto melodico. Le canzoni rispecchiano alla perfezione lo splendido art work di copertina, evocano un cielo plumbeo, gravido di pioggia e cupi presentimenti, pronto a sfogare in un ringhio feroce tutta la sua rabbia, nonostante si intuisca sullo sfondo un residuo di luce, che mitiga la furia degli elementi. 

"Within Reach" apre l'album e fornisce subito agli ascoltatori una buona idea di quanto equilibrato sia il suono creato dai Klone in quest’ultimo lavoro. La canzone inizia con una melodia crepuscolare e minacciosa, mentre le percussioni fluttuano e rifluiscono come onde nella risacca, fino a quando, a metà brano, il suono si fa più aggressivo e pesante. Se a Le Grand Voyage mancavano i groove metal presenti in album come The Dreamer's Hideaway, oggi le distorsioni e i riff taglienti tornano, anche se però inseriti in un tessuto sonoro più affabulante e variegato.

Certo, in scaletta ci sono anche canzoni come "Scarcity", che abbassano il tiro ed esplorano trame lussureggianti e morbide, talvolta sommesse, che impongono ascolti ripetuti e maggior attenzione per coglierne tutte le sfumature. In questo risiede il mirabile labor limae operato dalla band, e cioè nella capacità di creare strofe e ritornelli le cui melodie appaiono inizialmente sfuggenti, per poi crescere col passare del tempo, grazie a piccoli, ma decisivi dettagli che stimolano il piacere della scoperta.

Che si tratti dei fiati in "Blink of an Eye" e "Elusive", della scintillante chitarra solista in "The Unknown", o del contrasto tra melodie cupe e impianto strumentale pesante, quasi doom, come avviene in "Night and Day", sono davvero molti i momenti suggestivi di un disco che mantiene il livello compositivo altissimo, senza perdersi in fronzoli o inutili ghirigori. Meanwhile è, infatti, tutta sostanza, suona meno rocambolesco di alcuni album di prog metal usciti nell’ultimo periodo (Haken), eppure risulta in egual misura fascinoso e avvincente. La complessità espositiva è semmai metabolizzata da un approccio che vira maggiormente al rock, e in tal senso è interessante osservare come anche la perfomance vocale Yann Ligner si sia adattata al nuovo corso, mitigando in buona parte quel ringhio che aveva caratterizzando i precedenti lavori più metal, scegliendo un’esposizione più pulita e avvolgente (per quanto il timbro resti comunque particolarmente ispido).

Meanwhile è probabilmente la vetta discografica di questa, purtroppo, finora sottovalutata band francese, un album consapevole e maturo, che si pone esattamente a metà strada tra le distorsioni rabbiose della prima parte di carriera e le trame morbide e luminoso della svolta rappresentata da Le Grand Voyage. Non un punto di arrivo, tuttavia, ma una nuova partenza, che potrebbe portare i Klone ad allargare il proprio bacino di consensi e a prendersi una meritata fetta di notorietà.

VOTO: 8

Genere: progressive metal

 


 


Blackswan, lunedì 27/03/2023

venerdì 24 marzo 2023

THE LATHUMS - FROM NOTHING TO A LITTLE MORE (Island, 2023)

 


Come recita quel vecchio andante? Il secondo disco è il più complesso nella carriera di un artista. Perché è quello che fa capire se ci troviamo di fronte a una meteora oppure, nello specifico, a un gruppo capace di confermarsi, di scrivere altre belle canzoni da aggiungere a quelle pubblicate al debutto. Ovviamente, il prius logico è che l’esordio sia stato di livello, e How Beatiful Life Can Be, primo album dei Lathims, band britannica originaria di Wigan, lo era. Dannatamente bello.

