giovedì 28 febbraio 2019

PREVIEW




U.F.O.F. è il titolo dell’attesissimo terzo disco dei Big Thief, che uscirà il 3 maggio. Già online il primo singolo “UFOF”, e programmate le date del tour americano.
Adrianne Lenker (chitarra, voce), Buck Meek (chitarra), Max Oleartchik (basso), e James Krivchenia (batteria) hanno trascorso gli ultimi quattro anni in tour mondiale incessante, conquistando la devozione di un pubblico entusiasta e in rapida espansione. Le prime due pubblicazioni, Masterpiece (2016) e Capacity (2017), sono state profondamente analizzate, hanno fatto versare lacrime, hanno fatto ballare, strappato gli applausi della critica, creato imitatori. Hanno fatto da colonna sonora a ristoranti affollati, conversazioni difficili, bar, corsi di yoga, viaggi notturni e camere solitarie.
U.F.O.F. è stato registrato nella zona rurale occidentale di Washington, ai Bear Creek Studios. In una grande stanza simile a una cabina, la band ha allestito le proprie attrezzature per registrare live con l’aiuto dell’ingengnere Dom Monks e del produttore Andrew Sarlo, che ha prodotto anche i loro album precedenti. Avendo già rodato le canzoni in tour, si sono approcciati alle session in modo rilassato e pronti a sperimentare. Il materiale è stato messo insieme velocemente. Alcune canzoni sono state scritte solo poche ore prima di registrarle e arrangiate all’impronta, quasi in prima take, voce compresa.
“Fare amicizia con l’ignoto… tutte le mie canzoni parlano di questo,” dice Lenker. “Se la natura della vita è il cambiamento, l’impermanenza, allora preferisco essere scomodamente sveglio in quella verità piuttosto che perso nella negazione.”





Blackswan, giovedì 28/02/2018

mercoledì 27 febbraio 2019

TEDESCHI TRUCKS BAND - SIGNS (Concord, 2019)

Ci sono artisti o band che hanno mantenuto nel tempo una costante caratura qualitativa di ottimo livello, tanto che, a ogni nuova uscita, le aspettative sono altissime e ci si attende, sempre, l’ennesimo capolavoro.
Sono andato a rileggermi tutto quello che in questi anni ho scritto a proposito della Tedeschi Trucks Band, e mi sono accorto di aver usato solo termini lusinghieri e, ne sono convinto, mai a torto. Per dire, l’ultimo capitolo della loro discografia, Live From The Fox Oakland del 2017, era talmente bello da produrre, in alcuni passaggi, la sensazione di vivere un’esperienza mistica.
Così è davvero difficile scrivere questa recensione, accantonando il trasporto del fan, e ponendo l’accento, per la prima volta, su qualche difetto riscontrato durante i numerosi ascolti di un disco che, a essere sinceri, non sarà all’altezza dei precedenti episodi, ma che resta comunque, sempre, una tacca superiore alla media delle uscite discografiche del periodo.
Forse è solo un problema del sottoscritto, e quindi questo appunto suonerà marginale e inconsistente alle orecchie di molti ascoltatori; tuttavia, se è vero che i coniugi Trucks hanno sempre lavorato di cesello, ponendo molta attenzione alla produzione e parlando un linguaggio forbito (un termine di paragone in tal senso potrebbe essere il pigmalione fra Joe Bonamassa e Beth Hart, votati a un suono decisamente più mainstream), in Signs la costruzione delle canzoni risulta un po' troppo artificiosa. Si perde, cioè, quel senso di strumenti sbrigliati, quell’immediatezza da jam band che aveva caratterizzato tutti i precedenti lavori. Un aspetto non da poco, perché il disco subisce una sorta di “normalizzazione”. Un po' come in quella sequenza de Il Postino, in cui Neruda dice che se la spieghi, la poesia, diventa banale. Ovviamente, non c’è nulla di banale, in Signs, ma il flusso delle emozioni è però incanalato, meno dirompente, direi più prevedibile.
Un disco orientato verso la ballata, decisamente più soul dei precedenti, formalmente elegante ma concettualmente meno elusivo, che vive soprattutto in una grande performance di Susan Tedeschi, la cui voce al caramello non è mai stata così incisiva. La chitarra di Derek Trucks si sente, eccome; ma veste un ruolo da deuteragonista, non è marginale, ma è meno presente. Ciò non toglie che, quando entra in scena, regali momenti di classe pura, assoli più icastici, forse, ma perfettamente centrati, per tecnica e fantasia. In tal senso, Still Your Mind, uno dei momenti più emozionanti del disco, è paradigmatica: incipit di pianoforte, Tedeschi spettacolare nell’inseguire una melodia obliqua, che deflagra poi quando entra la chitarra di Trucks: assolo rumoroso, verace e in crescendo, in un alternarsi di note distorte e pulite, che lentamente affievoliscono in una chiosa dagli umori quasi progressive (Dancing With The Moonlight Knight dei Genesis è proprio dietro l’angolo).
In un disco in cui, come si diceva, l’eleganza formale è predominante e si fa sostanza, non mancano però canzoni di grande impatto. Strenghten What Remains, forse l’episodio più zuccherino del lotto, viene illuminata da poche note di flauto cesellate da mano divina (e peccato per l’altra mano che aggiunge inopinatamente uno sdolcinato arrangiamento d’archi), Walk Through This Life, rimica funky, cantato soul, arrangiamento jazzy è un colpo che riesce solo agli autentici fuoriclasse, e All The World, ballata soul nella quale si insinua leggero un refolo di malinconia, riesce a centrare il bersaglio grosso, quello vicino al cuore.
In definitiva, Signs non è un brutto disco (non fosse altro perché suonato da Dio), ma soffre per un eccessivo lavoro di sovrascrittura, che se da un lato garantisce un suono rigoglioso e rotondo, per converso toglie brillantezza e veracità a composizioni che, con una mano meno pesante, avrebbero avuto una resa sicuramente migliore.

