giovedì 31 dicembre 2020

LA TOP TEN DEL 2020

 


 

1 FONTAINES DC - A HERO'S DEATH 



2 THE APARTMENTS - IN AND OUT OF LIGHT



3 A.A. WILLIAMS - FOREVER BLUE



4 CHRIS STAPLETON - STARTING OVER



5 BOB DYLAN - ROUGH AND ROWDY WAYS



6 ALESSANDRO ROCCA - TRANSITI



7 JASON ISBELL AND THE 400 UNIT - REUNIONS



8 LUCINDA WILLIAMS - GOOD SOULS BETTER ANGELS



9 REN HARVIEU - REVEL IN THE DRAMA



10 BRUCE SPRINGSTEEN - LETTER TO YOU


CI SONO PIACIUTI ANCHE:

FANTASTIC NEGRITO - HOW YOU LOST YOUR MIND YET?

THE AVETT BROTHERS - THE GLEAM 3

HONEY HARPER - STARMAKER

SON LITTLE - ALOHA

SOPHIA - HOLDING ON/LETTING GO

OZZY OSBOURNE - ORDINARY MAN

MARGO PRICE - THAT'S HOW RUMORS GET STARTED

LYDIA LOVELESS -DAUGHTER

AC/DC - POWER UP

IDLES -ULTRA MONO

PEARL JAM - GIGATON

PROTOMARTYR - ULTIMATE SUCCESS TODAY


Blackswan, giovedì 31/12/2020

mercoledì 30 dicembre 2020

PREVIEW

 


L'uomo la cui illustre carriera è iniziata alla fine degli anni '70 con la band visionaria synth-pop Japan e successivamente membro dell'influente band art-rock Porcupine Tree, torna con il nuovo album Under A Spell che segue il suo Planets + Persona del 2017.

Richard Barbieri non aveva pianificato di realizzare un album come Under A Spell, in origine pensava al suo quarto album solista come diretto seguito del suo predecessore, Planets + Persona del 2017.

Quel disco, realizzato in diversi studi in tutta Europa e con l'inclusione di performance dal vivo con una serie di ospiti, è stato avventuroso e audace, mostrando l'infinita inventiva di Barbieri nella scrittura delle canzoni e la sua padronanza dell'elettronica. Il seguito avrebbe dovuto riprendere da dove si era interrotto, viaggiando ulteriormente nel percorso che aveva tracciato col disco precedente. Poi la pandemia del COVID-19 ha colpito e tutto è cambiato. Dice Barbieri di Under A Spell "L'ho scritto e registrato nel mio studio casalingo, in questo periodo così strano. Il nuovo lavoro è diventato qualcosa di completamente diverso: questo strano album onirico".

In Under A Spell, Barbieri ha preferito catturare le atmosfere e gli stati d'animo che il suo cervello disconnesso stava evocando, piuttosto che concentrarsi sugli arrangiamenti e melodie. Canzoni come "Flare", "Serpentine", "Sleep Will Find You" e "Darkness Will Find You" sono definite con precisione, nonostante la loro genesi ispirata dal sognare a occhi aperti, mentre 'Under A Spell' e 'Lucid', le suggestive tracce di apertura e chiusura, sono le chiavi che aprono il disco. "Queste due tracce contengono nel loro interno tutto il significato dell'album", racconta Barbieri. "Il primo brano, Under A Spell, ti conduce in luoghi dove non sei sicuro di quello che sta succedendo. Ci sono sussurri in sottofondo, incantesimi lanciati in un bosco deserto. Poi il brano finale, Lucid, è l'opposto. Sei in questo sogno lucido e confortante, ma poi ti allontani ancora di più, cercando di uscirne. Ci sono voci che dicono: 'Svegliati, svegliati, torna vivo...'".

Gli ascoltatori saranno in grado di distinguere delle voci e tra quelle troviamo quelle del frontman dei Marillion Steve Hogarth e la cantante svedese Lisen Rylander Love (che ha co-scritto 'A Star Light').

Il titolo dell'album racchiude perfettamente il mondo evocativo che Barbieri ha creato. Canzoni come "Clockwork" e "Sketch 6”, tracciano territori dub fluttuanti e sono sospese in quello strano mondo di mezzo tra il sonno e la veglia, un riflesso subconscio dello stato surreale in cui il pianeta si è trovato negli ultimi mesi. "Stavo facendo un sacco di sogni bizzarri e ricorrenti che mi giravano intorno dopo il mio risveglio", dice Barbieri. "Erano basati su questo sentiero nel bosco, che è rappresentato dalla copertina dell'album, un ambiente surreale, deserto, tipo Blair Witch Project. Stai attraversando questi boschi, ti dirigi verso questa luce, quasi come se stessi lasciando la vita. È da qui che è nato il titolo Under A Spell, era una sensazione di non avere il controllo totale. Quasi come se i tuoi sogni ti indicassero direzioni che a volte puoi controllare e a volte no".

Fondatore dei Japan, pionieri della new-wave e uno dei gruppi più innovativi dei loro anni, Richard Barbieri ha contribuito a innescare la rivoluzione della musica elettronica, il suo suono synth non solo ha definito la band, ma ha influenzato artisti del calibro di The Human League, Duran Duran, Gary Numan e Talk Talk. Dopo lo scioglimento dei Japan, Barbieri insieme a Steven Wilson ha formato il leggendario gruppo progressive Porcupine Tree, suonando in nove album, tra cui Stupid Dream del 1999, In Absentia del 2002 e l'acclamato Fear Of A Blank Planet del 2007. Dopo che i Porcupine Tree hanno sospeso la propria attività, Barbieri ha intrapreso una carriera solista, pubblicando album come Things Buried del 2005, Stranger Inside del 2008 e Planets + Persona del 2017, oltre alla sua recente serie EP, Variant.1-5.

