lunedì 31 maggio 2021

THE VINTAGE CARAVAN - MONUMENTS (Napalm Records, 2021)

 


Arrivano dall’Islanda, piccola terra di grandi musicisti (Olafur Arnalds, Sigur Ros, Bjork, Of Monsters And Men, Johann Johannson) e ci portano in dono uno dei dischi rock più belli dell’anno. Si chiamano Vintage Caravan, un nome che esplicita al meglio la passione della band per il classic rock, si sono formati in un sobborgo vicino alla capitale, Reykjavik, e hanno rilasciato a tutt’oggi cinque album. Una carriera in crescendo, che li ha portati a condividere il palco con gli Opeth, e li ha visti migliorarsi, disco dopo disco, sia da un punto tecnico che compositivo.

Monuments, registrato tra il febbraio e il marzo del 2020, è il punto più alto della loro discografia, un lavoro solido e complesso, meno pesante e monolitico rispetto ai precedenti, e zeppo di idee e di intuizioni, che rigenerano con fantasia sonorità nate decenni fa. Le undici canzoni in scaletta, infatti, frullano, con inusitata sapienza, hard rock di matrice ’60 e ’70, stoner, blues, psych rock e progressive, riuscendo, a dispetto, di miriadi di citazioni, a risultare assai originali. I tre componenti (Oskar Logi Agustsson, chitarra e voce, Alexander Orn Numason, basso e tastiere, e Sefan Ari Stefansson, batteria e tastiere), poi, suonano benissimo e, soprattutto, amano suonare, con attitudine jammistica e una predisposizione a lunghe digressioni strumentali imparentate con il prog rock. E’ soprattutto, però, quando spingono il piede sull’acceleratore e partono di slancio che diventano devastanti, e mai aggettivo, vi assicuro, si sposa meglio con la maggior parte dei brani del lotto.

Conduce le danze la chitarra di Agustsson, come appare fin da subito evidente con l’incipit Whispers, tonitruante apertura dagli oscuri echi sabbathiani. Ed è solo il primo dei molti volti dei Vintage Caravan che, con la successiva Crystallized, ci portano alla fine degli anni ’60, evocando i Cream più rumorosi, in un tripudio di chitarre in acido corroborate da un riff di saltellante funk ed esaltate da una infuocata digressione jam.

Can’t Get You Of My Mind spinge improvvisamente il disco verso un tiro deliziosamente radiofonico, ammicca ai Blue Oyster Cult con un ritornello che è uno schianto e che si manda a memoria fin dal primo ascolto. Un arpeggio morbidissimo apre Dark Times, che poi parte a cento allora, come una galoppata in stile Iron Maiden, che rifiata dentro un ritornello di arioso space rock. Se This One’s For You rallenta il passo in una ballata sfiorata da carezzevole psichedelia, Forgotten, cuore pulsante del disco, forgia otto minuti di devastante potenza, che partono con la forsennata rincorsa rubata a Highway Star dei Deep Purple, si misurano con la velocita convulsa Heart Of The Sunrise degli Yes e sfociano in un ritornello irresistibile, per poi deragliare nella seconda parte, in cui gli strumenti galoppano sbrigliati su coordinate progressive.

Monuments è un disco che non ti molla mai, che ti sorprende a ogni nuova canzone, tenendo desta l’attenzione e alto il livello di adrenalina nel sangue. Così, dopo un brano immenso come Forgotten, non ti aspetti un altro gioiello come Sharp Teeth, ipervelocità funk e architettura prog, in cui tecnica e sudore sfociano nell’ennesimo deragliamento jam, o l’epos da capelli al vento di Hell, canzone che regala momenti melodici irresistibili, grazie anche alla voce limpida e avvolgente di Agustsson. Altri due brani tiratissimi (Torn In Two e Said & Done), prima della sublime chiosa di Clarity, lenta ballata di otto minuti che procede per accumulo, fino all’esplosione del finale, incendiato da un grande assolo di chitarra di Agustsson.

Il disco dura un’ora abbondante, ma quasi non ci accorge del tempo che passa, perché non c’è un solo momento in scaletta che non sia necessario ed entusiasmante. Questi ragazzi possiedono una potenza d’urto che ha pochi eguali, e che affascina e stupisce soprattutto nel momento in cui ti ricordi che il ribollente magma sonoro di Monuments è creato con solo tre strumenti. Retrò, certo, lo dice anche il nome, ma incredibilmente moderni e freschi, i Vintage Caravan sono, a parere di chi scrive, una delle migliori rock band in circolazione, il cui destino è dare nuovo lustro e vitalità a un genere dato, troppo spesso, per morto.

VOTO: 9

 


 

Blackswan, lunedì 31/05/2021

venerdì 28 maggio 2021

LOUSIANA 1927 - RANDY NEWMAN (Reprise, 1974)

 


Le nuvole arrivano da nord e ha iniziato a piovere

Ha piovuto molto forte e ha piovuto per molto tempo

L'alluvione prese piede con piogge estremamente abbondanti nel bacino centrale del Mississippi, già nell'estate del 1926. A settembre, gli affluenti del Mississippi in Kansas e Iowa iniziarono a tracimare. Inizia così, la grande inondazione del Mississippi del 1927, quella che è stata l'alluvione fluviale più distruttiva nella storia degli Stati Uniti, con 70.000 km2 inondati, una profondità delle acque arrivata anche a 9 metri e danni stimati tra i 246 milioni e il miliardo di dollari. Il novantaquattro per cento delle oltre 630.000 persone colpite dall'alluvione viveva negli stati dell'Arkansas, Mississippi e Louisiana, la maggior parte nel Delta del Mississippi. Più di 200.000 afroamericani vennero sfollati dalle loro case e hanno dovuto vivere per lunghi periodi in campi di soccorso. Le vittime furono 246. 

23 agosto 2005. Sugli Stati Uniti si abbatte l’Uragano Katrina, uno dei più gravi, in termini economici e di vittime, della storia americana. 1836 morti, recita il tragico bilancio, e 705 dispersi, una città, New Orleans, quasi completamente sommersa dalle acque. 

Due catastrofi, due eventi terribili, legati indissolubilmente tra loro da una canzone, Lousiana 1927, scritta da Randy Newman e inserita in Good Old Boys, concept album del 1974, che il musicista californiano dedicò al Sud degli Stati Uniti, sua terra d’adozione (Newman era cresciuto a New Orleans).

La canzone è cantata dalla prospettiva di un residente senza nome della zona, che racconta l'alluvione delle parrocchie di St. Bernard e Plaquemines e descrive la devastazione all’indomani dei fatti: “river had busted through clear down to Plaquemines” (il fiume era esploso fino a Plaquemines), e ancora “six feet of water in the streets of Evangeline” (sei piedi d’acqua nelle strade di Evangeline).

Un testo, quello di Lousiana 1927, che contiene, però, anche palesi intenti politici. Viene immaginata la visita sui luoghi dell’inondazione da parte dell’allora presidente Calvin Coolidge (accompagnato da “A Little Fat Man”)e il suo distacco di fronte alla tragedia (“The President Say, "Little Fat Man Isn't It A Shame What The River Has Done To This Poor Crackers Land"); viene, inoltre, puntato il dito contro la classe dirigente di New Orleans, che aveva deviato l’alluvione con cariche di dinamite fatte esplodere per salvare i quartieri più abbienti della città (“They're Tyrin' To Wash Us Away, They're Tryin' To Wash Us Away”).