VOTO: 6,5





Blackswan, mercoledì 27/02/2019

martedì 26 febbraio 2019

PREVIEW



A proposito dell’album il frontman Steve Wynn racconta: "Mentre scrivevo le canzoni per il nuovo album ero piuttosto ossessionato da Donuts di J-Dilla. Adoravo il modo in cui si era avvicinato alla produzione di dischi, come un DJ, un collezionista di dischi, un appassionato di musica che vuole  mostrare tutta la sua musica preferita, distorcendola e cambiandola fino a farla sua. Stavo trafficando con sequencer, drum machine, loop - qualsiasi cosa mi conducesse fuori dal mio modo abituale di scrivere facendomi sentire come se stessi lavorando ad una compilation piuttosto che "sempre alla stessa cosa". Può risultare non proprio automatico mettere The Dream Syndicate e J-Dilla nella stessa frase ma io sento quell'album quando sento il nostro nuovo album.”
Se How Did I Find Myself Here, del 2017, era un album per le ore serali, tutto spacconerie ed esplosioni catartiche, questo These Times è l’album gemello per le 2 del mattino, più malinconico e variabile, con la band che si muove come fosse il dj di una trasmissione notturna, mentre l’ascoltatore si lascia andare ai sogni chiedendosi, il giorno dopo, se qualcuno di questi fosse reale.
Co-prodotto da John Agnello (Phosphorescent, Waxahatchee, The Hold Steady, Dinosaur Jr.), These Times è stato registrato ai Montrose Studio di Richmond in Virginia. Wynn ha scritto instudio i testi dei brani, dopo che la band aveva finito di registrarli, in questo modo le parole furono dettate più dai suoni che da altro. Questo processo ha contribuito all’urgenza del titolo dell’album.
These Times. Questo è tutto. È tutto ciò di cui stiamo parlando, tutto ciò a cui stiamo pensando. Non si può evitare il panico esistenziale di un mondo che sta rapidamente precipitando, evolvendosi e cambiando corso di ora in ora. Sembra falso non affrontare e riflettere le cose a cui non possiamo smettere di pensare: l'intero mondo sta proprio guardando. I testi dell’album sono solo uno specchio del terrore, del panico, della mania, della speculazione, della malinconia, alla fine ignorando l'abbandono che potrebbe seguire. È tutta questione di dove siamo."