La volontà di Barbieri di ridefinire costantemente i propri confini musicali non è mai stata così evidente come nel brillante, ipnotico Under A Spell, l'ultima pietra miliare di questo viaggio assolutamente unico.

 


 

Blackswan, mercoledì 30/12/2020

martedì 29 dicembre 2020

THE WAYFARING STRANGER - VEERLE BAETENS (Universal Music Belgium, 2012)

 


Ci sono canzoni che sono state reinterpretate talmente tante volte che, anche volendo, impiegheremmo giorni interi a contarle tutte. E’ il caso, ad esempio, di Wayfaring Stranger, conosciuta anche come I’m a Poor Wayfaring Stranger, con la quale si sono cimentati, tanto per citarne qualcuno, fior fior di artisti, quali Johnny Cash, John Baez, Bill Monroe, Tim Buckley, Eva Cassidy, Neil Young e perfino Ed Sheeran. 

Il brano è un traditional americano di incerta provenienza, tanto importante e famosa per la cultura degli Stati Uniti da essere stata inserita nel Roud Folk Song Index, database che raccoglie i brani tradizionali in lingua inglese. La canzone fu resa nota, nel 1891, dal divulgatore statunitense Charles Davis Tillman, che la inserì nel suo Canzoniere per arpa (Survival), riprendendo le liriche da un libro di canzoni religiose del 1858 (testo, questo, che potrebbe essersi ispirato a sua volta a un inno in lingua tedesca).

La prima pubblicazione del brano su disco avvenne nel 1944 a opera del musicista folk Burt Ives (celebre anche per la sua carriera di attore, che valse un Oscar per il film La Gatta Sul Tetto Che Scotta), e successivamente, come abbiamo accennato poc’anzi, rivisitata (anche nel testo) e reinterpretata da tantissimi altri autori.

Per molti anni, la canzone fu conosciuta anche con il titolo di Libby Prison Himn, in quanto ne veniva attribuita la paternità a un soldato dell’Unione prigioniero nella famigerata prigione sudista di Libby, presso Richmond (Virginia), il quale, sul punto di morte, avrebbe scritto il brano per confortare un compagno di prigionia ferito.

Quale che sia la genesi della canzone, resta il fatto che The Wayfaing Stranger è un brano, non solo famosissimo, ma che ben si adatta a svariate circostanze. Il tema è evidentemente simbolico e religioso: il peregrinare è la metafora della vita, il cui cammino difficile, periglioso e pregno di sofferenza verrà ricompensato nell’Aldilà, quando ognuno di noi potrà ricongiungersi con i propri cari in Paradiso. Le liriche, in tal senso, sono chiarissime: “So che la mia strada è dura e ripida, ma davanti a me sorgono bellissimi campi, dove Dio ha redento…”; e ancora: “Ci vado a trovare mia madre, ha detto che ci saremmo incontrati quando sarei arrivato…sto solo andando a casa”. In questo primo piano di lettura, il messaggio è chiarissimo: la vita è solo l’anticamera del Paradiso, il luogo che è la nostra vera dimora, là dove potremo stare per l’eternità a fianco dei nostri affetti più profondi.

Il tema religioso in sé, però, non giustificherebbe l’enorme successo di questa mestissima canzone, il cui testo fortemente nostalgico ben si adatta a rappresentare momenti di dolore e di sconforto vissuti da molti che hanno voluto reinterpretarlo.

C’è di più, però. The Wayfaring Stranger è anche la canzone che più di altre riesce a rappresentare la tragedia dei migranti. Fuori dal simbolismo religioso, il brano racconta la storia di tutti coloro che sono costretti ad abbandonare la propria casa per cercare fortuna nel mondo. Uomini che lasciano gli affetti, gli amori, le amicizie e i luoghi in cui sono cresciuti, perché la vita è crudele, li azzanna alla gola e li costringe a migrare, alla ricerca di un mondo nuovo, un futuro diverso, una speranza di felicità.

E’ il verso iniziale, I’m just a poor Wayfaring Stranger traveling through this world, che inchioda l’esecutore e l’ascoltatore a una vera e propria responsabilità di immedesimazione: un giorno anche tu potrai essere viandante straniero in una terra che ti è ostile e ti rifiuta, anche tu potrai patire il morso feroce della solitudine, anche tu, si, proprio tu, che ora vivi nell’agio e nell’abbondanza, potrai essere sradicato da tutto ciò che ami e trovarti all’improvviso nella tormenta. Vesti i panni degli altri, allora, prova il dolore che loro provano: solo così potrai dare dignità alla tua esistenza.

Sono moltissime le interpretazioni di questa dolente ballata che lasciano senza fiato per intensità: provate ad ascoltare, ad esempio, la versione celeberrima che ne dà Johnny Cash o quella punteggiata da poche note di banjo di Rhiannon Giddens, esecuzioni diverse per sensibilità artistica, ma entrambe da pelle d’oca. Una più di tutte, però, riesce a commuovere alle lacrime, ed è quella eseguita dalla cantante e attrice belga Veerle Baetens per la colonna sonora del film Alabama Monroe, vincitore nel 2014 dell’Oscar per il miglior film straniero. Una versione cupa e disperata, che non lascia spazio alla speranza: The Wayfaring Stranger è, in questo caso, solo un racconto di sofferenza, la cruda rappresentazione di una vita che si spegne, non c’è promessa di redenzione o di salvezza, solamente un amore grande che svanisce, per sempre, nel buio dell’eternità. Drammatica e dolorosa, proprio come la toccante pellicola di Felix Van Groe
 
 

 
Blackswan, martedì 29/12/2020

lunedì 28 dicembre 2020

THE APARTMENTS - IN AND OUT OF THE LIGHT (Talitres, 2020)

 


I dischi degli australiani Apartments sono perle rare centellinate nel tempo, rilasciate con una lentezza d’altri tempi, come se ogni nuova uscita fosse il frutto di una cura materna, l’accurata realizzazione di un artigiano, che leviga e cesella con amore ogni centimetro della sua opera.

