mercoledì 30 giugno 2021

PREVIEW

 


STEVE GUNN annuncia il nuovo album OTHER YOU, in uscita il 27 agosto su Matador. Other You è il sesto album del cantautore americano originario della Pennsylvania.
L'album è stato registrato durante due viaggi a Los Angeles verso la fine del 2020 e l'inizio del 2021 con il produttore Rob Schnapf (Beck, Elliott Smith, Cass McCombs, Kurt Vile) presso i Mant Studios di sua proprietà e con il musicista, nonchè amico di lunga data e collaboratore, Justin Tripp.

 

 

 

Blackswan, mercoledì 30/06/2021

 

martedì 29 giugno 2021

GARY MOORE - HOW BLUE CAN YOU GET (Provogue, 2021)

 


Se n’è andato troppo presto, Gary Moore, ucciso a soli 58 anni da uno di quegli eccessi alcolici che hanno spesso caratterizzato la sua, ahimè, troppo breve esistenza. Il suo lascito, però, è stato importante, sia in termini quantitativi (una corposa discografia solista e la militanza in band come Thin Lizzy, Skid Row, Colosseum II) che qualitativi (pochi al mondo erano in grado di suonare (e far piangere) una Les Paul come lui).  

Dopo la pubblicazione di alcuni dischi live postumi (l’ultimo, Live In London dello scorso anno), a dieci anni dalla sua scomparsa, gli archivi del nordirlandese sono stati finalmente aperti per assemblare una nuova uscita che, sebbene contenga alcuni momenti davvero notevoli, suggerisce che di materiale ancora inedito ce ne sia poco e che quello presente non sia proprio di qualità eccelsa. Strano, perchè Moore, per quanto prematuramente scomparso, ha vissuto intensamente oltre quarant’anni di carriera: dal jazz prog-rock di Colosseum II al suo periodo nei Thin Lizzy, per non parlare poi di tanti dischi solisti in cui il chitarrista ha spaziato dall’hard rock al rock celtico, per diventare infine un alfiere del rock blues, grazie al suo tocco ferocemente appassionato, timbricamente stupendo, magistralmente articolato e tecnicamente impeccabile.

How Blue Can You Get si concentra proprio sulla produzione blues di Moore, raccogliendo in quarantacinque minuti otto tracce di originali inediti, cover e alternative takes. Il disco prende il via con una doppietta mozzafiato: la reinterpretazione ad alto numero di ottani di I'm Tore Down di Freddie King, seguita da un’altra vigorosa cover di Steppin’ Out di Memphis Slim. E’ un po' un cliché dire che un chitarrista fa cantare il proprio strumento, ma queste tracce dimostrano che la sua capacità di comunicare attraverso le dita era veramente di un altro pianeta. Ciò è particolarmente evidente anche in Love Can Make A Fool Of You, una ballata risalente all'epoca di Corridors of Power (1982), in cui il chitarrista irlandese oltre al formidabile tocco esprime al meglio tutto quel pathos emotivo che spesso caratterizzava le sue migliori performance.

Sebbene siano i momenti maggiormente attrattivi del disco, i due originali inediti abbassano, purtroppo, il livello della scaletta. In My Dreams suona come la replica delle malinconiche e agrodolci Still Got The Blues e Parisienne Walkways, con cui condivide lo stesso lick di chitarra: se quei due brani non fossero esistiti, staremmo probabilmente scrivendo di una grande canzone e non invece del parente povero di due dei momenti più significativi della carriera di Moore. L’altro inedito, Looking At Your Picture, nonostante il mood che evoca il sound del Delta, non va assolutamente da nessuna parte e suona più come un abbozzo, un work in proggress da rifinire. La stessa sensazione si ha anche con Done Somebody Wrong di Elmore James, e la title track, che appaiono prive di corpo, come fossero figlie di sessioni di prova e non invece frutto finale di un accurato lavoro di produzione.

In definitiva, vista la quantità di terreno musicale che Moore ha calpestato in vita e tenuto conto che questa è la sua prima pubblicazione d'archivio non live, How Blue Can You Get non rappresenta certo un tesoro imperdibile di gemme nascoste, ma semmai una curiosità per fan irriducibili. Se, invece, non conoscete Moore, questo non è certo il modo migliore per accostarsi a un formidabile chitarrista, di cui, converrebbe semmai, recuperare il meglio della sua ampia discografia.

VOTO: 6,5

 


 

Blackswan, martedì 29/06/2021 

lunedì 28 giugno 2021

DIRTY HONEY - DIRTY HONEY (Dirt Records, 2021)

 


Oggi, ascoltare classic rock è il gesto più anticonvenzionale che esista. Basta dare una rapida occhiata ai social per capire quanto questa musica sia oggetto di sberleffi, quanto gli appassionati del genere siano tacciati di passatismo, vecchi ruderi che vivono nei ricordi di una musica obsoleta, slegata al presente e ispirata a icone ormai svuotate di significato. Ed è strano, poi, vedere coloro che dovrebbero difendere, con le unghie e coi denti, la musica che amano, indossare i panni di spietati detrattori di giovani band (vedi Greta Van Fleet) che cercano di emulare, e a volte ci riescono pure, le gesta di quei gruppi che hanno scritto la storia (e la leggenda) del rock.

Eppure, nonostante tutto, ci sono ancora gruppi che tengono viva questa musica, che, indifferenti alle mode, con vibrante passione, continuano ad attizzare un fuoco che altrimenti si sarebbe spento da anni. Originari di Los Angeles, i Dirty Honey esordiscono con un disco prodotto e mixato da Nick Didia (Rage Against The Machine, Bruce Springsteen, Stone Temple Pilots, etc) e così classico che più classico non si può. Sono giovani e ancora devono conquistare quella visibilità che, ad ascoltare le otto canzoni in scaletta, già meriterebbero; nel frattempo, in attesa dei giorni di gloria, danno alle stampe questo primo full length, assai spartano, sia nella forma (la confezione minimal e priva di libretto, la durata stringata) che nella sostanza (gli arrangiamenti asciutti, l'approccio grezzo e senza artifici) ma già indicativo di una caratura più che discreta. Il suono, come accennato, guarda al passato e in scaletta i deja vù si sprecano.

L’opener California Dreaming, trainata dal cantato graffiante di Marc Labelle, si spinge in territori cari ai Led Zeppelin, ma con un retrogusto più americano che rimanda ai Black Crowes. Derivativi, si, ma con stile: The Wire possiede un groove pazzesco, così come il nuovo singolo Tired Up, che sembra uscito da un disco degli Aerosmith. Il tutto, però, suonato con un attitudine festaiola e un approccio meno serioso di quello, ad esempio, dei Greta Van Fleet. La sensazione, pertanto, è di autenticità e freschezza, e di un’energia tracimante, che esplode nel riff sporco e martellante di Take My Hand, nella derapata fulminante di Gypsy o nell’ennesima citazione Black Crowes della cazzutissima No Warning.

Chiudono il disco due gioiellini che esaltano nuovamente le doti di Labelle: The Morning, la cui spina dorsale è Ac/Dc al 100%, e Another Last Time, virile ballatona in quota Rolling Stones e metronomo di una band che cita tanto, ma che sa gestire con classe e passione un repertorio altrimenti prevedibile.

I Dirty Honey non sono solo l'ultimo di una lunga serie di gruppi rock ispirati agli anni '70, sono semmai una band che esprime molto più della somma delle evidenti influenze a cui si ispira e che possiede come punto di forza la voce straordinaria di Marc Labelle, capace di trasformare queste belle canzoni in futuri grandi classici di genere. Se il buongiorno si vede dal mattino, sarà una splendida giornata di sole. Rock on!

