venerdì 31 marzo 2023

MICKEY - TONI BASIL (Chrysalis, 1983)

 


Personaggio enigmatico e artista versatile, l’americana Toni Basil, pseudonimo sotto il quale si cela Antonia Christina Basilotta, nel corso della sua lunga carriera, ha fatto un po' di tutto, dalla coreografa all’attrice, cimentandosi, a tempo perso, anche nel mondo della musica, quando, a inizio anni ’80, pubblicò due dischi a suo nome. Ed è la musica, in particolar modo, ad averle dato notorietà, grazie a una canzone, Mickey, che dal 1982, anno della sua uscita, continua a essere usata in spot pubblicitari, film e serie tv.

Buona parte del successo del brano lo si deve anche al video che lo accompagna, di cui la Basil, oltre a essere attrice protagonista, è anche regista e coreografa, cosa mai successa prima nella storia della musica. Il video è tanto semplice quanto efficace, e consiste in un balletto eseguito dalla Basil e da un gruppo di ballerine vestite da cheerleader (che poi, cheerleader lo erano realmente, e appartenevano alla squadra della Carson High School di Los Angeles).

La cosa davvero suggestiva, però, è che l’artista statunitense aveva concepito quel video prima ancora di trovare una canzone che si adattasse alle immagini. L’idea le era venuta ripensando agli anni della sua adolescenza, quando era stata capo cheerleader alla Las Vegas High School (ecco perché il maglione che indossa nel video porta la scritta "LVHS"), un’esperienza che aveva contribuito non poco a dare impulso alla sua carriera.

Una volta concepito il video, però, era necessaria una canzone che ne rispecchiasse l’allegra dinamicità, e fu così che la scelta ricadde su una brano intitolato Kitty, che era stato pubblicato, senza successo, da un gruppo chiamato Racey, nel 1979. La Basil cambiò il titolo in Mickey, trasformando da femminile a maschile il protagonista della canzone, che parla dell’amore profondo di una ragazza per il suo fidanzato. Dal momento che la Basil, qualche tempo prima, aveva coreografato Head, un film dei Monkees uscito nel 1968, al momento della pubblicazione di Mickey, in molti pensavano che il brano si riferisse a una presunta liaison della Basil con il batterista della band californiana, Micky Dolenz, gossip, questo, che venne sempre rimandato al mittente dalla geniale artista.

La clip fu realizzata poco prima della nascita e della diffusione di MTV, e iniziò, quindi, a circolare nel Regno Unito, dove fu trasmessa in alcuni programmi a carattere musicale, a seguito della pubblicazione dell’album d’esordio, Word Of Mouth, avvenuta con qualche mese in anticipo rispetto agli Usa. In America, il video sbarcò solo successivamente, ma quando iniziò a passare sul canale MTV, il brano schizzò al numero 1 delle classifiche americane, nel dicembre del 1982, e l’album si piazzò alla ventiduesima piazza delle chart.

Se è vero che la carriera di Toni Basil come musicista è durata un lampo, è altrettanto vero che l’artista, basta dare una rapida occhiata a Wikipedia, ha avuto una straordinaria carriera nel mondo del cinema (sue le coreografie di C’era Una Volta a Hollywood di Tarantino, ad esempio) e della danza, contribuendo anche al successo di alcuni video iconici, quali Once In A Lifetime dei Talking Heads e Time Will Crawl di David Bowie.

 


 

 

Blackswan, venerdì 31/03/2023

giovedì 30 marzo 2023

ENSLAVED - HEIMDAL (Nuclear Blast, 2023)

 


Il 2023 sembra un anno fortunato per il progressive metal, visto il livello dei dischi usciti fino ad ora: i polacchi Riverside, gli inglesi Haken, i francesi Klone e, quindi, i norvegesi Enslaved, che il genere lo declinano, da circa trent’anni, nell’accezione più estrema del black.

Il loro suono unico è immediatamente riconoscibile e, dai loro esordi, quando l’approccio al genere vestiva abiti più tradizionali,  fino alla versione odierna di prog metal multidimensionale, la band ha dimostrato di essere un’autentica forza della natura in continua evoluzione, raffinando e perfezionando una proposta che, pur senza rinnegare le radici black, ha acquisito una complessità e un’autorevolezza di altro livello, impossibile da costringere entro le pastoie di un’asciutta e impersonale definizione.

Una band speciale, quindi, la cui musica, come avviene in quest’ultimo Heimdal, possiede un andamento imprevedibile, capace di spingere l’immaginario dell’ascoltatore ovunque, tra le brume spirituali della mitologia norrena, nell’accecante bellezza di una natura selvaggia, nelle acque livide e ostili di un mare avvolto di nebbia, nel clangore del campo di battaglia, tra violenti corpo a corpo e scudi che cozzano tra sangue e sudore. Gli Enslaved, insomma, continuano a spingere sulla creatività, non rinnegando il passato, certo, ma aprendo a scenari che vanno oltre i riff pesanti e la ritmica tonitruante.

"In Behind The Mirror" introduce la scaletta evocando tutto il patrimonio iconografico norreno della band, e aprendo le danze attraverso lo sciabordio delle acque dei mari nordici e il suono dei corni da guerra vichinghi (suonati da Eilif Gundersen di Wardruna). Un brano in cui la perfetta simbiosi tra prog e black metal è innescata dall’immaginazione di acque gelide e nebbiose su cui è pronto a scatenarsi l’inferno della battaglia. "Congelia" è un brano ancora più cupo, attraversato da riff glaciali e da un breve passaggio di tastiere, che ammanta di solennità la canzone, ma non salva i padiglioni auricolari da un'eruzione ritmica vertiginosa e ipnotizzante di feroce prog metal.

La più ariosa "Forest Dweller" contrasta l'assalto precedente con contorni melodici di più ampio respiro, aprendosi tra le brume di un doom emotivo ed echi progressive anni ’70, cantato pulito alternato al growl, il riff infuocato, saturo di black, della sezione centrale, prima di dissolversi in un viaggio pacificamente psichedelico attraverso un’elettronica dolce e soffusa. La straordinaria teatralità di "Kingdom" è decisamente uno dei vertici dell’album, un gioiello di prog caotico e industrializzato, che possiede un’incredibile carica elettrica e si nutre di una ritmica che proviene direttamente dagli inferi.

"The Eternal Sea" testimonia ulteriormente sulla profondità creativa degli Enslaved, un brano cupo e oscuro, in bilico fra ferocia e malinconia, maestosità e potenza, che riflette la natura dei vasti oceani, a volte limpidi e sereni, altre, minacciosi e ostili.

Se "Caravans To The Outer Worlds", è un brano già noto, che era stato pubblicato per la prima volta nel 2021, ma che si adatta perfettamente allo scorrere della scaletta, la title track "Heimdal" chiosa l'album con un'introduzione carica di riff fangosi e lenti che evocano un’atmosfera nebbiosa e dissonante, salvo poi, nella seconda parte, esplodere di vitalità attraverso un ritmo incisivo e rimbalzante, prima di evaporare in una conclusione rarefatta e suggestiva.

Gli Enslaved si confermano una band di statura mondiale e in continua evoluzione, pur riuscendo a rimanere in qualche modo fedeli alla propria storia e alle proprie origini. Questo nuovo Heimdal è l’ennesimo capitolo di una discografia senza una pecca, un disco che va ascoltato con calma, in modo da poterne assorbire la complessità nel flusso sanguigno, perché sono davvero tante le sfumature e gli strati da scoprire e assimilare. Un disco dinamico, non immediato forse, ma coinvolgente, capace di stuzzicare l’immaginazione, facendo viaggiare l’ascoltatore verso territori suggestivi, ma al contempo colpendo con quelle sferzate feroci che sono l’anima del black metal. Un’opera ambiziosa, dagli intenti sperimentali, ma anche intrisa del sangue norreno della band, che finisce per essere al contempo famigliare e in qualche modo diversa, inaudita. Un equilibrio di assoluta perfezione. 