In And Out Of The Lights è il sesto disco di una carriera che è iniziata a metà degli anni ’80, dopo che Peter Milton Walsh, nocchiero del progetto, aveva contribuito brevemente alla storia della band di culto dei The Go-Betweens. Una musica, quella concepita dalla penna del leader, che ha mantenuto negli anni tratti identificativi ben delineati, l’idea, cioè, di una canzone ballata, al contempo romantica e malinconica, che evocasse un suono classico e atmosfere di uno sgranato bianco e nero.

Brani senza tempo, che fluttuano sopra ogni decade nella quale sono stati concepiti, senza però imparentarsi a nessun suono specifico, unici e immediatamente riconoscibili, proprio grazie al loro essere attraversati da un apolide senso di nostalgia, buoni per ogni luogo e ogni epoca, pretendendo solo un comodo divano nella notte, le cuffie a contenere le emozioni e il cuore aperto agli struggimenti.

Come evocato fin dal titolo, le nove canzoni di In And Out Of The Light, attraversano un territorio intimo in cui si susseguono luci e ombre, in cui barbagli di sole e dolcissimi languori si accostano tremanti al soliloquio meditabondo e sfiorano appena gli occhi umidi di lacrime. Non c’è però disperazione (con cui Walsh convive dal 1999, anno in cui gli morì la figlioletta), semmai uno sguardo esistenziale pacificato, ma consapevole e critico, e una malinconia che avviluppa morbida senza mai forzare troppo la stretta.

La famigliarità con cui il disco inizia, come se fosse una seconda facciata del precedente, bellissimo No Song, No Spell, No Madrigal, è esattamente quello che ci attendiamo da una canzone degli Apartments. L’opener Pocketful Of Sunshine, quell’arpeggio di chitarra che cerca gli accordi in minore, la voce calda di miele, i controcanti eterei, il sospiro della tromba e il velluto dell’organo, sarebbero d’indicibile mestizia, se non fosse per quel raggio di sole che illumina la scena e fa evaporare gli struggimenti, mentre Walsh canta “Tu vuoi ricominciare a vivere, e se io potessi metterei un po' di cielo blu nella tua testa”. Luci e ombre, rassegnazione e speranza.

Write Your Way Out Of Town, costruita su splendide linee di chitarra, è quasi stasi contemplativa, lo sguardo fuori dalla finestra mentre le luci autunnali velano di nostalgia il tramonto e la voce di Walsh, che quasi implora: “Resta, è tutto quello che ti chiedo di fare”. L’intreccio leggiadro di piano e chitarra, l’incedere felpato e la carezza degli archi, mitigano il lamento esistenziale di When You Used To Be, attenuano lo straziante senso di vuoto di quel verso, “c’è un buco nel mondo dove tu eri solita stare”, e addolciscono la dichiarazione di non appartenenza al mondo di un sognatore, suggerito dal cantato di Walsh: “Chiedimi degli obiettivi, sai che non ne ho, chiedimi dei sogni, sai che ne ho molti”.

Il secondo singolo, What’s Beauty To Do?, pone una domanda immensa, a cui Walsh dà una risposta tanto evidente quanto confortante: “ E’ una luce nel buio, una luce nel buio”, poche parole che leniscono il dolore di una perdita che non potrà mai essere colmata.

L’ipotetica seconda facciata del disco inizia qui, e gli umori si fanno leggermente più cupi. Sebbene l’album sia stato registrato prima del lockdown, quel verso contenuto in Butterfly Kiss, ”Lucy The World Has Changed”, sembra riflettere la drammaticità dei nostri giorni, accentuata, poi, dalla voce grave di Walsh e dalla tensione innervata da poche note di tromba. Il pianoforte di Chris Abrahams gocciola lacrime e pioggia su We Talked Through Till Dawn, il brano più struggente in scaletta, una sorta di nostalgico lamento (“I Made A Thousand Whishes and It Got Me Nowhere”), che si lega a filo doppio con le atmosfere di No Song, No Spell, No Madrigal. Gli archi e lo xilofono dell’amara I Don't Give A Fuck About You Anymore anticipano la superba chiosa di The Fading Light, gemma che coagula in sei minuti la bellezza senza tempo di quella canzone d’autore che ha in Leonard Cohen il suo nume tutelare. 

In And Out Of The Light non è certo un disco semplice, si tiene lontano dal mainstream, sonda l’anima, scava a fondo nelle emozioni, evita i luoghi comuni e sceglie la strada della riflessione che fa male, e che talvolta sfocia nel pessimismo. Un disco che parla ai romantici, soprattutto, a coloro che amano crogiolarsi nella propria voluptas dolendi, e raccogliersi in silenzio, nel cuore della notte, ad aspettare l’alba e quell’ora in cui un raggio di sole trafigge il buio, che si dissolve. Dentro e fuori la luce: la speranza, il dolore, i desideri, la perdita, l’attesa della gioia, il pungolo dei ricordi. In queste nove canzoni c’è tutto quello che noi siamo soliti chiamare vita.

VOTO: 9

 


 


Blackswan, lunedì 28/12/2020

domenica 27 dicembre 2020

IL 2020 IN DODICI CANZONI (Parte Quarta)

Dodici canzoni, una per ogni mese dell'anno, che hanno segnato il 2020 e di cui, magari, ci ricorderemo anche negli anni a venire. Una sorta di playlist molto personale, che non ha la pretese di essere esaustiva (e come potrebbe mai esserlo?), ma che cerca di rappresentare al meglio quanto ascoltato durante l'anno.

