martedì 30 novembre 2021

TWENTY ONE - THE APARTMENTS (Microcultures, 2015)

 


Sono passati diciotto lunghissimi anni prima che Peter Walsh decidesse di emergere dal ritiro quasi ascetico nel quale si era nascosto, diciotto anni per tornare finalmente a rivedere la luce, a respirare musica. 

Quattro dischi, nel corso degli anni ’90, avevano trasformato gli Apartments in una band di culto, amata soprattutto da quei cuori malinconici grati ai languori della penombra.

Come un Burt Bacharach dalle movenze notturne, Peter Walsh declinava un pop dalle trame dense, spesso arrangiate per archi e fiati, e dai testi amari e mai condiscendenti. Poi, quando, nel 1997, esce Apart, per Walsh tutto cambia, la vita si impone prepotentemente sulla musica e il mood malinconico delle canzoni viene spazzato via dall’urlo senza requie della tragedia: la malattia della figlia, il calvario, il lutto. Gli Apartments svaniscono, Walsh si richiude in se stesso, per cercare una cura alle proprie ferite interiori.

Ci vuole tempo perché l’arte riesca a metabolizzare il dolore della perdita, a lenire un destino che non dà scampo alla speranza. Ci sono voluti esattamente diciotto anni per riuscire a scrivere otto canzoni che chiudessero i conti con il passato. Otto canzoni che non sono plumbee e contrite come ci si sarebbe potuto aspettare, ma che nemmeno celebrano con enfasi una rinascita.

No Song, No Spell, No Madrigal ha invece il passo di un uomo che torna a camminare sulle proprie gambe, ad attraversare quei boulevard parigini che erano i luoghi di una giovinezza ormai lontana. C’è grazia, e misura, e una nota sottostante di nostalgia, che nasce da un incanto perduto, da una passione non obliata, ma solo stemperata dall’età adulta. La tensione non è mai invasiva, nè viene imprigionata dallo struggimento. C’è semmai uno sguardo che si scioglie in un sorriso triste, quello sguardo affettuoso e consapevole con cui la maturità si guarda dietro le spalle, ricordando i giorni andati, con pacatezza.

Non c’è tragedia in No Song, No Spell, No Madrigal, ma un’eleganza espressiva che rende sostanziale la perfezione della forma, con la consapevolezza che per raccontare il dolore, bisogna soprattutto saperlo scrivere con misura. Un dolore che può essere trattenuto ma non dimenticato, e che riaffiora, come uno scoglio, nel mare della vita, quando, puntuale, la bassa marea di giorni tutti uguali svela un tormento dissimulato, ma profondamente radicato.

Twenty One è la quarta traccia di una scaletta impeccabile, un’elegia malinconica della perdita, in cui il sapore dolce amaro del ricordo è evocato dallo sgocciolare mesto di poche note di piano. Che, nella loro esile consistenza, sono tutto: la melodia, la presenza e l’assenza, la purezza di immagini eterne, la nostalgia per ciò che è stato e l’afasia per ciò che non sarà mai.

Quando muore un figlio la vita si ferma nell’immobilismo del lutto, e spesso i tentaivi di reagire non fanno altro che rendere più esiziale lo sprofondo emotivo: “Sono bloccato nelle stesse sabbie mobili dal 1999, bloccato nelle stesse sabbie mobili”. Un figlio muore, il suo sangue, il suo corpo, la sua anima stanno evaporando, nonostante il tentativo di trattenerli con la bugia della speranza, la bugia di una promessa, che è come osare, vanamente, di allungare lo sguardo su un futuro che non ci sarà: “La neve stava cadendo su Broadway e te l'avevo promesso un giorno, ti porterei a New York. Che fine ha fatto la promessa? Che fine ha fatto il tempo?”.

Non c’è una medicina giusta per sopravvivere a tanto dolore, ognuno combatte con le armi che può, anche se la battaglia è persa in partenza: “Alcuni sono per ricordare e alcuni sono per dimenticare, Ad ogni modo, non c'è più, Ad ogni modo, è andato.”

Walsh sceglie di ricordare, di non cancellare immagini legate a momenti di gioia, a sentimenti purissimi, quelli di un pardre che guarda crescere il proprio figlio, giorno dopo giorno, anno dopo anno. Eppure, è inevitabile, il pensiero di questa morte vigliacca e ingiusta continua a sovrapporsi ingolfando le memorie più dolci: “…ricordo tutte le feste di compleanno, bambini che trasportano palloncini, stelle filanti legate a una staccionata di legno…Ti ho portato sul mio fianco all'inizio, ti ho portato sulle mie spalle. Ti ho portato su una lunga macchina nera. Non invecchierai mai.

La constatazione dell’ineluttabile, della finitezza umana, dell’insensatezza del tutto sono racchiuse nel lungo mantra finale, in domande senza risposte che lasciano sgomenti e che inchiodano a una vita, ormai, senza più senso: “E dove e dove e dove e dove sono le feste che non si sono mai tenute? e dove sono tutte le nevi che non sono mai cadute? Dove sei amore mio? Dove sei? Non ci saranno ventun’anni, non ci saranno feste, niente feste, niente feste. Non ci saranno ventun’anni”.

 



Blackswan, martedì 30/11/2021


lunedì 29 novembre 2021

TIME CLOCKS - JOE BONAMASSA (Provogue, 2021)

 


Un tempo, ci si stupiva per la super prolificità di Joe Bonamassa, uno capace di sfornare un disco via l’altro, come se il tempo fosse sempre dalla sua parte. Oggi, dopo tanti anni di carriera, quella fecondità è diventata semplicemente un segno immediatamente distintivo, e non il solo. Quando il chitarrista di Utica si è affacciato al panorama musicale, la sua abilità tecnica fece sperticare la stampa in elogi sempre più convinti, come se fosse l’unica abilità riconducibile al talento di Bonamassa. Nell'ultimo decennio, tuttavia, il suo materiale originale, sempre più potente ed espressivo, ha preso il centro della scena, tanto che oggi, l’indubbia bravura come chitarrista è solo una parte della narrazione. Dopo l'eccezionale Redemption del 2018, che ha visto Bonamassa adottare un approccio da cantautore confessionale, continuando a trasformare il blues-rock in nuove forme vertiginose, Royal Tea dell'anno scorso, realizzato per onorare le leggende del blues britannico con cui è cresciuto, sanciva un’ulteriore passo avanti nella sua crescita artistica, ribadita, ora, da questo ennesimo e ottimo Time Clocks.

Grazie a una sana dose di sicurezza che lambisce spesso i confini della spavalderia, Bonamassa ha acquisito la capacità di trarre in inganno l’ascoltatore, dando delle indicazioni per percorrere una strada che, poi, si rivela quella sbagliata. Sebbene, infatti, la maggior parte delle canzoni di questo nuovo disco faccia riferimento sia al suo lavoro passato che a numerosi riferimenti di genere, proprio quando pensi che si sia invischiato in cliché e formule prevedibili, il chitarrista, con abile gioco di prestigio, mischia le carte in tavola con risultati sorprendenti.

"Notches", ad esempio, cita lo spavaldo riff di Clapton su "Had To Cry Today" dei Blind Faith, ma aggiunge contrappunti di sitar aprendo alla psichedelia, scatena un vibrante coro e pompa gagliardo sulla ritmica in una corsa a perdifiato. Un brano che riesce a fondere passato e presente, tradizione e originalità in un unicum avvincente.

In Time Clocks, Bonamassa si diverte a creare scenari lussureggianti, a sovrapporre generi e suoni, dimostrando il crescendo della sua maturità compositiva. La title track ne è un esempio cristallino: apre in modalità southern country dal mood malinconico e riflessivo, e poi, trascinata dal contrappunto di cori appassionati, si gonfia in un gospel da cantare a squarciagola, accendini alla mano.