VOTO: 8

Genere: Progressive Black Metal




Blackswan, giovedì 30/03/2023

lunedì 27 marzo 2023

KLONE - MEANWHILE (Kscope, 2023)

 


E’ un vero mistero come una band dalla straordinaria caratura artistica, come quella dei transalpini Klone, sia tutt’oggi oggetto di culto per un numero di fan davvero esiguo rispetto alla bravura del gruppo. Nonostante una corposa discografia e una carriera sviluppatasi in ben ventiquattro anni, la band progressive metal francese, infatti, è rimasta per lungo tempo ai margini del circuito mediatico.

Le cose sono parzialmente cambiate negli ultimi anni, quando i Klone hanno firmato per la Kscope, l’etichetta britannica che annovera fra le sua fila Steven Wilson, i Porcupine Tree, gli Anathema e i No Man, che ha pubblicato il loro precedente Le Grand Voyage del 2019. Questa svolta ha influito anche sul suono della band, che ha iniziato ad ammorbidire la propria proposta, utilizzando una tavolozza di colori meno accesi, che hanno diluito la potenza di fuoco delle origini. Il risultato di questo cambiamento, tuttavia, non è certo un tradimento nei confronti dei propria fan, quanto semmai un’evoluzione naturale, che ha reso le canzoni dei Klone meno pesanti ma non per questo meno suggestive.

In tal senso, Meanwhile è un disco solido, diretto e ombroso, perfettamente bilanciato fra progressive, metal e un gustoso impianto melodico. Le canzoni rispecchiano alla perfezione lo splendido art work di copertina, evocano un cielo plumbeo, gravido di pioggia e cupi presentimenti, pronto a sfogare in un ringhio feroce tutta la sua rabbia, nonostante si intuisca sullo sfondo un residuo di luce, che mitiga la furia degli elementi. 

"Within Reach" apre l'album e fornisce subito agli ascoltatori una buona idea di quanto equilibrato sia il suono creato dai Klone in quest’ultimo lavoro. La canzone inizia con una melodia crepuscolare e minacciosa, mentre le percussioni fluttuano e rifluiscono come onde nella risacca, fino a quando, a metà brano, il suono si fa più aggressivo e pesante. Se a Le Grand Voyage mancavano i groove metal presenti in album come The Dreamer's Hideaway, oggi le distorsioni e i riff taglienti tornano, anche se però inseriti in un tessuto sonoro più affabulante e variegato.

Certo, in scaletta ci sono anche canzoni come "Scarcity", che abbassano il tiro ed esplorano trame lussureggianti e morbide, talvolta sommesse, che impongono ascolti ripetuti e maggior attenzione per coglierne tutte le sfumature. In questo risiede il mirabile labor limae operato dalla band, e cioè nella capacità di creare strofe e ritornelli le cui melodie appaiono inizialmente sfuggenti, per poi crescere col passare del tempo, grazie a piccoli, ma decisivi dettagli che stimolano il piacere della scoperta.

Che si tratti dei fiati in "Blink of an Eye" e "Elusive", della scintillante chitarra solista in "The Unknown", o del contrasto tra melodie cupe e impianto strumentale pesante, quasi doom, come avviene in "Night and Day", sono davvero molti i momenti suggestivi di un disco che mantiene il livello compositivo altissimo, senza perdersi in fronzoli o inutili ghirigori. Meanwhile è, infatti, tutta sostanza, suona meno rocambolesco di alcuni album di prog metal usciti nell’ultimo periodo (Haken), eppure risulta in egual misura fascinoso e avvincente. La complessità espositiva è semmai metabolizzata da un approccio che vira maggiormente al rock, e in tal senso è interessante osservare come anche la perfomance vocale Yann Ligner si sia adattata al nuovo corso, mitigando in buona parte quel ringhio che aveva caratterizzando i precedenti lavori più metal, scegliendo un’esposizione più pulita e avvolgente (per quanto il timbro resti comunque particolarmente ispido).

Meanwhile è probabilmente la vetta discografica di questa, purtroppo, finora sottovalutata band francese, un album consapevole e maturo, che si pone esattamente a metà strada tra le distorsioni rabbiose della prima parte di carriera e le trame morbide e luminoso della svolta rappresentata da Le Grand Voyage. Non un punto di arrivo, tuttavia, ma una nuova partenza, che potrebbe portare i Klone ad allargare il proprio bacino di consensi e a prendersi una meritata fetta di notorietà.

VOTO: 8

Genere: progressive metal

 


 


Blackswan, lunedì 27/03/2023

venerdì 24 marzo 2023

THE LATHUMS - FROM NOTHING TO A LITTLE MORE (Island, 2023)

 


Come recita quel vecchio andante? Il secondo disco è il più complesso nella carriera di un artista. Perché è quello che fa capire se ci troviamo di fronte a una meteora oppure, nello specifico, a un gruppo capace di confermarsi, di scrivere altre belle canzoni da aggiungere a quelle pubblicate al debutto. Ovviamente, il prius logico è che l’esordio sia stato di livello, e How Beatiful Life Can Be, primo album dei Lathims, band britannica originaria di Wigan, lo era. Dannatamente bello.

La domanda, dunque, sorge spontanea: sono riusciti i nostri eroi a confermarsi a quei livelli? La risposta è si, anche se qualche riflessione dev’essere necessariamente fatta. In primo luogo, è abbastanza evidente, fin dal primo ascolto, che l’effetto sorpresa è svanito. Se ogni singola canzone di How Beautiful Life Can Be sortiva l’effetto “wow!”, per quel continuo esplicitare collegamenti con un certo pop chitarristico anni ’80 (Housemartins e Smiths, in primis), alla seconda prova, i Lathums cercano di imboccare nuove vie, e pur mantenendo un suono perfettamente riconoscibile (quella voce e quella chitarra, per quanto derivative, sono ormai un marchio di fabbrica), hanno sfumato, almeno un po’, i propri riferimenti stilistici.

L’idea è quella di diversificare l’approccio compositivo, tentativo riuscito solo in parte, visto che molti brani richiamano, per struttura e idee, quelli del primo album. Tuttavia, il songwriting, anche se meno scintillante, risulta essere particolarmente efficace quando il quartetto di Wigan punta sul piatto forte della casa, e cioè su quei ritornelli innodici, perfetti per far cantare a squarciagola tutto uno stadio.

Anche il gusto per la melodia è rimasto intatto, anche se, talvolta, arrangiamenti un po’ leziosi, privano di slancio canzoni che, altrimenti avrebbero avuto ben altra forza emotiva. E’ il caso, ad esempio, di "Turmoil", una ballata pianistica in odore Beautiful South, che si perde ben presto in uno zuccherino arrangiamento da karaoke, che lascia, per così dire, perplessi.

A parte qualche passo falso, il disco è, però, piacevolissimo, e trova la sua vetta nell’uno due iniziale costituito da "Struggle" e "Say My Name", due coinvolgenti inni da stadio dalla melodia cristallina, il primo un doloroso crescendo su un amore non corrisposto (“ti amavo, ma non ti importava, avevo bisogno di te, ma tu non c'eri, e il mondo si è tirato indietro e mi ha costretto a inginocchiarmi”), il secondo trainato da un riff di chitarra irresistibile e da una batteria galoppante. Una formula vincente che si ripresenta anche nella tiratissima "Facets" (qualcuno ha detto Smiths?) o nelle accelerazioni che innervano di tensione la malinconia della splendida "Crying Out", altro vertice emotivo del disco.

Altrove, i Lathums rendono omaggio alle proprie fonti d’ispirazione, come avviene nella grazia sixties di "I Know Pt.1" o nella sbarazzina e divertente "Lucky Bean" (splendido l’arrangiamento di fiati), che richiamano alla mente, nemmeno tanto velatamente, gli Housemartins. E se "Land And Sky" suona un po’ fiacca e senza pathos, gli otto minuti della conclusiva "Underserving", ballata elettro-acustica intrisa di emozione, sono, invece, la coraggiosa conclusione con cui Alex Moore mette a nudo i suoi sentimenti e i suoi pensieri, rivolgendosi direttamente ai fan e ringraziando tutti coloro che hanno accompagnato il viaggio dei Lathums “from nothing to a little more”.