 

Ren Harvieu - Cruel Disguise

 


 

 

A.A. Williams - All I Ask For (Was To End It All) 

 

 

Margo Price - Letting Me Down


 

Blackswan, domenica 27/12/2020

 

sabato 26 dicembre 2020

IL 2020 IN DODICI CANZONI (Parte Terza)

Dodici canzoni, una per ogni mese dell'anno, che hanno segnato il 2020 e di cui, magari, ci ricorderemo anche negli anni a venire. Una sorta di playlist molto personale, che non ha la pretese di essere esaustiva (e come potrebbe mai esserlo?), ma che cerca di rappresentare al meglio quanto ascoltato durante l'anno.

 

Fontaines Dc - Love Is The Main Thing

 


 

 

Sophia - Alive

 


 


The Aprtments - Pocketful Of Sunshine




Blackswan, sabato 26/12/2020

venerdì 25 dicembre 2020

IL 2020 IN DODICI CANZONI (Parte Seconda)

Dodici canzoni, una per ogni mese dell'anno, che hanno segnato il 2020 e di cui, magari, ci ricorderemo anche negli anni a venire. Una sorta di playlist molto personale, che non ha la pretese di essere esaustiva (e come potrebbe mai esserlo?), ma che cerca di rappresentare al meglio quanto ascoltato durante l'anno.

 

Ozzy Osbourne -  Straight To Hell

 


 

 

Bruce Springsteen - Janey Needs A Shooter 

 


 

 

Lydia Loveless - Love Is Not Enough

 


 

 

Blackswan, Venerdì 25/12/2020 

giovedì 24 dicembre 2020

Il 2020 IN DODICI CANZONI (Parte Prima)

Dodici canzoni, una per ogni mese dell'anno, che hanno segnato il 2020 e di cui, magari, ci ricorderemo anche negli anni a venire. Una sorta di playlist molto personale, che non ha la pretese di essere esaustiva (e come potrebbe mai esserlo?), ma che cerca di rappresentare al meglio quanto ascoltato durante l'anno.

 

Chris Stapleton - Cold

 


 

 

Bob Dylan - Key West

 


 

 

Lucinda Williams - You Can't Rule Me

 


 

 

Blackswan, giovedì 24/12/2020

mercoledì 23 dicembre 2020

SOPHIA - HOLDING ON / LETTING GO (The Flower Shop Recordings, 2020)

 


Nati dalle ceneri dei leggendari God Machine, intorno alla figura di Robin Proper-Sheppard, pilastro indiscutibile del progetto, i Sophia si sono ritagliati in ambito alternative un posto di riguardo e quell’attenzione alle band di culto, in grado, con indomita coerenza, di sfornare dischi di grande qualità, anche se per il piacere di pochi intimi.

Merito del nocchiere Proper-Sheperd, che ha ispirato la sua carriera artistica a un’integrità invidiabile, seguendo un percorso musicale ben definito, senza mai tradire il proprio credo, la propria filosofia musicale. Un artista, capace di stupire per qualità pressoché a ogni uscita (basti guardarsi un po' alle spalle per accorgersi di come fossero notevoli le uscite precedenti) ma anche foriero di un suono famigliare, al pari di altri grandi band (The Apartments, The Slow Show, etc), di cui puoi quasi intuire tutto, prima ancora di mettere la puntina sul vinile.

Holding On / Lettting Go è l’ennesimo viaggio nel mondo di Robin Proper-Sheppard, dove tutto è come dovrebbe essere e soprattutto come vorremmo che fosse. A partire dalla traccia di apertura, Strange Attractor, costruita su un lento accumulo e su un sorprendente break di chitarra, che si discosta dal restante mood del disco, pur mantenendo tratti noti, che in qualche modo richiamano certe cose dei God Machine.

Fin da subito, l’impressione è che questo sia un disco più ricco di suoni dell’enigmatico predecessore As We Make Our Way (2016), e non è un caso che Proper-Sheppard, oltre al bassista Sander Verstraete e al batterista Jeff Townsin, che già lo avevano accompagnato in passato, abbia chiamato a dare un contributo alla causa anche il chitarrista Jesse Maes, il tastierista Bert Fly e il sassofonista Terry Edwards.

Arrangiamenti più ricchi, un maggior uso dei sintetizzatori e delle chitarre hanno aggiunto appeal e nerbo a canzoni come Alive, Undone.again, We See You (Taking Aim), uscite a inizio anno come singoli promozionali (la pubblicazione dell’album è stata più volte rinviata per i motivi noti a tutti). Una sequenza di brani di altissima qualità, nessun filler, nessun passo falso, ma il solito cantautorato pop venato di malinconia, capace di distillare pozioni in grado di lenire le sofferenze dell’anima: Road Song, un istant classic del songbook Sophia, Avalon, dalle trame slowcore, che librano dolcemente nell’aria, e poi, la sospensione malinconica della citata Alive, con quel pattern di sax capace di far sanguinare il cuore, suonano tutte clamorosamente Sophia, tutte clamorosamente struggenti.

Chiude il disco Prog Rock Arp (I Know), e quell’ipnotico tintinnio di chitarra, capace di aprire l’anima a vertigini sotterranee, è la chiosa perfetta dell’ennesimo grande disco di una band, della quale è davvero impossibile fare a meno.

VOTO: 8

 


 


Blackswan, mercoledì 23/12/2020

martedì 22 dicembre 2020

CRIPPLED BLACK PHOENIX - ELLENGAEST (Season Of Mist, 2020)

 


In circolazione ci sono band straordinarie che non si fila nessuno, che sono esclusivo patrimonio di un ristretto circolo di appassionati. E’ questo il caso dei britannici Crippled Black Phoenix, ensemble formatasi a Bristol nel 2004, intorno alla figura di Justin Greaves, chitarrista e padre padrone del progetto.  Un combo vero e proprio, una sorta di porto di mare, che in sedici anni ha visto decine di musicisti e ospiti condividere la visione del leader, autore, peraltro, di quasi tutto il materiale della band.