La domanda, dunque, sorge spontanea: sono riusciti i nostri eroi a confermarsi a quei livelli? La risposta è si, anche se qualche riflessione dev’essere necessariamente fatta. In primo luogo, è abbastanza evidente, fin dal primo ascolto, che l’effetto sorpresa è svanito. Se ogni singola canzone di How Beautiful Life Can Be sortiva l’effetto “wow!”, per quel continuo esplicitare collegamenti con un certo pop chitarristico anni ’80 (Housemartins e Smiths, in primis), alla seconda prova, i Lathums cercano di imboccare nuove vie, e pur mantenendo un suono perfettamente riconoscibile (quella voce e quella chitarra, per quanto derivative, sono ormai un marchio di fabbrica), hanno sfumato, almeno un po’, i propri riferimenti stilistici.

L’idea è quella di diversificare l’approccio compositivo, tentativo riuscito solo in parte, visto che molti brani richiamano, per struttura e idee, quelli del primo album. Tuttavia, il songwriting, anche se meno scintillante, risulta essere particolarmente efficace quando il quartetto di Wigan punta sul piatto forte della casa, e cioè su quei ritornelli innodici, perfetti per far cantare a squarciagola tutto uno stadio.

Anche il gusto per la melodia è rimasto intatto, anche se, talvolta, arrangiamenti un po’ leziosi, privano di slancio canzoni che, altrimenti avrebbero avuto ben altra forza emotiva. E’ il caso, ad esempio, di "Turmoil", una ballata pianistica in odore Beautiful South, che si perde ben presto in uno zuccherino arrangiamento da karaoke, che lascia, per così dire, perplessi.

A parte qualche passo falso, il disco è, però, piacevolissimo, e trova la sua vetta nell’uno due iniziale costituito da "Struggle" e "Say My Name", due coinvolgenti inni da stadio dalla melodia cristallina, il primo un doloroso crescendo su un amore non corrisposto (“ti amavo, ma non ti importava, avevo bisogno di te, ma tu non c'eri, e il mondo si è tirato indietro e mi ha costretto a inginocchiarmi”), il secondo trainato da un riff di chitarra irresistibile e da una batteria galoppante. Una formula vincente che si ripresenta anche nella tiratissima "Facets" (qualcuno ha detto Smiths?) o nelle accelerazioni che innervano di tensione la malinconia della splendida "Crying Out", altro vertice emotivo del disco.

Altrove, i Lathums rendono omaggio alle proprie fonti d’ispirazione, come avviene nella grazia sixties di "I Know Pt.1" o nella sbarazzina e divertente "Lucky Bean" (splendido l’arrangiamento di fiati), che richiamano alla mente, nemmeno tanto velatamente, gli Housemartins. E se "Land And Sky" suona un po’ fiacca e senza pathos, gli otto minuti della conclusiva "Underserving", ballata elettro-acustica intrisa di emozione, sono, invece, la coraggiosa conclusione con cui Alex Moore mette a nudo i suoi sentimenti e i suoi pensieri, rivolgendosi direttamente ai fan e ringraziando tutti coloro che hanno accompagnato il viaggio dei Lathums “from nothing to a little more”.

In definitiva, questa seconda prova, pur palesando qualche difetto rispetto al folgorante esordio, è un disco riuscito, che riesce ad amalgamare alla perfezione malinconia e tormento con l’ottimismo di un tiro pop rock che, quando riesce, è ancora in grado di fare scintille. Forse, semplicemente, quello che più conta, è che questi quattro ragazzi, nel bene e nel male, sono rimasti loro stessi, consapevoli delle proprie origini e orgogliosi di dove sono arrivati. Capaci di continuare a scrivere canzoni, belle o brutte che siano, che sgorgano direttamente dal cuore. E l’onestà, alla fine, paga sempre.

