sabato 30 gennaio 2016

THE AVETT BROTHERS – LIVE, VOL. FOUR



Il Nord Carolina è un posto in cui mi piacerebbe vivere: città a misura d’uomo, i monti Appalachi e i monti Blue Ridge da un lato, il mare dall’altro, la grande pallacanestro universitaria e un movimento musicale tra i più interessanti d’America.  Poi, ci sono gli Avett Brothers, che da questa piccola lingua di terra sono partiti a inizio millennio, per conquistare, disco dopo disco, un successo di caratura, ormai, nazionale (le ultime due prove, The Carpenter (2012) e Magpie And Dandelion (2013) sono finite entrambe nella top ten di Billboard). Dal 2002 ad oggi gli AB hanno pubblicato già otto full lenght in studio e la bellezza di ben quattro dischi live, a voler rimarcare che la dimensione nella quale si trovano maggiormente a loro agio è quella che prevede un palco, un’arena, un pubblico e la presa diretta. In questo, come dimostra anche questa nuova produzione (un cd, un dvd), sono degli autentici maestri e le loro esibizioni sono quanto di più coinvolgente potete trovare in circolazione, anche se, ovviamente il riscontro è affidato alle immagini dei dvd, visto che ben difficilmente riusciremo ad ascoltarli in tour nel nostro paese. Il grande merito dei fratelli Avett è quello di fondere il suono roots americano (gli strumenti sono prevalentemente tradizionali) con melodie catchy (e di derivazione beatlesiana) e un piglio da consumati rockers. Tutto quello che troverete in Live, Vol. Four, registrato a casa (Releight), la notte di capodanno del 2014, davanti a un pubblico di circa ventimila persone coinvolte dalla prima all’ultima canzone. La registrazione del live in tal senso è incredibile (ci ha messo mano anche Rick Rubin, che da qualche tempo è diventato un sorta di pigmalione artistico per la band): microfono aperto sul pubblico, nessuno ritocco in fase di missaggio, e cori, risate, chiacchere in libertà, per cogliere l’energia dell’evento live. Quattro cover, tra cui una versione travolgente di Boys Are Back In Town dei Thin Lizzy, e una scaletta di grandi canzoni che vanno dall’ultima hit, Another Is Waiting, allo scioglilingua rock di Talk On Indolence (vero mantra di ogni performance della band- provate a starci dietro, se ci riuscite), alla melodia agrodolce di Shame fino alla potenza di Kick Drum Heart, che ha una grande coda southern alla Lynyrd Skynyrd, e a I And Love And You, gioiello pianistico e autentico cavallo di battaglia della band. Tra i festeggiamenti di Capodanno (conto alla rovescia e il traditional Auld Lang Syne, cantato tutti in coro), si arriva alla fine di un concerto che ascoltiamo come fossimo lì, suonato con spirito festaiolo e un retrogusto di campagna e buoni sentimenti che, vista l’atmosfera natalizia, è quasi inevitabile. Un grande live per una grande band, a cui perdoniamo volentieri anche la più brutta copertina del decennio.

VOTO: 7,5





Blackswan, sabato 30/01/2016

venerdì 29 gennaio 2016

CHE GRAN JAM, LASSU’!




Ieri se ne è andato anche Paul Kantner, un altro eroe della mia adolescenza e protagonista assoluto di tantissimi ascolti della mia vita. Leader dei Jefferson Airplane, prima, e dei Jefferson Starship, poi, protagonista di Woodstock (la performance dei JA alle 8 del mattino è leggendaria) e strenuo sostenitore della legalizzazione delle droghe leggere e dell’LSD, Kantner è stata una delle anime più creative del rock psichedelico e della controcultura americana di fine anni ’60… E poi? E poi, mi fermo qui, perché non ho più voglia di scrivere l’ennesimo ricordo di un altro grande musicista che questo 2016 si è portato via. Preferisco evitare, sento che il passo tra l’essere commosso e diventare patetico è cortissimo. Meglio, allora, pensare, sorridendo, che se dovessi tirare le cuoia in questi giorni, non sarebbe un brutto momento per morire. Lemmy, David Bowie, Glenn Frey, Black e Paul Kantner, tutti volati lassù, alla corte degli dei: vi rendete conto di che cazzo di jam ci stiamo perdendo?





Blackswan, venerdì 29/01/2016

giovedì 28 gennaio 2016

MUMMYDOGS - MUMMYDOGS (2002, Frontier)



Guy Kyser - Vocals and Guitar
Johanna Kyser - Keyboards, Vocals and Percussion
Cary Rodda - Bass
Paul Takushi - Drums and Percussion

Se mai un disco è stato invocato e desiderato, questo dei Mummydogs, entra di diritto nella Top Ten “Fan in crisi d’stinenza”. Anche perché l’attesa si era prolungata per più di 10 anni. Anche perché Mummydogs è la sigla dietro la quale si cela Guy Kyser, chitarra, voce, e anima dei Thin White Rope.

