venerdì 28 aprile 2023

WALK LIKE AN EGYPTIAN - THE BANGLES (Columbia, 1986)

 


Strano a dirsi, ma negli anni ’70, la città di Akron, in Ohio, era il palcoscenico di una vibrante scena musicale. Lì, prendevano quota artisti quali Jane Aire & The Belvederes e Rachel Sweet, il cui successo era dovuto a canzoni scritte dal giovane songwriter, Liam Stemberg. Quando agli inizi degli anni ’80, lo slancio creativo si stava inevitabilmente affievolendo, Stemberg si spostò dall’Ohio a Los Angeles, la metropoli dove, in quel momento, stava accadendo tutto, portando con se tante idee e un pugno di canzoni che ancora non avevano trovato un artista che le indossasse come un guanto.  Una di queste era Walk Like An Egyptian, un brano che Sternberg scrisse ispirandosi a un curioso episodio da lui stesso vissuto. Un giorno, mentre faceva una traversata in traghetto, il mare iniziò ad agitarsi e il vento a crescere. Allora, notò come tutte le persone sul ponte, lottassero per mantenere l’equilibrio: il modo in cui tendevano le braccia e si muovevano sussultando faceva sembrare che stessero rappresentando delle figure egiziane, e l’impressione era che con uno scossone più forte, sarebbero finite in mare, nonostante i bizzarri tentativi di restare in piedi.

Giunto a Los Angeles, Stemberg fece amicizia con David Kahne, il produttore delle Bangles, che stava cercando un’ultima canzone per completare Different Light, il secondo album del gruppo. Gli bastò un solo ascolto del demo propostogli da Stemberg per innamorarsi perdutamente di Walk Like An Egyptian.

E qui inizia un’altra storia, dal momento che la canzone, che diventò la più grande hit delle Bangles, ne sancì, inaspettatamente, anche il declino. Perché quel successo clamoroso, non era il successo che la band guidata da Susanna Hoffs e Vicki Peterson voleva.

Formatisi nel 1981, dopo qualche anno di gavetta, quando pubblicarono il disco d’esordio, All Over The Place (1984) le Bangles entrarono di diritto in quel nuovo movimento definito Paisley Underground, che includeva fra le sue fila band straordinarie come Rain Parade e The Dream Syndicate. Il loro debutto sfoggiava un suono influenzato dagli anni '60, una delle caratteristiche del PU, e allineava in scaletta un filotto di canzoni di grande spessore, ben scritte e costruite dal talento delle due chitarriste, la Hoffs e la Peterson. Il disco funzionò bene, tanto che le quattro ragazze vennero chiamate ad aprire i concerti di Cyndi Lauper. Ma per quanto le cose girassero a mille, commercialmente l’album ebbe tiepidi riscontri, finendo solo all’ottantesima piazza di Billboard.

Le cose cambiarono radicalmente con il loro secondo disco, Different Light, che fu la svolta della loro carriera, ma che, a dispetto del talento compositivo delle ragazze, presentava brani scritti da altri. Prima arrivò Manic Monday, regalo dall’amico Prince, fan incallito della band, poi If She Knew What She Wants scritta da Jules Shear, e quindi Walk Like An Egyptian, un bizzarro divertissement scritto, come detto, da Liam Stemberg, che la band inizialmente si rifiutò di pubblicare come singolo perché ritenuto "troppo strano".

Quando uscì, invece, arrivò subito al primo posto, producendo nelle quattro ragazze, stranissimo a dirsi, un pesante senso di frustrazione. Il brano, così divertito e leggero, diede, infatti, un colpo mortale al pedigree rock del gruppo, che all'improvviso divenne famoso per una canzone scritta da altri e lontanissima dallo stile della band. E in molti, inopinatamente, ancora oggi pensano alle Bangles come un gruppettino pop, privo di spessore artistico.

Così, le Bangles, si trovarono al centro di un’attenzione mediatica che, se le rese famose, le rese anche incredibilmente infelici. Si trovarono a gestire l’inaspettata eco di Walk Like An Egyptian, circostanza che le esaurì psicologicamente e mise a seria prova il loro rapporto di amicizia. Andarono avanti, quasi per inerzia, i successi continuarono ad arrivare (Eternal Flame, In Your Room), ma al culmine della notorietà, la band implose, e si sciolse nel 1989.  