Blackswan, martedì 26/02/2019

lunedì 25 febbraio 2019

IL MEGLIO DEL PEGGIO



"Se qualcuno pensa che si possa utilizzare la strategia giudiziaria per eliminare un avversario dalla competizione politica sappia che sta sbagliando persona. Non ho mai avuto così tanta voglia come stasera di combattere per un Paese diverso e per una giustizia giusta. Chi ha letto le carte dice che di questa storia si parlerà a lungo e che siamo davanti a una decisione assurda". 
Non evoca complotti ne' trame oscure, ma e' un Matteo Renzi colpito da berlusconite, un virus contagioso dagli effetti micidiali. L'ex premier ritorna al centro del mirino dopo il polverone scatenato dal provvedimento giudiziario che ha posto i suoi genitori agli arresti domiciliari per via dell'accusa di bancarotta fraudolenta. È tuttavia un Renzi dimezzato, pur sempre dotato di un egotismo straripante, ora più che mai voglioso di dare zampate qua e là. Ma sembra fin troppo chiaro che si tratti di un felino dalle unghia spuntate.
La persecuzione giudiziaria che a suo dire si sarebbe scatenata per colpirlo politicamente, per certi versi lo accomuna all'altra "vittima" illustre. Ma mai confondere il sacro col profano: Silvietto anche in questo, è, e rimane, il primo della classe. In quanto a vittima della giustizia, secondo l'ex Cavaliere, gli altri sono semplici dilettanti. Ubi maior, minor cessat. Dunque, Renzi si è definitivamente berlusconizzato: "Se non avessi fatto politica, i miei genitori starebbero a godersi la pensione". Si tratta di una vittima o di un caso di vittimismo condito da una certa dose di arroganza? La risposta è intuitiva: un leader giunto al crepuscolo politico che si professa perseguitato dimostra piccineria e narcisismo. E purtroppo, come spesso accade, l'ignoranza parla e l'intelligenza tace.

Cleopatra, lunedì 25/02/2019

domenica 24 febbraio 2019

SUNJEEV SAHOTA - L'ANNO DEI FUGGIASCHI (Chiarelettere, 2018)

Un anno in Inghilterra, quattro stagioni travolgenti vissute attraverso gli occhi di tre ragazzi indiani in cerca di un futuro diverso: l’Inghilterra è una promessa, il passato un peso da cui liberarsi. Dietro di loro lasciano un Paese in radicale cambiamento, sconvolto dai conflitti civili e troppo spesso governato da un codice morale pieno di pregiudizi. Costretti dalle circostanze a condividere la stessa casa di lavoratori irregolari nella città di Sheffield, sospinti dalle loro aspirazioni, dall’amore ma soprattutto dalla necessità di sopravvivere, i tre giovani affrontano una vita quotidiana spietata in cui la fuga, lo sfruttamento, il lavoro massacrante minacciano ogni giorno di privarli anche dell’ultimo briciolo di umanità. Sarà l’incontro con una giovane e misteriosa donna sikh, cresciuta a Londra e animata da un’incrollabile volontà di aiutare il prossimo, a cambiare nuovamente il corso dei loro destini. Decisa a riscattarsi da una tragedia del passato, entrerà a contatto con il mondo brutale della clandestinità, che le lascerà dentro tracce indelebili.

Sono molti i motivi per cui L’Anno dei Fuggiaschi è un romanzo consigliatissimo, a partire da una scrittura asciutta, senza fronzoli, all’apparenza distaccata, eppure sempre efficace e dolorosamente urticante. Tuttavia, la cifra estetica del libro passa in secondo piano rispetto ai contenuti e alla forza di un racconto che non è solo di estrema attualità, ma è capace di scavare a fondo su un tema sociale (quello dell’immigrazione) su cui spesso, da destra e da sinistra, si parla a sproposito e senza cognizione di causa.
Sunjeev Sahota, scrittore inglese di origine indiana, non ancora quarantenne, ha il grande merito di mantenere un’adeguata distanza dalla materia trattata, e di evitare banalizzazioni retoriche o buonismi pret a porter tanto cari a certi intellettuali da salotto.
L’Anno Dei Fuggiaschi racconta una storia di immigrazione, non molto differente da quelle che ascoltiamo in tv, tutti i giorni, all’ora del telegiornale: la fuga da un paese, l’India nello specifico, in cui le condizioni economiche sono precarie, i giovani non trovano lavoro, le disuguaglianze sociali sono abissi incolmabili, e la speranza di trovare in Occidente l’abbrivio per un futuro migliore.
La realtà, ovviamente, infrange subito tutte le speranze di questi quattro ragazzi, ognuno con una storia dolorosa alle spalle, che si ritrovano a vivere in un mondo, nel migliore dei casi, indifferente e, spesso, invece, ostile, prestandosi a ogni tipo di abiezione in nome di un unico, impellente, bisogno: sopravvivere.
Sahota, però, non si limita solo a puntare il dito contro il sistema e il mondo occidentale, ma ha il coraggio di superare facili stereotipi narrativi, concentrando lo sguardo anche sulla cultura indiana, arretrata e ferocemente razzista, incapace di superare la divisione in caste (veri e propri gruppi sociali endogamicamente chiusi, impossibilitati a comunicare fra loro), in cui la donna non ha voce in capitolo ed è solo merce di scambio per matrimoni di convenienza.
Insomma, se è vero che l’Inghilterra è terreno fertile per lo sfruttamento, se il sistema capitalistico produce sperequazioni e sofferenza, è altrettanto vero che tutti gli effetti negativi vengono amplificati dalla chiusura mentale e dall’arretratezza sociale di una cultura con cui è quasi impossibile integrarsi, se non attraverso gli elementi più marcatamente visibili e ambiti del modello occidentale: il denaro, la casa, la macchina, il lavoro sicuro.
In questo contesto di dolore, di privazioni, di lotta quotidiana per la sopravvivenza, ove tutto è lecito se serve a mettere insieme il pranzo con la cena, i veri aguzzini, la mano “armata” del sistema sono gli stessi oppressi, quegli immigrati che sono riusciti a conquistarsi una piccola agiatezza economica e non hanno scrupoli a sfruttare e angariare i propri simili, esattamente come facevano in India.
Romanzo potente, duro come un pugno allo stomaco, e pervaso, soprattutto, da un’epica della disperazione che scuote le coscienze e spinge verso un surplus di riflessione e indignazione, che il finale, vagamente consolatorio, non può e non riesce ad attenuare.