In definitiva, questa seconda prova, pur palesando qualche difetto rispetto al folgorante esordio, è un disco riuscito, che riesce ad amalgamare alla perfezione malinconia e tormento con l’ottimismo di un tiro pop rock che, quando riesce, è ancora in grado di fare scintille. Forse, semplicemente, quello che più conta, è che questi quattro ragazzi, nel bene e nel male, sono rimasti loro stessi, consapevoli delle proprie origini e orgogliosi di dove sono arrivati. Capaci di continuare a scrivere canzoni, belle o brutte che siano, che sgorgano direttamente dal cuore. E l’onestà, alla fine, paga sempre.

VOTO: 7

Genere: Rock, Pop

 


 

 

Blackswan, venerdì 24/01/2023

giovedì 23 marzo 2023

AIN'T NO STOPPIN' US NOW - MC FADDEN AND WHITEHEAD (Philadelphia International Records, 1979)

 


Gene McFadden e John Whitehead erano due songwriter e produttori che prestavano la propria arte sotto l’egida Philadelphia International Records, etichetta presso la quale hanno lavorato per molti anni, contribuendo a definire il suono del Philadelphia Soul. Nel 1972, con Leon Huff, che era comproprietario dell'etichetta insieme a Kenny Gamble, scrissero il successo degli O'Jays, Back Stabbers, e in seguito altre grandi canzoni, quali I'll Always Love My Mama, eseguita dagli Intruders e Bad Luck, portata alla ribalta da Harold Melvin.

Verso la fine degli anni '70, McFadden e Whitehead, stufi di regalare le proprie canzoni ad altri, desideravano ardentemente registrare del proprio materiale e convinsero Gamble e Huff, non senza fatica, a lasciarli provare. Entusiasti dell'opportunità, si misero al lavoro per l’album d’esordio, spinti da mantra "non ci fermeremo adesso!", che divenne anche il titolo della loro della loro canzone più famosa, quella che avrebbe aperto la scaletta del disco.

Ain’t No Stoppin’ Us Now fu registrata ai Sigma Sound Studios di Filadelfia insieme ai chitarristi Dennis Harris e Bobby Eli, al bassista James Williams, al batterista Keith Benson e al trio femminile composto da Barbara Ingram, Carla Benson ed Evette Benton, tutti abili sessionisti dell’etichetta, chiamati a dar manforte al duo.

Questa canzone motivazionale, che arrivò al primo posto delle classifiche R&B, fu adottata dalla comunità afroamericana come inno libertario, perché il testo sembrava essere un invito esplicito a combattere per i propri diritti, a non mollare e a fare un ultimo sforzo per raggiungere quel traguardo che, ormai, era a pochi passi (Non c'è modo di fermarci ora! Siamo in movimento! Non c'è modo di fermarci ora! Abbiamo il solco! Ci sono state così tante cose che ci hanno trattenuto Ma ora sembra che le cose stiano finalmente arrivando).

In realtà, Mc Fadden e Whitehead non avevano alcun intento politico e mai avrebbero pensato che a quel brano, allegro e ballabile, potessero essere attribuiti significati tanto profondi. La canzone, infatti, era ispirata dalla loro esperienza personale, quella, cioè, di musicisti che finalmente, dopo tanto tempo, si trovavano a realizzare un sogno. Con Ain’t No Stoppin’ Us Now, John e Gene, infatti, stavano in realtà parlando della loro frustrazione con i proprietari della Philadelphia International Records, Kenny Gamble e Leon Huff, che per molti anni li tennero rinchiusi in una prigione dorata, impedendo loro di diventare artisti a tutto tondo.

E a ben vedere, rischiarono anche di non pubblicare mai quella canzone che li tanto rese celebri. Kenny Gamble, infatti, dopo aver ascoltato per la prima volta Ain't No Stoppin 'Us Now, tentò, fortunatamente senza successo, di convincere McFadden e Whitehead a dare la canzone agli O'Jays, che erano un gruppo già affermato, e che avrebbe potuto, quindi, scalare più facilmente le classifiche del tempo. I due, però, s’impuntarono, minacciando di andarsene e intentare una causa legale, e alla fine l’ebbero vinta. Quindi, in definitiva, quello che venne interpretato come un brano innodico sull’orgoglio nero, era, in realtà, una canzone sull’orgoglio personalissimo di due artisti che erano stufi di scrivere canzoni per altri e volevano sfidare lo star system in prima persona. Quell’esordio fu il loro unico, grande successo, e i due successivi dischi pubblicati a loro nome, negli anni ’80, furono dei mezzi fiaschi.

L'11 maggio 2004, a soli 55 anni, Whitehead è stato assassinato a colpi di pistola da un gruppo di uomini armati, fuori dalla sua casa di Filadelfia. Chi fossero gli assassini non si è mai saputo, e il caso è ancora aperto e irrisolto. Il 27 gennaio 2006, toccò a McFadden morire per gli esiti esiziali di un cancro al fegato e ai polmoni. Aveva 56 anni.

 


 

 

Blackswan, giovedì 23/03/2023

martedì 21 marzo 2023

Louis - Philippe Dalembert - Milwaukee Blues (Sellerio, 2023)

 


Il proprietario pachistano di un minimarket compone il numero di emergenza 911 perché ha incassato dei soldi falsi da un cliente. Siamo nel quartiere nero di Franklin Heights, nell'area nord di Milwaukee. Quel cliente si chiama Emmett, e morirà poco dopo, soffocato per mano della polizia che è venuta ad arrestarlo. Da quel momento il gestore del negozio non riesce più a dormire, è tormentato dagli incubi, non avrebbe dovuto fare quella telefonata, ma ormai è tardi. I riflettori del mondo intero sono puntati sulla morte terrificante di un uomo ordinario, il cui ritratto ci viene svelato dalle persone che l'hanno conosciuto nelle varie fasi della sua vita…

L’omicidio di George Floyd da parte della polizia, il movimento Black Lives Matter, il razzismo, la protesta, l’indignazione: tutti temi che hanno riempito e continuano a riempire, con desolante frequenza, i notiziari televisivi e le pagine dei tabloid. Era difficile adattare tutto ciò alla trama di un romanzo, senza correre il rischio di farsi prendere la mano dalla retorica o rischiare l’effetto megafono spento, ribadendo cose trite e ritrite, scivolando nell’ovvio e nel prevedibile. Invece, Louis Philip Dalembert, haitiano, classe 1962, compie una specie di miracolo, dividendo il suo romanzo, Milwaukee Blues, in due parti ben distinte, con cui ribalta la consueta prospettiva narrativa, attraverso una prosa asciutta, semplice, malinconica e ironica al contempo, che evita facili lezioncine, concentrandosi semmai sull’animo umano e sulle idee. Il romanziere si mette da parte e osserva una grande corale americana, di bianchi e di neri che si muovono attraverso una Milwaukee periferica e degradata, ambientazione perfetta dell’eterna battaglia fra bene e male, fra speranza e rassegnazione, fra violenza e spiritualità.

Il libro si apre con il tormento del giovane immigrato pakistano, proprietario di un minimarket, che ha denunciato Emmett al 911. Una telefonata fatale, nata dal sospetto di aver ricevuto dei soldi falsi, e fatta per la paura di poter essere denunciato a sua volta, e di perdere quella piccola agiatezza economica conquistata con fatica e sacrificio. Una telefonata che è l’inizio della fine per il povero Emmett, che di lì a breve verrà assassinato brutalmente da un poliziotto, esattamente come accadde a George Floyd. Un capitolo iniziale che dice molte cose sulle contraddizioni di un paese, l'America, che regala opportunità a tutti ma che, altrettanto facilmente, può negarle, un paese in cui i poveracci sono privi di ogni tutela, e sgomitano fra loro per restare a galla, un paese in cui l’immigrato resta e resterà sempre un reietto, guardato con sospetto e oggetto del più stupido dei sillogismi: se c’è un reato, lo ha commesso sicuramente un nero o uno straniero.