Nonostante i contorni instabili entro cui lavora il gruppo, i CBP hanno pubblicato la bellezza di diciassette dischi ufficiali, tra full lenght, Ep e live, oltre ad aver autoprodotto e distribuito un numero corposo di bootleg ufficiali. Di difficile classificazione, la musica del combo ruota intorno a forti influenze post rock, plasmate però con riferimenti al post punk ottantiano e a scorci di prog rock e prog metal. Un suono unico, bizzarro e sperimentale, forse non adatto a tutti i palati, ma estremamente suggestivo e intrigante.

Ellengaest (in inglese antico, spirito forte o demonio traditore) viene pubblicato come Ep, anche se la durata (cinquantasei minuti) supera abbondantemente il minutaggio medio di un normale full length. Coadiuvati dal consueto stuolo di ospiti (Vincent Cavanagh degli Anathema, Kristian ‘Gaahl’ Espedal, l’ex bassista Ryan Patterson, Suzie Stapleton e Jonathan Hultén dei Tribulation, e Rob Al-Issa al basso), i CBP (oltre a Greaves, ci sono Belinda Kordic alla voce, Helen Stanley al piano, tastiere e tromba, Andy Taylor alla chitarra) apparecchiano otto canzoni (endtime ballads, come piace definirle a Greaves) che pur inserendosi perfettamente nella narrazione tipica della band, risultano essere meno sperimentali del solito e decisamente più accessibili. Nonostante si tratti comunque di un ascolto complesso e indigeribile ai più, alcuni episodi vestono un abito canzone oggettivamente più fruibile. City Of Love con il suo arpeggio di chitarra alla Cure e il suo incedere post punk e la conclusiva She’s In Parties, dalle oscure trame chitarristiche, che richiamano alla mente i Bauhaus, sono canzoni dritte che arrivano velocemente al traguardo.

Il resto del disco, invece, comporta un surplus di attenzione, a cagione della struttura non lineare, dell’ambientazione ossianica e di arrangiamenti spesso eccentrici e inusitati. Il disco si apre con House Of Fools ed è subito una bella mazzata: una tromba malinconica introduce una deflagrante esplosione noise, poi il brano si sviluppa tra vapori sulfurei, per arrestarsi ammaliato da scenari marziali e cinematici e quindi, esplodere nuovamente, come da migliore tradizione post rock.

Lost incede tambureggiante, immersa nell’oscurità maligna di chitarre riverberate su cui si srotola il cantato ultraterreno della Kordic. In The Night procede a tentoni in un buio spesso e nero come la pece, la voce narrante e inquietante di Gaahl, gli intrecci delle chitarre, le sospese volute oniriche che si aprono ad atmosfere pinkfloydiane spinte dall’assolo gilmouriano di Greaves.

Everything I Say è una marcia funebre per pianoforte, batteria e riverberi, che improvvisamente si attorciglia su se stessa in uno sprofondo a spirale di elettricità e tenebre. Dopo il breve intermezzo di (-), ecco comparire improvviso un dolcissimo momento di pace (The Invisible Past), un barbaglio di sole che buca l’oscurità: sono però solo pochi minuti, perché la quiete evapora inesorabilmente tra le brume sgranate e dolenti di una mestizia insondabile.

Nonostante, come si diceva, Ellengaest è probabilmente la prova meno eccentrica e audace dei CBP, questo disco resta un ascolto complicato, dovuto anche alla lunghezza media delle canzoni e a uno spleen che lascia davvero pochissimi spazi alla leggerezza. Chi, tuttavia, avrà voglia di sperimentare qualcosa di diverso, troverà in queste otto canzoni una delle esperienze più estreme e suggestive dell’anno. Consigliatissimo.

VOTO: 8

 

 

 

Blackswan, martedì 22/12/2020

lunedì 21 dicembre 2020

IL MEGLIO DEL PEGGIO


 

“Ci aspetta un Natale molto magro, ma le persone sono un po’ stanche di questa situazione e vorrebbero venirne fuori. Anche se qualcuno morirà, pazienza”.

Questa “illuminata” riflessione appartiene a tal Domenico Guzzini, presidente di Confindustria Macerata che a buon diritto fa il paio con l’esternazione altrettanto sapiente di una sedicente maestra di Treviso che durante una lezione aveva invitato gli alunni a non indossare la mascherina in classe “perché tanto di Covid muoiono solo i vecchi”. Ebbene, a me non frega una beata cippa se il confindustriale si è scusato e poi dimesso (la maestrina trevigiana, invece, è stata al momento sospesa) perché in realtà ciò che sgomenta è proprio il retropensiero. 

È inutile girarci attorno o ammantarsi di ipocrisia: il comune sentire di certa gente è esattamente questo. Vali nella misura in cui produci, punto. Del resto, in maniera sprezzante vari capi di stato si sono più o meno orientati in questa direzione: Boris Johnson quando all’inizio della pandemia disse, lavandosene le mani, che molte famiglie avrebbero perso i loro cari o il brasileiro Bolsonaro quando affermò che “tutti dobbiamo morire prima o poi”, fino al “nostro” Giovanni Toti che sul presupposto di un principio di ingegneria sociale bollava gli anziani come non indispensabili. 