Il brano tornò di attualità nel 2005 e divenne una sorta di inno di protesta delle popolazioni colpite dall’Uragano Katrina contro l’amministrazione del Presidente Bush, accusata di non aver saputo gestire efficacemente l’emergenza. 

L’intento dichiarato di Newman era di rendere omaggio alla sua seconda casa, a quella città, New Orleans, in cui sua mamma era nata e in cui lui era cresciuto. Una prospettiva personale e privata, capace però di trasformarsi nel lamento collettivo delle popolazioni, rurali e indigenti, che sempre, al verificarsi di una tragedia, sono quelle che pagano, inevitabilmente, lo scotto più alto.

 


 

Blackswan, venerdì 28/05/2021

giovedì 27 maggio 2021

PREVIEW

 


 

I THE THE annunciano il nuovo live album “The Comeback Special”, in uscita il 1 ottobre 2021 su earMUSIC. Guarda il video di "Sweet Bird Of Truth".

L’album testimonia lo spettacolare concerto del 5 giugno 2018 presso la Royal Albert Hall di Londra. Per celebrarne la notizia la band presenta oggi il live video del primo singolo “Sweet Bird Of Truth”.

Quella che è iniziata come un'esperienza dal vivo indimenticabile, e una delle prime esibizioni della band dopo 16 anni, ora si trasforma in uno straordinario album dal vivo, film e libro grazie alla partnership tra la label londinese Cinéola (di proprietà dello stesso Matt Johnson) e earMUSIC. Nelle prossime settimane verrà inoltre aggiunto del merch dedicato al webstore ufficiale della band tra cui un artbook di 136 pagine con 6 CD, foto esclusive e il video del concerto.

L’album testimonia lo spettacolare concerto del 5 giugno 2018 presso la Royal Albert Hall di Londra. Per celebrarne la notizia la band presenta oggi il live video del primo singolo “Sweet Bird Of Truth”.

Quella che è iniziata come un'esperienza dal vivo indimenticabile, e una delle prime esibizioni della band dopo 16 anni, ora si trasforma in uno straordinario album dal vivo, film e libro grazie alla partnership tra la label londinese Cinéola (di proprietà dello stesso Matt Johnson) e earMUSIC. Nelle prossime settimane verrà inoltre aggiunto del merch dedicato al webstore ufficiale della band tra cui un artbook di 136 pagine con 6 CD, foto esclusive e il video del concerto.

 


 

 Blackswan, giovedì 26/05/2021

mercoledì 26 maggio 2021

MYLES KENNEDY - THE IDES OF MARCH (Mapalm Records, 2021)

 


Leader insieme a Mark Tremonti degli Alter Bridge e voce stabile nella backing band di Slash, Myles Kennedy, arrivato alla cinquantina, ha finalmente aperto la porta alla carriera solista, iniziata nel 2018 con la pubblicazione dell’inconsueto e bellissimo Year Of The Tiger. Un disco, quello, che mostrava l’altra faccia di Kennedy (vera e propria icona metal), che, spiazzando tutti, cercava forme espressive diverse per rielaborare l’antico dolore della morte del padre. Year Of The Tiger, in tal senso, era un lavoro davvero anomalo rispetto a quanto precedentemente prodotto dall’istrionico cantante originario di Boston: una scaletta di dodici brani dal suono prevalentemente acustico, la cui unica connessione con il passato era rappresentata dalla voce potente e immediatamente riconoscibile di Kennedy, che, nella fattispecie, si misurava con registri non certo sconosciuti, ma sicuramente meno abituali, e con canzoni di vibrante pathos e dagli intenti catartici.

Il nuovo The Ides Of March, a tre anni di distanza, segna un ennesimo smarcamento, un nuovo cambio di rotta. Ancora una volta lontano dalla casa madre Alter Bridge, Kennedy muta, però, approccio anche rispetto al suo disco precedente, rilasciando undici canzoni che indossano abiti dai colori rock e blues. Se Year Of The Tiger era un azzardo, peraltro riuscito, e proprio per questo denso di suggestioni, anche per il retroterra emotivo che lo giustificava, The Idles Of March è, invece, un album che coagula tutto ciò che Kennedy ama, che alterna riff potenti a melodie ariose, strumenti acustici ed elettrici, spaziando fra diversi generi, tenuti insieme dal collante di una voce straordinaria e da una scrittura solida, anche se non particolarmente originale.

Grazie anche alla produzione affidabile di Michael “Elvis” Baskette (che aveva già prodotto il disco precedente, oltre ad aver collaborato con Slash e gli Alter Bridge), The Idles Of March possiede un suono tirato a lucido e un tiro importante, e procede, per quasi cinquanta minuti di durata, senza sbavature e con il pilota automatico inserito. Un buon disco, per carità, ma decisamente meno ispirato del suo predecessore, che aveva in un sincero pathos la sua ragione d’essere.

Get Along e A Thousand Words aprono la scaletta con piglio rock e belle melodie, la voce e la chitarra di Kennedy che danno nerbo a un plot tanto prevedibile quanto efficace. In Stride parte con potenti sciabolate slide e schizza veloce su una ritmica boogie rock marchiata seventies (ZZ Top). Sono, però, i sette minuti abbondanti della title track a far drizzare le orecchie per la prima volta: una canzone complessa, un puzzle sonoro che incastra l’intro acustica a languide carezze pop, atmosfere blues e un’inusitata impennata di teatralità che evoca i Queen. Il tutto giostrato con grande intelligenza e misura.

Il disco, poi, non riserva grandi soprese, ma alcune canzoni decisamente buone: la chitarra che apre Sifting Through The Fire, che cita smaccatamente gli Allman Brothers band, il fingerpicking folk che attraversa Wanderlast Begin, il brano più contiguo a The Year Of The Tiger, e le atmosfere soul che avvolgono la melodia Moonshot, sono gli high lights di un’opera godibilissima dal primo all’ultimo minuto.

Myles Kennedy dimostra ancora una volta di essere un musicista completo, capace di scartare dalla propria militanza metal con una visione ampia, che sa abbracciare svariati generi. Declinati con grande professionalità e con doti vocali uniche, ci mancherebbe, anche se, in questo caso, ciò che manca è un po' di trasporto emotivo e un tocco d’imprevedibilità.

VOTO: 7

 


 

Blackswan, mercoledì 26/05/2021

martedì 25 maggio 2021

LONELY PEOPLE - AMERICA (Warner, 1974)

 


Le canzoni, talvolta, hanno il potere di salvare la vita. Lo fanno inconsapevolmente, arrivando proprio in quel momento in cui tutto sembra perduto, la disperazione sta prendendo il sopravvento, e pensieri, cupi e minacciosi, affollano la mente. E’ il potere taumaturgico della musica, quel pungolo emotivo che talvolta fa piangere e commuovere, altre divertire, altre ancora regalare una serenità e una speranza che sembrano irraggiungibili chimere.

Alcune canzoni, poi, nascono proprio con quell’intento, tendono consapevolmente la mano all’ascoltatore, lanciano un salvagente quando l’acqua arriva fino al collo e rischiamo di annegare. E’ il caso di Lonely People, secondo singolo tratto da Holyday, album degli America, datato 1974.

Una canzone che suona come una sorta di Don’t Give Up (Peter Gabriel) vestita, però, di tenui colori pop e west coast. Non profonda come il citato brano di Gabriel, ma semplice e diretta, ed esplicita come non mai nei suoi intenti consolatori. Ascoltarla è come ricevere una carezza affettuosa o un caloroso abbraccio, è come sentire sussurrare nelle orecchie morbide parole di conforto e d’incoraggiamento. La chitarra acustica, un bel giro di basso, il piano, l'armonica e l’intreccio suadente delle voci sviluppano due minuti di melodia dolcissima, il cui unico intento è quello di donare speranza a chi l’ascolta.