Alla fine degli anni '90, dopo che ne era passata abbastanza di acqua sotto i ponti, le Bangles si sono riunite (in teoria sono ancora in attività, anche se l’ultimo disco è del 2011), hanno fatto pace fra di loro e, soprattutto, hanno fatto pace con Walk Like An Egyptian, che ha indossato agli occhi delle quattro musiciste gli abiti di un dolce ricordo nostalgico condiviso coi propri fan. A tal proposito, in un’intervista di qualche anno fa, Vicki Peterson ebbe a dire: “È così divertente suonare Walk Like An Egyptian dal vivo a causa di come viene accolta dal nostro pubblico: sono completamente innamorati e si divertono. Ricorda loro quel periodo al liceo, quel periodo al college, qualunque cosa si colleghi a un momento di puro divertimento, gioia, sciocchezze e passi di danza. Quindi, in questo momento, quando la suoniamo, mi diverto un mondo". Meglio tardi che mai.

 


 

 

Blackswan, venerdì 28/04/2023 

giovedì 27 aprile 2023

NIGHT DEMON - OUTSIDER (Century Media Records, 2023)

 


Dieci anni di carriera e tre dischi vissuti tutti con il piede ben pigiato sull’acceleratore. Questa, in estrema sintesi, è la storia dei californiani Night Demon, power trio che ama le scorribande negli antichi territori messi a ferro e fuoco dalla NWOBHM. Questo nuovo Outsider è manna dal cielo per tutti coloro che hanno amato quel suono ormai lontano nel tempo, e che vantano nella loro personale discografia tutti i dischi di Judas Priest e Iron Maiden, veri e propri numi tutelari per la band proveniente da Ventura.  

Nove canzoni e (soli) trentasette minuti di heavy metal al fulmicotone, in un disco arrembante e adrenalinico, che sceglie la cavalcata feroce, senza disdegnare, tuttavia, un accattivante impianto melodico. Perché è evidente fin dal primo ascolto che il piatto forte della casa sono le chitarre sferraglianti, e tirate sudatissime che puntano l’orizzonte a velocità supersonica. Non mancano, però, anche ritornelli uncinanti da cantare sotto il palco finchè l’ugola regge, a cui fanno da contrappunto alcune splendide linee di basso in odore di tenebra, che creano un cupo sottofondo su cui avanza ineluttabile la potenza anthemica della band.

Concepito come un concept, una sorta di lettera d'amore ai film horror e di fantascienza del passato con cui il frontman Jarvis Leatherby è cresciuto, Outsider potrebbe essere tranquillamente scambiato come un disco pubblicato negli anni ’80 e, per qualche strano motivo, andato perduto. Circostanza, questa, che dimostra quanto ancora può essere fresco e divertente il metal tradizionale se è suonato con passione e consapevolezza.

E’ chiaro, però, che non si tratta di semplice copia incolla: la band ci sa fare alla grande, cercando soluzioni meno prevedibili, e giocando con umori diversi all’interno della stessa traccia. In tal senso l’opener "Prelude" è un intro atmosferico e molto melodico, che serve su un piatto d’argento la potente, veloce e molto catchy title track, un brano che, però, improvvisamente rallenta il passo per una stasi dai foschi contorni sabbathiani. Allo stesso modo, la lunga "Beyond The Grave" si apre come ballata ruvida e virile, ma si muove in un continuo sali scendi, fino a deragliare in un’infuocata galoppata finale, gioco che riesce anche in "The Wrath", epica, emotiva e sfaccettata.

Classicissime, ma non per questo meno riuscite, sono anche "Obsidian", "Rebirth" e "Escape From Beyond", derapate rapidissime e letali, che omaggiano i grandi eroi del passato, Iron Maiden in primis. Chiude, con la dicitura “bonus” l’indemoniata "The Last Day", rapida e letale come un coltello a serramanico o come solo una canzone dei Motorhead può esserlo.  

Outsider è un ottimo disco di heavy metal tradizionale, di quelli che faranno venir voglia ai nostalgici di togliere dalla naftalina il loro giubbotto di jeans costellato di toppe. Ciò nonostante, pur essendo in re ipsa l’omaggio alla NWOBHM, i Night Demon non scimmiottano, ma si immergono profondamente nel sostrato filologico di quel suono, innervando il tutto con cialtronesca spregiudicatezza e un’incontenibile voglia di suonare divertendosi come pazzi. Il sangue fresco del rock’n’roll scorre anche da queste parti.

