martedì 29 aprile 2014

CAPAREZZA - MUSEICA




Per dirla parafrasando Lester Bangs a proposito dei Clash, Caparezza è l'unico rapper che conti davvero qualcosa. Non è solo una questione di abilità linguistica e metrica, che pone tra lui e il resto del panorama hip hop italiano una distanza siderale; né la capacità di stare sempre sul pezzo, di riuscire cioè a posare uno sguardo attento, disincantato e ironico, sulle vicende, politiche e sociali, del nostro paese. Oggi, Caparezza porta a compimento anche il proprio percorso musicale e artistico iniziato nel lontano 1995, pubblicando il suo disco più completo e maturo, e migliorando quello che da sempre è stato il suo vero punto debole, e cioè la capacità di scrivere, oltre che splendidi testi, anche buone canzoni. E' questo, oltre ai contenuti di cui diremo a breve, uno degli elementi salienti di Museica, le cui diciannove tracce (per una durata di oltre settanta minuti) dispiegano una varietà e una qualità compositiva finalmente all'altezza del messaggio. Strano a dirsi, ma Museica si allontana sempre più dagli schemi tipici dell'hip hop (il Capa, a dire il vero, ha sempre dimostrato una certa insofferenza per le convenzioni del genere), tanto che a conti fatti, e con le dovute proporzioni, somiglia molto da vicino a un disco rock, oltretutto con qualche (riuscitissimo) deragliamento in ambito metal (Argenti Vive). Il combinato disposto tra questo cambiamento e il livello alto, a volte altissimo, dei riferimenti culturali contenuti nelle nuove canzoni, alza l'asticella qualitativa dell'ascolto e impone fin da subito una riflessione. Cosa ne sarà di questo splendido disco che cita Dadaismo, Modigliani, Van Gogh, Dante, Frida Kahlo, Piero e Alessandro Manzoni (folgorante l'immagine di Lucia e Renzo...Piano!), Giotto, Goya e molti altri artisti e scrittori che hanno contribuito alla crescita dell'umano sentire? Perchè due sono le possibilità: o (soprattutto) il pubblico più giovane sarà spinto dalla curiosità di scoprire quali e quante meraviglie si celano dietro i testi effervescenti e urticanti del Capa, oppure il cd verrà riposto, per reciproca incomprensione, nell'ambito più remoto della libreria itunes, da tutti coloro che si sentiranno spiazzati da un'opera ricca di rimandi che una cultura medio bassa nemmeno immagina.




Oltretutto, il rapper di Molfetta non lesina attacchi frontali alla dilagante subcultura degli smartphone, asfaltando con il vetriolo della feroce Mica Van Gogh il retroterra di insipienza che ci ha regalato vent'anni di berlusconismo. Quale che sia l'esito che Museica avrà sui più giovani ascoltatori (ma non solo), è fuor di dubbio che Caparezza abbia pubblicato un disco originale e non di facile assimilazione, capace, a Dio piacendo, di farsi carico di quel compito divulgativo che, nell'epoca dei twitter, i libri non riescono più ad assolvere. Sarebbe un successo ben più redditizio di quello commerciale se qualcuno, spinto dall'ascolto di Museica, avesse lo stimolo di scoprire lo spirito iconoclasta del dadaismo (Comunque dada), la storia dei falsi di Modigliani, che nel 1984 misero in ambasce il mondo accademico italiano (Teste di Modi), le vicende che legarono Filippo Cavillucci detto Argenti (letteralmente massacrato dal sommo poeta nel canto VIII dell'Inferno) e Dante (Argenti Vive), la storia della grande musica rock così magistralmente raccontata attraverso le copertine di dischi leggendari (Cover). In scaletta, oltre a tanti momenti davvero riusciti (su tutti Canzone A Metà, Avrai Ragione Tu, Mica Van Gogh, Argenti Vive, Cover, Troppo Politico), anche qualche riempitivo (Figli D'Arte, Compro Horror) e il solito carico di feroce ironia che morde alla gola le ipocrisie, il perbenismo e la fuffa politica che ci circonda. Per tutti quelli che sono in fissa coi girasoli e non coi cellulari.