Una canzone che si rivolge alle persone sole, a quelle che soffrono, a coloro, per citare Maupassant, che vivono “un’esistenza tetra e senza più attesa”. Le liriche invitano a non mollare, perché c’è ancora tempo per la felicità: “This is for all the lonely people, Thinkin' that life has passed them by, Don't give up until you drink from the silver cup And ride that highway in the sky”. Questa canzone è per tutte le persone sole che pensano che la vita sia ormai finita. Non è vero, non mollate, c’è ancora tempo per poter bere nella Silver Cup (l’amore degli altri), ancora tempo prima dell’ultimo viaggio (Highway In The Sky).

E poi: “This is for all the single people, Thinkin' that love has left them dry, Don't give up until you drink from the silver cup, You never know until you try”. La canzone, quindi, si rivolge anche a tutte quelle persone che ancora non hanno trovato il grande amore della loro vita: anche in questo caso, le parole invitano alla speranza, a non darsi per vinti, a cercare là fuori, la propria anima gemella, e vengono ribadite anche dalla strofa che chiude la canzone con l’incoraggiamento Never take you down or never give you up, Never know until you try” .

Il brano fu scritto da Dan Peek e dalla di lui moglie, Catherine, in risposta a Eleanor Rigby dei Beatles. Dan ricorda di essere rimasto sconvolto dall’ascolto del verso iniziale della canzone scritta da Paul McCartney (Look at all the lonely people) e di aver fatto fatica a rielaborare quella storia disperata, che rifletteva una moltitudine di umanità perduta, che stava affogando nel grigio dell’oblio. L’intento di Peek fu proprio quello di scrivere un brano che trasformasse il dolore delle persone sole in ottimismo, in un’esortazione a credere sempre nella bellezza della vita.

Quando Peek lasciò gli America, Lonely People divenne un cavallo di battaglia dei suoi concerti anche se, col tempo, ne cambiò il testo, che vide nuova luce nel 1986, in una versione intrisa di misticismo cristiano, grazie al verso “And give your heart to Jesus Christ” che andò a sostituire “You never know until you try”. 

Peek ci ha lasciati nel 2011. Lonely People fu la sua unica canzone a entrare nella top ten di Billboard.

 


 

 

Blackswan, martedì 25/05/2021

lunedì 24 maggio 2021

BUON COMPLEANNO, BOB!

 


Minchia, Bob, ottant’anni!

Com’è possibile sia passato così tanto tempo? Questo tempo maledetto, che scorre rapido e imprendibile, che ci sfugge tra le dita come acqua corrente e che c’inchioda, compleanno dopo compleanno, alla nostra finitezza umana. La fregatura, caro Bob, è che noi, io e te, accumuliamo anni, rughe e stanchezza, ma restiamo eterni ragazzi. Colpa della musica, temo, che ci fa sentire per sempre giovani, come recita quel tuo brano famoso, a cui sono affezionato più di qualunque altro. La musica, che apre il nostro mondo ai ricordi, e ci riporta indietro, nel passato dei nostri vent’anni, e poi, di nuovo avanti, nel futuro, spinti da un desiderio inesausto di nuove canzoni, da scrivere e ascoltare. Per sempre giovani, Bob, anche se tu oggi ne compi ottanta, e quel tuo viso perennemente imbronciato è solcato di rughe, una per ogni nota che hai scritto.

Ti ricordi la prima volta che ci siamo visti? Probabilmente no, di acqua ne è passata tanta sotto i ponti, e io ero solo un volto nella moltitudine. Era il 24 giugno del 1984, e per me fu un giorno indimenticabile. Eravamo a San Siro, e tu eri là in fondo, sul palco, la materializzazione della leggenda in un brulicare di anime, accorse a renderti omaggio. Io c’ero, giovanissimo, pieno di vita e di speranza, innamorato della tua voce sgarbata, grato per come le tue parole e le tue canzoni sapevano indicare la strada al mio passo incerto di diciottenne ed erano diventate il mio personale abbecedario di saggezza, di rabbia, di passione.

Prima di te, suonò quel giovane ragazzo napoletano che sapeva maneggiare il blues come un nero, e poi, un altro fenomeno, quell’incredibile chitarrista che aveva portato un angolo di Messico nel rock ‘n’roll e nella storia. Io, però, avevo occhi solo per te, bramavo di vederti e ascoltarti, il cuore in tumulto, le mani sudate dall’emozione.

E poi, finalmente…eccoti, un puntino lontano, eppure immenso e luminoso, come può esserlo una vita intera. La mia, la tua.

Ti ricordi come iniziasti? Io la tripletta iniziale, la ripeto ancora oggi come un mantra di gioia inarrivabile: Highway 61 Revisited, Jokerman e All Along The Watchtower. Non so se tu potrai mai comprendere l’effetto che fece su di me quell’inizio folgorante. Mi facesti piangere d’emozione e creasti un ricordo tra i più dolci di sempre. Apristi la strada al mio futuro, con la certezza, divenuta improvvisamente tangibile, che tu saresti stato al mio fianco, ad aiutarmi, in eterno. Passato e futuro, indissolubilmente legati. E’ il dono della musica, Bob, quel sentirsi per sempre giovani, che a diciott’anni ancora non comprendi, perché giovane lo sei già, e che oggi, invece, rappresenta la certezza e il faro nella notte di una vita che non va sempre come vorrei.

Non voglio, però, rubarti altro tempo, Bob: oggi, per te, è un giorno speciale, avrai candeline da spegnere, mani da stringere, abbracci da ricevere, telefonate a cui rispondere. Ti lascio qui i miei auguri e spero, per me, per te, che ci siano, in futuro, tante altre canzoni da condividere e nuove strade da percorrere insieme.

Grazie di tutto.

Minchia, Bob, ottant’anni! Ti rendi conto?

 


 

Blackswan, lunedì, 24 maggio 2021 

venerdì 21 maggio 2021

PREVIEW

 


La leggendaria band punk dei Descendents annuncia oggi il nuovo album 9th & Walnut, in uscita il 23 luglio su Epitaph Records. Nel 2002 la band nella sua line up originale di 4 membri, composta dal bassista Tony Lombardo, il batterista Bill Stevenson, il chitarrista Frank Navetta (deceduto nel 2008) e il cantante Milo Aukerman, era finalmente entrata in studio per registrare i brani che ne avevano forgiato il sound, sin da subito in grado di ridefinire i confini di genere.
 
L’album, che prende il titolo dallo spazio di Long Beach in cui la band si riuniva per provare all’epoca, è una raccolta di 18 tracce che include i loro primissimi brani composti tra il 1977 e il 1980, tra cui i singoli dell’esordio “Ride The Wild” e “It’s A Hectic World” (qui per la prima volta cantati da Milo) e una cover in pieno stile Descendents di “Glad All Over” dei The Dave Clark Five.
 
Baby Doncha Know” è la prima anticipazione del nuovo lavoro 9th & Walnut. “‘Baby Doncha Know’ è stata forse la quinta canzone che abbiamo imparato”, ricorda il batterista Bill Stevenson. “Andavamo al 9th & Walnut tutti i weekend e passavamo le giornate a suonare. Ero sbalordito dal fatto che un ragazzo della mia età che frequentava la mia stessa scuola potesse scrivere dei pezzi così fighi. Frank sembrava più maturo della sua età. Ma non gli ho mai chiesto di chi o di cosa parlasse. Ero solo felice di essere lì con lui e Tony”.