VOTO: 7,5

Genere: Heavy Metal

 


 

 

Blackswan, giovedì 27/04/2023

martedì 25 aprile 2023

72 SEANSONS - METALLICA (Blackened Recordings, 2023)

 


Chi conosce almeno un po’ il mondo della musica sa esattamente che l'uscita di un nuovo album dei Metallica, non è la semplice pubblicazione di un disco, ma un evento di portata eccezionale. Perché la band losangelina è ancora oggi il gruppo metal più amato del pianeta e perché ogni loro nuovo album suscita aspettative nei fan e crea l’inevitabile dibattito tra detrattori, tifosi e amanti traditi, tra chi li ama, chi li odia e chi non li ama più. Dopo quarant’anni di carriera e dodici dischi all’attivo, i Metallica non devono dimostrare più niente a nessuno, suonano per il piacere di suonare e non certo per aggiungere altro denaro a conti correnti a dir poco milionari, non sono più quelli di Kill ‘Em All, certo, ma pur senza rilasciare capolavori, hanno comunque mantenuto la loro identità e una dignità di fondo che non li ha mai portati allo sbraco. E 72 Seasons è qui per ribadirlo, se mai ce ne fosse ancora bisogno. Perché, il dodicesimo album dei Metallica, nonostante qualche evidente difetto, è un signor disco, che segue il percorso già tracciato da Death Magnetic del 2008 e da Hardwired... To Self-Destruct del 2016: un metal moderno, potente e rumoroso, meno adrenalinico rispetto al passato, ma ancora in grado di percuotere i padiglioni auricolari degli appassionati.

Rilasciato alla fine del 2022, il singolo principale "Lux Aeterna" è stato accolto dai fan come il ritorno a casa del figliol prodigo, grazie a quel thrash vecchia scuola, che a molti ha fatto ricordare i lontani esordi della band, suggerendo che 72 Seasons sarebbe stato un viaggio nostalgico dei Metallica alla ricerca del loro glorioso passato. In realtà, non è proprio così, o almeno lo è solo in parte, perché la lunga scaletta è molto meno prevedibile di quanto il singolo di lancio farebbe pensare: la band, infatti, tiene un piede nel presente e lo sguardo rivolto all’indietro, bilancia sapientemente complessità espositiva e mitragliate ad alzo zero (l’incredibile fucilata iniziale della title track), un andamento meno adrenalinico (gli undici minuti di "Inamorata") e improvvise accelerazioni tritatutto (le furiose "Shadows Follow" e "Screaming Suicide" smentiscono l’anagrafe e quei sessant’anni che fanno a pugni con l’idea di metal band).

Certo, i difetti non mancano, il disco è troppo lungo per essere immediatamente incisivo, alcuni brani suonano prevedibili come se a guidare ci fosse il pilota automatico, e la produzione ripulisce troppo quelle imperfezioni e quella sporcizia che spesso rappresentano il quid che fa grande un disco di metal. Ciò nonostante, 72 Seasons è un album intenso, a tratti vibrante, più cupo di quanto il giallo accecante della copertina farebbe pensare (i testi di Hetfield, che ha divorziato e avuto problemi di salute, sono depressi e tormentati) e capace di inanellare alcuni gioiellini come, oltre ai brani già citati, "Chasing Light" e "Crown Of Barbed Wire".

Non un ascolto facile, perché richiede impegno e, vista la lunghezza, anche tempo. Le ballate, poi, sono assenti e mancano melodie di facile presa, anche se poi, lentamente ma inesorabilmente, arrivano. Tutto ciò trasmette la sensazione di trovarsi di fronte a un monolite, a una vetta troppo alta da scalare. Ma non è così.

Certo, i giorni in cui i Metallica alzavano l'asticella con ogni nuova uscita sono ormai lontani, ma ciò non toglie nulla al gran lavoro fatto con 72 Seasons, che suona come il miglior disco possibile che poteva essere registrato dai Metallica di oggi. Alla scaletta manca la velocità adrenalinica di "Battery", la potenza innodica di "Enter Sandman" o l'inquietudine strumentale di "The Call of Ktulu", ma per converso troviamo una band ancora in palla, che sa come scrivere un riff e sa come scrivere una canzone, e continua a farlo divertendosi un casino. 72 Seasons non è certo un capolavoro ma entra meritatamente e più che dignitosamente nella leggendaria discografia della band.