VOTO: 8






Blackswan, martedì 29/04/2014

domenica 27 aprile 2014

LIVING DEAD LIGHTS – BLACK LETTERS




Ascoltare un buon disco rock, rumoroso e grintoso come richiedono i manuali di scuola, e che soprattutto susciti interesse dalla prima all’ultima traccia, non è cosa che capita tutti i giorni. Se poi a farlo non sono scafati rocker dal nobile pedigree ma ragazzi alle prime armi la soddisfazione è, se possibile, anche superiore. I losangelini Living Dead Lights hanno all’attivo un solo Ep, pubblicato nel 2010, e una vita artistica vissuta su e giù dai palchi di europa e mezza America. Si sono presi il tempo necessario, circa due anni, per scrivere, suonare e limare nei minimi dettagli il loro primo full lenght. Non hanno voluto lasciare nulla al caso, consapevoli comunque che tanto perfezionismo non avrebbe mitigato affatto la forza dirompente di dodici canzoni che si ascoltano tutte d’un fiato. Hanno dato uno sguardo al passato, da cui hanno preso ispirazione e rubato i trucchi del mestiere (un pensiero ai Buckcherry e ai Guns ‘N’ Roses è più che immediato), hanno ripassato la lezione del punk per costruirsi una certa autorevolezza e hanno maneggiato il tutto con l’urgenza espressiva della gioventù, schiacciando l’acceleratore a tavoletta per correre il più velocemente possibile. Il risultato finale è un disco davvero cazzuto, che mescola la forza bruta (l’uno due iniziale di I’ll Be Your Frenkenstein e It’s Drowning In My Veins si addentra in territori metal core), a un approccio intelligente e (quasi) mai banale alla melodia. Tolti un paio di episodi poco convincenti perché troppo ruffiani (il singolo This Our Evolution e Johnny hanno un impianto così smaccatamente radiofonico da apparire poco credibili se si vuole aspirare all’aura di veri rocker), la scaletta offre momenti di dardeggiante furore: la doppietta iniziale già citata, l’adrenalinica Follow, il punk 2.0 di Hey Stranger! (eccellente lo screaming del frontman Taka Tamada) gli ammiccamenti vintage della blueseggiante I’m Dead To Myself, ci accompagnano verso un finale che sfocia nell’acustico, grazie all’intensa ballad Ghosts & Saints. I Living Dead Lights non saranno certo la salvezza del rock, come qualcuno si è già premurato di scrivere, ma è indubbio che con questo Black Letters abbiano portato al genere una bella ventata di freschezza. Da tenere d’occhio: il debutto è ottimo.

VOTO: 7+





Blackswan, domenica 27/04/2014

venerdì 25 aprile 2014

BLACK LABEL SOCIETY – CATACOMBS OF BLACK VATICAN




Ho riascoltato Catacombs Of Black Vatican parecchie volte per convincermi di aver capito bene. Anche perché Zakk Wylde, nessuno lo può negar, è probabilmente il miglior chitarrista metal in circolazione (non me ne voglia mister Mustaine) e i suoi Black Label Society, a prescindere da ogni valutazione oggettiva, mi piacciono molto (non mi perdo una loro uscita nemmeno se minacciato di morte). E poi, diciamocelo senza remore, vien male parlare male di uno che ha alle spalle un passato lungo così. Tuttavia, l’entusiasmo con cui ho scartato e messo sul piatto cd non è stato ripagato che in minima parte. Forse perché uno si aspetta sempre di trovare qualcosa di diverso, un quid, una scintilla che illumini di immenso il nuovo disco di un inarrivabile guitar hero qual è Wylde. Invece: niente, nada, zero zerello. Catacombs Of Black Vatican è uguale a uno qualsiasi dei dischi dei BLS. Anzi, identico. A partire dalla copertina, truzza e brutta all’inverosimile, così come per la produzione musicale, artificiosa e innaturale, piena di riverberi e di tamaraggine molto FM americana. Se il gioco, almeno con il precedente Order Of The Black, era ancora avvincente, oggi, è proprio il caso di dirlo, non diverte più tanto. Colpa di una scaletta al minimo dell’inventiva anche nella disposizione dei brani e di un songwriting che non graffia mai, perché zeppo di deja vu, di soluzioni scontate, fruste, ripetitive e di un certo esibizioni tecnico fine a se stesso. Certo, sentire Wylde prodursi in uno dei suoi memorabili assoli è sempre un bell’ascoltare. Eppure, il copioso utilizzo degli armonici artificiali e della plettrata alternata, marchi di fabbrica dell’irsuto chitarrista, non sortisce più lo stupore di un tempo. Tanto che, alla resa dei conti, le cose migliori dell’album, oltre al sanguigno hard rock blues con cui ha inizio il disco (Fields Of Unforgiveness), sono proprio le ballate che, pur nella loro convenzionalità, riescono ad arrivare dirette al cuore. Tutto il resto non è brutto, ma terribilmente ordinario. Solo per fans.