 


 

Blackswan, venerdì 21/05/2021

giovedì 20 maggio 2021

LUCINDA WILLIAMS - RUNNIN' DOWN A DREAM: A TRIBUTE TO TOM PETTY (Therty Tigers, 2021)

 


Lucinda Williams fa bene alla musica. Lo fa attraverso i suoi dischi, a parere di chi scrive sempre di altissimo livello, e lo fa grazie anche meritevoli iniziative, ultima delle quali questo progetto chiamato semplicemente Lu’s Jukebox. Un’idea maturata sul finire dello scorso anno, con cui la pluripremiata vincitrice di Grammy Awards ha organizzato una serie di sei concerti in streaming a pagamento, con il duplice intento di fornire sostegno ai locali costretti a rinunciare alla musica dal vivo a causa delle restrizioni dovute alla pandemia e rendere omaggio ad alcuni dei suoi musicisti preferiti, il primo dei quali è stato Tom Petty.

Questo primo show vede ora la luce anche in cd e doppio vinile, le cui copertine richiamano chiaramente quella iconica del leggendario Full Moon Fever, uno dei dischi più noti e amati del grande rocker originario di Gainesville.

Il rapporto fra Tom e Lucilla, non si limitava, però, alla reciproca stima. I due erano amici, Petty aveva sponsorizzato gli inizi di carriera di una sconosciuta Williams e i due, nel corso degli anni si erano trovati a condividere lo stesso palco, anche la settimana prima che Petty, in tour per festeggiare i quarant’anni di carriera, ci lasciasse. Una relazione profonda ed empatica, che vive come sottofondo nostalgico a questa raccolta, omaggio che sgorga dal cuore a quello che è stato un grande musicista e un grande amico.

Registrate dal vivo presso gli studi Room and Board di Nashville, le tredici canzoni in scaletta sono interpretate dalla Williams attraverso il suo stile unico: sono immediatamente riconoscibili come figlie di Petty, certo, ma la voce strascicata e l’approccio chitarristico robusto e scontroso, le rendono in qualche modo consanguinee in linea diretta anche con la Williams. Lucinda ci mette tutta se stessa, e si sente: c’è l’amicizia, ci sono le radici sudiste, c’è la complicità e la consapevolezza di chi ha condiviso affetto, passione e sudore, c’è la scelta di una scaletta non banale, da parte chi conosce a menadito un songbook vasto e ricco di meraviglie (a fianco delle classicissime A Face In The Crowd e I Won’t Back Down ci sono anche Rebels, Down South, Lousiana Rain).

Chiude il disco Stolen Moments, l’unica canzone autografa della Williams, scritta pensando ai giorni dell’amicizia con Petty e dedicata alla sua vedova. Chiosa intensa di un disco emozionante, che omaggia al meglio una delle più nobili figure del rock americano contemporaneo e tende la mano a uno dei settori più colpiti dagli effetti esiziali del Covid 19.

VOTO: 7,5

 


 


Blackswan, giovedì 20/05/2021

mercoledì 19 maggio 2021

HEROES DEL SILENCIO - AVALANCHA (EMI, 1995)

 



Nel 1994, gli Heroes Del Silencio sono quasi arrivati all’apice del successo. Non sono più solo una delle realtà musicali più interessanti del panorama rock iberico, ma con il loro El Espiritu Del Vino, pubblicato l’anno precedente, e il successivo estenuante tour, hanno scalato le classifiche di tutta Europa, conquistando anche l’attenzione di MTV, all’epoca, vera cartina di tornasole della popolarità raggiunta da una band. Mancano solo due piccoli passi per diventare stelle di prima grandezza: conquistare il mercato americano e quello giapponese.

I rapporti all’interno del gruppo, però, non sono più quelli di una volta: la morte in un incidente d’auto del road manager, Martin Druille, vero collante fra i componenti della line up, ha fatto riemergere criticità caratteriali, prima tenute a bada, e ora pronte a esplodere in violenti litigi. Il successo inaspettato, la difficoltà nel gestirlo e la stanchezza derivante dai numerosi impegni mediatici (oltre a centinaia di concerti tenuti in tutta Europa) hanno spremuto tutte le energie psicofisiche di quattro ragazzi che sembrano anzi tempo invecchiati.

Quando, sul finire del 1994, Enrique Bunbury e soci si ritirano a Benasque, piccola comunità montana dell’Aragona, per ritrovare l’ispirazione e la serenità perdute, gli Heroes Del Silencio sono una band sull’orlo di una crisi di nervi. L’isolamento forzato e la presenza di Alan Boguslavsky, nuovo chitarrista arruolato per il precedente tour, sembrano, però, riportare i rapporti in un alveo di fattiva collaborazione e unità d’intenti. Nelle gelide lande aragonesi, i cinque incidono diversi demo di quelle che saranno le canzoni che confluiranno nel nuovo album.

Il materiale è praticamente tutto pronto, quando la Emi mette i cinque ragazzi su un aereo, destinazione Los Angeles. E’ arrivato il momento del grande salto di qualità e bisogna conquistare il mercato americano: la casa discografica non bada a spese e mette a disposizione degli Heroes, in veste di produzione, il leggendario Bob Ezrim, uno che ha collaborato con Pink Floyd, Peter Gabriel, Kiss e Lou Reed, tanto per citare dei nomi.

Avalancha (Valanga), questo il titolo del nuovo disco che vede la luce nell’ottobre del 1995, rappresenta una sorta di piccola rivoluzione nel suono della band che, fin dalla copertina, veste abiti decisamente più iconici e rock. Messe da parte le fascinazioni latine, che avevano trovato una solida sponda nel precedente produttore (Phil Manzanera), le canzoni di Avalancha suonano decisamente più dure e dirette, e sono attraversate da quel respiro internazionale necessario a conquistare il mercato statunitense.

Apre la sognante Derivas, intro di un solo minuto, prima che il disco parta rapido e aggressivo, con l’hard rock impetuoso di Rueda, Fortuna!: il riff adrenalinico, la sezione ritmica martellante e il cantato potente e teatrale di Bunbury sono il biglietto da visita che apre agli Heroes Del Silencio una nuova, ma purtroppo breve, stagione di successi. Privato di ogni inutile orpello e indirizzato su un binario che spinge sulla potenza e la velocità, il suono degli Heroes si fa ruvido e asciutto, e mostra i muscoli, alternando il rock ‘n’ roll irrequieto di Parasiempre e l’hard rock rabbioso di Dias De Borrasca a vibranti ballate elettriche (Morir Todavia, scritta in memoria di Martin Druille e di Rafael, fratello di Bunbury, accoltellato in una rissa da bar) e appassionate e seducenti digressioni romantiche (la splendida La Espuma De Venus). La dolcezza acustica La Chispa Adecuada e l’epos travolgente di Iberia Sumergida diventeranno veri e propri cavalli di battaglia nelle performance live della band, che di lì a breve partirà per un lungo e intenso tour, da cui verrà tratto un doppio live, intitolato Parasiempre (1996).