VOTO: 7

Genere: Heavy Metal

 


 


Blackswan, martedì 25 aprile 2023

lunedì 24 aprile 2023

VIDEO KILLED THE RADIO STARS - THE BUGGLES (Island, 1979)

 


Nella seconda metà degli anni ’70, prima di fondare Buggles, Trevor Horn era un produttore discografico senza fortuna, un perdente che aveva passato quattro anni a produrre dischi per vari artisti, senza mai ricavarne soldi o avere alcun successo. Il fatto era, che per quanto abile fosse, non riusciva a mettere le mani su una buona canzone, di quelle che potevano ambire a entrare in classifica. Così, dopo anni di insuccessi, Horn decise di dare una svolta alla propria carriera: visto che non riusciva a trovare un artista degno di questo nome e del materiale buono su cui lavorare, decise che la canzone spacca-classifiche l’avrebbe scritta lui stesso.  

Quella canzone si intitola Video Killed The Radio Star, e Horn la scrisse ispirato a un racconto di fantascienza che aveva appena letto e che raccontava la storia di una cantante lirica che si trovava a vivere in un mondo senza musica, dove la sua arte era, così, divenuta obsoleta.

Il brano compare nel primo disco dei Buggles, duo composto dallo stesso Horn e da Geoffrey Downes, intitolato The Age Of Plastic, una sorta di concept album pop basato sul tema fantascientifico della vita nel futuro, in un mondo di tecnologie contemporaneamente sorprendenti e inquietanti.  

Quando Horn ebbe composto tutto il materiale ed era pronto a pubblicare il disco, venne il momento di scegliere il nome della band. Lui stesso ricorda che, in piena epoca punk, la scena musicale traboccava di completi idioti che cercavano di lanciarsi sul mercato sotto l’egida di nomi fighissimi. Pertanto, decise di andare decisamente in controtendenza, e fece una scelta più punk di tutti quei punk che aveva inutilmente prodotto negli ultimi anni: scelse un nome orribile, The Buggles (le bugie), come a voler marcare una distanza fra il duo e il resto del mondo musicale britannico.  

Sebbene tecnicamente Video Killed the Radio Star appartenga per diritto anagrafico agli anni settanta (esce il 7 settembre del 1979), sul piano puramente musicale esso è di fatto il brano capostipite degli anni ’80, dei quali anticipa lo stile: sofisticata elettronica e quel tono vagamente romantico che fa da ponte sentimentale e cronologico tra il passato e le nuove tecnologie. Una canzone che, forse al di là di ogni intenzione degli autori, ha costituito praticamente la porta d'ingresso verso un mondo dominato dagli epigoni del sintetizzatore elettronico. In pratica, un brano techno pop ante litteram.

La canzone fu un grande successo in Inghilterra nel 1979, ma rimase praticamente sconosciuta in America, dove raggiunse solo il numero 40 delle classifiche, nel dicembre dello stesso anno. Tuttavia, quando MTV andò in onda, il primo video che passò, il 1º agosto 1981 alle 00:01, fu proprio quello di Video Killed The Radio Star. Una scelta abbastanza ovvia da parte dell’emittente che, con quella canzone, voleva significare la nascita di una nuova epoca, quella in cui le radio stavano perdendo popolarità di fronte a una nuova musica tutta da vedere. Da quel momento in poi, MTV entrò prepotentemente nelle vite degli appassionati di musica e il brano dei Buggles ricominciò a vendere tantissimo, diventando un evergreen tra i più gettonati di sempre.

La videoclip fu diretta da Russell Mulcahy (nel 1986 diresse Highlander), che portò anche evidenti innovazioni: se ai tempi i video erano costruiti quasi esclusivamente su sequenze di artisti che suonavano, Mulcahy costruì invece una vera e propria storia che veicolava un concetto. I Buggles, infatti, nascevano sull'idea che tutto nella vita fosse artificiale, inclusa la musica. Ecco perché Trevor Horn canta con una voce robotica e perché tutti gli strumenti sono elaborati per una sensazione computerizzata. Il video, in buona sostanza, era un commento sull'intrusione della tecnologia in ogni aspetto della nostra vita. Il messaggio era forte e chiaro: la tecnologia stava per cambiare tutto, i videoregistratori erano entrati nella casa della gente, gli artisti, ma non solo, iniziarono a girare video, e ne eravamo entusiasti, ed era ormai evidente che la radio fosse il passato e il video il futuro. Insomma, era in arrivo un cambiamento epocale.

