Chris Stapleton, songwriter trentasettenne, originario del Kentucky, ma ormai di stanza a Nashville, ha regalato le proprie canzoni un po’ a tutti. A Brad Paisley, ad Adele e a Kenny Chesney, Sheryl Crow e Peter Frampton, tanto per citare i più famosi. Poi, quasi alla soglia dei quarant’anni, ha preso il coraggio a due mani e ha deciso di esordire con un full length tutto suo. Traveller, uscito a maggio 2015, ha fatto entrare Stapleton nelle cronache musicali da protagonista, ma lo ha anche consegnato alla storia, grazie a una clamorosa prima piazza nelle classifiche statunitensi e alla vittoria del Grammy per il miglior album country dell’anno.
Metabolizzata l’abboffata di riconoscimenti e di elogi (Traveller finì nella top ten di quasi tutte le riviste di genere), Chris Stapleton ha continuato a lavorare alla propria musica con la stessa passione di sempre, come se tutto quel clamore non lo riguardasse minimamente. Nel 2017 escono, a distanza di pochi mesi l’uno dall’altro, due dischi, intitolati From A Room, Vol. 1 e 2, che pur non suscitando la sopresa dell’esordio, confermavano il songwriter originario del Kentucky come uno dei più grandi interpreti del movimento country rock del nuovo millennio.
Dopo cinque anni da quel primo, bellissimo disco, Stapleton torna sulle scene con questo nuovo Starting Over, un album talmente bello e convincente, da rubare la scena anche al notevole Traveller. E’ davvero sorprendente come la carriera di Stapleton, iniziata in ritardo, ma attestatasi subito su livelli di qualità altissimi, sia stata capace di un nuovo guizzo, di un’ulteriore crescita, come se l’asticella fosse stata alzata di un buon metro almeno e fosse stata superata di slancio, con una classe infinita.
In Starting Over, tutto gira a mille, tutto suona meravigliosamente bene: grandi canzoni, in cui rock e country convivono sotto un cielo sudista punteggiato di soul, grandi arrangiamenti e grande suono (Stapleton e Cobb insieme rappresentano per l’americana sia lo Zeitgeist che lo zenit) e poi, quella voce, unica, calda, profonda, che riesce a evocare e a trasportarti nel cuore degli States, anche se sei comodamente seduto sul divano di casa.
Coadiuvato dalla consueta backing band (J.T. Cure al basso, Derek Mixon alla batteria e la moglie Morgane Stapleton alla voce) e da ospiti di nobile lignaggio (Mike Campbell e Benmont Tench, già sodali di Tom Petty negli Heartbreakers, e dal polistrumentista Paul Franklin, qui alla steel guitar), Stapleton allestisce una scaletta di quattordici canzoni tutte necessarie, definitive, e destinate, nel tempo, a diventare grandi classici di genere. Un perfetto equilibrio tra forma e sostanza, che non toglie alla scrittura un grammo di sincerità. Tutto è vero, quasi fisicamente tangibile: viaggiatori, anche noi, come Stapleton, attraverso un’America rurale e sudista, di cui sentiamo la terra sotto i piedi e respiriamo l’aria polverosa e secca, pascendo gli occhi di sterminati orizzonti.
Un viaggio che inizia con la title track, appassionata ballata capace di fondere il respiro universale di grandi spazi aperti al refolo intimista e malinconico del soliloquio interiore, soffiato appena nelle orecchie grazie un paio di accordi in minore. Un inizio carico di meraviglia, seguito da Devil Always Made Me Think Twice, swamp rock alla John Fogerty, scartavetrato dalla chitarra di Campbell e dalla voce aspra e graffiante di Stapleton (Fogerty viene omaggiato in scaletta con la cover di Joy Of My Life). Ed è stranissimo, subito dopo, ritrovarsi in un altro mondo, in cui la struggente melodia soul di Cold (a chi è venuto in mente Michael Kiwanuka?), guidata dal piano di Tench e levigata da un suntuoso arrangiamento d’archi, acchiappa la gola e strapazza il cuore, lasciando in bocca il sapore agro dolce della malinconia.
Oltre alla rilettura del brano di Fogerty, ci sono altre due cover prese dal songbook dell’amico Guy Clark, scomparso quattro anni fa: il travolgente rock ‘n’ roll di Worry B. Gone e la struggente Old Friends, lenta, dimessa e umida di lacrime.
Impossibile citare ogni meraviglia del disco, ma meritano un paio di parole ancora il rockettone ad alto tasso di elettricità della scalpitante Arkansas e la conclusiva Nashville, ballata spezzacuore che chiude il disco contemplando il tramonto, mentre intorno libra nell’aria il carezzevole velluto della pedal steel di Franklin.
E’ difficile mantenere un basso profilo nel raccontare e giudicare un disco di tale caratura, difficile non farsi prendere la mano e parlare di capolavoro. Per cui, tacendo quella parola, troppo spesso usata a sproposito, ci limitiamo a parlare di istant classic e di un disco che gli amanti del genere premieranno come uno tra i migliori dell’anno, conservandolo per il futuro tra le poche cose preziose di questo sventurato 2020.
VOTO: 9
Blackswan, martedì 15/12/2020
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