Altrove, il blues-funk sinuoso di "Questions and Answers" lascia il posto a vaghi sentori mariachi, mentre la successiva e roboante "Curtain Call", fa pensare ai Led Zeppelin della metà degli anni '70 collocati, però, in una struttura più complessa, quasi progressive.  Magico, poi, il connubio fra folk rinascimentale, cupezza soul e l’energia di un riff potentissimo di "The Loyal Kind", un azzardo che in mano ad altri poteva risultare un pasticcio e a cui, invece, Bonamassa riesce a dare un equilibrio e un’omogeneità eccezionali.  

In un contesto di brani strutturati con intelligenza e mutevoli nelle forme, ci sono anche canzoni più immediate, come "The Heart That Never Waits" e "Hanging On A Loser", che scintillano grazie brillante mixaggio di Bob Clearmountain e conquistano al primo ascolto, trainati dagli uncinanti riff e da quel costante tocco gospel dovuto al perfetto flusso dei cori.

Insomma, Time Clocks potrebbe sembrare, appena messo sul piatto, il solito disco di Bonamassa, salvo poi mostrare diverse sfaccettature e una struttura tanto solida quanto complessa, quando l’ascolto viene approfondito. Un album che parla del tempo che scorre, della mortalità, ma anche dei periodi in cui il chitarrista faceva fatica a sbarcare il lunario e dei suoi rapporti non sempre idilliaci con l’industria discografica, e che conferma, se mai ce ne fosse bisogno, di un musicista cresciuto anno dopo anno, sia sotto il profilo tecnico che sotto quello del songwriting. Finchè mantieni questo livello, caro Joe, per quanto ci riguarda, puoi fare uscire anche un disco alla settimana.
 
Voto: 7,5
 

 

Blackswan, lunedi 29/11/2021

venerdì 26 novembre 2021

GLORY BOX - PORTISHEAD (Go!Discs/London, 1994)

 


Quando il brit pop sta iniziando la sua parabola discendente, in Inghilterra si va affermando un nuovo genere, che, dalla città di Bristol, si appresta a conquistare gli ascolti di mezzo mondo. Si chiama trip hop, un ibrido in cui confluiscono hip hop, soul, psichedelia, jazz, funk, dub ed elettronica.

Portabandiera del suono, insieme a Morcheeba e Massive Attack, sono i Portishead, che prendono il nome da una piccola cittadina del Somerset, in cui è cresciuto Geoff Barrow, mente pensante della band, polistrumentista e produttore. Arruolata la magnetica Beth Gibbons, cantante dal timbro vocale spettrale, i Portishead escono nel 1994 con un esordio folgorante, intitolato Dummy, a tutt’oggi considerato dalla critica come uno degli album più influenti di quel decennio.

Dieci tracce (undici nell’edizione americana) in cui suoni clamorosamente vintage (sintetizzatori moog e rhodes, organo hammond, giri di chitarra tratti da colonne sonore cinematografiche degli anni sessanta) vengono rielaborati in chiave moderna attraverso l’uso di campionatori e scratch. Il risultato è una scaletta dagli umori cupi e malinconici, che si srotolano su ritmiche rallentate quasi al confine della narcolessia.

In una scaletta, che è riduttivo definire perfetta, svetta il brano conclusivo, Glory Box, canzone che la mano del tempo ha collocato sul piedistallo della leggenda. Costruita sullo scheletro di Ike's Rap II di Isaac Hayes dall'album Black Moses, Glory Box viene lanciata come singolo, su insistenza della casa discografica, nonostante il parere contrario dei musicisti, che la ritenevano troppo commerciale e non adatta a rappresentare la vera essenza della musica dei Portishead. Non è un caso, quindi, il brano che compaia in coda al disco, come a voler rimarcare la distanza fra la band e una canzone che, però, innegabilmente, diede loro il successo commerciale e la fama.  

Una linea di basso che scende verso un cupo sprofondo, la batteria che scandisce il ritmo al rallentatore, volute di archi ad accentuare l’effetto ipnagogico e un ritornello, il cui grido di dolore della Gibbons si inerpica sulle scariche elettriche di una chitarra sporca e distorta sono l’ossatura di Glory Box. Difficile immaginare qualcosa di più malinconico di questa dolorosa confessione a cuore aperto di una donna ferita nei sentimenti, delusa da un rapporto ormai avariato, pronta a rinunciare all’amore per salvaguardare il proprio orgoglio e la propria identità.

L’idea di partenza fu quella di utilizzare l’immagine della Glory Box (uno scrigno prezioso, in cui le donne, nei tempi passati, usavano riporre il proprio corredo per la dote in vista del matrimonio), come metafora dell’anima femminile, per denunciare una relazione logora, che non riesce più a trasmettere felicità e passione, ma solo una esiziale frustrazione: “Sono così stanca di giocare, di giocare con questo arco e queste frecce…lascia che siano le altre ragazze a giocare”. Perché l’uomo che Beth ha davanti agli occhi ha ormai perso la propria integrità, e soprattutto, non possiede più quella sensibilità che era stata la scintilla dell’amore (“Quindi non smettere di essere un uomo. Dai solo un'occhiata verso di noi quando puoi, Semina un po' di tenerezza, Non importa se piangi”).

E poi, nel ritornello, quell’invocazione, quel grido disperato, estremo, ma vano tentativo, di tenere in piedi un rapporto che non ha più ragione d’essere:” Dammi una ragione per amarti, Dammi una ragione per essere una donna, Voglio solo essere una donna”.

La canzone, anche a causa del video, in cui uomini e donne si scambiano i ruoli, fu inizialmente male interpretata da parte del pubblico, che travisò le liriche come se quella della Gibbons fosse una richiesta al proprio uomo di prendere in mano le redini della relazione. La cosa fece molto infuriare la cantante che, resasi conto che la gente aveva frainteso i suoi sentimenti, cominciò a considerare la canzone solo un mero prodotto di consumo, un veicolo per arricchirsi e niente più.

Non è un caso, infatti, se Dummy, trainato proprio da Glory Box, ebbe un successo commerciale ragguardevole, conquistando dischi d’oro e di platino praticamente in ogni angolo del mondo. E ciò, nonostante sia un album non facilmente digeribile, cupo, malinconico, di quelli che spingono verso una dimensione parallela, in cui ogni ascolto pretende il suo tributo di lacrime, palpiti e struggimenti.

 


 

Blackswan, venerdì 26/11/2021

giovedì 25 novembre 2021

PREVIEW

 


KORN annunciano il nuovo album REQUIEM, in uscita il 24 febbraio su Loma Vista/Virgin. Guarda il video di "Start The Healing".

Korn annunciano il loro nuovo album in studio Requiem. In concomitanza con l’annuncio dell’album, la band condivide il video del singolo "Start The Healing" diretto da Tim Saccenti (Flying Lotus, Run The Jewels, Depeche Mode). 

Il regista parlando della genesi di "Start The Healing" dice:

"La nostra idea per questo video era quella di mutare quell'aspetto del DNA dei Korn che li rende così stimolanti, il loro mix di potenza grezza ed emozioni umane.

Volevo trasportare lo spettatore in un viaggio emotivo, come fa la canzone, una morte e una rinascita viscerali e catartiche che, si spera, aiutino l'ascoltatore in qualunque siano le sue lotte personali.

Collaborando con l'artista 3-D Anthony Ciannamea abbiamo attinto alla mitologia dei Korn ed esplorato le loro fonti di luce e oscurità per creare un incubo horror surreale.”

A causa degli effetti del Covid e dell'impossibilità di suonare dal vivo, Requiem è stato concepito in circostanze molto diverse rispetto alla maggior parte del catalogo della band. È un album nato senza fretta e dalla possibilità di creare senza pressioni. Stimolata da un nuovo processo creativo senza vincoli di tempo, la band è stata in grado di fare cose con Requiem che gli ultimi due decenni non sempre si è permessa, come prendersi più tempo per sperimentare insieme o registrare diligentemente su nastro analogico, processi che hanno portato alla luce una nuova dimensione sonora e consistenza nella loro musica.