Il video fu girato da Malcahy e dalla band, in uno studio a sud di Londra, in un solo giorno, ma a dispetto della velocità di realizzazione, fu una vera faticaccia. La ragazza che interpreta il personaggio simile a Stargirl era un'amica del regista Russell Mulcahy che stava cercando di diventare un'attrice, e che venne arruolata per interpretare la sequenza clou del video, e cioè quella in cui viene calata nella provetta. Un momento delicato e complicatissimo, per il quale sono sono state girate circa 30 riprese. 

 


 

 

Blackswan, lunedì 24/04/2023

giovedì 20 aprile 2023

SIENA ROOT - REVELATION (Atomic Fire, 2023)

 


Nati nel 1997, gli svedesi Siena Root hanno debuttato però nel 2004, e dopo svariati cambi di line up, oggi hanno trovato, forse, la loro dimensione definitiva in un quartetto composto da Zubaida Solid (voce, organo), Sam Riffer (basso, voce), Johan Borgstrom (chitarra, voce) e Love Forseberg (batteria, voce).

Due decenni movimentati, in cui la band ha dato vita a un percorso immersivo nella musica degli anni ’70, periodo glorioso che hanno fatto rivivere declinandone il suono da diverse angolazioni. Revelation non fa eccezione a questa ricerca filologica e sonora mai uguale a se stessa, proponendo una miscela perfettamente equilibrata di hard rock, riff psichedelici, musica folk acustica e ritmi ipnotizzanti, avvolti in un’atmosfera analogica che richiama il suoni migliori di quel leggendario periodo d’oro. Un lavoro coeso, ma anche incredibilmente versatile, che non dà punti di riferimento, ma si sviluppa in modo da creare un continuo effetto sorpresa nell’ascoltatore.

L’organo che apre "Coincidence & Fate" introduce al mondo retrò della band, in cui brume psichedeliche avvolgono un riff hard rock, che invece di mostrare i muscoli, trasuda sensualità grazie alla voce evocativa della Solid e a incisivi e aciduli assoli dal sapore blues. "Professional Procrastinator" possiede un tiro più aggressivo e sfodera un galoppante groove che richiama alla mente gli Uriah Heep. Ancora più ruvida la successiva "No Peace", un hard rock blues che si addentra in paesaggi psichedelici trainato da una vigorosa linea di basso e dalla voce potente della Solid, una vocalist che a tratti somiglia nel timbro alla grande Grace Slick.

Se "Fighting Gravity" gioca nuovamente la carta del groove, alternando rallentamenti e improvvise accelerazioni in uno stordente saliscendi emotivo, "Dusty Roads" apre la seconda parte del disco introducendo elementi folk e strumenti acustici, che evocano a tratti i Jethro Tull, band che diventa il riferimento principale della suggestiva "Dalecarlia Stroll", uno strumentale in cui un flauto svolazzante fa da contrappunto a una rigorosa linea di basso. "Leaving The City" è insaporita dalle spezie orientali di un sitar, evidente omaggio a Ravi Shankar, mentre "Little Burden" è una splendida ballata acustica che trasuda psichedelia.

Il disco si chiude con i due brani più lunghi del lotto: lo strumentale "Madukhauns", una sorta di viaggio spirituale attraverso le terre d’India, e "Keeper of the Flame", il miglior brano in scaletta, un blues che parte morbido e avvolgente e che, poi, sferzato dal suono della chitarra, si abbandona a un convulso e sferragliante finale, che vede nuovamente la splendida voce della Solid assoluta protagonista.

Revelation è un triplo salto mortale a ritroso nel tempo, un trip perfetto per chiunque desideri ardentemente riassaporare le atmosfere tratteggiate da quel movimento Flower Power che, tra la fine degli anni '60 e l’inizio dei '70, voleva cambiare il mondo, diffondendo musica, pace e amore. I Siena Root, quell’epopea, la sanno riscrivere con intensità e passione, spaziando con grande consapevolezza tra psichedelia, folk, blues e hard rock, rendendo così la proposta quanto mai varia e originale. Se è vero che ormai spuntano come funghi band che omaggiano queste sonorità vintage, è altrettanto vero che saperlo fare senza mostrare la corda di una frusta operazione di copia incolla, non è da tutti. In tal senso, la band svedese è tra quelle che meglio riescono a cavalcare l’onda della nostalgia, sapendo però togliere la polvere dai gioielli sonori di un’epoca gloriosa, ma che appartiene ormai alla preistoria.