Blackswan, domenica 24/02/2019

venerdì 22 febbraio 2019

CASS MCCOMBS - TIP OF A SPHERE (Anti, 2019)

Cass McCombs riesce sempre a metterti in difficoltà, sia quando fa il disco che non ti aspetti, sia quando esce con il disco che ti aspetti, che poi, dopo pochi ascolti, ti rendi conto che è di gran lunga migliore anche di ogni più rosea aspettativa. Comunque sia, è proprio quando pensi di averlo inquadrato, che McCombs scarta dal seminato, lasciandoti completamente spiazzato. E in definitiva, è proprio questo senso di sorpresa che rende la sua musica così incredibilmente interessante.
All'ascolto iniziale, Tip Of The Sphere potrebbe suonare come il logico successore di Mangy Love (2016), il disco della maturità, o quella che potremmo definire la vetta della sua discografia. Eppure, le differenze rispetto a quel lussureggiante capolavoro, si sentono, eccome.
Tip Of The Sphere, a differenza degli altri lavori, infatti, ha avuto una genesi breve e una lavorazione molto rapida presso il Figure 8 Studio di Brooklyn; circostanza, questa, non di poco conto, perché il disco possiede un’inusuale immediatezza. Che non risiede certo nella durata delle canzoni (quasi tutte oltre i quattro minuti), ma quanto nel fluire del suono, nella scioltezza di certi arrangiamenti, nella spontaneità con cui nascono alcune derive sperimentali, fluttuanti, morbide, mai forzate.
Un aspetto immediatamente evidente nell’iniziale I Followed the River South to What, sette minuti di musica liquida e rigogliosa, che si srotola su un ripetuto arpeggio di chitarra, sorretto da un drumming sottilmente urgente e da una vaporosa linea di basso (ottimo lavoro di Dan Horne), mentre la voce di Cass forza la serratura delle emozioni, con il consueto cantato impressionistico e quei testi enigmatici, peculiari alla sua scrittura (Il potere corrompe! Sto costruendo una torre di cannella).
Se il pop rock esuberante di The Great Pixley Train Robbery è uno dei momenti più accessibili e orecchiabili del disco, Estrella si abbandona languidissima sul tessuto damascato di un blu notte intenso ed evocativo, Absentee evapora in volute quasi prog, mentre Sidewalk Bop After Suicide, passo lento e scorbutico interplay fra chitarra elettrica e sintetizzatori, apre scenari decisamente inquietanti (“Ho sanguinato, vomitato e pianto qui / E ho sognato di essere morto”).
La pedal steel avvolge di echi country le atmosfere amniotiche di Prayer For Another Day, in cui la voce di McCombs galleggia letteralmente su un ordito di chitarra acustica, mentre American Canyon Sutre getta lo sguardo sulla situazione politica degli States attraverso una lente scura e un ferale tocco di elettronica. Chiudono il disco Tying Up Loose Ends, con echi dal Van Morrison più sperimentale, e la lunga Rounder, dieci minuti di country rock che lentamente si eccita in un groove jammistico per pianoforte elettrico, pedal steeel e chitarra.
Un’ora scarsa, tanta è la durata del disco, in cui suono, arrangiamenti e produzione sono pressoché perfetti, e in cui Cass McCombs si abbandona nuovamente a quella libertà creativa che lo rende una delle figura più complesse, insolite ed enigmatiche, ma anche incredibilmente affascinanti, del panorama alternativo a stelle e strisce.