VOTO: 7,5

 


 

Blackswan, lunedì 28/06/2021

venerdì 25 giugno 2021

LOVE IS A LOSING GAME - AMY WINEHOUSE (Island, 2006)

 


27 anni. I maledetti 27 anni di Kurt Cobain, Jim Morrison, Janis Joplin. I maledetti 27 anni di Amy Winehouse, cometa capace di incendiare nella notte il cuore di chiunque abbia avuto la fortuna di ascoltare la sua voce, un bagliore di luce tanto fugace quanto luminoso e accecante, un bagliore nell’infinitezza dell’universo.

Alle 15:53 del 23 luglio 2011, Amy Winehouse viene trovata morta nel letto di casa sua al numero 30 di Camden Square. Non si conoscono le cause della morte, l’autopsia ha escluso la presenza di sostanze stupefacenti, confermando invece l’assunzione di alcool, ma non in un quantitativo tale da giustificare il decesso.  Alcool e droga. Sono questi i più fedeli compagni di vita della piccola Amy, un talento immenso nel corpo di una donna fragile, incapace di gestire la propria vita, debole e remissiva di fronte ai fantasmi del proprio dolore, indifesa agli occhi dei lupi voraci che la circondavano e che le hanno portato via quell’esuberanza e quella felicità che, sempre, dovrebbe essere il motore esistenziale di una giovane ragazza.

Amy muore da sola, minata dalla dipendenza, logorata dall’insensibilità altrui e soffocata da una richiesta d’amore che nessuno vuole o può ascoltare. La sua breve vita è stata una battaglia da cui è uscita sconfitta, senza appello, e quel cuore grande, lo stesso che, una volta, la spinse a gettarsi in mare per salvare la vita di una donna travolta dalle onde, ha smesso di battere, non a causa di quei fedeli compagni, alcool e droga, ma per troppo dolore.

I rapporti burrascosi con il produttore Mark Ronson, che si vantò di essere lui l’artefice del successo di Back To Black, quelli con il padre padrone Mitch, che pubblica Amy, My Daugter, sfruttando la morte della figlia a corpo ancora caldo, quelli con il proprio corpo (la bulimia e la chirurgia estetica) e quelli, infine, con l’amato ex marito Blake Fielder-Civil, compagno di sbronze e di sballi, che non ha saputo amare e proteggere quella ragazza tanto dolce quanto infelice, che non riusciva a dimenticarlo ("Amo ancora Blake ed ho voglia di vivere con lui nella mia nuova casa. Non gli permetterò di divorziare da me, lui è la versione maschile di me siamo fatti l'uno per l'altra”), hanno segnato una traiettoria esiziale.

L’amore salva la vita, ma Amy non si sentiva amata ed è morta. Perché l’amore è un gioco a perdere: divampa come un incendio, ti fa sentire onnipotente, ma prima o poi svanisce, portando via il senso di tutto, la speranza e lo sguardo rivolto al futuro. “Per te ero una fiamma, un fuoco alto cinque piani, mentre arrivavi” canta Amy, con quell’incredibile voce da nera, che raggrumava un gusto agrodolce di tormento, whisky e passione.

L’amore, però, è un fiamma che divampa nelle intemperie, arde, riscalda, ma può spegnersi in un attimo: “L’amore è un gioco a perdere, uno che vorrei non aver mai giocato, che casino abbiamo combinato, E ora, il fotogramma finale. L'amore è un gioco a perdere.”Si può lottare per amore, anche se sai che il destino è segnato, che il giocatore d’azzardo che hai di fronte (Know you're a gambling man) bara e non ti lascia speranza:” Anche se combatto alla cieca, l'amore è un destino rassegnato, i ricordi mi rovinano la mente, l’amore è un destino rassegnato, oltre le probabilità inutili e deriso dagli dei”.

Amy muore con questa certezza nel cuore: di aver dato tutto, quando ormai tutto era inutile, di aver dedicato tutta se stessa a chi non ne voleva più sapere, e di essere sola, vittima di una fato crudele e derisa dagli dei. 

Meraviglia in un disco di meraviglie (Rehab, You Know I’m Not Good, Back To Black, tra le altre), Love Is a Losing Game fu il quinto singolo estratto dal celebrato Back To Black, ma nonostante la bellezza del brano è stato quello che ha venduto meno nella carriera della Winehouse, arrivando solo alla piazza 33 delle charts britanniche. Un riconoscimento postumo alla caratura, musicale e poetica, della canzone arrivò, comunque, nel 2008, quando, a un corso di letteratura dell’Università di Cambridge, le liriche del brano vennero studiate per trovare similitudini con i poemi di Sir Walter Releigh, figura storica e letteraria inglese di primissimo piano. 

Amy se n’è andata troppo presto, ma ha lasciato due dischi, che sono tra le pagine più intense del pop soul del nuovo millennio, creando schiere di artiste che hanno cercato di replicare il suo approccio unico e inimitabile. Perché Amy ha cantato esattamente come ha vissuto: strafatta di alcool e di passione, senza filtri e protezioni, camminando sulla corda tesa di un’esistenza ostile, raccontando l’animo femminile nel modo sincero, acuto e profondo di chi paga il proprio immenso talento giocando, con coraggio, un gioco pericoloso e dall’esito scontato. L’amore, se c’è, salva la vita, se non c’è, rende l’arte eterna. Piccola, grande Amy.

 


 

Blackswan, venerdì 25/06/2021

mercoledì 23 giugno 2021

GARBAGE - NO GODS NO MASTERS (Stunvolume-Infectious Music, 2021)

 


Verso la fine dell’Ottocento, il rivoluzionario socialista francese Louis Auguste Blanqui coniò il termine "ni dieu ni maître" - né dio né padrone - per descrivere il nuovo ordine mondiale che immaginava. Da allora, quella frase è stata fatta propria da punk, anarchici e femministe per descrivere la protesta e la frustrazione globale verso le leggi che consentono l'ingiustizia sistemica nella società occidentale. Sebbene sia diventata una dichiarazione passé, il genere di cose che potresti trovare graffitata nel bagno di un locale, la frase ancora oggi connota molteplici ideologie, presentandosi come esplicito slogan di lotta al sistema e militanza politica.

E’ davvero sorprendente, quindi, che i Garbage abbiano intitolato il loro nuovo album, il primo in cinque anni, No Gods No Masters. La storia ha, infatti, dimostrato che molti dei nostri eroi musicali (vengono in mente come Billy Corgan, Morrissey e Sex Pistols) che hanno fatto carriera predicando il pensiero radicale, spesso si sono contraddetti nel privato, assumendo posizioni bigotte e reazionarie, ben difficilmente condivisibili da chi, nella loro musica, aveva trovato ragionamenti politici da sposare e fare propri.

Shirley Manson, però, non ha tradito il proprio credo: vera icona gay, sostenitrice di lunga data della comunità queer, la cantante dei Garbage si è sempre schierata, restando coerente e seria, nonostante la sua immagine pungente e trasgressiva (in tal senso, impossibile dimenticare brani come Queer e Push It).

E’ per questo che, se oggi ammettere apertamente che il proprio album è ispirato dai movimenti BLM e MeToo rischia di trasformarsi in una china scivolosa che conduce all’autoreferenzialità e all’annacquamento dei contenuti politici, No Gods No Masters palesa invece una forza e un'onestà difficili da negare, anche quando si poggia ai più tipici tropi della musica di protesta.