Ma in questo caravanserraglio di nefandezze c’è chi propone più vaccini anti Covid ai lombardi perché “se si ammala un lombardo vale di più rispetto a uno che abita in un’altra parte di Italia”. Per chi non lo sapesse l’ideatore di cotanta genialata è, manco a dirlo, un eurodeputato della Lega. Questa, signori miei, è la cultura dello scarto, una visione della società fondata sull’usa e getta dove l’homo oeconomicus è il vero punto cardinale. Non credo ci sia altro da aggiungere difronte all’evanescenza dei valori e a tanta meschinità umana. Se non che dove non possono le parole arriva il silenzio.

Cleopatra, lunedì 21/12/2020

P.S. Il Meglio del Peggio vi dà appuntamento a gennaio. Buone Feste!

venerdì 18 dicembre 2020

PREVIEW

 



Se si pensa alla decade delle acconciature e degli outfit più esagerati, oltre che dei video musicali più iconici, si pensa agli anni ’80. Questa decade ha dato vita ai generi musicali più disparati e a nuovi incredibili stili. È proprio durante questo periodo che Bonnie Tyler si è affermata a livello globale. Il suo nuovo album The Best Is Yet To Come riparte esattamente da lì, da classici come “Holding Out For A Hero” e “Total Eclipse Of The Heart”.

La first lady del pop/rock Bonnie Tyler ha alle spalle una notevole carriera lunga 50 anni. Grazie alla sua voce immediatamente riconoscibile, Bonnie ha fatto la storia della musica. Con il suo talento unico, ci ha regalato delle hit che hanno segnato una generazione e ha venduto oltre 100 milioni di dischi. Il nuovo album sarà preceduto dalla pubblicazione del primo singolo “When The Lights Go Down”, in arrivo il 18 dicembre. In The Best Is Yet To Come, che segue l’acclamato Between The Earth And The Stars, troviamo dodici brani inediti.

The Best Is Yet To Come presenta il sound “attuale” di Bonnie, che ancora rievoca la passione, l’energia e il divertimento degli anni d’oro. L’album, su cui ha lavorato con il produttore di lunga data David Mackay, segue una lunga serie di lavori di grande successo. Il suo ultimo disco Between The Earth And The Stars, rifletteva il suo potere stellare e si avvaleva della collaborazione di artisti come Rod Stewart, Barry Gibb dei Bee Gees, Cliff Richard e Francis Rossi degli Status Quo. È stato il suo lavoro con la posizione più alta nella classifica europea negli ultimi 30 anni. In The Best Is Yet To Come, Bonnie prova che non servono degli ospiti per rendere perfetto un album già meraviglioso.

L’artista spiega: “Negli ultimi 10 mesi, che sono stati lunghi e spaventosi, ho sentito l’urgenza di tornare a cantare per voi. Mi rendo conto che alcuni hanno sofferto a causa del virus, che hanno perso famiglia e amici e il mio cuore soffre per voi. La musica può dare conforto, ed è anche il mio rifugio ogni volta che sento la necessità di trovarne uno. Spero che questi nuovi brani possano darvi sollievo. Sono molto felice e orgogliosa di presentarvi questo nuovo album. Mi regala il sorriso ogni volta che lo faccio partire. Il momento in cui potrò tornare sul palco e vedervi sorridere sarà davvero, davvero speciale. È una promessa, il meglio deve ancora arrivare”.

Come suggerisce il titolo dell’album The Best Is Yet To Come, Bonnie Tyler è inarrestabile. È tornata più forte che mai e, con questo nuovo album energico e allegro, è pronta a scrollarci di dosso la tristezza del 2020 e a dare inizio alla festa!

 


 

 

Blackswan, venerdì 18/02/2020

giovedì 17 dicembre 2020

RED HOT CHILI PEPPERS - ONE HOT MINUTE (Warner Bros, 1995)

 


Nemmeno il tempo di gustarsi il meritato successo, e John Frusciante, durante il tour di promozione di Blood Sugar Sex Magik, saluta tutti, chiude la porta e se va. I motivi? Parecchi, a partire dall’abuso di droghe, che lo portano spesso in overdose, dalla totale incapacità di gestire la notorietà raggiunta e, non ultimo, dai continui dissapori con gli altri membri della band, in particolare con Anthony Kiedis, per la svolta mainstream fortemente voluta dal cantante.

Un bella mazzata per il gruppo, che si trova a cercare il sostituto di Frusciante, la cui chitarra aveva contribuito non poco a segnare il sound dei precedenti dischi. Così, dopo aver fatto un tentativo, peraltro abortito velocemente, con Jesse Tobias dei Mother Tongue, i Red Hot Chili Peppers reclutano Dave Navarro, ventiseienne chitarrista proveniente da disciolti Jane’s Addiction. Una svolta non da poco, dal momento che con Navarro, che sembra l’esatto opposto di Frusciante, il suono band assume connotati diversi. Se, infatti, Frusciante è un chitarrista minimal, che suona con grande pathos pochissime note, il sostituto, oltra a vantare evidenti e superiori doti tecniche, è pirotecnico e arrembante, e tiene il piede schiacciato sul pedale wah wah come se guidasse in Formula Uno.

Così, quando il 12 settembre del 1995, esce One Hot Minute, sesto album in studio del combo californiano, non è solo il cambio di line up a colpire, ma soprattutto un suono che differisce, e non poco, rispetto a quello dei lavori precedenti. Se l’ossatura funk, che è la matrice più utilizzata dalla band, resta invariata, le tredici canzoni del disco, però, suonano decisamente più psichedeliche e rock, talvolta lambendo addirittura i confini del metal. L’album, tuttavia, risulta meno muscolare del suo predecessore, aprendosi a derive lisergiche e concentrandosi, nelle liriche, su temi diversi dal solito sesso, come la droga, la depressione, la morte e la religone.