VOTO: 7

Genere: Rock, Pop

 


 

 

Blackswan, venerdì 24/01/2023

giovedì 23 marzo 2023

AIN'T NO STOPPIN' US NOW - MC FADDEN AND WHITEHEAD (Philadelphia International Records, 1979)

 


Gene McFadden e John Whitehead erano due songwriter e produttori che prestavano la propria arte sotto l’egida Philadelphia International Records, etichetta presso la quale hanno lavorato per molti anni, contribuendo a definire il suono del Philadelphia Soul. Nel 1972, con Leon Huff, che era comproprietario dell'etichetta insieme a Kenny Gamble, scrissero il successo degli O'Jays, Back Stabbers, e in seguito altre grandi canzoni, quali I'll Always Love My Mama, eseguita dagli Intruders e Bad Luck, portata alla ribalta da Harold Melvin.

Verso la fine degli anni '70, McFadden e Whitehead, stufi di regalare le proprie canzoni ad altri, desideravano ardentemente registrare del proprio materiale e convinsero Gamble e Huff, non senza fatica, a lasciarli provare. Entusiasti dell'opportunità, si misero al lavoro per l’album d’esordio, spinti da mantra "non ci fermeremo adesso!", che divenne anche il titolo della loro della loro canzone più famosa, quella che avrebbe aperto la scaletta del disco.

Ain’t No Stoppin’ Us Now fu registrata ai Sigma Sound Studios di Filadelfia insieme ai chitarristi Dennis Harris e Bobby Eli, al bassista James Williams, al batterista Keith Benson e al trio femminile composto da Barbara Ingram, Carla Benson ed Evette Benton, tutti abili sessionisti dell’etichetta, chiamati a dar manforte al duo.

Questa canzone motivazionale, che arrivò al primo posto delle classifiche R&B, fu adottata dalla comunità afroamericana come inno libertario, perché il testo sembrava essere un invito esplicito a combattere per i propri diritti, a non mollare e a fare un ultimo sforzo per raggiungere quel traguardo che, ormai, era a pochi passi (Non c'è modo di fermarci ora! Siamo in movimento! Non c'è modo di fermarci ora! Abbiamo il solco! Ci sono state così tante cose che ci hanno trattenuto Ma ora sembra che le cose stiano finalmente arrivando).

In realtà, Mc Fadden e Whitehead non avevano alcun intento politico e mai avrebbero pensato che a quel brano, allegro e ballabile, potessero essere attribuiti significati tanto profondi. La canzone, infatti, era ispirata dalla loro esperienza personale, quella, cioè, di musicisti che finalmente, dopo tanto tempo, si trovavano a realizzare un sogno. Con Ain’t No Stoppin’ Us Now, John e Gene, infatti, stavano in realtà parlando della loro frustrazione con i proprietari della Philadelphia International Records, Kenny Gamble e Leon Huff, che per molti anni li tennero rinchiusi in una prigione dorata, impedendo loro di diventare artisti a tutto tondo.

E a ben vedere, rischiarono anche di non pubblicare mai quella canzone che li tanto rese celebri. Kenny Gamble, infatti, dopo aver ascoltato per la prima volta Ain't No Stoppin 'Us Now, tentò, fortunatamente senza successo, di convincere McFadden e Whitehead a dare la canzone agli O'Jays, che erano un gruppo già affermato, e che avrebbe potuto, quindi, scalare più facilmente le classifiche del tempo. I due, però, s’impuntarono, minacciando di andarsene e intentare una causa legale, e alla fine l’ebbero vinta. Quindi, in definitiva, quello che venne interpretato come un brano innodico sull’orgoglio nero, era, in realtà, una canzone sull’orgoglio personalissimo di due artisti che erano stufi di scrivere canzoni per altri e volevano sfidare lo star system in prima persona. Quell’esordio fu il loro unico, grande successo, e i due successivi dischi pubblicati a loro nome, negli anni ’80, furono dei mezzi fiaschi.

L'11 maggio 2004, a soli 55 anni, Whitehead è stato assassinato a colpi di pistola da un gruppo di uomini armati, fuori dalla sua casa di Filadelfia. Chi fossero gli assassini non si è mai saputo, e il caso è ancora aperto e irrisolto. Il 27 gennaio 2006, toccò a McFadden morire per gli esiti esiziali di un cancro al fegato e ai polmoni. Aveva 56 anni.