La storia della band, però, è al capolinea: Enrique Bunbury e Juan Valdivia sono ai ferri corti, i litigi sono all’ordine del giorno. Il cantante è stufo della strada imboccata dalla band, trova obsoleta la musica e la strumentazione usata, scrive un decalogo a cui tutti dovranno attenersi, se vogliono continuare a suonare insieme. La risposta piccata degli altri quattro non tarda ad arrivare e, poco prima di organizzare un lungo tour in Giappone, la band implode e si scioglie, lasciando i fan attoniti e gettando al vento l’occasione per conquistare, definitivamente, il mondo.

 


 

Blackswan, mercoledì 19/05/2021

martedì 18 maggio 2021

BEN HOWARD - COLLECTIONS FROM THE WHITEOUT (Island, 2021)

 


Nonostante siano passati dieci anni dal primo album di Ben Howard, Every Kingdom, il cantautore è ancora tormentato dal quel primo inaspettato successo. Howard si è rapidamente allontanato dal suono folk-pop di quel disco, sposando il riverbero cupo e agonizzante del successivo I Forget Where We Were del 2014, un album che suonava disperato come un grido di dolore. Nonostante la rabbia dei fan che volevano un altro Every Kingdom, e che si ostinavano a gridare "suona Keep Your Head Up" ai suoi spettacoli dal vivo, Howard ha deciso di seguire una strada meno prevedibile e decisamente più complicata. E la sua determinazione a farlo, a fare la musica che vuole fare, senza guardare le classifiche e il ritorno commerciale, è profondamente ammirevole. Quella determinazione ha raggiunto il suo apice con Noonday Dream del 2018, un album ricco di atmosfera e di testi criptici e inquietanti, lontano anni luce dalla chitarra solare del singolo del 2011, Only Love.
Nel suo quarto album, Collections From the Whiteout, Howard ha spostato nuovamente il baricentro della narrazione e ha azzardato, combinando elementi di tutti i suoi lavori precedenti, pur mantenendo i fili che li legavano insieme: il suo modo di scrivere canzoni di alta classe, la voce distintiva e il modo creativo di suonare la chitarra (il suo incredibile fingerpicking). Ha anche aperto per la prima volta a collaborazioni fuori dalla cerchia dei musicisti che lo accompagnano da tempo. Ha quindi coinvolto Aaron Dessner dei The National – che di recente ha collaborato anche con Taylor Swift - e tutta una serie di altri musicisti pescati vasta rubrica telefonica di Dessner.

Il risultato di tutto questo è un disco che sembra fresco e nuovo, ma che è ancora distintamente un disco di Ben Howard. Ciò è lampante, ad esempio, nella straniante e bellissima Sage That She Was Burning, che presenta una bizzarra distorsione elettronica nell'introduzione, su cui si dipana il cantato malinconico di Howard fino a un momento di stasi acustica e alla conclusione mozzafiato trainata dalla batteria di Yussef Dayes (vengono in mente i Radiohead, ma è Howard sotto mentite spoglie). Un brano che riassume il mood di Collections, un disco ondivago e fatto di attimi, di intuizioni, di stati d’animo estemporanei, che vanno dallo sfarfallio elettronico della toccante Follie's Fixture, all’intreccio vellutato del singolo What a Day, o alla famigliare sensazione d’intimità dell’acustica Rookery.

Il rischio, vista la vasta gamma di collaboratori, di suoni e di idee, era quello che Collections potesse suonare disomogeneo e pretenzioso. Tuttavia, la brevità delle tracce, la qualità del songwriting e la voce di Howard, così delicata, fragile e al contempo profonda, tengono tutto insieme. Il calore e la leggerezza degli esordi trovano qui una nuova forma e una nuova dimensione, lo stile e le canzoni sono più aperte alle contaminazioni, e il disco riesce nell’intento di fondere il vecchio Howard, il suo stile mutante, ma immediatamente riconoscibile, in qualcosa che suona originale e fresco, eppure incredibilmente famigliare.

Non so dire se questo possa essere considerato il miglior disco di Howard: forse ognuno dei suoi quattro lavori finora pubblicati, a modo suo lo è, e il giudizio dipende esclusivamente dalla sensibilità di chi ascolta (personalmente amo alla follia il più cupo e malinconico I Forget Where We Were). Di sicuro, Collections suona come il suo più vario, intrigante e completo, e testimonia quanto questo grande songwriter sappia rinnovarsi pur mantenendo fede a se stesso.

VOTO: 7,5

 


 

Blackswan, martedì 18/05/2021

lunedì 17 maggio 2021

LOVESONG - THE CURE (Fiction, 1989)

 


Nel 1989, i Cure sono una band adulta e smaliziata, che ha saputo uscire dalla nicchia degli esordi, diventando un fenomeno rock di prima grandezza, che vende tantissimo e riempie gli stadi. The Head On The Door (1985) e Kiss Me Kiss Me Kiss Me (1987) hanno portato la band di Robert Smith sul tetto del mondo, rompendo definitivamente con il passato segnato da lavori oscuri come Seventeen Seconds (1980) e Pornography (1982): non è più tempo di musica esistenzialista e atmosfere crepuscolari, si guarda alle classifiche, si ammicca al pop, si cerca il consenso planetario.

I fan della prima ora, però, storcono un po' il naso, e Robert Smith, che è un uomo intelligente e sensibile, sente di aver tradito, almeno in parte, la sua idea di musica, e di aver rinnegato quel male di vivere che era stato il motore dei suoi dischi più intensi e ispirati.

Esce così Disintegration, un disco che ricongiunge i Cure e i loro fan alla splendida tripletta degli inizi anni ’80 (Seventeen Seconds, Faith e Pornography) e che fin dal titolo esplicita gli intenti della band: disintegrare la nuova immagine acquisita con gli ultimi successi commerciali e ritrovare l’estro creativo di un tempo che sembra lontanissimo.

Il risultato è un’opera disperata, gonfia di commozione e tristezza, che evoca gli echi presbiteriani del passato, trasmutandoli, però, in canzoni che suonano più struggenti e nostalgiche che gotiche. In una scaletta pervasa da languori malinconici (Pictures Of You, Lullaby, Plainsong, Prayers For Rain) spunta anche Lovesong, tre minuti di delizioso pop, che suonano leggerissimi e addirittura frivoli se paragonati al complessivo mood dell’album. Una dichiarazione d’amore all’amata moglie Mary Poole, attraverso parole che possono sembrare semplici e banali, ma che sono in realtà un monologo del cuore, diretto e scevro da sentimentalismi.

La parole di Robert Smith giocano con un immaginario di pieni e vuoti, di presenze (“Whenever I'm alone with you You make me feel like I am home again”) e assenze (“However far away, I will always love you”), innescando consapevolmente, in un involucro di totale dedizione e appassionato romanticismo, anche un retropensiero malinconico, quel “se tu non ci fossi” che si cela fra le righe del testo e che, ad esempio, ha ispirato la splendida cover del brano, recentemente eseguita dalla cantante inglese A.A. Williams.

La canzone, pubblicata come terzo singolo estratto dal disco, ebbe, strano a dirsi, poco successo in Inghilterra, mentre scalò le classifiche americane, piazzandosi, unico brano dei Cure a farlo, al secondo posto di Billboard. Oltre alle numerose reinterpretazioni che, nel corso degli anni, sono state date alla canzone (le più celebri sono quella di Adele nel suo album 21 e quella dei 311, inserita nella colonna sonora del film 50 Volte il Primo Bacio), Lovesong è stata usata anche per una delle sequenze più intense di Disobedience (2018), un appassionante film sulla storia d’amore fra due donne nella comunità ebraica di Londra, interpretato da Rachel Weisz e Rachel McAdams, per la regia del grande cineasta argentino, Sebastian Lelio. Dateci un occhio, perché vi emozionerete alle lacrime.