Inizia così il romanzo vero e proprio, con una prima parte in cui Emmett, vittima sacrificale all’altare del razzismo, viene ricordato da tutti coloro che lo avevano conosciuto in vita: i suoi amici del cuore, la sua insegnante, la sua fidanzata del college, l’allenatore di football, la ex da cui ha avuto una delle sue tre figlie. Ecco allora, che il fatto di cronaca sfuma, lasciando il posto al ritratto di un uomo, che non è più solo una notizia data dal telegiornale, ma che riacquista la propria dignità; non più uno dei tanti, ma proprio lui, Emmett, con un volto e una storia da raccontare. Il suo sorriso dolce, il passo dinoccolato, l’affabilità e la testardaggine, i suoi sogni sportivi infranti per un terribile infortunio di gioco, la perseveranza di inseguire un miraggio e la forza con cui, nelle difficoltà, ha cercato di dare un futuro alle proprie figlie, nonostante tutto e tutti, nonostante la strada facile dello spaccio, che ha sempre rifiutato d’imboccare. Sembra di vederlo, Emmett, come lotta per restare a galla, con quale dignità, con quale dolcissima pertinacia, e verrebbe voglia di abbracciarlo, e di chiedergli scusa, perché la nostra indignazione, giusta e moralmente ineccepibile, è stata smossa solo dall’indignazione, e non dall’amore per quell’uomo così determinato, così fascinoso e gentile, che Emmett era in vita.

La seconda parte, invece, sposta il focus della narrazione sui preparativi della marcia di protesta che viene organizzata per le esequie della vittima. Protagonista diventa tutta Milwaukee, la reverenda che celebra la messa, gli attivisti, il poliziotto incriminato per l’omicidio di Emmett, i tanti partecipanti al funerale, le organizzazioni filo naziste e primatiste pronte a scatenare disordini, gli estremisti del movimento Black Lives Matter, il cielo che si rasserena improvvisamente dopo un feroce temporale, e Dio, che da lassù guarda l’umanità parlare in suo nome e affannarsi per affermare una fratellanza destinata a rimanere, forse, un’irrealizzabile chimera.

Se nella prima parte del romanzo il protagonista assoluto era Emmett = Uomo, ora protagonista diventa l’idea, il sogno di un mondo più giusto, in cui bianchi e neri si possano tendere la mano come fratelli pronti a combattere per quella uguaglianza, che un’America, ancora ferocemente razzista, continua a negare. La meticolosa preparazione dell’evento, la scelta del percorso, la musica e gli slogan da recitare, il passa parola sui social, la scelta delle parole per l’omelia funebre, sembrano solo apparentemente privare di pathos una marcia che diviene un grande evento mediatico. Eppure, nonostante tutto, nonostante la polizia schierata e pronta a caricare, nonostante l’ipocrisia di facciata delle istituzioni, in quel corteo batte forte il cuore dell’idea, il desiderio del cambiamento, la passione per la lotta, la ricerca inesausta di giustizia.

“…quando i due ne avrebbero parlato ai loro nipoti, che sarebbero stati essere umani prima di essere statunitensi, ebrei, haitiani, neri, bianchi, forse avrebbero evocato insieme i fatti di Milwaukee come di un tempo davvero finito.” Sono queste le parole che chiosano un romanzo vibrante, potente, emozionato, capace di raccontare il razzismo in una prospettiva tanto insolita, quanto vincente. Sono parole di speranza, un raggio di sole che buca le tenebre di un’umanità malata, ancora oggi, come decenni fa. Domani, forse, sarà un giorno migliore, ma perché ciò avvenga, i nostri cuori devono cambiare. Un romanzo come Milwaukee Blues può essere un buon inizio.

Blackswan, marrtedì 21/03/2023

lunedì 20 marzo 2023

JAIMEE HARRIS - BOOMERANG TOWN (Thirty Tigers, 2023)

 


Fidatevi: Jaimee Harris è un’artista ancora poco conosciuta, soprattutto dalle nostre parti, ma su questa ragazza texana, che ha da poco compiuto trent’anni, scommetterei qualunque cosa, sicuro di vincere a mani basse. La sua storia è breve ma intensa, e questo è solo il secondo album pubblicato in carriera. Poca roba, direte voi; eppure, il concentrato di emozioni e il livello artistico dei suoi dischi, sono il frutto di una maturità e di una consapevolezza, difficile da trovare in una musicista di così poca esperienza.

Il debutto di Jaimee Harris, Red Rescue (2018), ruggiva di energia rock, era ferocemente onesto e graffiava d’intensità. Oggi, la songwriter texana, torna con un disco, Boomerang Town, che colpisce ancora il centro del bersaglio, ma lo fa attraverso ballate (elettro) acustiche, un mood cupo e malinconico e una narrazione profondamente poetica.

Queste canzoni nascono durante il periodo della pandemia, quando il mondo si è fermato, e la Harris, come tutti noi, ha rimuginato sul senso dell’esistenza e sulla caducità dell’essere umano. La musicista, originaria di un piccolo borgo vicino a Austin, è partita da queste ombrose riflessioni, per guardarsi alle spalle, al proprio passato, alla sua città natale, alla propria famiglia, agli anni della crescita. In tal senso, Boomerang Town è un disco dai connotati nostalgici, attraversato da un desiderio di casa, intesa non solo come romito degli affetti, ma anche come fulcro di introspezione, un necessario punto di partenza per fare il bilancio della vita e guarire vecchie ferite mai rimarginate. Lo sguardo della Harris, però, non si sofferma solo sulle proprie origini, ma guarda anche al tema delle dipendenze (la vibrante The Fair and Dark Haired Lad, canzone sull’alcolismo), della perdita, dei desideri irrequieti, delle contraddizioni della società, delle scelte politiche.


L’album nasce così da un affastellamento di temi personali e universali, e se è vero che gran parte del materiale contenuto in Boomerang Town è stato ispirato dall'esperienza personale, le canzoni di questa raccolta sono tutt'altro che esclusivamente autobiografiche. In tal senso, i sette minuti della splendida title track, che aprono il disco, raccontano di un desiderio di fuga da una piccola realtà cittadina, nascono da un’intima riflessione, certo, ma evocano anche richiami letterari (Madame Bovary), ed esplicitano un sentimento condiviso da tutti coloro a cui la vita va dannatamente stretta.

Qui, come in tutto Boomerang Town, emergono ritratti di personaggi che vivono sul filo del rasoio tra speranza e disperazione, vittime di una realtà oppressiva, persi in sogni irrealizzabili, spinti a lottare da un desiderio di salvezza, per molti irrealizzabile. Un velo cupo, dunque, si stende sulle dieci canzoni in scaletta, quasi tutte pervase da un senso di ineluttabilità, da un sapore dolce amaro, che evoca tristezza e, per converso, trasmette una delicata carezza consolatoria, esplicitata nella chiosa ottimista di "Missing Someone", un raggio di luce che dissolve i pensieri più tristi.

Il tema del dolore, però, permea gran parte del disco. "How Could You Be Gone", scritta a quattro mani con Mary Gauthier, riflette sulla morte di un caro amico durante la pandemia, e sulla morte, avvenuta nel 2017, del mentore Jimmy LaFave, "Fall (Devin's Song)", racconta di un ex compagno di classe d'infanzia della Harris, deceduto in giovanissima età. Sono canzoni che colpiscono come un coltello che lacera la carne fino a intaccare l’osso, che mettono a nudo la natura senza tempo del dolore, la nostra fragilità di foglie caduche in balia del vento.

Boomerang Town, a dispetto del mood prevalentemente ombroso, è un disco che fluisce con semplicità, e che allinea dieci ballate perfette, alcune vestite di abiti francescani, altre, invece, arricchite da arrangiamenti scelti con cura artigianale, in cui poche note di piano, le frementi scosse di una chitarra elettrica, il lamento di un violino o il ronzio di un violoncello esaltano melodie bellissime. Un songwriting tanto limpido e diretto, quanto profondo, reso ancora più intenso da un soprano dal vibrato potente, che fa della Harris una delle realtà più interessanti dell'attuale scena folk, tanto che paragoni come artisti del calibro di Mary Gauthier, Mary Chapin Carpenter o Patty Griffin, non sono inutilmente sprecati. Album appassionato ed emozionante, imperdibile, direi.