L'opener The Men Who Rule The World inizia con il suono vorticoso di una slot machine, che lascia il posto a una traccia synth-pop, in cui le crudeli realtà della misoginia, del capitalismo e del fondamentalismo sono legate in una narrazione tanto semplificata quanto efficace. Certo, una cantante che sussurra "soldi, soldi, soldi" non sta esattamente percorrendo un terreno di novità rivoluzionarie, ma la Manson risulta credibile e non banale, si percepisce che è fermamente convinta di ciò che sta cantando.

Tutto il disco funziona decisamente bene, in equilibrio fra elettronica e un rock cupo e ansiogeno, tra modernità ed echi di un passato, qui tirato a lucido, ad esempio, nel singolo Wolves, che ricorda i Garbage più vintage, o nel beat minaccioso e sensuale della splendida Godhead (canzone, questa, che farà saltare in piedi i fan dei Depeche Mode). Se Anonymous XXX, stranamente infusa di sonorità calypso e incentrata sulle gioie del sesso occasionale, è una rinfrescante tregua dal pesante contenuto dei testi del resto dell'album, il cuore della scaletta è l’inquietante A Woman Destroyed, notturna deriva industrial dai contorni filmici e apocalittici, che racconta la vendetta di una donna che ha subito un torto dal suo amante.  

Nel complesso, No Gods No Masters si legge come un album sulle profonde frustrazioni che derivano dalla nostra società: è intenso, cupo, profondo, anche se in alcuni momenti, come nell’omaggio eighties di Flipping The Bird, riesce a suonare quasi leggero e arioso.

Ciò che eleva il disco dalla media, che lo rende credibile nei suoi intenti politici, non sono solo le belle canzoni (qui ce ne sono parecchie) ma la palpabile emotività e il surplus di sincerità che permea musica e testi. Non dichiarazioni vuote e vuoti slogan, ma uno sguardo irriverente e un caustico j’accuse nei confronti di una società eticamente avvizzita e irrimediabilmente in caduta libera. Brava Shirley!

VOTO: 8

 


 

 

Blackswan, mercoledì 23/06/2021

 

martedì 22 giugno 2021

SILVER LAKE BY ESA HOLOPAINEN - SILVER LAKE BY ESA HOLOPAINEN (Nuclear Blast, 2021)

 


Durante i giorni incerti e bui della pandemia, il chitarrista Esa Holopainen ha sfruttato il periodo di inattività per portare a termine quell’album solista che presumibilmente era in lavorazione da alcuni anni. E’ stato necessario il lockdown, per allontanarsi dalla casa madre Amorphis, raccogliere tante idee sparse nel tempo e farle confluire sotto il moniker di Silver Lake by Esa holopainen, grazie anche all’aiuto di alcuni colleghi di livello provenienti dalla scena del metal scandinavo.

Se, nel corso degli anni, gli Amorphis sono riusciti a creare un suono immediatamente riconoscibile in quello che potremmo definire death metal melodico, la domanda che sorge spontanea è quale direzione abbia preso Esa con questo lavoro solista. La risposta è quella di un eclettico mix di passaggi acustici e riff da batticuore, in cui confluiscono più elementi che vanno dal folk al pop, dal metal al progressive. Il risultato è più che buono, anche se alla fine il disco soffre un po' a causa della mancanza di una direzione precisa.

La strumentale title track apre il disco tra corde pizzicate e avvolgenti tastiere, come una danza delicata, un librarsi arioso che evoca reminiscenza prog e che si gonfia di vento in un crescendo maestoso. La successiva Sentiment vede alla voce Jonas Renkse (Katatonia) il cui timbro sensuale (che tornerà nella conclusiva Apprentice) fa da collante fra la band di provenienza e le tessiture progressive immaginate da Esa. Con Storm la scaletta prende una direzione inaspettata con un brano pompato, in cui l’enfasi pop delle strofe confluisce in uno ritornello trascinante e orecchiabilissimo. La successiva Ray Of Light si muove per la stessa strada segnata dalle influenze pop di Esa. Qui, alla voce troviamo Einar Solberg dei Leprous, il cui timbro divinamente acuto spinge verso il cielo un irresistibile ritornello, di quelli che è praticamente impossibile levarsi dalla testa.

Due canzoni davvero inusuali rispetto a ciò che ci si sarebbe potuto aspettare dal chitarrista degli Amorphis e che probabilmente suoneranno “stonate” alle orecchie dei fan della band finlandese. I quali, però, troveranno in scaletta anche momenti più congeniali al proprio gusto: In Her Solitude, che presenta proprio Tomi Joutsen alla voce (pulita e growl) è assolutamente in linea con l’ultima produzione folk metal degli Amorphis, mentre Bjorn "Speed" Strid dei Soilwork si cimenta nella tiratissima (ma melodica), Promising Sun.

Se, da un lato, è ammirevole l’intento di Esa di uscire dalla comfort zone, come a voler dimostrare che può esserci vita ben oltre la casa madre, dall’altro, è inevitabile qualche momento meno centrato e poco a fuoco. Nulla d’imbarazzante, per carità, ma Fading Moon, che sfoggia il cantato della sempre brillante Anneke Van Giersbergen, è un brano un po' troppo prevedibile per brillare di luce propria, e Alkusointu, su cui si srotola lo spoken ipnotico dell’attore finlandese Vesa-Matti Loiri, suona come un fiacco riempitivo.

Nel complesso, però, Silver Lake è un progetto encomiabile, che tiene bene per tutti quaranta minuti di durata, senza, tuttavia, essere particolarmente rivoluzionario. La produzione è, comunque, impeccabile, le ospitate vocali perfettamente in sintonia con le canzoni e il lavoro di Esa alla chitarra è semplicemente stellare. Tanto basta per consigliarlo ai fan degli Amorphis ma anche a coloro che amano i suoni estremi mitigati dalla melodia.

VOTO: 7 




Blackswan, martedì 22/06/2021

lunedì 21 giugno 2021

JAVIER CERCAS - INDIPENDENZA (Guanda, 2021)

 


Come smascherare coloro che esercitano il potere nell'ombra? Come vendicarsi di chi ti ha inferto le ferite più sanguinose e umilianti? Ritroviamo in questo nuovo romanzo Melchor Marín, il poliziotto appassionato di libri protagonista di Terra Alta. Ad alcuni anni di distanza dalla morte dell'amatissima moglie Olga, torna insieme alla figlia Cosette nella sua Barcellona, dove dovrà affrontare l'indagine più spinosa e difficile: qualcuno infatti tiene sotto ricatto la sindaca della città, utilizzando un video hard che risale a molto tempo prima. Ancora segnato dal profondo dolore per non aver trovato gli assassini di sua madre, ma sempre guidato dalla sua rigorosa integrità morale, Melchor dovrà capire se il ricatto faccia parte di un progetto più articolato di destabilizzazione politica. E questo lo costringerà a entrare nelle stanze del potere, dove regnano il cinismo, l'ambizione sfrenata e la corruzione.

Dopo una serie fortunatissima di saggi romanzati, che hanno portato Javier Cercas ad essere una delle penne spagnole più seguite anche a livello internazionale, lo scrittore originario di Ibahernando ha virato verso il genere thriller, pubblicando lo scorso anno l'acclamato Terra Alta.

Indipendenza ne è l'ideale seguito, anche se in questo caso il contesto non è più quello della Catalogna rurale ma quello della capitale, Barcellona. Qui, la sindaca in carica viene ricattata da sconosciuti che minacciano di rendere pubblico un vecchio video hard che la vede coinvolta, a meno che non paghi una forte somma di denaro e non si dimetta dalla carica. Melchor, viene chiamato a collaborare alle indagini, che, si scoprirà a breve, coinvolgono la Barcellona bene e
conducono a torbidi episodi risalenti a un lontano passato.