 


 

Blackswan, lunedì 17/05/2021

giovedì 13 maggio 2021

PREVIEW

 


Yann Tiersen annuncia l’uscita del nuovo album Kerber, prevista per il 27 agosto 2021 su Mute, e presenta un assaggio di come sarà il nuovo album; il primo singolo ‘Ker al Loch’ parte dai delicati accordi del pianoforte suonato da Tiersen ed arriva ad essere un assalto sensoriale avvolto da musica elettronica.

Weihl spiega che “Usando le astratte immagini geografiche create da Katy Ann Gilmore [l’artista che ha creato la copertina dell’album] come un punto di partenza e prendendo ispirazione dalla costa di Ushant e dalla natura, abbiamo creato un mondo di immagini (che vanno da elaborazioni di paesaggi immaginari, mari e condizioni atmosferiche, fino a reazioni chimiche e microbiologiche) che catturano la bellezza e la grandezza delle composizioni di Tiersen.”

Seguito di Portrait del 2019 (una raccolta di nuove registrazioni di 25 brani del suo repertorio) Kerber è decisamente un nuovo capitolo nella storia dell’artista bretone che in queste nuove composizioni fa apertamente uso di musica elettronica. E’ allo stesso tempo un‘evoluzione di ciò che c’era prima ed un nuovo spazio da esplorare, nel nuovo album il pianoforte è la base di tutto ma l’elettronica è l’ambiente in cui  si muovono. Tiersen spiega ‘Probabilmente il pensiero che ti viene istintivo fare è ‘ah, è musica da piano’ ma in realtà non è così. Ho lavorato partendo dalle tracce al piano ma non sono quelle le parti centrali, le parti importanti. Il contesto è la cosa più importante, il piano è stato la base per creare qualcosa su cui l’elettronica potesse funzionare”.
 
Lo spirito di un posto è sempre stato un tema centrale nel lavoro di Tiersen e lo è anche in questo caso: Kerber prende il nome da una cappella di un paesino sull’isola dove abita il musicista, Ushant, ed ogni traccia è legata ad un luogo, ottenendo così una mappatura del paesaggio che circonda la casa di Tiersen.

L’uscita di Kerber sarà preceduta, il 20 luglio, da un libro di spartiti pubblicato in esclusiva da Hal Leonard che conterrà tutti e sette i brani per Solo Piano, con prefazione di Tiersen.

 


 

 

Blackswan, giovedì 13/05/2021

mercoledì 12 maggio 2021

REBECKA TORNQVIST - A NIGHT LIKE THIS (EMI, 1993)

 


La fredda Svezia è da sempre la patria di una scena musicale variegata e interessantissima, che, per buttare sul piatto qualche nome, ha visto la nascita degli Abba (autentica istituzione della dance e del pop), di grintose band di classic rock (Blues Pills), di scatenati gruppi garage (The Hellacopters) e di potentissime armate metal (In Flames, Dark Tranquillity, Heat, etc.). Non è strano, quindi, che da questo ribollente magma sonoro, ci sia stato anche spazio per una figura come quella di Rebecka Tornqvist, raffinata cantante e musicista, che ha saputo ridestare interesse, negli anni ’90, verso un genere per troppo tempo rimasto sotto traccia.

Con il suo suono sofisticato e jazz, A Night Like This (1993) ha, infatti, rappresentato una grande svolta sia per Rebecka Törnqvist, che da questo momento in avanti viene considerata uno dei nomi caldi del panorama musicale svedese, che per un genere, quello del jazz declinato con accenti pop, allora privo di seguito e attenzione mediatica. Un disco d’esordio uscito quando la cantante era già ventinovenne, e che vede l’avvicendarsi in sala di registrazione di gran parte dell'élite jazz svedese, inclusi nomi come Per "Texas" Johansson, Anders Widmark, Esbjörn Svensson e Pål Svenre (che ha anche prodotto l'album insieme a Törnqvist). Molti di questi musicisti, come Johansson, sarebbero diventati famosi in pochi anni anche al di fuori dei circoli jazz, ma furono la Törnqvist e questo album in particolare ad essere stati cruciali per dare inizio all'ondata di cantanti jazz femminili degli anni '90 in Svezia (si pensi a Viktoria Tolstoy, che irromperà sulle scene l’anno successivo).

Nonostante ciò che ha significato per la popolarità generale del jazz in Svezia, A Night Like This suona più come un ibrido, un lavoro a metà strada tra jazz e pop: nel complesso, se la strumentazione e il suono sono jazz, l'approccio alla melodia e al ritornello di facile presa è decisamente più pop. Ne esce così un disco variegato, colorato e sensuale, che apre la porta del successo commerciale al jazz-pop svedese, anche se gran parte della scena alla fine degli anni '90 diventò piuttosto annacquata e meno strutturata tecnicamente. La Törnqvist, però, si è sempre distinta per l’ottima qualità di scrittura e per il timbro vocale unico, elementi questi, che fanno di A Night Like This un gioiellino da riscoprire.

A metà strada fra classicismo e modernità, la scaletta si muove attraverso fumose atmosfere notturne da jazz club e momenti più pimpanti e addirittura ballabili, tutti declinati con la raffinata eleganza formale e l’appassionato cromatismo di chi conosce a fondo la materia e sa gestirla con disinvoltura.

L’iniziale Mary, Mary scivola morbidissima, tra volute smooth jazz, dalle parti di Sade Adu, i ritmi latini dell’irresistibile Easy Come, Easy Go spingono verso il dancefloor, il tocco intimo e malinconico di Here’s That Rainy Day è perfetto per accompagnare il bicchiere della staffa mentre fuori inizia ad albeggiare, il pop di Molly Says cammina un metro da terra avvolto da un vaporoso arrangiamento d’archi, One Hour Drive è un tuffo nel passato confezionato da sfavillanti fiati, mentre la conclusiva I’ll Wait possiede un french touch spazzolato e nostalgico.

A Night Like This è un disco in cui la forma diviene sostanza, elegante e raffinato, eppure mai freddo o pretenzioso. La bravura di questa notevole interprete e songwriter è stata quella di collocarsi in una terra di mezzo fra colto e popolare, di parlare un linguaggio alto che fosse però comprensibile a tutti, di avvicinare il jazz alle masse, rendendolo accessibile, senza tuttavia tradire l’essenza di questa musica generalmente destinata a una elite. Un esordio sorprendente, che aprirà alla Tornqvist le porte della popolarità e del successo commerciale, bissato, due anni dopo, con Good Thing, disco di platino e vincitore in patria di un Grammis, l’equivalente svedese dei Grammy Award.

 


 

Blackswan, mercoledì 12/05/2021

martedì 11 maggio 2021

ACE OF SPADES - MOTORHEAD (Bronze Records, 1980)

 


Lemmy Kilmister è stato, e sarà per sempre, una delle figure più iconiche del rock. Espulso dagli Hawkwind dopo un arresto per possesso di anfetamine, padre padrone di quella macchina da guerra chiamata Motorhead, il cantante e bassista britannico ha sempre flirtato con l’immagine sporca e maledetta di uno che la vita l’ha vissuta col piede pigiato sull’acceleratore, non risparmiandosi mai ogni volta che c’era da inseguire il tracciato esiziale di qualche abuso o perversione.