 


 

 Blackswan, giovedì 25/11/2021

mercoledì 24 novembre 2021

OF THE WAND & THE MOON - YOUR LOVE CAN'T HOLD THIS WREATH OF SORROW (Heiðrunar Myrkrunar, 2021)

 


Una copertina che rispecchia perfettamente il titolo del disco e la musica in esso contenuta: due mani alla gola come una ghirlanda di dolore che nessun amore può curare. E’ la visione pessimistica di Kim Larsen (padre padrone del progetto Of The Wand & The Moon), musicista danese che guarda alla vita senza speranza, che riflette su questi giorni bui, in cui l’umanità vaga alla deriva, naufraga in un oceano esistenziale in cui la brutalità è all’ordine del giorno.

La pandemia, lo sfacelo climatico, l’intrinseca malvagità dell’uomo, belva feroce che tutto distrugge, inconsapevole di far danno a se stesso. Sono questi i presupposti che infondono un’invasiva mestizia in nove canzoni profondamente intimiste, cupe, depresse, appena attraversate, di tanto in tanto, da tenui barbagli di luce, gli stessi evocati dal corredo fotografico contenuto nel booklet e da qualche momento sonoro pacificato. Nove canzoni che si ispirano, il riferimento è abbastanza lampante, alla musica dei Death In June, per citare la band più contigua a questo progetto, senza, tuttavia, che la riuscita miscela fra neo-folk e art-rock, dal passo cinematografico e solenne, perda il proprio taglio personale, caratterizzato da arrangiamenti lussureggianti e dal quadro d’insieme organico e coeso.

Ci sono voluti dieci anni, prima che Larsen tornasse a comporre musica, a mettere nuovamente in note i propri tormenti esistenziali. Il risultato finale è decisamente il suo disco migliore, un album in cui i riferimenti alla cultura nordica presente nei precedenti lavori hanno perso la propria centralità in favore della riflessione interiore e di un mood depresso, caratterizzato da malinconia e tristezza.

Difficile togliere dal piatto un disco così coinvolgente, soprattutto se l’umore di chi ascolta è in sintonia con questo neo-folk, proposto attraverso una visione moderna del genere: orecchiabile, cinematografico, malinconico e solenne. Lo stesso semplice approccio alla melodia e quelle linee di basso avvincenti che hanno ispirato album come The Lone Descent sono ora supportati da raffinati arrangiamenti semi-orchestrali, che danno una dimensione completamente nuova alle canzoni, prima di adesso coinvolgenti, certo, ma decisamente meno intriganti sotto l’aspetto della ricchezza del suono.

In Your Love Can’t Hold The Wreath Of Sorrow, la tavolozza sonora è decisamente più audace e varia rispetto al passato, e induce a ripetuti ascolti, ognuno dei quali volto a scoprire le numerose sfumature che rendono questo disco così tanto avvincente.

Perfetta colonna sonora a corredo di plumbei cieli autunnali e per accompagnare passeggiate solitarie nella nebbia, vero e proprio combustibile emotivo per innescare soliloqui e struggimenti in anime tormentate e romantiche.

VOTO: 8

 


 


Blackswan, mercoledì 24/11/2021

martedì 23 novembre 2021

CANDY SAYS - THE VELVET UNDERGROUND (MGM, 1969)

 


E’ capitato a tutti, almeno una volta nella vita: guardarsi allo specchio e non piacersi. Non è soltanto una mera questione estetica, ma c’è qualcosa di più inquietante, di più destabilizzante. Perché, talvolta, quell’immagine riflessa, che ci accompagna da sempre, ci appare come quella di un estraneo, non rappresenta la percezione che di noi stessi abbiamo nel profondo dell’anima. E così, ci percepiamo inadeguati, sfasati rispetto al mondo circostante, risucchiati in un magma doloroso di insicurezze e frustrazioni. E’ questo spaesamento emotivo che ha ispirato Lou Reed a scrivere una delle canzoni più belle e intense dei Velvet Underground. Il brano s’intitola Candy Says e lo trovate su The Velvet Underground, il terzo album della band newyorkese, il primo con Doug Yule in formazione al posto di John Cale, e il primo rilasciato per l’etichetta MGM Records.

Il brano trae spunto dalla triste vicenda di Candy Darling, attrice transgender, star della Factory di Andy Warhol, che successivamente, il 21 marzo del 1974, all’età di soli ventinove anni, morirà di cancro a seguito delle iniezioni di ormoni femminili a cui si sottoponeva. Perché Candy, all’anagrafe, di nome faceva James Lawrence Slattery, ma si accorse ben presto, durante la sua adolescenza, di essere omosessuale e di amare il travestitismo. Candy voleva essere donna, a tutti i costi: è per questo, che ogni volta che si guardava allo specchio, sentiva un profondo disagio interiore, e che scontrarsi con la realtà di tutti i giorni, era come affrontare una battaglia, che le logorava la mente e il cuore; è per questo, che si sottopose, per anni, a un’invasiva cura ormonale, che le procurò il linfoma che la uccise.

Il corpo come un involucro che spesso rappresenta un ostacolo alla felicità, alla piena realizzazione di se stessi. “Candy dice sono arrivata a odiare il mio corpo”. Recita così, l’incipit della canzone, che venne cantata da Doug Yule, perché Reed aveva problemi alle corde vocali, in quel momento consumate dai troppi concerti dal vivo. Odiare il proprio corpo perché implica un grave sfasamento con la realtà, anelare una libertà che è però destinata a rimanere una chimera (“Guarderò gli uccelli blu volare sulla mia spalla, li guarderò mentre mi passano accanto”), ambire a un cambiamento radicale, che inquieta e mette paura (“Odio le grandi decisioni, che causano infinite revisioni nella mia mente”). 

Resta celebre la versione di Candy Says, che Lou Reed, nel 2005, interpretò insieme a Antony And The Johnsons, alla Carnegie Hall di New York. Il destino volle che, sette mesi prima di morire, Reed suonò ancora una volta la canzone, ancora una volta insieme a Antony, alla Salle Pleyel di Parigi. Fu l’ultima apparizione su un palco del grande musicista americano, che ci ha lasciati il 27 ottobre del 2013.

 


 

Blackswan, martedì 23/11/2021

lunedì 22 novembre 2021

LANA DEL REY - BLUE BANISTERS (Polydor, 2021)

 


A marzo, appena dopo l’uscita dell’ottimo Chemtrails Over The Country Club, Lana Del Rey aveva annunciato un nuovo disco, che sarebbe dovuto uscire a giugno e si sarebbe dovuto intitolare Rock Candy Sweet. Invece, è stato necessario qualche mese in più perché il nuovo album vedesse la luce e con il titolo diverso di Blue Banisters. Un ritardo dovuto, ovviamente, al lavoro di limatura delle canzoni, ma anche alla necessità di ritrovare riservatezza e tranquillità, perdute a causa dei continui attacchi della stampa (alcuni suoi commenti su Donald Trump hanno scatenato un vero e proprio putiferio), che hanno portato la songwriter americana a chiudere tutti i suoi profili social.

L’isolamento ha indubbiamente giovato alla qualità di scrittura e alla lucentezza del suono, visto che questo nuovo disco si colloca un gradino sopra il suo predecessore, per varietà espositiva ed intensità emotiva.

L'album, come di consueto, suona molto malinconico, è pervaso di tristezza e intimismo, sentimenti che sono, da sempre, la maggior fonte d’ispirazione della trentaseienne musicista originaria di New York. Un mood che, evidentemente, le è caro, una predisposizione alla mestizia tanto radicata da spingere Lana a difendere a spada tratta le sue scelte sulle tintinnanti note di pianoforte di Beautiful, brano che evoca addirittura Picasso e il suo periodo blu (“E se qualcuno avesse chiesto a Picasso di non essere triste?" si chiede. "Non avremmo mai saputo chi fosse o l'uomo che sarebbe diventato. Non ci sarebbe il periodo blu).