L’apripista è Warped, deflagrante incipit e primo singolo estratto, brano che porta le stigmate della chitarra di Navarro, e che per questo, con un banale gioco di parole, potrebbe dirsi uscito dalla penna dei Red Hot Chili Addiction. Ci sono anche un altro paio di singoli che tirano parecchio: il funky pop di Aeroplane, una sorta di inno cazzaro all’eroina (di cui Kiedis aveva iniziato a fare abbondante uso) e My Friends, ballata dai tratti psichedelici e malinconici, che si sofferma (in modo inusuale per una band solitamente scanzonata) sul tema della solitudine, ammiccando implicitamente all’abbandono di Frusciante e ai suoi problemi con la droga.

In scaletta, per citare gli highlights, si trovano anche il deragliamento hard della rumorosa Coffe Shop, il funky tossico di Falling Into Grace, e l’omaggio psichedelico (dal finale noise) all’amico River Phoenix, racchiuso nella bellissima e conclusiva Trascending.

One Hot Minute è un disco ispirato, partorito da una band che è maturata molto e che con la presenza di Navarro, pur senza togliere nulla alla bravura di Frusciante, ha ulteriormente alzato il proprio tasso tecnico. Eppure, nonostante la qualità delle canzoni in scaletta, l’album è generalmente sottovalutato, stritolato com’è fra il leggendario Blood Sugar Sex Magik e il successivo successo planetario di Californication.

Gli anni successivi alla pubblicazione del disco (che comunque scala le classifiche di mezzo mondo, pur senza vendere moltissimo) sono probabilmente il momento più buio della storia del gruppo. Kiedis è sempre più dipendente da droga e alcol, si frattura più volte cadendo dal palco, ha un grave incidente in moto che ne pregiudica la possibilità di esibirsi dal vivo. E tra lui e Navarro, soprattutto, volano gli stracci: perché non si sopportano, perché sono entrambi drogatissimi, e perchè, si sa, è inevitabile che due galli nel pollaio finiscano, prima o poi, a combattere fra loro.

Così, nell’aprile del 1998, dopo un’accesissima discussione, Flea e Kiedis cacciano un inviperito Navarro. La band ha perso ogni stimolo ed è sul punto disciogliersi. A Flea, però, viene un’idea, che sembra un azzardo, ma che si rivelerà azzeccatissima: richiamare Frusciante. Il quale, finalmente disintossicato, sale nuovamente a bordo, giusto in tempo per contribuire alla stesura di Californication, l’album che nel 1999 regalò alla band un Grammy per Scar Tissue e una valanga di dischi di platino.   




Blackswan, giovedì 17/12/2020

mercoledì 16 dicembre 2020

BLACK - PEARL JAM (Epic, 1991)

 


Ci sono canzoni che sgorgano dal cuore, canzoni scritte per lenire un dolore, per rielaborare un lutto, per mettere un punto fermo su una fase dell’esistenza. Canzoni intime, personali, che assolvono al compito di guardarsi dentro e di dialogare con se stessi; canzoni magari bellissime, ma che riguardano più chi le scrive che chi le ascolta, perché prive di quella distanza dalla materia che le rende universali, patrimonio di tutti.

Talvolta, questi brani sono talmente soggettivi, talmente colmi di riferimenti personali o di pura sofferenza da essere inconciliabili con le logiche dello star system. Torna alla mente, ad esempio, Ohio dei CSN&Y, protest song che raccontava dei morti alla Ken State University, durante una manifestazione avvenuta il 4 maggio 1970, di cui Neil Young, qualche anno dopo, affermò di essersi profondamente vergognato per aver guadagnato soldi sulla pelle di quattro studenti americani. Il dolore e la militanza politica non sono, non dovrebbero mai essere in vendita.

E viene in mente, Black, capolavoro dei Pearl Jam e una delle canzoni più amate di Ten, esordio del quintetto di Seattle, e l’album che, nel 1991, fece breccia nel cuore della gioventù, riuscendo a fondere le nuove istanze del grunge con un impianto sonoro classicissimo.

A firma Eddie Vedder e Stone Gossard, Black è una canzone sull’amor perduto, una ballata dolente che racconta di una relazione finita male e di un addio che ha lasciato un vuoto infinito. Non un brano come tanti altri: Black è soprattutto Vedder che si racconta, che si mette a nudo, che apre il suo cuore a un’esperienza di vita che l’ha cambiato profondamente, che ripensa con toni dolci amari a una donna con cui avrebbe voluto condividere il proprio futuro e che, invece, ora, non c’è più. Le liriche sono chiare, dirette, pregne di uno struggimento che sembra non avere fine: “So che un giorno avrai una vita bellissima, so che sarai la stella nel cielo di qualcun altro”, canta Vedder nelle battute finali della canzone, “ma perché, perché tutto ciò non può essere, non può essere mio?”.

Ten, che fu accolto con grande favore dalla critica specializzata, fece fatica a decollare fra il pubblico, e le vendite, per alcuni mesi, procedettero a rilento. Poi, all’improvviso, nella seconda metà dell’anno successivo alla pubblicazione, il mondo si accorse dei Pearl Jam, e a quasi un anno dall’uscita, Ten entrò nei primi dieci posti di Billboard. Quello che inizialmente sembrava un mezzo flop, e che invece nel 1993 aveva superato in termini di vendite persino Nevermind dei “rivali” Nirvana, spinse la Epic a batter il ferro finchè caldo, con un intenso battage pubblicitario e la pubblicazione di ben quattro singoli (Alive, Even Flow, Jeremy e Oceans).

L’idea della casa discografica sarebbe stata quella di pubblicare Black come quinto singolo estratto, ma nonostante le pressioni, Vedder e soci si rifiutarono categoricamente. "Questa canzone”, disse Vedder ai mangaer della Epic, “parla di perdita ed è fatta di emozioni troppo intime…Certe canzoni non sono fatte per diventare dei numeri”.