VOTO: 7,5





Blackswan, venerdì 22/02/2019

giovedì 21 febbraio 2019

PREVIEW




Don't Wait 'Til Tomorrow è il risultato di un anno di duro lavoro, anno che ha visto gli YONAKA crescere fino a diventare una delle più interessanti e seguite band del panorama rock inglese. Il nuovo album è caratterizzato dalla sfrenata energia che da sempre contraddistingue gli YONAKA. Si tratta di un album di debutto estremamente personale e traboccante di vita e caos. “Don’t Wait ‘Til Tomorrow” vede la formidabile frontwoman e compositrice Theresa Jarvis scavare nel profondo del proprio io, documentando le forti esperienze personali legate al delicato tema della salute mentale e l’affetto di chi le è sempre stato vicino. Alla durezza degli argomenti trattati si contrappongono perfette armonie che abbracciano la complessità emozionale dell’amore. L’album è stato interamente prodotto dalla band, decisione che rappresenta l’ennesima testimonianza della forte natura degli YONAKA.
“Scrivere ‘Don’t Wait ‘Til Tomorrow’ è stata un'esperienza catartica per me”, spiega Theresa Jarvis. “Abbiamo prodotto da soli l’intero album, che comprede 9 brani inediti più 3 canzoni già pubblicate in precedenza, tra le quali il secondo brano scritto insieme: ‘Awake’. Il titolo ‘Don’t Wait ‘Til Tomorrow’ è un invito a non aspettare, a fare quella telefonata, a sentire quella persona, ad assicurarsi che sia tutto ok... La title track è uno dei miei brani preferiti. Non vediamo l’ora di pubblicare l’album e speriamo che i nostri fan lo ameranno tanto quanto lo amiamo noi”.
Lo scorso agosto gli YONAKA hanno pubblicato “Teach Me To Fight” (secondo EP dopo “Heavy” del 2017) e il singolo “Fired Up” ha immediatamente catturato l’attenzione delle radio inglesi scalando velocemente le classifiche fino a raggiungerne la vetta. Alla fine del 2018 è arrivato il terzo EP “CREATURE” e la title track ha portato la band ancora una volta in cima alle classifiche.
Descritti dal The Times come “una band che si prepara a riempire le più grandi arene del mondo”, gli YONAKA hanno trascorso gran parte del 2018 on the road, concludendo l’anno in tour con Bring Me The Horizon e FEVER 333. Ora gli YONAKA si prerano a pubblicare quello che sarà uno dei più importanti album rock del 2019.





Blackswan, giovedì 21/02/2019

mercoledì 20 febbraio 2019

THE KENTUCKY HEADHUNTERS - LIVE AT THE RAMBLIN' MAN FAIR (Alligator, 2019)

Per gli amanti del southern rock, i Kentucky Headhunters sono una sorta di istituzione, un marchio di fabbrica che in trent’anni di carriera (ma sono stati attivi fin dagli anni ’70 sotto l’egida Itchy Brothers) ha tenuto la schiena dritta, mantenendo vivo con genuina coerenza un suono, onorato da undici album in studio (il loro esordio del 1989, Pickin’On Nashville gli è valso pure un Grammy) e un paio di dischi dal vivo, tra cui, appunto, questo Live At The Ramblin’ Man Fair, testimonianza del primo tour europeo, resa, nello specifico di questo concerto, in un festival tenutosi in terra d’Albione.
Line up agguerritissima, con Richard Young alla ritmica, il fratello Fred a maltrattare le pelli, Doug Phelps a randellare il basso, e Greg Martin a darci dentro con la solista e la slide, per un repertorio solidissimo, che vede in scaletta, oltre a brani originali, anche tre cover.
La prima, Big Boss Man, presa dal repertorio di Jimmy Reed, apre le danze, infiammando la platea e cavalcando tonnellate di ruvidissimi decibel, la seconda, Have You Ever Loved a Woman?, torrido blues preso in prestito da Freddie King, e, quindi, posta a chiusura del live act, la rilettura di Don’t Let Me Down dei Beatles, che sfocia in una corale e definitiva Hey Jude.
In mezzo, una scaletta di rock blues sudista e sudato, con canzoni scalpitanti, rocciose e rumorose, che danno vita a un concerto inconsistente dal punto di vista dell’imprevedibilità, ma che si gioca le carte migliori nel tiro incrociato (e infuocato) delle chitarre e in un approccio verace e sanguigno.
A chiusura del cd, tre tracce in studio, registrate nel 2003, che ripropongono il piatto forte della casa, cucinato, questa volta, con la partecipazione del grande Johnnie Johnson, leggendario pianista braccio destro di Chuck Berry, e noto, altresì, per aver suonato con tutti i migliori interpreti del genere, tra cui John Lee Hooker e Buddy Guy.
Disco potente, vibrante e ad altissimo contenuto alcolico, da ascoltare a tutto volume, mulinando un’immaginaria air guitar fino allo stremo. Per fan e appassionati.