Se Terra Alta si concentrava maggiormente sulla trama gialla, rispecchiando alla perfezione le caratteristiche del genere, Indipendenza allarga la visuale e, immaginando un epoca post covid di qualche anno avanti nel futuro, si sofferma sullo scenario politico e sociale di un paese, la Catalogna, allo sbando etico e vittima della sete di potere di una classe dirigente corrotta.

La narrazione, inoltre, riannoda i fili della vita di Melchor (l’omicidio della madre, il rapporto con l’amico Vivales) e trasforma il romanzo precedente in un evento reale nella finzione di quello presente, tutti elementi, questi, che rendono la lettura più coinvolgente e lo svolgimento meno prevedibile. Se, tuttavia, l'intreccio narrativo funziona a meraviglia, denotando l'abilità di Cercas nel muoversi anche al di fuori della propria comfort zone, il finale un po' troppo frettoloso, lascia un po' di amaro in bocca, almeno per gli amanti del thriller. Il quale, alla fine dei conti, risulta essere solo un pretesto con cui lo scrittore spagnolo indaga sul tessuto sociale della sua terra d’adozione, riflettendo sui moti indipendentisti (richiamati dal titolo) e sulla morte degli ideali in politica. Un libro, quindi, che resta sospeso a metà, come forse nelle intenzioni del suo autore, e che, pur rimanendo piacevolissimo, non convince fino in fondo.

Blackswan, lunedì 21/06/2021

 

venerdì 18 giugno 2021

PASSENGER - SONGS FOR THE DRUNK AND BROKEN HEARTED (Black Crow Records, 2021)

 


Nel 2013, il singolo Let Her Go fece conoscere al mondo il fenomeno folk pop di Passenger (pseudonimo di Michael David Rosenberg), un artista che, da quel momento in avanti, non ha mai smesso di stare nelle parti alte delle classifiche inglesi (e non solo). Successo raggiunto anche con quest’ultimo Songs For The Drunk And Broken Hearted, album uscito a inizio 2021 (anche se era stato programmato per il 2020) e nobilitato da fini benefici: tutti i profitti del disco, infatti, sono stati devoluti all'Ecologi e all'Eden Reforestation Project, un'organizzazione senza scopo di lucro che lavora nei paesi in via di sviluppo per ricostruire i paesaggi naturali distrutti dalla deforestazione. A prescindere da questi meritevoli intenti, il disco palesa immediatamente i suoi contenuti a partire dal titolo, in tal senso assai esplicito: cuori spezzati, sbronze per lenire il dolore, la difficoltà di affrontare la vita e i suoi problemi.

Apre il disco Sword From The Stone, canzone che riflette sui rapporti del songwriter con un amore del passato e con la sua famiglia. Un opener agrodolce, specchio della poetica di Passenger, a cui si allinea il resto dell'album, in cui morbidi, orecchiabili e malinconici accompagnamenti per pianoforte e chitarra fanno da sfondo a liriche cariche di intimismo e tristezza.

L’esposizione è semplice, diretta, forse fin troppo esplicita, e le storie raccontate hanno il dono della chiarezza e dell’universalità, perché possono essere condivise dall’ascoltatore. Non siamo di fronte a canzoni memorabili, di quelle che si fanno ricordare nel tempo, ma Passenger ha l’indubbia qualità di saperle rendere credibili, grazie a una schietta sincerità che aggiunge colore alle emozioni.

Il ragazzo, piaccia o no, possiede un proprio stile, a cui è da sempre fedele con invidiabile coerenza. Un tratto, questo, che se da un lato può essere definito meritevole, dall’altro, rende la proposta assai prevedibile e ripetitiva. Fortunatamente, la noia abita altrove, il suono è ben rodato e il songwriting capace di qualche guizzo emotivo che tiene a galla la barca: Suzanne è una canzone d'amore davvero struggente così come London In The Spring sa toccare le corde della malinconia, raccontandoci che si può trovare bellezza e felicità anche nelle cose più piccole, e Sandstorm, il brano più lungo del lotto, apre alle atmosfere umbratili di un cupa riflessione interiore sul fallimento.

Songs For The Drunk And Broken Hearted non è certo uno di quei dischi che cambiano il corso degli eventi e che entrerà nelle classifiche di fine anno. Tuttavia, possiede il fascino di un prodotto artigianale confezionato con cura e onestà, oltre a quella giusta dose di empatia, che rende indissolubile il legame dell’artista coi propri fan.

VOTO: 6,5

 

 

Blackswan, venerdì 18/06/2021
 

mercoledì 16 giugno 2021

THE PERSUADERS! - JOHN BARRY (CBS, 1971)

 


C’era un tempo, i più giovani di voi stenteranno a crederlo, in cui non esistevano cellulari, computer, giochi elettronici e pay tv. Non esistevano nemmeno Mediaset, La7, Dazn, Prime, Netfix e Sky, e i canali televisivi si contavano sulla punta delle dita della mano di un monco: Rai1, Rai2 e la Svizzera Italiana (solo successivamente si aggiunsero Rai3 e Capodistria). Il palinsesto era quantitativamente modesto, ma la qualità della programmazione era decisamente di ottimo livello. Poche cose, ma di spessore. L’unicità dell’evento e la programmazione diluita nel tempo, poi, creavano ricordi indelebili e contribuivano fattivamente alla formazione di un giovane, cosa che oggi non avviene, considerate l’inflazione della proposta, il martellamento mediatico e la velocità (e voracità) del consumo. Quante serie tv sono in programmazione, oggi? Così tante, che a volerle vedere tutte non basterebbero una decina di vite. Di quante ci ricordiamo qualche mese dopo la messa in onda? Di poche, quasi nessuna, oserei dire. E non perché sono brutte (alcune sono decisamente avvincenti), semplicemente perché sono troppe.

Un tempo, le serie tv si chiamavano telefilm, e prima degli anni ’80, decennio in cui prese piede la televisione commerciale, erano un appuntamento circoscritto ad orari prestabiliti. Rai, ore 19.20 tutti i giorni e, poi, un diverso palinsesto la domenica, quando, ad esempio, andava in onda l’irrinunciabile appuntamento con Attenti A Quei Due (era il 1974). La serie, interpretata da due star del cinema internazionali del livello di Tony Curtis e Roger Moore, era il più classico dei polizieschi per famiglie: nessun efferato omicidio, nessuna scena grandguignolesca, nessun genio della scientifica che risolve il caso analizzando peli pubici, ma scazzottate, inseguimenti, qualche, vagamente allusiva, chiappa al vento e soprattutto molto humor.

I protagonisti erano il nobile inglese Brett Sinclair (interpretato dallo 007 Roger Moore), raffinato, colto, elegante e dotato di britannico aplomb, e il ricco self made man americano Danny Wilde (uno strepitoso Tony Curtis), che al contrario del suo partner era estroverso, caciarone, rissoso e un po’ grezzo. La trama gialla, in realtà, era solo un pretesto, e il telefilm si reggeva soprattutto sull’interazione/contrapposizione tra Wilde e Sinclair, i cui antitetici caratteri, il diverso ceto sociale di provenienza e gli opposti stili di vita erano sempre motivo di scanzonato antagonismo e gustosi siparietti.

Tutti quelli che hanno seguito con passione il telefilm (che oggi potreste trovare su qualche canale dedicato alla nostalgia di quegli anni), non avranno dimenticato, e come mai potrebbero?, la leggendaria sigla iniziale: le foto di Roger Moore e Tony Curtis che scorrono affiancate una all’altra a riassumere i momenti salienti delle reciproche esistenze, sulle note malinconiche di The Persuaders, composizione a firma di John Barry. Un nome, questo, che, se non siete addetti ai lavori, vi dirà poco, salvo poi scoprire che lo straordinario compositore britannico (ci ha lasciati dieci anni fa), oltre a The Persuaders, compose anche la musica per dodici film della serie di James Bond e vinse ben cinque Oscar per le migliori colonne sonore: due nel 1967 per Nata Libera, uno nel 1969 per Il Leone D’Inverno, uno nel 1986 per La Mia Africa e uno, l’ultimo, nel 1991, per Balla Coi Lupi.