Una canzone, questa, che testimonia anche l’evoluzione di Lana come cantante: la sua voce suona calda e ricca di sfumature come, probabilmente, mai prima. Quel cantato languido e avvolgente risplende in molti degli episodi migliori del disco, nella title track, ad esempio, o nella stupefacente "Arcadia", senza ombra di dubbio una delle canzoni più intense scritte da Lana negli ultimi anni.

Blue Banisters è, decisamente, un disco più vario, che imbocca strade diverse dai i due album precedenti, Chemtrails... e Norman Fucking Rockwell, lavori che evocavano un certo folk targato Laurel Canyon, qui presente solo in qualche episodio. Una peculiarità dovuta, probabilmente, al fatto che il nuovo disco è una raccolta sia di vecchie canzoni che di nuovo materiale. Alcune di queste tracce ("Nectar Of The Gods", "If You Lie Down With Me"), infatti, risalgono addirittura al 2013 e avrebbero potuto essere incluse nel suo disco del 2014, Ultraviolence.

In questo nuovo capitolo, Lana, poi, utilizza soprattutto il pianoforte, che diviene l’elemento centrale in quasi tutte le canzoni, ad eccezione dell’insolita "Interlude-The Trio", che campiona Ennio Morricone su ritmiche trap, o dell’incedere jazzy di Dealer, in duetto con Miles Kane (The Rascals, The Last Shadow Puppets) e uno degli apici emotivi del disco, in cui Lana, quasi urlando, canta, a proposito di una relazione sentimentale in agonia: “Non voglio vivere, non voglio darti niente, perché non mi dai mai niente in cambio”.

Al disco, probabilmente, avrebbe giovato un minutaggio inferiore, e qualche canzone ("Living Legend", "Nectar Of the Gods") suona rispetto al resto della scaletta, solo come un piacevole riempitivo, senza riuscire a svettare all’interno di un contesto di qualità altissima. Ciò nonostante, con Blue Banisters, Lana Del Rey non solo rifinisce e consolida una stile inimitabile, ma conferma di vivere un momento artistico ispiratissimo, a dispetto, come dicevamo all’inizio, di una costante aggressione mediatica, che invece di ferirla, sembra averla rafforzata sotto il profilo della consapevolezza e dell’integrità.

VOTO: 8

 


 


Blackswan, lunedì 22/11/2021

venerdì 19 novembre 2021

BILLY O'CALLAGHAN - MY CONEY ISLAND BABY (Guanda, 2021)

 


In un pomeriggio sferzato da un vento tagliente, Michael e Caitlin camminano in fretta, l'uno vicino all'altra. Il lungomare che un tempo risuonava di rumori appare adesso l'estremo limite del mondo. Sono venticinque anni che, ogni primo giovedì del mese, entrambi fuggono dai rispettivi matrimoni infelici per incontrarsi a Coney Island, il loro paradiso perfino in questa fredda e desolata giornata invernale. In un'asettica camera d'hotel, Michael e Caitlin rubano alla vita quotidiana ore segrete d'amore che sono il loro nutrimento, il sogno che li tiene vivi: qui possono finalmente essere se stessi e lasciare libero sfogo ai propri stati d'animo, abbandonarsi al sesso, al piacere, alla tristezza. Ma oggi ciascuno ha qualcosa da dire all'altro, qualcosa che potrebbe segnare per sempre la fine del loro rapporto.

Un pomeriggio d’inverno, un vento gelido ferisce l’aria a coltellate, il cielo plumbeo evoca presagi di neve. Coney Island, New York. Michael e Caitlin si infilano in uno squallido albergo a ore, esattamente come fanno da anni, una volta al mese. Sono follemente innamorati l’uno dell’altra, ma il loro rapporto è clandestino, evita la luce del sole, per rinchiudersi periodicamente in una stanza occasionale, il loro piccolo mondo a parte. Questa, però, potrebbe essere l’ultima volta, perché Michael deve accudire la moglie gravemente malata, e Caitlin seguire in un'altra città il marito, che inizierà un nuovo lavoro.

Un’ultima volta insieme, forse, per misurare la forza del loro amore, per guardarsi in faccia e affrontare l’inevitabile. Perché l’amore, quello che vivono, è un sentimento fortissimo, ma la vita li strattona, continuamente, tenendoli uno lontano dall’altra, e ciò che li lega, ciò che per entrambi rappresenta la gioia che rinfranca le reciproche solitudini, potrebbe svanire, in un attimo, evaporato nelle traiettorie parallele delle reciproche esistenze che non s’incroceranno più.

Scegliere fa paura, e i fantasmi che entrambi portano nel cuore, sono fardelli troppo pesanti per essere liberi di spiccare il volo. Michael ha lasciato, adolescente, l’Irlanda e la famiglia d’origine, e sente gravare sulle spalle il peso di aver abbandonato il padre malato, morto qualche tempo dopo la sua partenza. Porta nel cuore anche un lutto dolorosissimo, che ha incrinato il rapporto con la moglie Barb, ora malata terminale. Anche Caitlin è irlandese, ed è cresciuta con la madre, donna all’antica, incapace di adeguarsi ai costumi americani e allo scorrere del tempo. Da piccola, ha subito abusi dal patrigno, un uomo apparentemente buono, poi sparito nel nulla. Senza punti di riferimento, ha cercato, con scarsi risultati, una via di fuga nella scrittura, e, poi, in un matrimonio, ora trasformatosi in mera routine quotidiana.

In entrambi vivono, confliggenti, il desiderio di realizzare il loro amore, nato tanti anni prima, e al contempo la necessità di restare saldamente legati alla vita che si sono creati a fatica, insoddisfacente, forse, ma, sicuramente, consolante.

My Coney Island Baby è la storia ordinaria di un amore non ordinario, che spinge a riflettere sulla mezza età (i due protagonisti sono vicini alla cinquantina) e sullo scorrere inesorabile del tempo, che mortifica la carne e la passione, certo, ma che grava soprattutto l’essere umano di responsabilità, rimorsi, paure, abitudini, insicurezze, tutte pastoie che impediscono un’esistenza piena, che frenano, inesorabilmente, ogni tentativo di evadere da un destrino segnato.

Può questo amore, anche se occultato e reietto, essere sufficiente a salvare i due protagonisti da un’esistenza tetra e infelice? E soprattutto, quanto deve essere forte un sentimento per dare il coraggio di rinunciare a tutto, di distruggere il mondo intorno a cui ruota la vita di ciascuno dei due protagonisti del libro?

Sono questi gli interrogativi a cui Billy O’Callaghan cerca di dare una risposta nelle pagine di un romanzo, che non è un romanzo d’amore ma un romanzo sull’amore, le cui pagine dolorose e drammaticamente reali, toccano il cuore grazie a una prosa che sa raccontare l’ordinarietà della vita con l’intensità della poesia. E che costringono, soprattutto, il lettore a scavare nella propria anima, alla ricerca delle macerie di ciò che sarebbe potuto essere e che, invece, non è mai stato.

Blackswan, venerdì 19/11/2021

giovedì 18 novembre 2021

PREVIEW


 

I Placebo annunciano finalmente i dettagli dell’attesissimo nuovo album. A nove anni dalla pubblicazione dell’ultimo lavoro Loud Like Love, arriva il 25 marzo 2022 l’ottavo album in studio della band intitolato Never Let Me Go.

Lo scorso settembre i Placebo hanno rotto un lungo silenzio pubblicando “Beautiful James” il loro primo singolo in cinque anni, nonché la prima anticipazione dell’ottavo album. Un brano allegro e celebrativo, ricco di rabbia nei confronti di quelle fazioni ignoranti che hanno ormai distrutto la conversazione moderna. Questo il commento di Brian Molko: “Se il brano irriterà i conservatori, allora va bene così”.