VOTO: 9

Genere: Folk, Americana, Rock

 


 


Blackswan, lunedì 20/03/2023

giovedì 16 marzo 2023

ENDLESS HARMONY - EMERGE (Vrec Music Label, 2023)

 


Dovrebbe essere superfluo, ma ribadirlo non fa mai male: strano ma vero, anche in Italia escono dischi metal di livello. Un esempio? Emerge, il nuovo album dei veronesi Endless Harmony, pubblicato sotto l’egida Vrec Music Label, etichetta che annovera tra le sue fila artisti di svariati generi e sicuro interesse.

Basta il primo ascolto dei sette brani che compongono la scaletta, per rendersi conto che, nello specifico, le cose sono state fatte con estrema cura sotto tutti gli aspetti. La produzione e gli arrangiamenti sono di ottima fattura, il suono è scintillante, e il songwriting, che si smarca da logiche commerciali, pur nella sua immediata fruibilità, ed evita di impantanarsi in luoghi comuni ed ovvietà, è limpido e potente. Potremmo parlare di nu metal, se la definizione venisse intesa nel modo più ampio possibile e solo per indicare il quadro d’insieme, e se è vero che alcune fonti d’ispirazione sono abbastanza evidenti (Korn, Lacuna Coil), è altrettanto vero che la musica della band scaligera è caratterizzata da un sound decisamente distintivo.

Tutto è messo a fuoco con precisione e l’impatto d’ascolto è immediatamente positivo: il perfetto bilanciamento fra melodia e potenza, e fra luci e ombre, una band affiatata che corre sferragliante attraverso groove dinamici e irresistibili, e l’estensione vocale di Pamela Perez messa al servizio di un timbro capace tanto di graffiare, quanto di accarezzare con vellutata sensualità.

Non c’è un solo filler, e ogni singola canzone è meritevole di attenzione. Il riff dell’opener "Demonized" è impattante come un pugno in pieno volto e mette subito in chiaro la caratura della band, che non lesina decibel e aggressività, salvo poi sedurre con un ritornello dai conturbanti contorni in chiaro scuro. Ancora meglio la successiva e feroce "To The Limit (Push Me)", trainata da uno di quei riff atonali e circolari che hanno fatto la fortuna dei Korn (che, però, una canzone così se la sognano di notte ormai da troppo tempo).

Un uno due aggressivo, che però non esaurisce, però, l’arsenale messo in mostra dagli Endless Harmony: la melodia ariosa che avvolge l’elettricità di "In The Meantime" è di quelle che lasciano il segno (l’assolo di chitarra di Federico Costanzi è davvero notevole), "Suffer" è il brano con il maggior appeal commerciale, pur non concedendo nulla alla banalità, grazie a un andamento ben poco lineare, "Enrage" è un folle saliscendi emotivo, in cui la Perez dimostra su che vasta gamma di registri riesca a esprimersi con una facilità sorprendente. E se "98" è una chiosa vibrante e oscura, "Another Place" apre le porte alla ballata in chiave rock, offrendo l’altra faccia di una band perfettamente a proprio agio, anche quando si tratta di toccare le corde della malinconia.

Unico difetto di Emerge, si fa per dire, è il breve minutaggio: poco meno di trenta minuti di durata, lasciano un po’ di bocca asciutta e il desiderio di altra musica. Forse, però, proprio in questo sta il trucco: scegliere con accuratezza il meglio per colpire il centro del bersaglio e non fare prigionieri. In tal senso, missione riuscita: bravi!

VOTO: 7,5

Genere: Nu Metal

 


 


Blackswan, giovedì 16/03/2023

martedì 14 marzo 2023

INHALER - CUTS & BRUISES (Polydor, 2023)

 


E’ quasi inevitabile che il nome degli Inhaler, finchè camperanno artisticamente, sarà citato in qualsiasi articolo a fianco di quello degli U2. Una sorta di dannazione per la band capitanata da Elijah Hewson, che tutti sappiamo essere il figlio di Bono Vox, perché per quanto il gruppo si sia creato un’identità formale ben precisa, la sostanza non cambia: se, infatti, non si può certo parlare di nepotismo, da un punto di vista musicale gli Inhaler, pescano, e nemmeno poco, da quel suono anni ’80 che papà Bono ha contribuito a forgiare. Non aiuta, poi, ma questo forse è un dato genetico non modificabile, che Elijah abbia più o meno il timbro vocale di cotanto padre, circostanza, questa, che rafforza la frequenza degli inevitabili paragoni con i celeberrimi U2.

Fatta la dovuta premessa, bisogna però dare a Cesare quel che è di Cesare, e sottolineare anche ciò che di positivo la band del giovane Hewson è riuscita a dimostrare. Perché, in fin dei conti, una spintarella paterna aiuta, ma se non c’è un briciolo di talento, al secondo disco, inutile girarci intorno, non si arriva.

Pur con tutti i limiti poc’anzi citati, l’album d’esordio degli Inhaler, It Won't Always Be Like This (2021), mostrava un quartetto affiatato, che cercava di superare con giovanile entusiasmo l’inesperienza di fondo, senza tuttavia riuscire ad affrancarsi da quelle riconoscibili influenze.

Cuts & Bruises, pur dimostrando un’evidente crescita sotto il profilo della consapevolezza, mantiene vivo il legame con un rock influenzato dagli anni '80, come si appare evidente nella ritmata e scintillante "Love Will Get You There", nelle atmosfere di "Just to Keep You Satisfied" o nei riverberi di "Dublin In Ecstasy".

Se l’approccio moderno è dato da un taglio decisamente indie, questo pop rock paga, però, un tributo altissimo a band come Simple Minds, Echo and the Bunnymen, Cure e, ovviamente, anche ai primi U2, richiamati in modo quasi esplicito nell’iniziale, e già citata, "Just To Kee You Satisfied", o nel vivace ritornello di "These Are the Days".

Altrove, il quartetto produce uno sforzo ammirevole per staccarsi dai propri riferimenti artistici, e ciò avviene in episodi discreti come nelle atmosfere vagamente soul di "If You're Gonna Break My Heart" o nel riuscito arrangiamento d’archi che ammorbidisce la cupa linea di basso di "The Things I Do" con sicurezza e brio.

Hewson, poi, canta bene, bisogna dargliene atto, il suono delle chitarre, che è la cosa che ha maggiormente impressionato il sottoscritto, è fantastico, e la seconda parte dell’album cresce, rispetto alla prima, con un filotto di canzoni che, se non proprio memorabili, sanciscono un ipotetico sorpasso di Elijah al proprio padre, che di canzoni decenti non ne scrive più da un’eternità.

Cuts & Bruises non è certo un brutto disco, ma, in definitiva, non sposta l’ago della bilancia e si ferma a metà del guado, proprio su quella sottile linea di confine che separa i più abusati clichè indie rock da alcune idee che potrebbero proiettare la band verso un suono più originale e identificativo. Al momento è un vorrei ma non posso, ma le cose buone intraviste potrebbero portare, in futuro, a un terzo episodio più convincente.

VOTO: 6,5

Genere: Indie Rock

 


 

 

Blackswan, martedì 14/03/2023

 

lunedì 13 marzo 2023

THAT'S THE WAY (I Like It) - KC & THE SUNSHINE BAND (Rhino, 1975)

 


That's The Way (I Like It) è stato il secondo di una serie di cinque incredibili hit da numero 1 negli Stati Uniti, a firma KC & The Sunshine Band. Un filotto incredibile, per una delle band che ha scritto pagine gloriose nella storia della disco music, e il cui straripante successo arrivò nel 1975, quando venne pubblicato l’omonimo secondo album, trascinato dalla loro prima hit, Get Down Tonight, scritta dal bassista/produttore Rick Finch e dal frontman Harry Wayne Casey, e vera matrice di tutti i successivi successi, That’s The Way compresa.

Un momento d’oro e la realizzazione di un sogno che sembrava impossibile, come spiegò tempo dopo Richard Finch, durante un’intervista: "Eravamo tutti felici… e abbiamo trasferito l'eccitazione di quella sensazione di successo e ci siamo detti, 'Oh, mio Dio, è incredibile! Ce l'abbiamo fatta! Mettiamo la magia su qualcos'altro. E potevi sicuramente sentire l'eccitazione e la magia di quel primo disco anche in "That's The Way I Like It", perché eravamo tutti carichi ed entusiasti. Se ascolti attentamente quel disco, puoi sentire tutti sorridere mentre cantano. Specialmente i cantanti di sottofondo. È stato un momento molto, molto magico. Voglio dire, siamo a Miami, in Florida, pubblichiamo per una piccola etichetta indipendente, e stiamo avendo successo? Questo non è possibile, questo deve essere un sogno!"