Scritta da Barry nel 1971, The Persuaders venne registrata utilizzando il Moog, sistema di sintetizzatori molto in voga in quel periodo (chiedere a Emerson Lake & Palmer per conferma), e il Cimbalon, strumento musicale a corde battute o pizzicate, originario dell’Ungheria. Una strumentazione anomale per una canzone che fu un singolo di successo in molti paesi europei (tra cui Francia, Germania e Paesi Bassi), contribuendo allo status di culto della serie in Europa. Una curiosità: il lato B del 45 giri conteneva un’altra canzone di Barry, The Girl with the Sun in Her Hair, un altro brano strumentale, che venne utilizzato come jingle per lo spot televisivo dello shampoo Sunsilk.

 


 

 

Blackswan, mercoledì 16/06/2021

martedì 15 giugno 2021

WOLF ALICE - BLUE WEEKEND (Dirty Hit, 2021)

 


Dai lontani esordi come duo fino a questo nuovo Blue Weekend, la strada intrapresa dai Wolf Alice li ha portati a una sempre crescente consapevolezza artistica, con cui si sono conquistati, disco dopo disco, la stima della critica e l’affetto dei fan. Il loro album di debutto del 2015 My Love Is Cool era salito al secondo posto nelle classifiche degli album del Regno Unito, così come il loro secondo album Visions of a Life, che ha anche vinto lo Hyundai Mercury Prize del 2018. Un carriera relativamente breve (la band è in circolazione da un decennio) ma ricca di successi che hanno alimentato un notevole hype, anche oggi, nonostante quattro anni di silenzio, decisamente in crescita.

Inevitabile, quindi, che le aspettative per il loro ultimo album, Blue Weekend, fossero particolarmente alte e spinte, soprattutto, dalla curiosità di vedere se il buon lavoro fatto fino ad ora confermasse il loro status di una delle migliori band britanniche oggi in circolazione.

Per lavorare al disco, la band si è trasferita in un Airbnb nel Somerset, luogo in cui Ellie Rowsell (voce), Joff Oddie (chitarra), Theo Ellis (basso) and Joel Amey (batteria), hanno riacceso i motori di una macchina ferma da troppo tempo e si sono messi al lavoro su una serie di vecchi demo, che sono stati il punto di partenza per le nuove composizioni.

Il risultato, ancora una volta, è ottimo. I Wolf Alice non hanno mai avuto paura di mescolare i generi all’interno della stessa scaletta (dal pop al punk, dall'indie rock al folk), ma in Blue Weekend lo fanno con un'audacia che dimostra un controllo totale sul suono, che ondeggia senza il minimo sforzo dal languido shoegaze folk di Safe From Heartbreak (if you never fall in love) alla furia punk della graffiante Play the Greatest Hits, senza che il disco perda un briciolo di coesione e coerenza. Alla base di tutto ciò ci sono valori di produzione davvero raffinati, che conferiscono all'album un suono ambizioso e cinematografico, che si adatta perfettamente al materiale proposto.

Citare un brano invece di un altro sarebbe fare un torto a un lavoro che risulta brillante dalla prima e ultima traccia, ma se proprio si deve, i languori dream pop di The Beach II, che chiude mirabilmente l'album, e l'indie rock ansiogeno di Smile sono momenti eccelsi, che sottolineano la caratura di una band che sembra essere arrivata allo snodo decisivo della propria carriera.

Non è un caso che proprio in Smile la Rowsell pronunci la frase "Sono quello che sono e sono bravo a farlo". Un’affermazione che, lungi dal denotare arroganza, suggerisce invece la consapevolezza di una band dalle idee chiarissime, che sa da dove è venuta e sa esattamente dove vuole andare. I Wolf Alice posso vantarsi, e a ragione, di essere una band dal profilo originale, che ha saputo creare un suono davvero unico, che oggi plasma con assoluta autorevolezza.  Blue Weekend è, quindi, un disco ambizioso che raggiunge tutti gli obbiettivi che si è prefisso: emozionare, stupire, divertire. Altamente raccomandato.

VOTO: 8

 


 

 

Blackswan, martedì 15/06/2021

lunedì 14 giugno 2021

MULL OF KINTYRE - WINGS (Parlophone, 1977)

 


Il Mull Of Kintyre è un lembo di terra situato nella parte sud ovest della lunga penisola del Kintyre, in Scozia. Una terra in parte ancora selvaggia, che attrare per la dicotomia cromatica fra il verde smeraldo dell’erba e il vivido blu del mare. Un faro storico, qualche casa, un panorama mozzafiato e di fronte, dall’altra parte del mare, l’Irlanda, spesso visibile a occhio nudo. Fatevi un giro in rete e date un’occhiata alle foto di questo luogo incantato, e ditemi se non è la meta ideale in cui rifugiarsi per sfuggire alla rumorosa frenesia del mondo, per ritrovare la pace interiore e un nuovo, più profondo, rapporto con la natura.

La pensava in questo modo anche Paul McCartney, che in questa zona pittoresca aveva una casa e uno studio di registrazione fin dalla fine degli anni ’60. Nel Mull Of Kintyre, Paul non solo otteneva l’ispirazione per comporre, ma anche quel senso di famigliarità e tranquillità di cui ogni essere umano ha bisogno per trovare il proprio equilibrio interiore. Un luogo, questo, che McCartney amava al tal punto da ritenere insopportabile l’idea di allontanarsi per gli impegni derivanti dalla sua vita di musicista, un posto in cui, se fosse stato possibile, avrebbe trascorso ogni sitante della propria esistenza.  

Nasce proprio da questo amore e da questo senso di appartenenza, Mull Of Kintyre, una tra le più celebri canzoni pubblicate dall’ex Fab Four sotto l’egida Wings. La canzone vide la luce nel 1977, durante una pausa dalle registrazioni per il nuovo album, London Town, a causa dell’avanzato stato di gravidanza di Linda. Il brano, scritto da Paul e Denny Laine, chitarrista e bassista, oltre che unico membro stabile dei Wings, fu registrato ad agosto in Scozia, e poi rimaneggiato in ottobre ad Abbey Road, per effettuare alcune sovraincisioni, tra cui le cornamuse della banda locale di Kintyre.

La canzone, che altro non è se non una languida ballata folk in cui Paul dichiara tutto il suo amore per Mull Of Kintyre (Oh mist rolling in from the sea My desire is always to be here Oh Mull of Kintyre) ebbe un inaspettato e clamoroso successo in Gran Bretagna, conquistando la prima piazza in classifica. Durante il periodo natalizio, ci fu una vera e propria corsa all’acquisto del 45 giri, che restò per nove settimane in cima alle charts e vendette due milioni di copie nella sola Gran Bretagna, diventando il singolo più venduto di tutti i tempi fino al 1984, quando Do they Know It’s Christmas? Della Band Aid gli tolse il primato. La canzone, invece, fu un flop negli Stati Uniti, dove la visione bucolica di Paul non ebbe l’appeal sperato a differenza del lato B del 45 giri, Girls’ School, che trovò ottimi riscontri nell’airplay radiofonico americano.