Veri maestri nel rappresentare la condizione umana, il loro modo unico di analizzarne al contempo la bellezza e le imperfezioni ha trovato terreno fertile nel 2021. Mentre ci avviamo verso la fine della pandemia ci ritroviamo davanti paesaggi colmi di insofferenza, divisioni, una saturazione tecnologica e un’imminente catastrofe ecologica. E il messaggio e la voce dei Placebo suonano oggi più attuali e appropriati di sempre. In “Surrounded By Spies”, brano magnetico che si consuma lentamente, la band non usa mezzi termini e affronta l’erosione della libertà civile, mentre la voce di Brian Molko provoca un senso di claustrofobia, come se le pareti si stessero stringendo intorno a noi. 

 
Lo stesso Brian Molko commenta:

“Ho iniziato a scrivere questo testo quando ho scoperto che i vicini mi stavano spiando per conto di qualcuno con un piano folle. Poi ho iniziato a riflettere sui mille modi in cui la nostra privacy è stata compromessa e ci è stata del tutto tolta con l’introduzione delle telecamere a circuito chiuso che adesso utilizzano tecnologie di riconoscimento facciale razziste, l’arrivo di internet e dei cellulari, che hanno trasformato praticamente chiunque in paparazzi o spettatori delle loro stesse vite, e di come quasi tutti noi abbiamo dato accesso alle nostre informazioni a giganti multinazionali che hanno il solo scopo di sfruttarci.

Ho usato la tecnica del cut-up inventata da William S Burroughs e resa famosa nella musica moderna da David Bowie. È una storia vera raccontata attraverso un velo di paranoia e disprezzo per i valori della società moderna e la deificazione del capitalismo della sorveglianza. Il narratore è allo stremo, disperato e spaventato, completamente in disaccordo con il nuovo progresso e il dio denaro”.

 


 

Blackswan, giovedì 18/11/2021 

martedì 16 novembre 2021

RICHARD ASHCROFT - ACOUSTIC HYMNS VOL.1 (Infectious, 2021)

 


E’ fuor di dubbio che Richard Ashcroft, una delle voci più iconiche del brit pop, non ha mai perso il “tocco”, dimostrando con continuità di essere un abile e ispirato songwriter, nonostante siano passati quasi tre decenni da quando ha fondato i Verve. Il suo ultimo lavoro da solista, Natural Rebel del 2018, aveva confermato che la capacità di Richard Ashcroft di scrivere grandi canzoni non è stata dissipata nel tempo. Pertanto, resta un po' di amaro in bocca per il fatto che il cantante inglese torni sulle scene con un disco di materiale non originale ma con una raccolta di brani già editi.

Poco male, perché questo nuovo Acoustic Hymns Vol 1 è, comunque, un gradito regalo per gli amanti irriducibili della musica dei Verve e dei lavori solisti del loro leader. Un album che contiene dodici versioni acustiche di altrettanti brani, che abbracciano tutta la sua carriera, a partire dalla produzione degli anni ’90 in seno alla band e dai suoi primi successi da solista. Nessuna novità dunque, ma una scaletta dagli intenti soprattutto celebrativi, che veste di nuovi abiti canzoni, alcune delle quali, veri e propri gioielli che hanno resa preziosa la stagione del brit pop.

Prodotto dallo stesso Ashcroft insieme a Chris Potter, e registrato presso gli Abbey Road Studios, Acoustic Hymns è musicalmente un disco molto intenso, sia per la caratura artistica del materiale in esso contenuto, sia per l’indubbio pathos di queste nuove reinterpretazioni. La selezione di brani comprende alcuni classici Verve, tratti principalmente da Urban Hymns ("Bittersweet Symphony", "Lucky Man" e "The Drugs Don't Work") oltre a successi da solista come "A Song For The Lovers" e "Break The Night With Colour", che suonano deliziosamente anche in queste versioni più spoglie, accarezzate spesso dal morbido velluto degli archi.

Il disco, meglio chiarirsi, artisticamente ha poco da offrire per un ascoltatore occasionale, mentre, per converso, è un’autentica goduria per fan delle prima ora, che ritroveranno la famigliarità di tante hit, le cui nuove sfumature risiedono, oltre che nell’habitus acustico, nella voce matura e nodosa di Ashcroft. Le canzoni, poi, non si discutono: sono tutte bellissime ab origine, e questa rilettura non fa che ribadire i motivi per cui ce ne innamorammo ai tempi. Svettano, però, su tutte, la conclusiva "The Drugs Don’t Work", struggente come non mai, e "A Song For The Lovers", la cui sublime melodia viene ulteriormente messa a fuoco. Nell’album, compare anche un cameo di Liam Gallagher, che duetta con Ashcroft in "C'Mon People (We're Making It Now)", uno dei pezzi più amati dal leader dei Verve, e che, nello specifico, rappresenta l’unica vera curiosità in scaletta.

Se siete, come il sottoscritto, fan della prima ora, correte subito ad acquistare la vostra copia di Acoustic Hymns: sarà piacevole fare un nostalgico tuffo nel passato per riascoltare tante canzoni che, si spera, evocheranno dolcissimi ricordi. Per tutti gli altri, il consiglio è quello, eventualmente, di recuperare prima gli originali, in attesa che il buon Richard rilasci, finalmente, un nuovo disco di materiale inedito.

VOTO: 7

 


 


Blackswan, mercoledì 17/11/2021

LAND OF THE FREE - THE KILLERS (BMG, 2019)


 

Adam Lanza ha vent’anni, e vive con la madre a Newport, in Connecticut. Durante l’infanzia ha avuto disturbi psichiatrici, ma è sempre apparso come un ragazzo tranquillo, nonostante una certa propensione alla solitudine. Negli ultimi tempi, però, qualcosa è cambiato: Adam vive in un volontario isolamento, si rifiuta di vedere chiunque, mangia pochissimo, ha oscurato le finestre della camera con dei sacchi della spazzatura, ha interrotto i contatti con il padre e il fratello, che vivono altrove, e dialoga con la madre convivente solo via mail. Quest’ultima, è una patita delle armi, ne possiede in gran quantità e ha insegnato ad Adam, fin da piccolo, ad usarle in un poligono di tiro vicino a casa.

La mattina del 14 dicembre del 2012, Adam si sveglia, prende una pistola dall’arsenale materno, si reca in camera del genitore e le esplode quattro proiettili in faccia. Poi, prende l’auto, un fucile e un’altra pistola, e si dirige verso Sandy Hook Elementary School, situata a otto chilometri da casa sua. Qui, preso da furore belluino, inizia a far fuoco all’impazzata, uccidendo ventisette persone, venti delle quali bambini di un’età compresa fra i sei e i sette anni. Prima dell’arrivo della polizia, rivolge la pistola verso di sé e si toglie la vita.

Quello di Sandy Hook passa alla storia come uno dei più gravi massacri scolastici accaduti negli States. Non il solo, purtroppo, e non l’ultimo. Un fatto di cronaca agghiacciante, terribile, che induce Brandon Flowers, leader della band americana di rock alternativo The Killers, a profonde riflessioni sul paese in cui vive e all’idea di scriverci una canzone, che sia di denuncia aperta verso un sistema che non funziona più e, forse, non ha mai funzionato. L’idea, che continua però a frullare nella testa del cantante, viene accantonata per cinque anni, per poi tornare prepotente nel 2017, quando la situazione politica statunitense ha una svolta improvvisa, ed esiziale, con l’elezione di Donald Trump a Presidente. Questo evento spinge Flowers a riprendere quei ragionamenti, a mettere in musica liriche che mettano il dito nella piaga delle armi, come abbrivio per parlare anche di diseguaglianza sociale, dell’ingiustizia razziale e della crisi al confine col Messico.

La canzone, che prende il titolo di Land Of The Free, viene portata a compimento a fine 2018 nei Battle Born Studios di Las Vegas, con Jacknife Lee alla produzione e Lynn Mabry, Dorian Holley, Will Wheaton, Sherree Patrice Brown e Akasha Mabry ai cori gospel, e quindi pubblicata come singolo a gennaio 2019.