VOTO: 7





Blackswan, mercoledì 20/02/2019

martedì 19 febbraio 2019

PREVIEW




Ci sono sempre stati molti elementi politici nella scrittura di Jay Farrar, fin da quando, ventenne, insieme al compagno di band Jeff Tweedy, con gli Uncle Tupelo, raccontava gli effetti della postindustrializzazione e gli anni reaganiani, filtrati attraverso attraverso la lente della loro educazione da blue collar, cresciuti a Belleville, Illinois. Anni dopo, con i Son Volt, Farrar ha puntato il dito anche contro l’amministrazione di George W. Bush, con Okemah And Melody of Riot, un album liberamente ispirato allo spirito di Woody Guthrie.
Farrar è ora pronto a pubblicare, a fine marzo, via Transmit Sound / Thirty Tigers, Union, uno dei suoi album più apertamente politici, di cui quattro delle tracce, non è un caso, sono state registrate al Woody Guthrie Center di Tulsa, in Oklahoma.
Il primo singolo, The 99, lo potete ascoltare qui sotto.





Blackswan, martedì 19/02/2019

lunedì 18 febbraio 2019

IL MEGLIO DEL PEGGIO




Mentre Silvietto pensa che gli italiani siano fuori di testa perché non lo votano, a Strasburgo volano torte in faccia. Capita che il premier Conte si trovi a doversi spogliare del suo proverbiale aplomb e rispedire al mittente (il liberale belga Guy Verhofstadt) l'offensivo epiteto di "burattino mosso da Salvini e Di Maio". Un episodio avvilente che da' l'immagine plastica del clima irrispettoso che ormai caratterizza la dialettica politica in generale.
Eppure tutta questa acredine nei confronti del Movimento 5 Stelle fa riflettere. Vuoi per la stampa non certo benevola, vuoi per un elettorato esigente, deluso dalla sinistra, e che ora che si è ritrovato, suo malgrado, a votare il partito fondato da Beppe Grillo. Vuoi anche per certe sortite non sempre condivisibili di Luigi Di Maio e dai suoi collaboratori dettate spesso da scarsa avvedutezza e improvvisazione. Fatto sta che in casa 5 Stelle tira un vento siberiano, soprattutto dopo la scoppola delle elezioni abruzzesi.
È di tutta evidenza che la base, la cosiddetta ala dura del movimento, guardi con una certa preoccupazione l'invincibile armata leghista. Matteo delle Felpe incassa gradimento e miete consensi come se piovesse. E si atteggia a pacificatore verso l'alleato di governo: nulla cambierà (per ora). Bontà sua, ma è di tutta evidenza che per Di Maio e compagnia, i guai non sono che all'inizio: si approssimano la votazione on line sull'autorizzazione a procedere nei confronti di Salvini sul caso Diciotti e le elezioni in Sardegna.
E se Atene piange, stavolta Sparta ride. C'è chi scende e chi, invece, prende un'altra strada. Come il sempiterno Matteo da Rignano. Renzi, lo statista incompreso, il senatore, il conferenziere, il documentarista, lo scrittore, presenta l'ultima fatica letteraria. Ritorna alla ribalta con il libro manifesto "Un'altra strada". Chi pensa sia il preludio di un partito nuovo, chi invece è più attendista. Di certo c'è l'antipatia innata di un uomo incline solo a una autoreferenzialita' senza eguali. "Sono stato dipinto spesso come un uomo non avvezzo a fare autocritica, una sorta di Arthur Fonzarelli di Happy Days, incapace di proferire le parole 'mi sono sbagliato' ". È il solito Renzi, un film già visto con una interpretazione manieristica nemmeno degna di un premio David di Donatello.

Cleopatra, lunedì 18/02/2019