 


 

Blackswan, lunedì 14/06/2021

venerdì 11 giugno 2021

MDOU MOCTAR - AFRIQUE VICTIME (Matador/Beggars Group/Indigo, 2021)

 


Un disco di denuncia, di rabbia, di militanza, un grido di libertà contro il colonialismo, lo sfruttamento sfrenato delle risorse, il depauperamento di un popolo, umiliato, derubato, massacrato. E’ la copertina dell’album che lo esplicita senza mezzi termini, prima ancora di ascoltare una sola nota di Afrique Victime, sesto lavoro in studio del musicista tuareg, Mdou Moctar. Un rapace artiglia mamma Africa piangente, dietro un bagliore, che forse rappresenta la speranza o forse è semplicemente il luccichio di una gemma ghermita. In una terra ferita brutalmente da rapine minerarie internazionali e dalla mano feroce del terrore fondamentalista, fare musica non è semplicemente scrivere canzoni, ma lottare per dare voce a un popolo e raccontare una tragedia troppo spesso nascosta agli occhi dell’opinione pubblica.

Non solo, però. Questo è un disco che ingenera diverse riflessioni, che emoziona e tocca il cuore, ma spinge a ragionare: sulla musica e sull’Uomo.

Mdou Moctar è stato spesso definito il Jimi Hendrix del deserto, definizione, questa, abbastanza pigra e prevedibile, ma che suggerisce, tuttavia, la stretta connessione che esiste tra due realtà musicali, geograficamente distanti, ma indissolubilmente legate dal medesimo dna. Afrique Victime, a prescindere dai suoi sviscerati contenuti politici, è un disco in cui due culture convergono, palesando la stretta consanguineità: da un lato, le sonorità tuareg e il blues, che ha avuto i natali proprio in questa terra, dall’altro, una decisa componente rock, che altro non è se non l’evoluzione occidentale di quella cultura ancestrale, qui restituita alle sue origini, dopo un lungo processo di contaminazione.

Afrique Victime si apre con Chismiten: venti secondi di quasi silenzio, passi che si avvicinano a un amplificatore, poco prima che parta un selvaggio lick di chitarra, e Moctar e la sua band si fondono rapidamente in un trascinante groove, ondeggiante e sinuoso come le movenze di un serpente incantato. Ed è proprio questa attenzione al ritmo, questa oscillazione continua, ad essere il filo conduttore di una scaletta che spinge a ballare voluttuosamente sulle note di Asdikte Akal, che tesse trame acustiche potenti e maestose (Tala Tannan e Layla), che pompa decibel e drammaticità nella title track e che si chiude nel misticismo sognante di Bismilahi Atagah.

Con Afrique Victime, Moctar racconta la propria terra attraverso un linguaggio che è scoperta e sorpresa, ma che, al contempo, suggerisce anche una vicinanza, per ricordarci il debito, nei confronti dell'Africa, di quasi tutta la musica moderna. Dischi come questo sono una porta su un futuro immaginario, l’ipotesi di un domani migliore, l’utopia di una fusione, in cui la connessione globale possa far sì che un chitarrista del Sahara possegga lo stesso appeal culturale di una pop star occidentale. Questo, soprattutto, è un disco capace di lenire l'anima con la bellezza e aprire gli occhi agli scettici su ciò che la musica, la musica veramente buona, può fare per ciascuno di noi, non importa da dove essa provenga. In queste canzoni, le differenti estrazioni sociali e il colore della nostra pelle svaniscono di fronte a un’emozione che dovrebbe scuotere qualsiasi essere vivente nel profondo. E unire, in un sogno di fratellanza condiviso.

VOTO: 8

 


 

Blackswan, venerdì 11/06/2021

giovedì 10 giugno 2021

PREVIEW

 


In uscita per BMG il 3 settembre 2021, l'album composto da 18 tracce presenta la Ronnie Wood Band insieme a Mick Taylor e altri incredibili ospiti speciali come Bobby Womack, Mick Hucknall e Paul Weller, e rende omaggio a uno degli eroi musicali che più ha influenzato Ronnie, il pioniere del blues elettrico del Mississippi Jimmy Reed.
 

L'album è stato registrato dal vivo in una serata memorabile alla Royal Albert Hall il 1° novembre 2013.
Contiene brani straordinari tra cui Good Lover e Ghost of A Man. Con un artwork unico appositamente creato da Ronnie, Mr Luck sarà disponibile in digitale, su CD, in vinile e in una bellissima edizione limitata con vinile colorato in doppia tonalità blu fumo.

Quando il chitarrista autodidatta Eddie Taylor insegnò tutto ciò che sapeva del suonare la chitarra al suo amico Jimmy Reed, sicuramente non poteva immaginare l'effetto che ciò avrebbe avuto per la scena blues di Chicago. Per questo, anche se nella sua carriera ha accompagnato musicisti come John Lee Hooker, Tylor è ricordato soprattutto per il suo lavoro con il suo ex studente.

La coincidenza ha voluto che nel 1974 un altro Taylor, Mick, facesse posto a Ronnie Wood nei Rolling Stones, aprendo la strada a una amicizia e una collaborazione proficua per questi due celebri chitarristi. Il culmine di tutto ciò è stata la presenza di Taylor nella Ronnie Wood Band alla Royal Albert Hall per il Bluesfest del 2013, dove è stato suonato l'ormai leggendario set che avrebbe generato questa registrazione.

A proposito di Mr Luck, Ronnie commenta:

"Jimmy Reed è stato una delle prime influenze per i Rolling Stones e per tutte le band che amano il blues americano fino ai giorni nostri. È un onore per me avere l'opportunità di celebrare la sua vita e la sua eredità con questo tributo"


Questo album segna il secondo capitolo di una trilogia di album speciali e personali di Wood con la sua band, che celebrano gli eroi musicali di Ronnie. Il primo album, Mad Lad, ha esplorato il lavoro di Chuck Berry e ha rappresentato una commemorazione struggente dopo la scomparsa di Berry poco più di due anni fa. Ronnie è stato in tour con Berry ed è stato suo fan per tutta la vita.

 


 

Blackswan, giovedì 10/06/2021

mercoledì 9 giugno 2021

LONDON GRAMMAR - CALIFORNIAN SOIL (Ministry Of Sound Recordings, 2021)

 


Quando i London Grammar si sono affacciati per la prima volta sulla scena musicale, fortemente saturata, di quasi un decennio fa, le loro ballate pop dal mood fortemente emotivo hanno spinto la critica a spendere paragoni con artisti come XX e Florence and the Machine, oltre ad attirare fin da subito l’attenzione del pubblico mainstream. Contrassegnato dalla gamma vocale dinamica di Hannah Reid, il trio britannico si è distinto dai propri contemporanei non solo grazie alla natura accelerata dell'hype (erano in prima fila per l'ambito Mercury Prize prima di pubblicare il loro debutto nel 2013, If You Wait), ma soprattutto perché la loro musica mostrava un’invidiabile freschezza.

Con il loro secondo album, Truth Is a Beautiful Thing del 2017, hanno mantenuto fede alle premesse (e promesse) di una musica pop elegante e di gran classe, anche se in quel caso una produzione più ambiziosa aveva tolto un po' di vitalità alle canzoni in scaletta.

Oggi, Californian Soil, li vede modificare leggermente il sound per suggerire ulteriormente la portata delle loro ambizioni musicali, con risultati anche in questo caso, però, non sempre convincenti. I London Grammar esplicitano la loro volontà di esplorare nuovi territori già a partire dalla title track: c'è un diverso ed evidente spessore nell’impianto strumentale del brano, che manca, invece, in alcuni momenti della scaletta.

Infatti, nel complesso, Californian Soil soffre, in qualche caso, proprio di mancanza di profondità: è chiaro che la potente voce della Reid non ha perso un grammo del suo fascino, ma non può essere sempre il paravento per coprire le lacune aperte da un songwriting talvolta un po' debole e da una produzione che, qui e là, palesa qualche inciampo.