C’è una profonda tristezza nelle liriche del brano: parole amare che raccontano la condizione degli immigrati in un paese che dovrebbe essere la terra della libertà e delle opportunità e che invece è sempre più simile a un campo santo, nel quale vengono seppelliti i martiri di un’ingiustificata discriminazione.

La narrazione è in soggettiva, in prima persona, in modo da facilitare l’immedesimazione di chi ascolta:

“…Siamo solo io e il mio vecchio
Che laviamo il suo camioncino alla stazione di servizio Sinclair
Nella terrà della libertà
La famiglia di sua madre, Adeline, è arrivata in nave
Ha spaccato il carbone e ha piantato un seme
Nelle tante miniere della Pennsylvania
Nella terra della libertà”

Un’ordinaria storia di immigrazione, il racconto di povera gente che affronta lunghi viaggi alla ricerca della terra dell’abbondanza, dove, però, i sogni s’infrangono sula realtà e resta solo il duro lavoro per la sopravvivenza. Perché vivere in una terra straniera, se sei un miserabile, se il colore della tua pelle e il tuo idioma sono diversi, è uno strazio quotidiano, è una condizione marcata a fuoco dalla paura:

Sono qui a piangere
Quando esco in macchina…
Ma se hai la pelle del colore sbagliato…
Cresci guardandoti sempre alle spalle
Nella terra della libertà

Perché la fuori, se sei nero o messicano, basta uno sguardo sbagliato, una sciocchezza, un nonnulla, perché ti mettano le manette ai polsi e ti portino via, lontano da quel poco di caro ancora ti è rimasto:

Abbiamo più persone incarcerate
Del resto del mondo
Proprio qui tra il rosso, bianco e blu
Sono qui a piangere
Gli arresti sono diventati un grande affare
È periodo di grande raccolta per le strade

Tornano, poi, prepotentemente alla memoria l’incubo di Sandy Hook e i suoi non più differibili interrogativi su un Paese in cui tutti posso comprare armi e usarle per uccidere indiscriminatamente, perfino i bambini:

Allora, quante figlie?
Ditemi quanti figli?
Dobbiamo sotterrare
Prima di cedere e affrontare la situazione?
Abbiamo un problema con le pistole

Nel finale, il dito viene puntato contro le politiche razziste di Trump e la mano tesa verso un popolo, quello messicano, che cerca negli Stati Uniti un’opportunità di riscatto e la speranza di una vita migliore.

E giù al confine
Costruiranno un muro
Di cemento armato
Sono qui a piangere
Alto abbastanza da tenere lontane tutte quelle sporche mani
Dai nostri sogni e dalle nostre speranze
Sono qui a piangere
Persone che vogliono soltanto le stesse cose che vogliamo noi

Per il video da accompagnare alla canzone, Flowers, dopo aver visto BlacKkKlansman, telefonò personalmente a Spike Lee, convinto che il regista fosse l’unico in grado di poter dare un senso a liriche tanto impegnate. Il cineasta accettò di buon grado e mandò una troupe, capitanata dal direttore della fotografia Felipe Vara De Rey, a Tijuana, per filmare i migranti in uno dei campi di accoglienza lì presenti.

L’anno successivo, i Killers rimisero mano alla canzone, modificandone il testo per poterlo adattare alla dolorosa vicenda di George Floyd: Eight measured minutes and 46 seconds / Another boy in the bag / Another stain on the flag“. Otto minuti e 46 secondi, è il tempo per il quale il poliziotto di Minneapolis, l’agente Derek Chauvin, ha tenuto il suo ginocchio premuto sul collo di George Floyd, impedendogli di respirare e causandone così la morte.

 


 

Blackswan, martedì 16/11/2021

lunedì 15 novembre 2021

SAMANTHA FISH - FASTER (Rounder Records, 2021)

 


Samantha Fish è una di quelle artiste a cui la comfort zone sta stretta. Pur mantenendo uno stile riconoscibile e un graffio rock geneticamente identificativo, la bionda chitarrista ama, infatti, avventurarsi per nuove strade e declinare la propria musica con accenti ogni volta diversi.

Basta dare un occhio all’ultima produzione, per rendersi conto di come la sua personale tavolozza di colori si sia arricchita di nuove sfumature, disco dopo disco. Chills And Fever pescava a piene mani dal Memphis soul e Motown R&B, scartavetrati dal rock garagista dei Detroit Cobras, presenti in studio con la chitarrista, Belle Of The West era un album prevalentemente (ma non esclusivamente) acustico, in cui confluivano blues, gospel e country, amalgamati attraverso la genuinità dell’America rurale e l’occhio vigile di una ragazza moderna che conosce la propria storia e custodisce con amore le tradizioni, e Kill Or Be Kind, un lavoro meno immediato e più ragionato, in cui la Fish ribadiva la propria attitudine a diversificare la proposta, mischiando nuovamente le carte e creando un giusto compendio tra rock blues e soul.

Il nuovo Faster determina un ulteriore scarto laterale: se i presupposti sono quelli di un rock energico e ad alta esposizione di chitarre, alla miscela si aggiungono pop, elettronica e persino una breve incursione nel rap. Artefice di questa svolta, il produttore Martin Kierszenbaum (Lady Gaga, Sting), che ha co-scritto otto dei 12 nuovi brani e ha aiutato la Fish a rifocalizzare il suo suono e a espandere il suo stile in un territorio precedentemente inesplorato. In studio, oltre a Kierszenbaum, che ha anche suonato chitarra, pianoforte, tastiere e percussioni, due vecchie volpi come il batterista Josh Freese (Guns N' Roses, Nine Inch Nails, The Replacements) e il bassista Diego Navaira (The Last Bandoleros). Come già detto, c'è, poi, anche un'apparizione inaspettata del rapper/cantante/cantautore Tech N9ne.

Il risultato finale è un disco maturo, che suona incredibilmente moderno e mostra un artista capace di superare i propri limiti e di assumersi la responsabilità di svariati azzardi. La Fish, infatti, si rifiuta di riciclare il passato, scegliendo, invece, di reinventare suono e visione, nel tentativo riuscito di inseguire la sua musa, a prescindere dalla destinazione finale.

Samantha apre il disco con la sua feroce title track Faster, una canzone dura e audace con un'attitudine rock and roll a tutto tondo e un assolo notevole. La successiva All Ice No Whiskey cambia le carte in tavola, fonde lo stile della chitarra rock con un suono pop e un approccio alla produzione, entrambi millesimati 2021. È una canzone ibrida, che funziona sorprendentemente bene e illustra come creare un crossover innovativo, accostando due generi apparentemente opposti in modo che abbiano perfettamente senso.

La Fish, però, si spinge ancora più in là, con il pop fluttuante Crowd Control, una canzone più riflessiva, con un tocco indie pop costruito su groove delicati e tastiere brillanti. Anche Loud possiede un taglio ambizioso, che passa dal pop melodico all'heavy rock e viceversa, approdando anche in territorio hip hop, grazie al cameo di Tech N9ne, mentre Hypnotic mostra un approccio di grande modernità nel maneggiare la sacra materia del R&B. Il disco si chiude, come meglio non potrebbe, con All The Words, malinconica ballata d’atmosfera, in cui la Fish dimostra doti vocali di notevole spessore.

Faster è un disco carico di energia positiva, solare e sensuale, in cui l’equilibrio perfetto tra generi dimostra quanto ampio sia il bagaglio artistico della trentaduenne chitarrista di Kansas City. Un album, per certi versi, assai innovativo rispetto al passato, che probabilmente farà storcere il naso a chi, dalla Fish, si aspettava un approccio più ortodosso. Noi la preferiamo così, libera di spaziare e audace nel declinare, senza rispettare alcuna regola, un’idea moderna di rock.

