Ci
sono artisti o band che hanno mantenuto nel tempo una costante caratura
qualitativa di ottimo livello, tanto che, a ogni nuova uscita, le
aspettative sono altissime e ci si attende, sempre, l’ennesimo
capolavoro.
Sono
andato a rileggermi tutto quello che in questi anni ho scritto a
proposito della Tedeschi Trucks Band, e mi sono accorto di aver usato
solo termini lusinghieri e, ne sono convinto, mai a torto. Per dire,
l’ultimo capitolo della loro discografia, Live From The Fox Oakland del 2017, era talmente bello da produrre, in alcuni passaggi, la sensazione di vivere un’esperienza mistica.
Così
è davvero difficile scrivere questa recensione, accantonando il
trasporto del fan, e ponendo l’accento, per la prima volta, su qualche
difetto riscontrato durante i numerosi ascolti di un disco che, a essere
sinceri, non sarà all’altezza dei precedenti episodi, ma che resta
comunque, sempre, una tacca superiore alla media delle uscite
discografiche del periodo.
Forse
è solo un problema del sottoscritto, e quindi questo appunto suonerà
marginale e inconsistente alle orecchie di molti ascoltatori; tuttavia,
se è vero che i coniugi Trucks hanno sempre lavorato di cesello, ponendo
molta attenzione alla produzione e parlando un linguaggio forbito (un
termine di paragone in tal senso potrebbe essere il pigmalione fra Joe
Bonamassa e Beth Hart, votati a un suono decisamente più mainstream), in
Signs la costruzione delle canzoni risulta un po' troppo
artificiosa. Si perde, cioè, quel senso di strumenti sbrigliati,
quell’immediatezza da jam band che aveva caratterizzato tutti i
precedenti lavori. Un aspetto non da poco, perché il disco subisce una
sorta di “normalizzazione”. Un po' come in quella sequenza de
Il Postino, in cui Neruda dice che se la spieghi, la poesia, diventa
banale. Ovviamente, non c’è nulla di banale, in Signs, ma il flusso
delle emozioni è però incanalato, meno dirompente, direi più
prevedibile.
Un
disco orientato verso la ballata, decisamente più soul dei precedenti,
formalmente elegante ma concettualmente meno elusivo, che vive
soprattutto in una grande performance di Susan Tedeschi, la cui voce al
caramello non è mai stata così incisiva. La chitarra di Derek Trucks si
sente, eccome; ma veste un ruolo da deuteragonista, non è marginale, ma è
meno presente. Ciò non toglie che, quando entra in scena, regali
momenti di classe pura, assoli più icastici, forse, ma perfettamente
centrati, per tecnica e fantasia. In tal senso, Still Your Mind,
uno dei momenti più emozionanti del disco, è paradigmatica: incipit di
pianoforte, Tedeschi spettacolare nell’inseguire una melodia obliqua,
che deflagra poi quando entra la chitarra di Trucks: assolo rumoroso,
verace e in crescendo, in un alternarsi di note distorte e pulite, che
lentamente affievoliscono in una chiosa dagli umori quasi progressive (Dancing With The Moonlight Knight dei Genesis è proprio dietro l’angolo).
In
un disco in cui, come si diceva, l’eleganza formale è predominante e si
fa sostanza, non mancano però canzoni di grande impatto. Strenghten What Remains,
forse l’episodio più zuccherino del lotto, viene illuminata da poche
note di flauto cesellate da mano divina (e peccato per l’altra mano che
aggiunge inopinatamente uno sdolcinato arrangiamento d’archi), Walk Through This Life, rimica funky, cantato soul, arrangiamento jazzy è un colpo che riesce solo agli autentici fuoriclasse, e All The World,
ballata soul nella quale si insinua leggero un refolo di malinconia,
riesce a centrare il bersaglio grosso, quello vicino al cuore.
In definitiva, Signs
non è un brutto disco (non fosse altro perché suonato da Dio), ma
soffre per un eccessivo lavoro di sovrascrittura, che se da un lato
garantisce un suono rigoglioso e rotondo, per converso toglie
brillantezza e veracità a composizioni che, con una mano meno pesante,
avrebbero avuto una resa sicuramente migliore.
VOTO: 6,5
Blackswan, mercoledì 27/02/2019
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