VOTO: 6





Blackswan, venerdì 25 aprile 2014

martedì 22 aprile 2014

BETH HART & JOE BONAMASSA – AMSTERDAM




Da quando questo blog è in attività, ho scritto più a proposito di Bonamassa che di chiunque altro.  Ci metto del mio, ovviamente, perchè amo visceralmente il chitarrista newyorkese; tuttavia, è fuor di dubbio che Joe sia uno stakanovista come pochi al mondo. Cd e dvd, sfornati uno via l’altro senza soluzione di continuità, in solitaria, in compagnia degli ormai disciolti (?) Black Country Communion, e da ultimo, come se non bastasse, con la cantante e cantautrice losangelina, Beth Hart. Non abbiamo fatto a tempo a gustarci la tetralogia londinese di Tour De Force (ne parleremo magari nei prossimi giorni), ed ecco che esce nei negozi un doppio cd e doppio dvd (anche in formato blu ray) intitolato Amsterdam, registrato la sera del 22 giugno dello scorso anno nel leggendario Koninklijk Theater Carre del capoluogo olandese. La domanda a questo punto sorge spontanea: vale la pena acquistare l’ennesima prova live di un artista che, pur essendo davvero talentuoso, è invasivo come il prezzemolo nella cucina italiana? La risposta, dal punto di vista di chi scrive, è un SI grande come una casa. Un si che vale a prescindere che siate fans completisti di Bonamassa o che invece vi approcciaste per la prima volta a questi due grandi rocker che, già in passato con le due prove in studio (Don’t Explain del 2011 e See Saw del 2013), ci avevano titillato il velopendulo.  Perché, a ben ascoltare (e guardare), questo è un live travolgente, emozionante e suonato come Dio comanda, tanto che l’impresa ardua diviene fin da subito riuscire a tirarlo fuori dal lettore (cd o dvd che sia). Non solo per la scaletta del live act che, più o meno, ricalca quella dei due album in studio; ma soprattutto, direi, per i comprimari (si fa per dire) che affiancano i nostri due eroi durante l’esibizione. Un sezione fiati puntuale e mai invasiva (Lee Thornburg alla tromba, Ron Dziubla al sax e Carlos Perez Alfonso al trombone), una leggenda come Blondie Chaplin (Beach Boys e Rolling Stones) alla chitarra ritmica, Carmine Rojas al basso (aprite per curiosità la pagina di wikipedia che lo riguarda e stupitevi scoprendo con chi ha suonato questo signore), Arlan Shierbaum alle tastiere e un fenomeno come Antonio Fig dietro le pelli (Antonio Fig, per citarne uno, ha suonato con Miles Davis). Il risultato sono due ore di musica che non vorresti finissero mai, durante le quali Bonamassa, per una volta più essenziale e defilato del solito, sviscera tutta la sua sapienza chitarristica, mentre Beth Hart, in surplus di decibel, veste in maniera sempre più convincente gli abiti di una Tina Turner 2.0 (la loro versione di Nutbush City Limits è, a mio avviso, di gran lunga superiore all’originale). Tra le meraviglie in scaletta, vale la pena ricordare, la toccante Strange Fruit, le travolgenti Something Got A Hold On Me (Etta James) e Well, Well, e una Miss Lady (Buddy Miles) indimenticabile. Per riscoprire il piacere di ascoltare un grande disco dal vivo o per non farsi mancare proprio nulla del buon Joe Bonamassa: qualunque sia il motivo, non perdetevi questo live.

VOTO: 8






Blackswan, martedì 22/04/2014

lunedì 21 aprile 2014

CLOUD NOTHINGS – HERE AND NOWHERE ELSE





Mai piaciuti I Cloud Nothings, e lo dico senza usare perifrasi utili ad addolcire la pillola. Troppo college band, troppo finto alternativi, troppo pop ad annacquare un punk mai davvero decisivo. Insomma, una musica buona per adolescenti che vorrebbero farsi passare per duri, ma che poi al primo accenno noise, tremebondi, si fanno il segno della croce. E questo, nonostante al progetto musicale del terzetto di Cleveland abbia messo mano un guru dell’alternative come Steve Albini (Big Black, Rapeman, Shellac, e una miriade di produzioni che vanno dai Fugazi agli Slint passando per i Nirvana). Oggi, Albini, dopo il deludente Attack On Memory del 2012 (vedi motivi su esposti), ha lasciato la cabina di regia e ha passato il testimone a John Congleton (John Grant, St. Vincent, Anna Calvi, Micah P. Hinson, etc). E il cambio di rotta , strano a dirsi, ha permesso ai Cloud Nothings di sfornare il loro album migliore. Certo, non vi è stato lo stravolgimento di una formula che sembra ormai parte del dna della band: i ganci melodici e la ricerca del ritornello facile facile abbondano anche in Here And Nowhere Else. Eppure, gli spunti più decisamente pop non sono mai puerili, mai fini a se stessi, ma si inseriscono alla perfezione in un linguaggio divenuto finalmente adulto. Anzi, a tratti addirittura austero (come ci fa capire la copertina del disco) e decisamente essenziale (come spiega lo scarno packaging del cd). Il minimo sindacale di durata (trentadue minuti) e otto canzoni urlate, dirette, capaci di percuotere i timpani con una ritmica possente e una chitarra altrettanto solida. Il gioco funziona, insomma, e se è vero che il punk è tutta un’altra cosa, questo noise pop, un po’ emo e un po’ post, alla lunga è riuscito a convincere anche un detrattore come il sottoscritto.

VOTO: 7





Blackswan, lunedì 21/04/2014