Insomma, in quest’ottica, secondo i componenti della band, un video e il lancio come singolo, avrebbero tolto alla canzone la sua identità, la sua forza emotiva, il suo senso ultimo, che altro non era, se non una personale rielaborazione di un grave lutto sentimentale. Una presa di posizione ostinata e coerente, che non impedì, però, alla canzone di raggiungere il terzo posto di Billboard Mainstream Rock e di diventare uno dei brani più amati dai fan dei Pearl Jam.

 

 

 

Blackswan, mercoledì 16/12/2020

 

martedì 15 dicembre 2020

CHRIS STAPLETON - STARTING OVER (Mercury Nashville, 2020)

 


Chris Stapleton, songwriter trentasettenne, originario del Kentucky, ma ormai di stanza a Nashville, ha regalato le proprie canzoni un po’ a tutti. A Brad Paisley, ad Adele e a Kenny Chesney, Sheryl Crow e Peter Frampton, tanto per citare i più famosi. Poi, quasi alla soglia dei quarant’anni, ha preso il coraggio a due mani e ha deciso di esordire con un full length tutto suo. Traveller, uscito a maggio 2015, ha fatto entrare Stapleton nelle cronache musicali da protagonista, ma lo ha anche consegnato alla storia, grazie a una clamorosa prima piazza nelle classifiche statunitensi e alla vittoria del Grammy per il miglior album country dell’anno.

Metabolizzata l’abboffata di riconoscimenti e di elogi (Traveller finì nella top ten di quasi tutte le riviste di genere), Chris Stapleton ha continuato a lavorare alla propria musica con la stessa passione di sempre, come se tutto quel clamore non lo riguardasse minimamente. Nel 2017 escono, a distanza di pochi mesi l’uno dall’altro, due dischi, intitolati From A Room, Vol. 1 e 2, che pur non suscitando la sopresa dell’esordio, confermavano il songwriter originario del Kentucky come uno dei più grandi interpreti del movimento country rock del nuovo millennio.

Dopo cinque anni da quel primo, bellissimo disco, Stapleton torna sulle scene con questo nuovo Starting Over, un album talmente bello e convincente, da rubare la scena anche al notevole Traveller. E’ davvero sorprendente come la carriera di Stapleton, iniziata in ritardo, ma attestatasi subito su livelli di qualità altissimi, sia stata capace di un nuovo guizzo, di un’ulteriore crescita, come se l’asticella fosse stata alzata di un buon metro almeno e fosse stata superata di slancio, con una classe infinita.

In Starting Over, tutto gira a mille, tutto suona meravigliosamente bene: grandi canzoni, in cui rock e country convivono sotto un cielo sudista punteggiato di soul, grandi arrangiamenti e grande suono (Stapleton e Cobb insieme rappresentano per l’americana sia lo Zeitgeist che lo zenit) e poi, quella voce, unica, calda, profonda, che riesce a evocare e a trasportarti nel cuore degli States, anche se sei comodamente seduto sul divano di casa.

Coadiuvato dalla consueta backing band (J.T. Cure al basso, Derek Mixon alla batteria e la moglie Morgane Stapleton alla voce) e da ospiti di nobile lignaggio (Mike Campbell e Benmont Tench, già sodali di Tom Petty negli Heartbreakers, e dal polistrumentista Paul Franklin, qui alla steel guitar), Stapleton allestisce una scaletta di quattordici canzoni tutte necessarie, definitive, e destinate, nel tempo, a diventare grandi classici di genere. Un perfetto equilibrio tra forma e sostanza, che non toglie alla scrittura un grammo di sincerità. Tutto è vero, quasi fisicamente tangibile: viaggiatori, anche noi, come Stapleton, attraverso un’America rurale e sudista, di cui sentiamo la terra sotto i piedi e respiriamo l’aria polverosa e secca, pascendo gli occhi di sterminati orizzonti.

Un viaggio che inizia con la title track, appassionata ballata capace di fondere il respiro universale di grandi spazi aperti al refolo intimista e malinconico del soliloquio interiore, soffiato appena nelle orecchie grazie un paio di accordi in minore. Un inizio carico di meraviglia, seguito da Devil Always Made Me Think Twice, swamp rock alla John Fogerty, scartavetrato dalla chitarra di Campbell e dalla voce aspra e graffiante di Stapleton (Fogerty viene omaggiato in scaletta con la cover di Joy Of My Life). Ed è stranissimo, subito dopo, ritrovarsi in un altro mondo, in cui la struggente melodia soul di Cold (a chi è venuto in mente Michael Kiwanuka?), guidata dal piano di Tench e levigata da un suntuoso arrangiamento d’archi, acchiappa la gola e strapazza il cuore, lasciando in bocca il sapore agro dolce della malinconia.

Oltre alla rilettura del brano di Fogerty, ci sono altre due cover prese dal songbook dell’amico Guy Clark, scomparso quattro anni fa: il travolgente rock ‘n’ roll di Worry B. Gone e la struggente Old Friends, lenta, dimessa e umida di lacrime.

Impossibile citare ogni meraviglia del disco, ma meritano un paio di parole ancora il rockettone ad alto tasso di elettricità della scalpitante Arkansas e la conclusiva Nashville, ballata spezzacuore che chiude il disco contemplando il tramonto, mentre intorno libra nell’aria il carezzevole velluto della pedal steel di Franklin.

E’ difficile mantenere un basso profilo nel raccontare e giudicare un disco di tale caratura, difficile non farsi prendere la mano e parlare di capolavoro. Per cui, tacendo quella parola, troppo spesso usata a sproposito, ci limitiamo a parlare di istant classic e di un disco che gli amanti del genere premieranno come uno tra i migliori dell’anno, conservandolo per il futuro tra le poche cose preziose di questo sventurato 2020.

VOTO: 9

 


 

 

Blackswan, martedì 15/12/2020