Non era solo le physique du role (i baffoni, i capelli lunghi, i due nei respingenti, gli improbabili cappelli e il vocione roco) o l’infuocata miscela di punk e hard rock, senza compromessi e immutabile nel tempo, proposta dai suoi Motörhead: Lemmy non si è mai tirato indietro quando c’era da darci dentro con droghe, alcool e donne. Per non parlare, poi, dell’immancabile sigaretta, vero e proprio accessorio del suo maledettismo, e di quella passionaccia per i reperti della seconda guerra mondiale, che tante volte gli attirò accuse di nazismo, sempre, peraltro, rimandate al mittente.

Non tutti, però, sanno che Lemmy era anche ossessionato dal gioco d’azzardo, e non è un caso che la canzone più famosa dei Motörhead, Ace Of Spaces, sia proprio dedicata a questo suo ulteriore vizio. In tal senso, le liriche del brano sono estremamente esplicite: “If you like to gamble, I tell you I'm your man, You win some, lose some, all the same to me”. E ancora: “The pleasure is to play, makes no difference what you say, I don't share your greed, the only card I need is the Ace of Spades”. Non importa perdere o vincere, quello che conta, canta Lemmy, immedesimandosi in un novello Aleksej Ivànovic (Il Giocatore di Fedor Dostoevskji), è giocare. Il gioco per il gusto dell’azzardo, che altro non è che la metafora di una vita vissuta sempre sul filo del rasoio (“You know I'm born to lose, and gambling's for fools, But that's the way I like it baby, I don't wanna live for ever”).

La canzone fa esplicito riferimento al gioco del poker, che però a Lemmy piaceva relativamente; il cantante e bassista dei Motorhead, infatti, era un drogato di slot machine, gioco a cui si dedicava con smodata passione, arrivando persino a importunare tutti gli amici con continue richieste di monetine. Tuttavia, non trovando spunto nelle slot machine per scrivere un testo che parlasse seriamente dell’argomento, il bassista si ispirò al più iconico poker, riesumando anche la leggendaria the dead man's hand, una giocata composta solo da assi e da otto ("Pushing up the ante, I know you gotta see me Read 'em and weep, the dead man's hand again").

Il riferimento è al celebre pistolero americano Wild Bill Hickok, soprannome di James Butler Hickok, che trovò la morte, il 2 agosto del 1876, al tavolo da poker del saloon Nuttal & Mann's di Deadwood, ucciso da John “naso rotto Jack” McCall, un avventore che al processo riferì di aver voluto vendicare la morte del fratello (ma poi risultò essere un assassino prezzolato). Al momento della sua uccisione (un colpo di pistola alla testa esploso alle sue spalle), Wild Bill aveva in mano un coppia di otto e una di assi, di picche e di fiori, che da quel momento in avanti venne chiamata "la mano del morto”.

La canzone, che apre l’omonimo e quarto disco dei Motörhead (1980), è stata certificata disco d’oro (vendette oltre quattrocentomila copie) ed è stata usata in numerosi video game, film e spot pubblicitari. Tra le cover del brano, vale la pena ricordare quella spassosissima fatta dagli Hayseed Dixie, band che si diletta a reinterpretare in chiave bluegrass grandi classici rock e metal.

 


 

 

Blackswan, martedì 11/05/2021

lunedì 10 maggio 2021

EGO KILL TALENT - THE DANCE BETWEEN EXTREMES (BMG, 2021)

 


Segnatevi questo nome, anche prima di leggere la recensione. Anzi, evitate proprio di perdere tempo a leggere e correte ad ascoltarvi The Dance Between Extremes, album d’esordio dei brasiliani Ego Kill Talent, che, azzardo un’affermazione un pò tranchant, sono una delle migliori alternative rock band in circolazione.

Purtroppo, però, ancora pochi lo sanno, e gli EKT, nonostante il passaparola, restano, per il momento, un ascolto di nicchia. Anche perché la pandemia ha cambiato le carte in tavola, e il 2020, che avrebbe dovuto essere l’anno della loro svolta, si è poi rilevato nefasto. L’uscita del disco è stata rimandata e i tour, in cui la band brasiliana avrebbe dovuto condividere il palco con Metallica e Greta Van Fleet, sono stati soppressi. Saltati i piani, questi cinque ragazzi brasiliani non si sono dati per vinti, hanno pubblicato due Ep in attesa di tempi migliori, e oggi, finalmente, escono con il loro disco d’esordio. Che è bellissimo, una vera e propria bomba.

Potremmo parlare di un alternative rock che guarda per ispirazione alla metà del 2000, potremmo azzardare inutili paragoni con Foo Fighters e Alter Bridge, ma tutto sarebbe estremamente riduttivo. Gli Ego Kill Talent sono una band straordinaria, a cui manca davvero poco per fare l’inevitabile salto di qualità. Sanno suonare da Dio, sono tecnicamente poliedrici, tanto che dal vivo si scambiano gli strumenti per il divertimento del pubblico pagante, e conoscono il segreto per scrivere grandi canzoni. Sanno essere rumorosi e arrembanti, forgiando nel metallo riff pesantissimi, ma al contempo sanno giocare con la melodia, rendendo accattivante ogni singola canzone che compone la scaletta dell’album. Non solo. Grazie anche al contributo del produttore Steve Evetts (un maestro del metal, che ha lavorato, tra i tanti, con i connazionali Sepultura) hanno definito un suono e uno stile unico, in cui potenza di fuoco e ritornelli goduriosissimi trovano un perfetto bilanciamento con un’attitudine quasi prog. Non è un caso, infatti, che le canzoni, per quanto immediate e dirette, siano assolutamente imprevedibili, imboccando spesso strade inaspettate e musicalmente seducenti.

Ascoltate l’iniziale NOW! per farvene un’idea: melodia allo stato puro stritolata fra riff al metallo, stop and go, cambi ritmo, incredibili digressioni strumentali. Un biglietto da visita che apre a un disco, in cui non c’è un solo attimo di stasi, non un solo riempitivo o calo di tensione. Difficile citare un brano che suoni meglio dell’altro, perché sono tutti così vitali e carichi di energia da lasciare senza parole.

Deliverance possiede un tiro pazzesco ed è al contempo così stranamente afflitta e malinconica, Our Song sfoggia un ritornello da compulsivi passaggi radiofonici, Sin And Saints è una bordata funk metal che asfalta i padiglioni auricolari, e potremmo continuare per ognuna delle dodici tracce, ognuna delle quali con una caratteristica, un suono o un’intuizione che riescono a carpire l’attenzione e sorprendere.

E’ forse ancora presto per dirlo, ma gli Ego Kill Talent possiedono tutte le carte in regola per diventare stelle di prima grandezza: esordire con un disco di questa caratura, tecnica e qualitativa, non è da tutti, rileggere il metal con tale attitudine melodica, è da autentici fuoriclasse. Ma questo, se avete evitato di leggere la recensione e siete corsi ad ascoltare il disco, già lo sapete.

VOTO: 9

 


 

Blackswan, lunedì 10/05/2021

venerdì 7 maggio 2021

TREATMENT - WAITING FOR GOOD LUCK (Frontiers, 2021)

 


Originari di Cambridge e formatisi nel 2008, i Treatment tornano con il quinto album in studio, prodotto da Laurie Mansworth, secondo lavoro che vede Tom Rampton alla voce e il primo con Andy Milburn al basso.