Se questi sono i difetti, e lo dico a prescindere dal mio gusto personale, che mi ha spinto ad ascoltare il disco in loop per un’intera settimana, California Soil si mantiene, tuttavia, su buoni livelli per tutta la sua durata, regalando anche momenti di abbagliante bellezza. La predilezione della band per i ritmi trip-hop e i paesaggi sonori cinematografici, molto amati dai Massive Attack, rimane un intatto marchio di fabbrica e la straordinaria voce di Reid, che è sempre stata al centro del suono della band, continua a risuonare potente e affascinante come sempre.

E’ indubbio, inoltre, che il taglio dato alle canzoni sia, nello specifico, ancora più pop, cosa che nel complesso funziona bene, come avviene, ad esempio tra beat e approccio sinfonico nella splendida Lose Your Head o nel drammatico crescendo melodico di Lord It’s A Feeling.

Pur con un andamento altalenante, California Soil possiede, quindi, un fascino etereo e riesce a toccare le corde dell’emozione grazie a una prova maiuscola della Reid, la quale riversa nelle liriche e nel cantato il proprio pathos interiore. Un tormento di fondo palpabile in America, la canzone che chiude il disco e che vince la palma del miglior brano del lotto: l’America come metafora di sogni da inseguire, sogni destinati a non realizzarsi e a restare chimere, forse perché, in primo luogo, non ci appartengono (“Tutto il nostro tempo a caccia dell'America/Ma lei non ha mai avuto una casa per me/ Tutto il nostro tempo inseguendo un sogno/Un sogno che non significava niente per me”).

Se tutto il disco fosse di questo livello, staremmo parlando di una delle prove migliori dell’anno. Invece, pur promuovendolo, California Soil resta il compito ben fatto di una band che potrebbe aspirare al massimo dei voti, ma non riesce mai a fare il vero salto di qualità. Non credo sia un problema strutturale: quando azzeccano la canzone, i London Grammar svettano sulla massa con estrema facilità. Forse, il vero problema, è il freno a mano tirato, la mancanza di coraggio con cui la band affida al cantato di Hannah Reid le sorti del proprio lavoro, senza cercare soluzioni alternative alla splendida voce del loro leader.

VOTO: 7

 


 

Blackswan, mercoledì 09/06/2021

martedì 8 giugno 2021

DRIVE - THE CARS (Elektra, 1984)

 


Qualcuno sostiene che Heartbeat City (1984) sia in assoluto la miglior prova dei Cars, e senza voler togliere nulla ai lavori precedenti, che vendono bene e piazzano numerosi singoli nelle chart statunitensi, probabilmente è così. Un disco, questo, che racchiude la summa del pensiero musicale del leader, il compianto Ric Ocasek: fondere l’imperante suono new wave con un pop rock dagli arrangiamenti impeccabili e costruito sulla perfetta simbiosi fra chitarre agli estrogeni e vivaci, coloratissime tastiere.

L’album, prodotto con la collaborazione di Robert John “Mutt” Lange (che l’anno precedente aveva messo mano a Pyromania dei Def Leppard), vende benissimo e si piazza alla posizione numero di 3 di Billboard 200, grazie al tiro di un pugno di singoli irresistibili: You Might Think, Magic e Drive. E’ soprattutto quest’ultima a fare, come si dice, il botto, risultando il singolo dei Cars più venduto in assoluto, raggiungendo la posizione numero tre della Billboard Hot 100, la numero cinque nel Regno Unito, la numero quattro nella Germania occidentale, la numero sei in Canada e la numero tre in Irlanda. Senza dimenticare, poi, che Drive consente ai Cars di farsi conoscere anche in Italia, paese in cui la band capitanata da Ocasek, fino ad allora, viveva nella nicchia di pochi appassionati.

A prescindere dal notevole successo commerciale, resta il fatto che Drive è il classico evergreen, una canzone senza tempo, che riesce a emozionare anche oggi, nonostante l’utilizzo dei sintetizzatori rispecchi clamorosamente il suono dell’epoca in cui è stata concepita. Una ballata elegante e impeccabilmente arrangiata, che resterà eterna per la forte tensione romantica e drammatica che la pervade.

Drive è, infatti, una canzone che parla d’amore, ma di un amore finito, di un lutto affettivo che ingenera dubbi e disillusione. E’ l’amante ferito a parlare, anche se potrebbe benissimo essere il contrario (alla voce c’è il bassista della band, Benjamin Orr), che si rivolge alla propria amata, ponendo una serie d’interrogativi destinati a rimanere senza risposta: “Chi ti dirà quando sarà troppo tardi? Chi ti dirà che le cose non sono così grandiose? Non puoi andare avanti pensando che niente sia sbagliato. Chi ti riaccompagnerà a casa, stanotte? Chi ti rialzerà quando cadrai? Chi alzerà la cornetta quando chiamerai? Chi presterà attenzione ai tuoi sogni? Chi ti tapperà le orecchie quando urlerai?”. Ed è proprio questa serie reiterata di domande, l’escamotage letterario dell’interrogazione retorica, a rendere il brano così carico di pathos e così melodrammatico nei suoi intenti romantici. Perché, è del tutto evidente, che ciò che sottende alle domande, è l’impossibilità di ricostruire un amore perduto per sempre, eterno solo nei quattro minuti della durata della canzone.

Questo brano, così malinconico e triste, fu, poi, utilizzato l’anno successivo al Live Aid di Londra, come sottofondo musicale per un drammatico video sulle esiziali conseguenze della carestia in Etiopia. Dopo l’evento, la canzone ritornò a scalare le classifiche inglesi, attestandosi alla quarta posizione e fruttando ai Cars la bellezza di 160.000 sterline, tutte devolute alla causa dallo stesso Ocasek.

Un’ultima curiosità. Nel bel video clip di Drive, girato dall’attore Timoty Hutton, compare l'allora diciottenne modella e attrice Paulina Porizkova, che, di lì a poco, sarebbe diventata la moglie di Ric Ocasek. 




Blackswan, martedì 08/06/2021

lunedì 7 giugno 2021

THE ALMIGHTY - POWERTRIPPIN' /Deluxe Edition 2021 (HNE Recordings, 2021)

 


Il 2021 è un anno decisamente denso di novità per Ricky Warwick. Prima, ha pubblicato When Life Was Hard And Fast, disco solista che ha riscosso parecchi consensi di pubblico e critica, poi, ha messo le mani a vecchio materiale, per una ricca ristampa di Powertrippin’, terzo e celebratissimo album degli Almighty, la band di cui è leader da più di trent’anni.

Il seguito di Fire & Love del 1989 e Soul Destruction del 1991, vide la luce nell’aprile del 1993, fu l’ultimo pubblicato per l’etichetta Polydor, e sancì l’ingresso nella line up del chitarrista Pete Friesen, che aveva sostituito il membro fondatore Tantrum (a fianco di Warwick c’erano anche Stump Monro alla batteria e Floyd London al basso). Powertrippin’ segna una svolta non da poco nella storia della band: è il primo album che schizza nella top ten britannica (alla quinta piazza per la precisione), grazie anche alla popolarità derivante dal tour degli Almighty come spalla degli Iron Maiden, ed è il disco che si smarca decisamente dei due lavori precedenti, grazie anche al songwriting e all’impronta di Friesen, che spinge il suono nelle braccia del Seattle Sound.