 


 

 

Blackswan, giovedì 23/03/2023

martedì 21 marzo 2023

Louis - Philippe Dalembert - Milwaukee Blues (Sellerio, 2023)

 


Il proprietario pachistano di un minimarket compone il numero di emergenza 911 perché ha incassato dei soldi falsi da un cliente. Siamo nel quartiere nero di Franklin Heights, nell'area nord di Milwaukee. Quel cliente si chiama Emmett, e morirà poco dopo, soffocato per mano della polizia che è venuta ad arrestarlo. Da quel momento il gestore del negozio non riesce più a dormire, è tormentato dagli incubi, non avrebbe dovuto fare quella telefonata, ma ormai è tardi. I riflettori del mondo intero sono puntati sulla morte terrificante di un uomo ordinario, il cui ritratto ci viene svelato dalle persone che l'hanno conosciuto nelle varie fasi della sua vita…

L’omicidio di George Floyd da parte della polizia, il movimento Black Lives Matter, il razzismo, la protesta, l’indignazione: tutti temi che hanno riempito e continuano a riempire, con desolante frequenza, i notiziari televisivi e le pagine dei tabloid. Era difficile adattare tutto ciò alla trama di un romanzo, senza correre il rischio di farsi prendere la mano dalla retorica o rischiare l’effetto megafono spento, ribadendo cose trite e ritrite, scivolando nell’ovvio e nel prevedibile. Invece, Louis Philip Dalembert, haitiano, classe 1962, compie una specie di miracolo, dividendo il suo romanzo, Milwaukee Blues, in due parti ben distinte, con cui ribalta la consueta prospettiva narrativa, attraverso una prosa asciutta, semplice, malinconica e ironica al contempo, che evita facili lezioncine, concentrandosi semmai sull’animo umano e sulle idee. Il romanziere si mette da parte e osserva una grande corale americana, di bianchi e di neri che si muovono attraverso una Milwaukee periferica e degradata, ambientazione perfetta dell’eterna battaglia fra bene e male, fra speranza e rassegnazione, fra violenza e spiritualità.

Il libro si apre con il tormento del giovane immigrato pakistano, proprietario di un minimarket, che ha denunciato Emmett al 911. Una telefonata fatale, nata dal sospetto di aver ricevuto dei soldi falsi, e fatta per la paura di poter essere denunciato a sua volta, e di perdere quella piccola agiatezza economica conquistata con fatica e sacrificio. Una telefonata che è l’inizio della fine per il povero Emmett, che di lì a breve verrà assassinato brutalmente da un poliziotto, esattamente come accadde a George Floyd. Un capitolo iniziale che dice molte cose sulle contraddizioni di un paese, l'America, che regala opportunità a tutti ma che, altrettanto facilmente, può negarle, un paese in cui i poveracci sono privi di ogni tutela, e sgomitano fra loro per restare a galla, un paese in cui l’immigrato resta e resterà sempre un reietto, guardato con sospetto e oggetto del più stupido dei sillogismi: se c’è un reato, lo ha commesso sicuramente un nero o uno straniero.