Il disco è stato registrato in modo diverso rispetto alle precedenti produzioni: causa pandemia e lockdown, il gruppo ha tagliato i ponti col mondo, si è ritirato in una sorta di bolla e ha composto e suonato queste dodici canzoni con un approccio che più live non si può. Il risultato è un vibrante disco di hard rock classicissimo, che sostituisce la mancanza di originalità con massicce dosi di ardore.

La prima traccia, Rat Race, è l’emblema dell’intero album, una tirata con ritornello molto catchy, che sembra rubata dal songbook degli Ac/Dc, seguita a ruota, poi, dal riff contagioso e dai cori travolgenti di Take It Leave It.

Lightning In A Bottle è contagiosa fin dal primo ascolto, con quel riff rubato impunemente agli Aerosmith e il groove che tira a cento all’ora. Uno dei migliori brani del lotto, che si gioca la palma d’oro con la successiva Vampress, che sgomma via con le sue influenze rock blues sudiste, trasportata da un riff potentissimo e da una serie di assoli brevi ma ficcanti. Dopo il pesante hard rock blues di Eyes On You, che vede Tom Rampton protagonista di una grande performance, le citazioni continuano con No Way Home, sorniona e ondeggiate, ponte temporale con la fine degli anni ’70, periodo in cui dominavano gli Status Quo e il loro bad boy boogie.

Potente e molto melodica anche Devil In The Detail, che trasforma la band in un ibrido fra Ac/Dc e Def Leppard, seguita da Tough Kid, introdotta dal basso di Andy Milburn, che apre a un saliscendi emotivo fra graffio e melodia.

Hold Fire ritorna a schizzare alla velocità della luce (provate ad afferrarla se siete capaci), mentre Barman si veste inaspettatamente di blues, con un tocco di colore honky tonk.

La rabbiosa e lunatica Lets Make Money e la più radiofonica Wrong Way chiudono la scaletta con un tiro pazzesco, evidenziando la capacità della band di plasmare tra melodia e sportellate elettriche un suono capace di appiccare il fuoco alle casse dello stereo.

Non c’è dubbio che questo sia il miglior lavoro dei Treatment, che pur non rivoluzionando il proprio patrimonio genetico, sfoggiano una forma fisica incredibile, hanno migliorato il livello di scrittura e hanno trovato nell’ugola di Tom Rampton un tratto distintivo insostituibile.

Se anche voi vi sentite come l’uomo in copertina, sfinito da questi giorni tutti uguali, destabilizzato da una vita passata fra le pareti domestiche ad aspettare un po' di fortuna, ingannate l’attesa ascoltando il disco dei Treatment: non sarà l’album dell’anno, ma vi restituirà un po' di sana energia vitale.

VOTO: 7

 


 

Blackswan, venerdì 07/05/2021

mercoledì 5 maggio 2021

MACACO - EL MONO EN EL OJO DEL TIGRE (Edel Music, 1999)

 


Caos, casino totale, miscuglio: in una parola Patchanka. Che è un genere non genere, un ibrido musicale che ha come padre putativo e fonte d’ispirazione il leggendario album dei Clash, Sandinista (1980), e che raggruma, nelle sue svariate espressioni, correnti musicali anche diversissime tra loro, il cui elenco potrebbe condurre il lettore allo sfinimento: rock, punk, reggae, ska, musica latina, funky, salsa, rap, calypso, e chiudiamo qui per non appesantire troppo la pagina.

Il termine fu coniato dal gruppo francese dei Mano Negra, che lo utilizzarono come titolo del loro album d’esordio, datato 1988. La band, capitanata da Manu Chao, raggiunse il picco di maggior successo nel 1991, con King Of Bongo, e si sciolse, poi, nel 1994, aprendo le porte alla carriera solista del suo frontman, che portò la patchanka sul tetto del mondo, con il clamoroso successo di Clandestino, album datato 1998, che vendette milioni di copie in tutto il mondo.

L’avventura dei Mano Negra non fu un episodio a se stante, ma trovò moltissimi estimatori, contribuendo anche alla nascita di alcune band pronte a cavalcare l’ombra lunga di questo nuovo, suggestivo genere. Lo straordinario ibrido franco-algerino dei coevi Les Negresses Vertes, quello franco spagnolo dei Sergent Garcia, l’adrenalinica miscela di musica tzigana e punk dei Gogol Bordello, gli italianissimi Modena City Ramblers e, per finire il breve elenco, i catalani Macaco, sono alcuni dei nomi più interessanti che hanno abbracciato le coordinate del movimento.

Fondati nel 1997 dal cantante Dani Carbonell "El Mono Loco", i Macaco hanno rappresentato (e rappresentano) la quintessenza di quel caos musicale definito patchanka: membri della band originari di svariate parti del mondo, canzoni in cui la tradizione mediterranea viene imbastardita da inusitati connubi con reggae, dub step, rock, funky, blues, punk e musica elettronica, liriche declinate in lingue diverse, dallo spagnolo al catalano, dal francese all’inglese e financo in italiano.

Se è vero che la band è ancora in attività e continua a rilasciare dischi, è altrettanto vero che il momento di maggior successo è relegato alla fine degli anni ’90, con l’uscita di El Mono En El Ojo Del Tigre, album trainato da due singoli di successo, quali Tio Pedrito e Gacho El Peleon.

Un disco che è l’istantanea di una band ricca di talento e ispiratissima, il cui retroterra apolide e politicamente barricadero sfornava canzoni sempre in bilico fra impegno e pura energia, istintivamente concepite per la pista da ballo ma non prive di una struttura musicale ragionata e carica di suggestioni.

Se Manu Chao, per citare il padre del genere e l’artista che proprio in quei giorni viveva il suo maggior periodo di gloria, imbastiva canzoni con velleità rivoluzionare e l’occhio ben puntato sul mainstream, i catalani Macaco, pur senza sconfessare posizioni politiche apertamente di sinistra, giocavano maggiormente sull’immagine di cazzari festaioli e tossici, rimestando nello sporco grazie a suoni molto meno levigati.

Il risultato è un disco che riesce ad aggirare le coordinate buoniste alla Manu Chao, per esaltare invece una certa propensione al maledettismo più contiguo al punk che al pop. L’odore di canna si respira per tutta la scaletta, così come una certa sguaiata irriverenza (il singolo bomba Tio Pedrito e quel “Cabron!” urlato sfacciatamente) e la sensazione di trovarsi gomito a gomito con l’umanità colorata, cruda e, talvolta deviata, che abita la zona portuale di Barcellona, così come quella di altre mille città di mare.

Tante belle canzoni in scaletta, che è difficile ascoltare, rimanendo col sedere incollato al divano. Dal funky scalpitante di Lliamando a La Tierra alle suggestioni mediorientali di Brujo Cabicho, dalla salsa tossica di La Rebellion al reggae fumatissimo e sensuale di La Raiz, per non parlare poi dei due singoli già citati, veri e propri riempipista in salsa latina, El Mono En El Ojo Del Tigre funziona alla grande per tutta l’ora di durata, plasmando, con azzeccati inserti di elettronica, un ibrido musicale ricco di spezie e profumi che eccitano i sensi e spingono verso la voluttà del ballo. La restante carriera sarà punteggiata da altri buoni dischi (Rumbo Submarino del 2002), ma nessuno che si sia mai avvicinato alla miscela esplosiva di questo straordinario album con cui i Macaco salutano il vecchio millennio. Che è decisamente meglio di qualunque altra cosa abbia partorito Manu Chao, dopo lo scioglimento dei Mano Negra. Da riscoprire.

 


 

Blackswan, mercoledì 05/05/2021