VOTO: 8

 


 

Blackswan, lunedì 15/11/2021

venerdì 12 novembre 2021

SKINNY LOVE - BON IVER (Jagjaguwar, 2007)

 


La genesi di For Emma, Forever Ago, album d’esordio di Justin Vernon, al secolo meglio conosciuto sotto lo pseudonimo di Bon Iver, è di quelle che restano impresse nella memoria, una storia che sembrerebbe quasi la trama di un romanzo. Anzi, togliamo il quasi, visto che alla figura del musicista originario del Wisconsin, lo scrittore americano Nikolas Butler (che di Justin Vernon fu compagno di scuola) ha ispirato il suo romanzo d’esordio, Shotgun Lovesong (2014), struggente racconto di amicizia ambientato nella cornice rurale del Midwest.

E’ il 2006, quando Justin Vernon si trasferisce in un capanno isolato di proprietà del padre, nella contea di Dunn, nel Wisconsin. Una vera e propria fuga dal mondo e dalla propria vita che va a rotoli, per cercare di ritrovare se stesso, la bussola e la direzione da prendere. La solitudine come antidoto al veleno esistenziale che lo stava portando a cronicizzare un’esiziale depressione: una relazione importante finita malissimo, lo scioglimento della band in cui militava (DeYarmond Edison) e i postumi di una grave forma di mononucleosi. E’ in questo contesto agreste, in questo capanno isolato dal mondo, che Vernon scrive, registra e suona tutte le canzoni che compongono il primo album sotto l’egida Bon Iver: For Emma, Forever Ago.

Skinny Love è la terza traccia del disco e probabilmente la canzone più conosciuta e popolare del songwriter americano, grazie anche a una cover che, del brano, nel 2011, fece la cantante britannica Birdy, riaccendendo così l’attenzione mediatica intorno alla storia di Vernon e ai suoi patimenti di cuore.

Un testo struggente, che analizza con mestizia un amore agli sgoccioli, anzi, un amore magro, come recita il titolo stesso della canzone.

Come on, skinny love, just last the year
Pour a little salt, we were never here
My, my, my, my, my, my, my, my
Staring at the sink of blood and crushed veneer
I tell my love to wreck it all
Cut out all the ropes and let me fall
My, my, my, my, my, my, my, my
Right in this moment, this order’s tall

L’idea è quella di rappresentare il rapporto amoroso con fattezze fisiche: un amore diventato magro, senza più peso, al limite della consunzione. L'amore magro non ha alcuna possibilità di sopravvivere perché è malnutrito, anche se Vernon spera che duri un po' di più, almeno per il resto dell'anno, e spera che versando del sale, le sue proprietà curative possano aiutare a guarire la ferita di questa relazione terminale. Le speranze sono, però, al lumicino, e visto che la fine è certa, allora è meglio chiudere subito: “taglia tutte le corde e lasciami cadere” è l’invocazione alla propria amante, la preghiera di rinunciare a tutto, subito, senza attendere l’inevitabile.  

“And I told you to be patient
And I told you to be fine
And I told you to be balanced
And I told you to be kind
And in the morning I’ll be with you
But it will be a different kind
And I’ll be holding all the tickets
And you’ll be owning all the fines”

Il ritornello mostra Vernon come un amante estremamente prepotente ed esigente, che dice alla sua donna come si sarebbe dovuta comportare per non far finire la loro storia. Un storia ancora viva (“And In The Mornig I’ll Be With You”) ma ormai irrimediabilmente compromessa (“But I Will Be A Different Kind”). Sono parole aspre, livide, gonfie di recriminazione e di rabbia. 

Come on, skinny love, what happened here? Suckle on the hope in light brassiere”. Con questi versi, Vernon si interroga sulle cause che hanno portato alla fine del rapporto e, per converso, si sta ancora aggrappando a questo amore ormai in disarmo, evocando l’intimità fisica di un reggiseno, come oggetto famigliare che possa riaccendere la speranza. Non c’è futuro, però, e i giorni della felicità sono un ricordo lontanissimo.

Così, il ritornello si ripete uguale, ma con gli ultimi quattro versi modificati (“And now all your love is wasted, And then who the hell was I? And I’m breaking at the britches, And at the end of all your line”), in cui Vernon fa i conti con la propria anima e si domanda se tutto l’amore che ha ricevuto e che sta cadendo a pezzi, esattamente come i suoi pantaloni, non sia andato irrimediabilmente sprecato.

“Who will love you?
Who will fight?
Who will fall far behind
?” 

Il verso finale della canzone è abbastanza ambiguo, in quanto non è chiaro se queste siano domande che Vernon sta ponendo a se stesso o alla sua amata. Se rivolte a se stesso, potrebbero rappresentare l'inizio del periodo di rottura e il lutto per la relazione finita; se, invece, sono dirette alla sua donna, il senso potrebbe essere quello dello smarrimento, sarebbero domande retoriche che stanno a rappresentare un vuoto che nessun altro potrà mai colmare.

 


 

Blackswan, venerdì 12/11/2021

giovedì 11 novembre 2021

PREVIEW

 


Dopo le ristampe dei loro primi quattro album, gli Spiritualized oggi annunciano il loro nuovo album in studio, Everything Was Beautiful, in uscita il 25 febbraio 2022 su Bella Union.

Mentre alcune persone sono implose durante i lockdown e l’isolamento imposto dalla pandemia, altri sono fioriti, “Mi sentivo come se mi fossi allenato tutta la vita per questo” dice J Spaceman.

Si riferisce alla sua passione per l'isolamento, e quando cominci a considerare la solitudine come "bella solitudine" allora non è poi così male. Ha camminato in una Londra vuota, dove "anche le sirene avevano smesso di cantare" e dove il mondo era "pieno di canti di uccelli e stranezze". Ha usato le passeggiate per ascoltare e cercare di dare un senso a tutta la musica che suonava nella sua testa. I mix del suo nuovo album, il nono in studio, non lo convincevano ancora.

Spaceman suona 16 strumenti in Everything Was Beautiful, album che è stato registrato in 11 studi diversi oltre che a casa sua. Ha anche impiegato più di 30 musicisti e cantanti tra cui sua figlia Poppy, il collaboratore di lunga data e amico John Coxon, una sezioni di archi e ottoni, cori e campanelli e campane della Whitechapel Bell Foundry.

Alla fine i mix sono arrivati ????e con loro Everything Was Beautiful. Il risultato sono alcune delle registrazioni dal suono più "live" che gli Spiritualized hanno pubblicato dai tempi di ‘Live At The Albert Hall’ del 1998, all'epoca di ‘Ladies & Gentlemen, We Are Floating In Space’.

L’artwork è stato progettato ancora una volta da Mark Farrow. “Io e Farrow stavamo parlando di cosa avremmo dovuto fare e ci siamo detti:‘ Si chiama Everything Is Beautiful, come potrebbe non esserci una pillola per questo?’” 

Tutti questi layer, tutti questi dettagli, i mix durati un anno, danno il senso di tutte le vite vissute da questi testi; per qualcuno così notoriamente insicuro delle proprie capacità, non è una cosa punitiva continuare a creare? "Mi piace quello che faccio. C'è una frase di Jonathan Meades che parla tutti gli attributi che servono per essere un artista." Paranoia, vanità, egoismo, egotismo, servilismo, risentimento, nullità morale e più idiota che idiota sapiente". "Ed è così che ci si sente in questo genere di cose. Sei il tuo peggior nemico e il tuo più grande sostenitore.

 


 

Blackswan, giovedì 11/11/2021

 

mercoledì 10 novembre 2021

LUCIFER - IV (Century Media Records, 2021)

 


Formatisi a Berlino nel 2014 ad opera della cantante tedesca Johanna Sadonis, i Lucifer (dopo svariati cambi di formazione, l’odierna line up comprende il batterista Nicke Andersson, i chitarristi Martin Nordin e Linus Björklund e il bassista Harald Göthblad) sono giunti oggi al loro quarto album, pubblicato solo diciotto mesi dopo il precedente e acclamato III.