Inizia così il romanzo vero e proprio, con una prima parte in cui Emmett, vittima sacrificale all’altare del razzismo, viene ricordato da tutti coloro che lo avevano conosciuto in vita: i suoi amici del cuore, la sua insegnante, la sua fidanzata del college, l’allenatore di football, la ex da cui ha avuto una delle sue tre figlie. Ecco allora, che il fatto di cronaca sfuma, lasciando il posto al ritratto di un uomo, che non è più solo una notizia data dal telegiornale, ma che riacquista la propria dignità; non più uno dei tanti, ma proprio lui, Emmett, con un volto e una storia da raccontare. Il suo sorriso dolce, il passo dinoccolato, l’affabilità e la testardaggine, i suoi sogni sportivi infranti per un terribile infortunio di gioco, la perseveranza di inseguire un miraggio e la forza con cui, nelle difficoltà, ha cercato di dare un futuro alle proprie figlie, nonostante tutto e tutti, nonostante la strada facile dello spaccio, che ha sempre rifiutato d’imboccare. Sembra di vederlo, Emmett, come lotta per restare a galla, con quale dignità, con quale dolcissima pertinacia, e verrebbe voglia di abbracciarlo, e di chiedergli scusa, perché la nostra indignazione, giusta e moralmente ineccepibile, è stata smossa solo dall’indignazione, e non dall’amore per quell’uomo così determinato, così fascinoso e gentile, che Emmett era in vita.

La seconda parte, invece, sposta il focus della narrazione sui preparativi della marcia di protesta che viene organizzata per le esequie della vittima. Protagonista diventa tutta Milwaukee, la reverenda che celebra la messa, gli attivisti, il poliziotto incriminato per l’omicidio di Emmett, i tanti partecipanti al funerale, le organizzazioni filo naziste e primatiste pronte a scatenare disordini, gli estremisti del movimento Black Lives Matter, il cielo che si rasserena improvvisamente dopo un feroce temporale, e Dio, che da lassù guarda l’umanità parlare in suo nome e affannarsi per affermare una fratellanza destinata a rimanere, forse, un’irrealizzabile chimera.

Se nella prima parte del romanzo il protagonista assoluto era Emmett = Uomo, ora protagonista diventa l’idea, il sogno di un mondo più giusto, in cui bianchi e neri si possano tendere la mano come fratelli pronti a combattere per quella uguaglianza, che un’America, ancora ferocemente razzista, continua a negare. La meticolosa preparazione dell’evento, la scelta del percorso, la musica e gli slogan da recitare, il passa parola sui social, la scelta delle parole per l’omelia funebre, sembrano solo apparentemente privare di pathos una marcia che diviene un grande evento mediatico. Eppure, nonostante tutto, nonostante la polizia schierata e pronta a caricare, nonostante l’ipocrisia di facciata delle istituzioni, in quel corteo batte forte il cuore dell’idea, il desiderio del cambiamento, la passione per la lotta, la ricerca inesausta di giustizia.

“…quando i due ne avrebbero parlato ai loro nipoti, che sarebbero stati essere umani prima di essere statunitensi, ebrei, haitiani, neri, bianchi, forse avrebbero evocato insieme i fatti di Milwaukee come di un tempo davvero finito.” Sono queste le parole che chiosano un romanzo vibrante, potente, emozionato, capace di raccontare il razzismo in una prospettiva tanto insolita, quanto vincente. Sono parole di speranza, un raggio di sole che buca le tenebre di un’umanità malata, ancora oggi, come decenni fa. Domani, forse, sarà un giorno migliore, ma perché ciò avvenga, i nostri cuori devono cambiare. Un romanzo come Milwaukee Blues può essere un buon inizio.

Blackswan, marrtedì 21/03/2023

lunedì 20 marzo 2023

JAIMEE HARRIS - BOOMERANG TOWN (Thirty Tigers, 2023)

 


Fidatevi: Jaimee Harris è un’artista ancora poco conosciuta, soprattutto dalle nostre parti, ma su questa ragazza texana, che ha da poco compiuto trent’anni, scommetterei qualunque cosa, sicuro di vincere a mani basse. La sua storia è breve ma intensa, e questo è solo il secondo album pubblicato in carriera. Poca roba, direte voi; eppure, il concentrato di emozioni e il livello artistico dei suoi dischi, sono il frutto di una maturità e di una consapevolezza, difficile da trovare in una musicista di così poca esperienza.

Il debutto di Jaimee Harris, Red Rescue (2018), ruggiva di energia rock, era ferocemente onesto e graffiava d’intensità. Oggi, la songwriter texana, torna con un disco, Boomerang Town, che colpisce ancora il centro del bersaglio, ma lo fa attraverso ballate (elettro) acustiche, un mood cupo e malinconico e una narrazione profondamente poetica.