L’ispirazione per la canzone, venne al cantante Harry Wayne Casey ascoltando Je T'aime... Moi Non Plus di Jane Birkin e Serge Gainsbourg, brano di cui voleva riprodurre la sensualità, evitando però gli espliciti riferimenti conturbanti ed erotici. Gli venne in mente, così, di inserire nel testo una serie di aha-aha, che suonassero più come grida di giubilo che gemiti di piacere, ma che comunque riuscissero ad ammiccare al sesso.

Il testo, inoltre, possiede un’altra voluta peculiarità. Casey, infatti, che prima di sfondare nel mondo della musica, lavorava in un negozio di dischi, la TK Records, aveva notato che i clienti venivano spesso a cercare una canzone, ma non ne conoscevano il titolo. Il cantante, quindi, voleva assicurarsi che ciò non accadesse anche alla sua musica. D’altra parte, pur non essendo fan della band, si era accorto che nelle loro canzoni, i Beatles ripetevano continuamente il titolo del brano (i suoi riferimenti erano She Loves You e I Want To Hold Your Hand), e riteneva, questo, un escamotage efficacissimo. Fu così che in That’s The Way (I Like It) il titolo venne ripetuto quattro volte in ogni ritornello, e quel ritornello apriva e chiudeva la canzone.

Nonostante durante la stesura del testo, Casey e Finch fecero molta attenzione all’uso delle parole, cercando di ammiccare sensualità senza però essere troppo espliciti, That’s The Way fu oggetto di molte polemiche, quando nel 1975, l’anno della sua pubblicazione, la rivista Time pubblicò un articolo che citava questa canzone come un esempio di "sex rock", al pari di Love To Love You Baby di Donna Summer, indicandole come espressione di una nuova ondata di brani sessualmente allusivi, che erano di gran moda, ma che attiravano opposizione dei gruppi conservatori. I quali, in poco tempo, fecero sentire il proprio disappunto tramite il reverendo Jesse Jackson, che fece pressioni sui leader del settore attraverso il suo gruppo Operation PUSH (People United to Save Humanity), senza, tuttavia, ottenere i risultati sperati. Tanto che, That’s The Way, fu una delle poche canzoni della storia della musica a raggiungere il numero 1 delle classifiche americane due volte nello stesso mese, alternandosi con Fly Robin Fly dei Silver Convention.

Il grande successo di questa hit non si è mai spento e nel corso degli anni è stata utilizzata per numerosi spot pubblicitari (le barrette di cioccolato Cadbury Crunchie, il dentifricio Crest e Burger King) e film (Notte al Museo, Carlito's Way, Starsky & Hutch, e Space Jam), procurando alla band milioni di dollari in royalties. Per tutti, tranne che per Finch, il quale, al momento di lasciare il gruppo, firmò un accordo con cui si impegnava a rinunciare a tutti i futuri pagamenti per le canzoni scritte insieme a Casey, lasciandosi sfuggire avventatamente una pioggia di denaro. Quel contratto, inoltre, lo cancellò, parzialmente, anche dalla storia della band: il suo nome, quale coautore, è stato rimosso dai credits della canzone, come si può evincere anche dai titoli di coda di Carlito's Way.  





Blackswan, lunedì 13/03/2023

venerdì 10 marzo 2023

DOWN ON THE CORNER - CREEDENCE CLEARWATER REVIVAL (Fantasy, 1969)

 


Uscito il 2 novembre del 1969, Willy And The Poor Boys scala le classifiche americane e vende un milione di copie, certificando in modo definitivo la grandezza dei Creedence Clearwater Revival, l’unica band al mondo capace di pubblicare tre album di fila nello stesso anno e tutti a cinque stelle. Manifesto dello swamp rock, Willy And The Poor Boys proietta il passato nel futuro, è un disco classico e al contempo avveniristico, suona naif ed esuberante, ma è tinteggiato anche di sfumature dark, che risentono dei tempi funestati dal doloroso conflitto del Vietnam.

Le grandi canzoni si sprecano: Don’t Look Now vibra d’amore per Elvis Presley, reinventato in chiave country folk, la gemma hard rock di Fortunate Son indica che il revivalismo di Fogerty sa sposarsi anche con la stretta attualità, è un brano fortemente antimilitarista, che sbertuccia il mal vezzo dei figli di ricchi, di notabili e di militari di imboscarsi per evitare la leva obbligatoria. Un scelta di barricata, audace e ironica, che si innesta nella querelle politica dell’epoca, come una decisa presa di posizione a favore della working class (“It ain't me, it ain't me, I ain't no senator's son, son.It ain't me, it ain't me; I ain't no fortunate one, no”). Chiude una scaletta di straordinaria intensità, Effigy, ballata elettro acustica dall’incedere crepuscolare, che pur non rientrando fra i brani più popolari della band, è senz’altro uno degli episodi più riusciti della carriera di Fogerty. La chitarra del leader guida la band in sei minuti in cui si coagulano melodramma, amarezza e innovazione. E’ uno scarto riuscitissimo rispetto alla formula collaudata del revivalismo, un lungo lamento, epico e tristissimo, che segnerà in futuro il songwriting di Neil Young o quello di un antieroe misconosciuto, ma geniale, chiamato Jason Molina.

E’, però, l’iniziale country rock della solare Down On The Corner (brano richiamato dalla copertina del disco) ha esplicitare il contenuto di quello che potremmo definire una sorta di concept album: riportare la musica in strada (“Down On The Corner, Out in the street”), in mezzo alla gente, riscoprirne così la vera essenza, che è aggregazione, condivisione, divertimento e stare insieme. Niente intellettualismi, dunque, la musica è solo genuinità, purezza, è il linguaggio semplice delle radici (“Willy and the Poorboys are playin'Bring a nickel; tap your feet. Rooster hits the washboard and people just got to smile”). Così, con un colpo di teatro geniale, i CCR diventano una jug band (band composta da suonatori di strumenti tradizionali e autocostruiti) che porta il nome del loro stesso album e che viene celebrata attraverso le note di Down On The Corner, una canzone la cui ossatura è costruita su un contrabbasso e un asse per lavare. Sono le radici, è l’essenza del suono americano.
Non è un caso che nella scaletta del disco compaiano anche due sublimi cover (Cotton Fields di Leadbelly e il traditional, anche questo passato dalle mani di Leadbelly, Midnight Special, un divertito r’n’b dal mood festaiolo) e uno strumentale, forse superfluo se decontestualizzato (Poorboy Shuffle), necessarie tutte, però, a rimarcare il concetto di una musica che per essere vitale deve tornare alle radici, alla terra del blues o alla strada dei buskers, patrimonio della gente semplice che si innamora della melodia ma fatica a comprendere i voli pindarici del movimento psichedelico, che ai tempi faceva sfracelli.

Per riaffermare il concetto esposto mirabilmente in Down On The Corner, in copertina, la "band" è così ripresa in un angolo della strada, mentre si esibisce davanti a una piccola folla, appena fuori dal Duck Kee Market. Questa posizione non aveva un significato reale, tranne che si trovava a mezzo isolato dallo studio di registrazione. John Fogerty ha sempre raccontato di non aver mai visto prima quel market, e ricorda di esserci entrato solo una volta, per curiosità, successivamente alla pubblicazione dell’album.

La canzone, che è divenuta simbolo di un certo modo di “sentire” e, quindi, suonare la musica, ha, tuttavia, avuto una genesi assai complicata. Nella sua biografia Fortunate Son: My Life, My Music, John Fogerty afferma, infatti, che il bassista Stu Cook non riusciva a suonare correttamente il basso per la canzone, e che provarono il brano, tra svariate litigate, per ben sei settimane, prima di venirne a capo, perché, a detta del cantante, Cook non riusciva a coglierne il senso ritmico.