L’album, in tal senso, è figlio della sua epoca, rivisitazione in chiave europea di quel grunge che, nel 1993, ha già affievolito la sua spinta creativa, pur essendo ancora al centro del music business. Gli Almighty si schierano dalla parte di chi quel suono lo stritolava nella morsa di pesanti tenaglie metal, tanto che gli accostamenti più immediati, anche all’epoca, furono con band come gli Alice In Chains (l’iniziale e oscura Addiction sembra uscire dalla penna di Jerry Cantrell) e i Gruntruck di Push.

Roccioso, brutale, violento, poco incline a cercare compromessi con la melodia e pronto ad abbandonarsi a quelle accelerate punk, da sempre tratto distintivo della band (la title track è strettamente imparentata alla furia distruttiva dei Motorhead), Powertrippin è una forsennata cavalcata metal trainata dai riff siderurgici di Friesen e dalla voce petrosa di uno scatenato Warwick. Non c’è quasi un attimo di pausa, e i padiglioni auricolari si salvano dallo sconquasso generale solo grazie a Jesus Loves You… But I Don’t (un titolo, un programma), ispida ballata che procede per accumulo elettrico fino al deragliamento finale.

La reissue del disco, perfettamente rimasterizzato, contiene anche un secondo cd ricco di curiosità. Oltre ai singoli tratti da Powertrippin’, Addiction, Over The Edge e Out Of Season, questa riedizione deluxe include le B-side Blind, Bodies (proprio quella dei Sex Pistols), Insomnia, In A Rut (cover dei The Ruts) e Fuckin' Up (brano preso dal songbook di Neil Young). Le versioni live di Takin' Hold, Jesus Loves You...But I Don't e Powertrippin' testimoniano quanto potenti e devastanti siano sempre stati gli Almighty una volta saliti sul palco. Il disco bonus include anche le versioni demo di Free 'N' Easy e la title track di Soul Destruction, che non è mai stata registrata ufficialmente e non era apparsa nella scaletta dell'album originale. Da segnalare anche una versione acustica di Rockin' In The Free World di Neil Young, ulteriore chicca di una ristampa vivamente consigliata a tutti gli amanti dei suoni estremi.

 


 

Blackswan, lunedì 07/06/2021

venerdì 4 giugno 2021

HE HIT ME (AND IT FELT LIKE A KISS) - THE CRYSTALS (Philles, 1962)

 


Eva Narcissus Boyd, meglio conosciuta come Little Eva, è stata, negli anni ’60, una cantante pop di successo, nota soprattutto per un brano, The Loco – Motion, che tutti, almeno una volta nella vita, abbiamo ascoltato. Una hit da un milione di copie vendute, che nel 1962, arrivò prima in classifica negli Stati Uniti e che nel 1988 tornò nuovamente agli onori delle cronache, grazie all’interpretazione in chiave dance di Kylie Minogue. Per Eva, fu l’inizio di una carriera che durò per tutto il restante decennio, fino a quando, nel 1971, la Boyd si ritirò dalle scene, a soli ventotto anni, senza aver guadagnato, si dice, il becco di un quattrino.

Prima di arrivare al successo, questa giovane cantante di colore, proveniente dalla North Carolina, sbarcò il lunario, facendo i più disparati lavori, tra i quali quello di babysitter a casa della coppia di cantautori Carole King e Gerry Goffin (quelli che, tra l’altro, scrissero per lei The Loco-Motion).

E qui, inizia la nostra storia. Perché Eva, che è una ragazza semplice e solare e si conquista da subito la fiducia e l’affetto delle due stelle del music business, spesso si presenta al lavoro con dei lividi. Alle domande insistenti dei due, Eva ammette candidamente che il suo boyfriend dell’epoca la prende a sberle. La King e Goffin, venuti a conoscenza della cosa, spronano la ragazza (che ai tempi non aveva nemmeno vent’anni) a denunciare il fidanzato alla polizia, ma visto il diniego di Eva, le chiedono come possa sopportare di essere maltrattata in questo modo. Eva li guarda stranita e, come se fosse la cosa più normale del mondo, risponde: “E’ vero mi ha colpito. Ma lui mi picchia solo per dimostrarmi quanto mi ama”.

Dopo l’iniziale sgomento, i due cantautori ripensarono spesso alla risposta della ragazza, finché quella frase, “Mi ha colpito” (He Hit Me), divenne lo spunto per scrivere una canzone. Nasce così He Hit Me (And It Felt Like A Kiss), un brano il cui testo, senza bisogno di essere accanite femministe, oggi come allora, fa letteralmente rabbrividire. Perché quel brano, scritto probabilmente con le migliori intenzioni (la King, dichiarò successivamente, di essere stata anche lei vittima di abusi domestici – ma non da Goffin), diventava, in buona sostanza, una sorta di benedizione a tutti quei vigliacchi che maltrattavano le proprie donne. Il verso centrale, in tal senso, lascia sgomenti: “Mi ha colpito E sembrava un bacio. Mi ha colpito E sapevo che mi amavi. Se non gli importasse di me, Non avrei mai potuto farlo arrabbiare. Ma mi ha colpito Ed ero contenta”. E non ci vuole una sensibilità da poeta per comprendere quanto queste parole, che giustificano un atto ignobile, siano raccapriccianti.

Non solo. Indovinate un po'? A produrre e ad arrangiare la canzone fu Phil Spector, il geniale produttore, che di abusi coniugali e violenza sulle donne non era secondo a nessuno. L’inventore di quello che fu definito “wall of sound”, infatti, oltre che per la propria arte, è passato alla storia anche per i rapporti a dir poco burrascosi con le proprie compagne, culminati, nel febbraio del 2003, con la condanna per l’omicidio dell’attrice Lana Clarkson. Il vertice di un escalation iniziata, però, nel 1968, quando Spector sposò Veronica “Ronnie” Bennett, cantante delle Ronettes, girl group statunitense, divenuto famoso grazie proprio al produttore (ricordate Be My Baby?). Un rapporto, quello tra Ronnie e Phil, caratterizzato dalla gelosia patologica di Spector, il quale costrinse la consorte a vivere reclusa in casa, sottoposta alle sue grottesche bizzarrie (arrivò a chiuderla in un armadio, a nascondere tutte le sue scarpe in modo che non potesse fuggire e addirittura a far costruire una bara d'oro con un coperchio di vetro in cui minacciò di rinchiuderla dopo averla uccisa, nel caso l'avesse lasciato).

Spector, che era un violento narcisista con il vizietto dell’alcol e delle armi da fuoco, aveva tuttavia un talento inarrivabile, capace, negli anni d’oro della sua carriera, di fargli scrivere, arrangiare e produttore un filotto di straordinarie hit. E’ fuori di dubbio che Spector riuscisse a sentire la musica nel profondo, a cogliere l’essenza di una canzone e a cavarne il meglio. Così, affidò He Hit Me alle Crystals, gruppo r’n’b tutto al femminile lanciato dalla sua etichetta, la Philles, e arrangiò il brano come forse nessuno se l’aspettava. Avrebbe potuto giocare con l’ironia, ma non lo fece. Il testo era vergognoso e giustificava la violenza sulle donne. Ecco allora l’intuizione: un basso cupissimo introduce la voce solista (e depressa) di Barbara Alston in una cornice funerea di tamburi e archi taglienti, mentre, in sottofondo, come un coro greco, le altre tre componenti trillano beatamente la loro convinzione che il ragazzo non avesse fatto nulla di male. Tutto inquietante, ambiguo, ma geniale.

Artisticamente ineccepibile, la canzone, però, non ebbe il successo sperato: dopo i primi passaggi in radio, la protesta degli ascoltatori crebbe a dismisura, tanto che il brano lentamente scomparve dall’airplay, per perdersi, giustamente, nell’oblio.

 


 

Blackswan, venerdì 04/06/2021