I TWR, con Dream Syndicate, Rain Parade, Green On Red, Long Ryders e tante altre straordinarie band che per brevità non citerò hanno tessuto la trama del cosiddetto “Paisley Underground” e contemporaneamente reinventato il Rock stelle e strisce ripartendo là dove Punk e New Wave s’erano messi di traverso. Il Country Rock, l’Acid e la Psichedelia della West Coast che impudicamente invitano al proprio talamo le intellighenzie “Art" della costa opposta. 




Wikipedia ci rammenta che il termine “Paisley Underground”  fu coniato da Mike Quercio dei Three O'Clock (Paisley, ornamenti decorativi orientali mutuati dall’artwork dei ‘60) e divenne sigla contenitore di tutto quell’esaltante movimento musicale. Entusiasmante oltre ogni modo la ricetta. Eccola: miscelare accuratamente parti uguali di Byrds, Cash & Young, condensare q. b. con Velvet e Beefheart, acidificare il tutto con dosi variabili di Television e Jim Carroll. Mescolare, assaggiare, correggere alla bisogna con un pizzico di Pere Ubu. Per contorno Nuggets a volontà.

Facile, fatto.
 

Ecco a voi il “Paisley Underground”.
Ecco a voi i Thin White Rope la più grande band americana della seconda metà degli anni ’80.





La loro parabola artistica dura 6 anni, dal 1985 al 1991, durante i quali daranno alle stampe 5 album e un paio di EP, “Moonhead” del 1987 è il capolavoro che si ritaglierà di diritto un posto importante tra le migliori produzioni dell’intero decennio. “The Ruby Sea” conclude la vicenda.
Negli anni di inattività che seguirono, Kyser, oltre a curare le uscite di alcune raccolte e un live dei TWR, si distinse per l’assenza fino a scomparire dalla scena musicale. Il Thomas Pynchon del Paisley Underground.                    
Molti e inverosimili gli avvistamenti. Commesso in un negozio di dischi a Tacoma, barman in un ristorante esclusivo di Anversa, esperto botanico in una università californiana, insegnante di chitarra di un manipolo di surfisti strafatti di cannabis a Seattle, in studio con Jim Morrison per le registrazioni di “An American Prayer II”.

 




Una cosa è certa, nel frattempo ha messo su famiglia.
Ed è proprio con Johanna, sua moglie, che decide di tornare artisticamente per l’esordio discografico dei Mummydogs. L’album esce nel marzo del 2002. Etichetta sul disco, la solita, quella della Frontier di Lisa Fancher.

La mia copia mi fu regalata da un amico di Ragusa. Faceva e fa il medico di famiglia.
E’ il medico più Rock’n’Roll di tutta la Regione Sicilia.
Un rinnovatore illuminato nella somministrazione delle cure.
Hai l’influenza? Aspirina e Ramones 2 volte al dì.
Ti fa male la pancia? Buscopan e Pretty Things prima dei pasti.
A Ragusa, in certe farmacie, è più facile trovare una rarità di Frank Zappa che non il Voltaren. 

Ora, a pensarci bene, del disco non mi va di parlarne più di tanto. A me, era piaciuto. E mentre lo riascolto dopo tanto tempo riaffermo l’impressione dell’epoca. Dark Green Car e Red Bandana sono due pezzi splendidi che non avrebbero sfigurato nel repertorio di un tempo e, verso la fine del disco, Zulu Time è carezzevole come non mai. 

Anche Johanna era stata brava.

Le recensioni invece non furono per nulla accondiscendenti, qualcuno scrisse che i due sembravano la brutta copia di John Doe e Exene Cervenka. Gli inevitabili raffronti con i TWR non aiutarono a sollevare l’asticella del giudizio di critica e pubblico. Insomma, a detta di tanti, disco mediocre da non perderci troppo tempo.
Da allora nulla più. Guy è risceso giù dal palcoscenico per scomparire nuovamente e stavolta definitivamente. Neppure un avvistamento in Tibet, che ci sta sempre bene. 




Non può finire così.

Sono certo che Guy è da qualche parte che fischietta una nuova canzone visionaria e ammaliante come solo lui sa fare.
Sono certo che prima o poi vorrà riaccendere gli amplificatori.
Cosa ti costa, eh Guy?
I figli saranno cresciuti e probabilmente ascolteranno solo rap & hip hop.
Non stargli addosso, son ragazzi, passerà.
Chiama i vecchi amici di un tempo Stephen, Jozef, Roger.
Quelli son 25 anni che ti stanno aspettando.
Vogliamo fare come i Sonics?
Andiamo, scegli 10, 12 pezzi tra le decine che ti sei fischiettato in questi anni, che si riparte.
Johanna potrebbe suonare il tamburello.
Il nuovo disco dei Thin White Rope sarà un capolavoro.
E se non lo sarà, non importa.
Sarà in ogni caso “l’ultimo dei Thin White Rope” da raccomandare a squarciagola a questo brutto mondo di apericene e dj set nell’attesa che ne arrivi un altro e un altro ancora.




Ricevo da PORTER STOUT e pubblico integralmente, nella speranza che questo sia solo l'inizio di una lunga e proficua collaborazione. 


Porter Stout, giovedì 28/01/2016