Queste canzoni nascono durante il periodo della pandemia, quando il mondo si è fermato, e la Harris, come tutti noi, ha rimuginato sul senso dell’esistenza e sulla caducità dell’essere umano. La musicista, originaria di un piccolo borgo vicino a Austin, è partita da queste ombrose riflessioni, per guardarsi alle spalle, al proprio passato, alla sua città natale, alla propria famiglia, agli anni della crescita. In tal senso, Boomerang Town è un disco dai connotati nostalgici, attraversato da un desiderio di casa, intesa non solo come romito degli affetti, ma anche come fulcro di introspezione, un necessario punto di partenza per fare il bilancio della vita e guarire vecchie ferite mai rimarginate. Lo sguardo della Harris, però, non si sofferma solo sulle proprie origini, ma guarda anche al tema delle dipendenze (la vibrante The Fair and Dark Haired Lad, canzone sull’alcolismo), della perdita, dei desideri irrequieti, delle contraddizioni della società, delle scelte politiche.


L’album nasce così da un affastellamento di temi personali e universali, e se è vero che gran parte del materiale contenuto in Boomerang Town è stato ispirato dall'esperienza personale, le canzoni di questa raccolta sono tutt'altro che esclusivamente autobiografiche. In tal senso, i sette minuti della splendida title track, che aprono il disco, raccontano di un desiderio di fuga da una piccola realtà cittadina, nascono da un’intima riflessione, certo, ma evocano anche richiami letterari (Madame Bovary), ed esplicitano un sentimento condiviso da tutti coloro a cui la vita va dannatamente stretta.

Qui, come in tutto Boomerang Town, emergono ritratti di personaggi che vivono sul filo del rasoio tra speranza e disperazione, vittime di una realtà oppressiva, persi in sogni irrealizzabili, spinti a lottare da un desiderio di salvezza, per molti irrealizzabile. Un velo cupo, dunque, si stende sulle dieci canzoni in scaletta, quasi tutte pervase da un senso di ineluttabilità, da un sapore dolce amaro, che evoca tristezza e, per converso, trasmette una delicata carezza consolatoria, esplicitata nella chiosa ottimista di "Missing Someone", un raggio di luce che dissolve i pensieri più tristi.

Il tema del dolore, però, permea gran parte del disco. "How Could You Be Gone", scritta a quattro mani con Mary Gauthier, riflette sulla morte di un caro amico durante la pandemia, e sulla morte, avvenuta nel 2017, del mentore Jimmy LaFave, "Fall (Devin's Song)", racconta di un ex compagno di classe d'infanzia della Harris, deceduto in giovanissima età. Sono canzoni che colpiscono come un coltello che lacera la carne fino a intaccare l’osso, che mettono a nudo la natura senza tempo del dolore, la nostra fragilità di foglie caduche in balia del vento.

Boomerang Town, a dispetto del mood prevalentemente ombroso, è un disco che fluisce con semplicità, e che allinea dieci ballate perfette, alcune vestite di abiti francescani, altre, invece, arricchite da arrangiamenti scelti con cura artigianale, in cui poche note di piano, le frementi scosse di una chitarra elettrica, il lamento di un violino o il ronzio di un violoncello esaltano melodie bellissime. Un songwriting tanto limpido e diretto, quanto profondo, reso ancora più intenso da un soprano dal vibrato potente, che fa della Harris una delle realtà più interessanti dell'attuale scena folk, tanto che paragoni come artisti del calibro di Mary Gauthier, Mary Chapin Carpenter o Patty Griffin, non sono inutilmente sprecati. Album appassionato ed emozionante, imperdibile, direi.

VOTO: 9

Genere: Folk, Americana, Rock

 


 


Blackswan, lunedì 20/03/2023