Da questo disco in avanti, la carriera dei Creedence inizia la sua parabola discendente. Se il successivo Cosmo’s Factory (1970) mantiene alto il livello di ispirazione di Fogerty (qui, le grandi hit si sprecano), ma comincia a mostrare la corda di un suono che non conosce più sorprese, con Pendulum (1971) e soprattutto con Mardi Gras (1972) la band, orfana di Tom Fogerty attirato dalle sirene di una carriera solista che non decollò mai, arriva al capolinea e si scioglie. La storia dei Creedence Clearwater Revival è durata solo quattro anni, eppure nonostante il breve periodo di attività, i quattro ragazzi di El Cerrito sono entrati nella leggenda. E’ bastato un anno, il 1969, e tre dischi favolosi, l’ultimo dei quali, Willy And The Poor Boys, ha rappresentato l’anello di congiunzione tra passato e futuro, e ha riscritto le regole del rock’n’roll come ancora oggi le conosciamo. 




Blackswan, venerdì 10/03/2023

mercoledì 8 marzo 2023

DEWOLFF - LOVE, DEATH & IN BETWEEN (Mascot Records, 2023)

 


Attivi ormai da una quindicina d’anni, gli olandesi DeWolff, album dopo album, si sono costruiti lentamente una piccola, ma solida notorietà fuori dai confini patri, riuscendo finalmente a farsi notare anche in Italia, avendo aperto da noi il tour della reunion dei Black Crowes. Se la pandemia e il conseguente lockdown ne avevano bloccato l’ascesa internazionale, cancellando le date di promozione del loro Tascam Tapes (2019), il graduale ritorno alla normalità aveva, invece, condotto il successivo Wolffpack (2020) in cima alle classifiche nazionali, accreditando la band a una seconda posizione, abbastanza inusuale per un album di vintage rock.

Ora, la carriera del trio, composto da Pablo van de Poel, voce e chitarra, Luka van de Poel alla batteria e da Robin Piso, organi Hammond e Wurlitzer, ha subito un’accelerazione forse definitiva, grazie a questo nuovo Love, Death & In Between, un disco che affina il talento e le idee di una band, mai così consapevole dei propri mezzi e della propria appassionata visione musicale demodè. Questo, infatti, è un disco che catapulta l’ascoltatore nel bel mezzo degli anni ’70, decennio a cui le composizioni del trio olandese s’ispirano. Registrato dal vivo in studio, suono analogico al 100%, questo riuscito connubio fra rock, blues, gospel, soul e psichedelia è una macchina del tempo sonora che viaggia verso il passato. Tuttavia, non c’è nulla di posticcio nelle dodici tracce in scaletta, e tutto suona così autentico che l’impressione è veramente quella di avere tra le mani una ristampa classica e non un disco che è uscito soltanto qualche giorno fa.

Il viaggio comincia con il trascinante rock gospel di "Night Train", un singolo bomba, aperto da una voce alla James Brown, che scorre impetuoso in un mix perfetto di organo, chitarra, sezione fiati e sinuosi cori femminili. Un biglietto da visita che spiega a chi non li conoscesse chi sono i DeWolff e di che slancio verace si sostanzia questo disco, anche nei momenti, e sono tanti, decisamente più morbidi.

Ed è proprio questa predisposizione naturale alla jam, questo suonare in studio come se la band si trovasse sul palco, a essere il collante di tutta la scaletta, e a trovare il suo apice nei sedici, rocamboleschi minuti della torrenziale "Rosita", un brano che sembra nato come divertissement in studio e che raggruma, in una struttura a incastro, tutti i generi amati dalla band originaria di Geleen. 

Se canzoni come "Heart Stopping Kinda Show", che conquista per quel suo retrogusto alla Stones, "Wontcha Wontcha", con il suo ritornello orecchiabile e irresistibile, e "Counterfeit Love", dal gustoso interplay fra chitarra slide e organo Hammond, accelerano un po’ il ritmo, prevalentemente il disco sposa il mood della ballata calda e rilassata, con risultati adorabili in episodi come "Mr.Garbage Man" e "Gilded (Ruin Of Love)".

Forse qualche brano più tirato, come l’iniziale Night Train, avrebbe giovato alla resa finale dell’album, diversificando una scaletta attraverso un andamento più altalenante e movimentato. E’, tuttavia, il classico pelo nell’uovo, perché Love, Death & In Between resta un disco colorato e divertente, che conquisterà all’ascolto tutti quei nostalgici, il cui cuore è rimasto saldamente legato ai leggendari anni ’70. 

VOTO: 7,5

Genere: Rock




Blackswan, mercoledì 08/03/2023

lunedì 6 marzo 2023

RUSSKAJA - TURBO POLKA PARTY (Napalm, 2023)

 


Prendete i Gogol Bordello, togliete l'attitudine punk, aggiungete una punta di metal, e avrete i Russkaja, ensemble di origine austriaca, ma di composizione multietnica, dal momento che i membri della band provengono anche da Germania, Italia, Ucraina e, ovviamente, Russia.

Il gruppo, ha da poco pubblicato il suo settimo album in studio, il cui titolo è tutto un programma, ed esprime molto bene il contenuto di una scaletta votata al casino e al divertimento: Turbo Polka Party. Un frullatore impazzito in cui confluiscono rock, metal, musica tradizionale russa, suggestioni mediorientali, ska, reggae e, ovviamente, una versione scatenatissima della polka, il tutto declinato attraverso la sguaiata allegria di una sbornia festaiola.

Una metal patchanka cazzara quanto si vuole, ma che, visti i tempi che corrono, possiede l’indubbio merito di suggerire un messaggio pacifista, dimostrando che, grazie al collante della musica, una convivenza pacifica è possibile, anche tra popoli che la folle logica della politica mette uno contro l’altro.  In tal senso, l’iniziale "No Borders", è un vero inno pacifista, che mette subito le cose in chiaro: “No Borders, no war, we’re equal, all the same, no nations, no fighting”. E poco importa che il messaggio sia basico ai limiti del puerile, ciò che conta è che venga recepito, cantato a squarciagola, mentre si balla in un contesto giocoso.

E’ proprio questo il leit motiv di un disco caciarone e sferragliante, che insuffla energia e positività, e a cui, a meno che la contaminazione non sia nelle vostre corde, è praticamente impossibile resistere.

"Russky Style" parte in derapata, spingendo rapidissima su chitarra elettrica e fiati, su cui si innestano ritmiche ska e suggestioni folk russe, "Shapka" è groove metal dalle suggestioni mediorientali e ska, ed è incredibile come due suoni completamente agli antipodi riescano a convivere in un equilibrio tanto suggestivo.

Tutto è spinto all’eccesso, al parossismo, tutto è inconsueto e bizzarro, ma la band se ne frega, e anche se il gioco, alla lunga, si fa prevedibile, poco importa, perché si finisce risucchiati in un gorgo folle, in cui ciò che conta è ballare, saltare e pogare, finchè gambe e cervicale reggono.

Provate, allora, a restare fermi durante la bicchierata di "Pashli", che spinge l’immaginazione verso una balera di quart’ordine di qualche sperduta zona della Russia rurale, o durante lo ska gigione di "New Life", o provate a resistere, se siete capaci, al divertissement della versione più tamarra del secolo di "Last Christmas" degli Wham, perfetta da ascoltare il prossimo Natale, quando il livello alcolico della festa porterà inevitabilmente a un sudatissimo trenino.

Per non farsi mancare proprio nulla, poi, l’ensemble austriaca apre anche a suggestioni sudamericane in "Baila e Senales", e irruvidisce la proposta con il riff metallaro di Vozduck e con la sfrenata corsa a rotta di collo di "Turbo Polka", sballottando l’ascoltatore da una parte all’altra del globo, in una baldoria che sembra non avere fine.

Improbabili e sopra le righe, le undici tracce in scaletta maramaldeggiano per quaranta minuti di autentica bisboccia, durante i quali è probabile ubriacarsi per gli effluvi della vodka di cui trasuda a ogni singola nota di Turbo Polka Party. I Russkaja sono una band completamente fuori di testa, sappiatelo, e se questo è il tiro di un album in studio, figurarsi cosa può succedere su un palco. Per cui, se dovessero passare dalle nostre parti, fatevi il pieno d’alcol e andateli a vedere. Se siete un po' matti, è l'esperienza che fa per voi.