La band ha grande seguito in Germania e in Svezia, paese da cui provengono tutti i componenti della formazione, ad eccezione della Sadonis, mentre da noi restano oggetto di culto di poche schiere di appassionati. Peccato, perché i Lucifer meriterebbero davvero di essere scoperti, soprattutto da chi ama graffianti (e demoniache) sonorità retrò. I Lucifer, infatti, sono la rappresentazione moderna di tutto ciò che ha reso la musica rock e metal così sinistra mezzo secolo fa, un'epoca in cui persino il nome della band avrebbe scatenato l’ira di benpensanti e gruppi religiosi conservatori: musica da bandire e vinili da prendere a martellate.

Per questo quarto episodio, poi, il gruppo ha deciso di spingere ulteriormente sui richiami satanisti, a partire dalla sorprendente cover, in cui la cantante Johanna Sadonis, legata a un crocifisso, fissa con aria di sfida gli occhi di tutti quelli che la guardano. Un messaggio esplicito, anche se oggi decisamente meno inquietante di come sarebbe apparso negli anni ’70, che indica la via maestra intrapresa dalla band tedesco/svedese: hard rock dalle sonorità vintage, che guarda soprattutto alla discografia dei Black Sabbath e dei Blue Oyster Cult.

A confermarlo immediatamente, sono le tre tracce che aprono il disco, archetipo di un sound che, decenni fa, avrebbe sconvolto schiere di cristiani baciapile. "Archangel Of Death" è una canzone rock rombante, infusa di vapori sulfurei alla Sabbath, bilanciata con una sezione ritmica molto bluesy e attraversata da luciferini assoli di chitarra, "Wild Hearses" vede le chitarre diventare più cupe e sfocate, mentre l’inquietante scenario evoca il fantasma di “mad” Ozzy, e "Crucifix (I Burn For You)" pompa maggiormente sul ritmo e possiede un tiro diabolicamente orecchiabile.

Ed è proprio questa l’ulteriore peculiarità di un disco che riesce a essere avvincente anche grazie a soluzioni melodiche d’impatto immediato, che danno un tocco di orecchiabilità a tutte le tracce in scaletta.

Da qui in avanti, si percepiscono anche altre influenze della band, a partire dai Blue Oyster Cult (la splendida "Orion") e dai Fleetwood Mac (la contagiosa "Bring Me His Head"), in un gioco di rimandi che finisce per incuriosire l'ascoltatore più attento.

Tra gli high lights del disco, poi, si deve citare anche la portentosa "Cold As A Tombstone", trainata da suntuoso lavoro di Linus Björklund e del secondo chitarrista, Martin Nordin, che regalano al brano consistenza ma anche profondità, e la conturbante "Nightmare", in cui il pianoforte arricchisce le trame ossianiche e quasi prog di affascinanti sfumature melodiche.

Si potrebbe obbiettare che anche in questo quarto capitolo la band non si è discostata dal suono e dallo stile dei lavori precedenti, ma la forza propulsiva di queste canzoni compensa abbondantemente la mancanza di originalità. In fin dei conti il successo dei Lucifer risiede in un ben oliato, ma anche diretto e fresco, approccio all'heavy rock di un tempo. Non una rilettura particolarmente tecnica o stratificata, forse, ma il fatto che la loro musica piaccia alla gente da così tanto tempo, testimonia quanto i loro dischi riescano a essere sempre potenti e seducenti, e Lucifer IV ne è un altro esempio, forse il più lampante.

VOTO: 7,5

 


 

 

Blackswan, mercoledì 10/11/2021

martedì 9 novembre 2021

ELEPHANT - JASON ISBELL (Southeastern, 2013)

 


Un Jason Isbell pettinato, sbarbato, elegante nel suo completo scuro, ci guarda in un intenso primo piano di copertina. Una foto certamente bella, ma che non trasmetterebbe nulla di particolare se non fosse per quegli occhi incredibilmente tristi. Occhi di chi ha dovuto spalare tonnellate di merda per poter tornare a guardare il chiarore del cielo, di chi ha conosciuto l'abisso e quindi una lenta resurrezione. La fuoriuscita dai Drive By Truckers (tre dischi e anni di lunghissime ed estenuanti turnè), il divorzio dalla prima moglie Shonna Tuker, la scimmia dell'alcol che ti afferra alla gola e non ti molla, i continui abusi, il dolore della solitudine, l'amore ritrovato, un nuovo matrimonio con Amanda Shires, e poi finalmente, la libertà dal vizio, il ritorno a una vita normale. C'è tutto nella foto di copertina di Southeastern: un uomo ripulito ma anche un passato che ha lasciato strascichi, cicatrici e ferite ancora sanguinanti, la speranza che guarda al futuro e il ricordo della perdizione. Le dodici canzoni di Southeastern sono esattamente come gli occhi di Isbell, ci raccontano quel passato, quella tristezza, gli eccessi alcolici, un nuovo inizio.

Piccole storie che sono come confessioni, le parole che dispiegano i lembi di un sudario ed espongono le piaghe, l'anima martoriata di un uomo che è ancora vivo, a dispetto di tutto. Questa è la sincerità di chi non ha più nulla da nascondere e da perdere, di chi vuole lasciarsi tutto alle spalle e ricominciare la vita proprio dove inizia l'arte, la musica, la forza taumaturgica del rock. Non ci sono lacrime, né autocommiserazione, solo una maturità compositiva che disseziona il dolore, che preferisce raccontare invece che spiegare, e trovare così un motivo per ripartire invece di recriminare (I've grown tired of traveling alone, won't you ride with me, won't you ride? si domanda Isbell nel country agrodolce di Traveling Alone).

Quelle di Southereastern sono canzoni pervase da dolorosa quiete, accese talvolta da antiche scintille southern (la possente "Super 8"), o dal passo appena accelerato del folk rock ("Stockholm") o dalla spinta vitale di una sferragliante elettricità ("Flying Over Water"). Piccoli intermezzi, però, quasi fossero una voce a stento trattenuta in un dialogo dai toni intimi e confidenziali.

Ed è proprio attraverso la dimensione acustica che Isbell riesce a raccontarsi al meglio, grazie a fragili bozzetti che, ascolto dopo ascolto, divengono grandi canzoni, di quelle da serbare nel cuore per una vita intera. Una di queste, "Elephant", racconta la battaglia di una donna contro un brutto male: è un brano che fonde angoscia e malinconia, che utilizza la metafora dell’elefante per raccontare quel nemico feroce chiamato cancro, ed è anche attraversato da un’inquieta urgenza, come se non ci fosse abbastanza tempo per trasmettere vicinanza e compassione. Il brano è stato ispirato da una conversazione che Jason ricordava di avere avuto con una ragazza con cui usciva.

Ai tempi, il chitarrista viveva a Sheffield in Alabama, proprio sopra il bar in cui la ragazza lavorava. Una sera, rammenta di averle detto di non affezionarsi troppo agli avventori, perché, prima o poi, come effettivamente successe, sarebbero scomparsi tutti. Perché erano alcolizzati, alcuni alla stadio terminale e senza speranza alcuna di redenzione. Morti che camminano, portando sulle spalle il peso di un elefante chiamato whisky. Questo spunto iniziale, poi modificato durante il processo di scrittura (il cancro prende il posto dell’alcool), è l’abbrivio per una canzone che riflette sulla vita, sulla morte e sulla solitudine, e racconta la storia di una coppia che si trova ad affrontare la malattia di lei. Le immagini sono crude (“La porterei a letto, spazzerei via i capelli dal suo pavimento Se l'avessi scopata prima che si ammalasse…adesso non ha più lo spirito per quello”), le parole vere e proprie stilettate al cuore (“Nessuno muore con dignità Cerchiamo solo di ignorare l'elefante in qualche modo”), il mood depresso, rassegnato, definitivamente arreso.

Il consiglio è quello di cercare su Youtube anche l’esecuzione live che del brano Jason Isbell tenne alla Sirius XM Satellite Radio nel giugno del 2013: un’interpretazione talmente sincera che a stento si trattengono le lacrime.

 


 

Blackswan, martedì 09/11/2021