VOTO: 7,5

Genere: Patchanka

 


 

Blackswan, lunedì 06/03/2023

venerdì 3 marzo 2023

BIG CITY - SUNWIND SAILS (Frontiers, 2023)

 


Nati nel 2013 da un'idea del chitarrista Daniel Olaisen (Blood Red Throne/Scariot), i norvegesi Big City giungono oggi al quarto album in studio, ultimo capitolo di una discografia inappuntabile quanto a coerenza stilistica e ispirazione. A fianco del fondatore, la line up allinea un pugno di musicisti funzionali al progetto e tecnicamente di spessore, quali Scariot Frank Ørland alla chitarra, Frank Nordeng Røe (Withem) alla batteria, il bassista Miguel Pereira, che ha sostituito Geir Inge Olsen, e infine il cantante Jørgen Bergersen, entrato a far parte della band nel 2021, in sostituzione del dimissionario Jan Le Brandt. E proprio il nuovo vocalist è l’arma vincente del progetto, quel plus che forse mancava all’inizio, il cui timbro è perfetto per esaltare l’hard rock melodico, dai contorni heavy e dallo sguardo rivolto agli anni ’80, che è il terreno sui cui il quintetto norvegese si muove con straordinaria abilità. Se i riferimenti stilistici relativi al decennio citato sono più che evidenti (Europe, Dare), così come lo sono le similitudini con altre band più o meno coeve (vengono subito in mente gli H.E.A.T.), è indubbio che nei dieci anni di carriera il gruppo norvegese abbia affinato un proprio stile distintivo che lo rende immediatamente riconoscibile.

Questo nuovo Sundwind Sails, infatti, è una vera chicca per gli ha appassionati del genere, possiede un deliziosa stratificazione di suoni, che conferisce alle canzoni un’interessante complessità di fondo, senza tuttavia privarle di quella immediatezza e di quel potente impianto melodico che solo le frecce vincenti all’arco della band. I cinque procedono col pilota automatico, con la consapevolezza di chi sa esattamente dove vuole arrivare, l’interplay fra le due chitarre è scintillante, in un alternanza di riff violenti e sorprendenti assoli, la sezione ritmica è muscolare ma dinamica, e la voce di Bergensen funziona a meraviglia, sia nei momenti più epici e teatrali, sia quando si trova a levigare con pathos qualche occasionale power ballad.

Certo, alcuni episodi sono un po' telefonati e troppo zuccherini per avere spessore ("Now"), ma quando le cose girano bene, non si può non rimanere impressionati: "After the Raid" è una martellante tirata NWOBHM, "Diamond In The Rough", dopo l’intro acustica, si fa ruvidamente catchy, l’iniziale "I’m Somebody" è un gioiellino di perfetto equilibrio tra fragore metal e melodia, mentre "Sons Of Desire" ammalia per lo svolgimento complesso e una incredibile prova vocale di Bergensen. La migliore del lotto, poi, è "Human Mind", il cui retrogusto malinconico riesce a inumidire gli occhi anche mentre le chitarre sferragliano rumorose.

Se il precedente Testify X era già un album brillante, Sunwind Sails rifinisce ulteriormente il suono della band, dando vita a un filotto di canzoni killer, in cui heavy rock e Aor trovano spesso un punto di fusione eccellente. E come spesso accade per questo genere di dischi è l’equilibrio che conta, saper dosare adeguatamente aggressività e quegli irresistibili ritornelli che sono il segno distintivo del genere. In questo, i Big City sono maestri indiscussi.

VOTO: 7,5

Genere: Hard Rock Melodico, Metal

 


 

 

Blackswan, venerdì 03/03/2023

giovedì 2 marzo 2023

I'M A BELIEVER - THE MONKEES (RCA,1966)

 


Quando negli anni ’60, Neil Diamond si affacciò al mondo della musica, era chiaro a tutti che fosse un predestinato, un giovane cantautore dotato di una voce calda e avvolgente, ma, soprattutto, capace di scrivere grandi canzoni e con disarmante regolarità.

Quando all’inizio del 1966 pubblicò Cherry, Cherry, il suo primo grande successo, fu contattato dal produttore Don Kirshner, che stava cercando materiale per i Monkees, una giovane band di musicisti/attori, che era pronta a fare il grande salto nello star system. Kirshner, che era una volpe e aveva un fiuto incredibile per le hit di successo, ascoltò Cherry, Cherry alla radio e chiamò subito i produttori di Diamond, Jeff Barry ed Ellie Greenwich, chiedendo se il giovane cantautore avesse per le mani qualche altra canzone da poter lanciare sul mercato. I due, piacevolmente colpiti dalla proposta, gli fecero ascoltare I’m A Believer e fu amore a primo ascolto.

Kirshner, quindi, convinse Diamond a cedergli i brano, promettendo al giovane Neil due cose, una vera e una falsa: la prima, era che anche lui avrebbe potuto registrare una versione della canzone (che fu pubblicata su Just For You del 1967), e la seconda, la bugia, era che I'm A Believer sarebbe stata inserita nel nuovo album della stella del country, Eddie Arnold. Invece, cosa che lasciò molto stupito Diamond, la canzone finì nel repertorio dei Monkees, i quali, ai tempi, più che musicisti, erano attori protagonisti di una serie tv, prodotta da NBC e ispirata ai successi dei Beatles, come A Hard Day’s Night e Help!

La versione dei Monkees beneficiò, quindi, dell'esposizione mediatica dovuta ai loro telefilm e fu il secondo singolo, dopo Last Train To Clarksville, a essere inserito nella prima stagione del loro programma televisivo.

I quattro ragazzi era giovani e fotogenici, una sorta di risposta americana ai Fab Four, ma come musicisti lasciavano parecchio a desiderare. Fu così che, quando venne registrata I’m a Beliver, i Monkees si limitarono a cantare, ma non suonarono alcun strumento, lasciando il compito a un pugno di turnisti dalle comprovate capacità tecniche.

Questa circostanza faceva molto arrabbiare i quattro ragazzi, a cui non andava giù il fatto di essere considerati alla stregua di marionette. Il più inferocito di tutti era senz’altro il chitarrista della band, Michael Nesmith, il quale iniziò una vera e proprio battaglia contro la produzione. Così, quando arrivò il momento di registrare la cover di Neil Diamond, Nesmith si oppose con tutte le sue forze, gridando letteralmente in faccia al produttore Jeff Barry: “Io sono un cantautore e, ti posso assicurare, questo non sarà un successo!” Il risultato fu che il chitarrista venne cacciato dagli studi, mentre Micky Dolenz, il batterista, venne incaricato di cantare il brano.

Contenta o no, la band non ebbe da lamentarsi, visto che I’m A Believer divenne disco d’oro dopo due soli giorni dalla sua uscita, ed entrò in classifica di Billboard al primo posto, il 31 dicembre del 1966, per restarvi sette settimane di fila, diventando così il singolo più venduto nel 1967 e uno dei più venduti di tutti i tempi.

Del brano, un vero e proprio evergreen, si annoverano numerose cover, tra cui quella degli Smash Mouth, inclusa nel film Shrek del 2001, e soprattutto, quella del cantautore britannico, e membro fondatore dei Soft Machine, Robert Wyatt, la cui interpretazione raggiunse la posizione numero 29 nel Regno Unito, nel 1974 (c’erano Andy Summers alla chitarra e Nick Mason dei Pink Floyd alla batteria). Wyatt fu molto criticato per la scelta di reinterpretare uno dei capisaldi del sunshine pop, un brano, a dire dei propri fan, troppo leggero e banale per un musicista della sua caratura. Quando venne intervistato da Q Magazine a proposito della scelta, Wyatt diede una risposta che mise tutti a tacere: "Ero molto a disagio nell'avere fan che dicevano 'La tua musica è molto meglio di tutta quella banale musica pop'", disse "Sembra una cosa socialista da dire, ma la musica pop è la musica della gente. È la musica folk dell'era industriale. Se non rispetti la cultura popolare, non rispetti le persone, nel qual caso la tua opinione politica non ha un grande valore". Amen.

 


 

 

Blackswan, giovedì 02/03/2023