Chapeau!

VOTO: 8

Genere: Classic Rock

 


 

 

Blackswan, giovedì 20/04/2023

martedì 18 aprile 2023

AVATAR - DANCE DEVIL DANCE (Black Waltz Records, 2023)

 


Non so se l’headbanging possa essere considerato un ballo, ma se lo è, allora state tutti pronti a gettarvi nella mischia e a fare compagnia al diavolo, in una lasciva quanto convulsa danza in odore di sabba.  Johannes Eckerström e la sua band di fuori di testa, disco dopo disco, hanno conquistato schiere di fan attraverso una versione modernizzata e originale della formula nu-metal. Che è una definizione, invero, un po’ riduttiva, per una band che fa dell’estro e dell’imprevedibilità la sua arma migliore.

In tal senso, questo nuovo Dance Devil Dance, che arriva dopo l’ottimo Hunter Gatherer (2020), rappresenta alla perfezione tutto lo spettro di sonorità che pullula nei dischi del gruppo svedese: il metal è declinato nelle diverse accezioni groove, metalcore e death, ma le undici canzoni in scaletta non danno mai veri e propri riferimenti, visto che non mancano melodie che ammiccano al pop e momenti riconducibili anche al country. Il risultato è l’ennesimo disco spiazzante, rumoroso e maleducato, eppure, in qualche modo perverso, perfino orecchiabile e radiofonico. Come quasi sempre è avvenuto, c’è molta libertà nell’approcciarsi al songwriting, con suoni che si diversificano tra canzone e canzone, e anche all’interno dello stesso brano, producendo un effetto sorpresa che costringerà l’ascoltatore a chiedersi continuamente: e adesso, dove andremo a parare?

Echi country e un riff assassino aprono il disco con la title track, tirata e potente, sorretta dalla voce multiforme Eckerstrom, pronto al ringhio ma anche a cambiare continuamente timbro, "Chimp Mosh Pit" è sudatissimo groove metal, "Clouds Dipped In Chrome" evoca il thrash metal della vecchia scuola, "The Dirt I'm Buried In" strizza l’occhio ai My Chemical Romance, "Valley of Disease" è una fucilata metalcore usque ad finem, e la conclusiva "Violence No Matter What", con il cameo di Lzzy Hale, starebbe molto bene proprio in un disco degli Halestorm.

La varietà è davvero il plus di una band che fa della creatività senza limiti il suo punto di forza. Così, i cori acchiapponi che punteggiano "Gotta Wanna Riot" danno al brano un goduriosissimo appeal radiofonico, il cambio passo dal sapore reggae di "On The Beach" seziona in due parti un ruvidissimo groove metal, e l’enigmatica Train regala al piatto inaspettate spezie, aprendosi ai sapori di un valzer che richiama alla mente Nick Cave.

Un minestrone? Certo che si. Eppure, nonostante l’eterogeneità della proposta, Dance Devil Dance, possiede un fascino irresistibile, non si prende sul serio e, soprattutto, accetta l’azzardo di non replicare un suono monotematico, ma di intraprendere diversi percorsi espressivi, con risultati, peraltro, riuscitissimi. Gli Avatar sono mezzi matti, questo è evidente, ma possiedono la capacità di divertire, rimanendo fedeli a se stessi, ma mischiando ogni volta le carte in tavola. Non è da tutti.

VOTO: 7,5 

Genere: Heavy Metal 




Blackswan, martedì 18/04/2023

lunedì 17 aprile 2023

SHOW ME THE WAY - PETER FRAMPTON (A&M, 1975)

 


Banale, certo, ma vero: tutti abbiamo bisogno di qualcuno che creda in noi, che ci sproni nei momenti di difficoltà, che ci tenga la mano quando siamo tristi, e che ci indichi la strada quando ci siamo smarriti.

E’ questo il tema affrontato da Peter Frampton nella sua Show Me The Way, la storia di un uomo che sta annegando in attesa di qualcuno che gli getti un salvagente. Sebbene il testo della canzone sia piuttosto vago, è chiaro però che il protagonista del brano stia cercando una guida, qualcuno o qualcosa che sia in grado di indirizzarlo sulla strada giusta.

Come lui stesso ha più volte affermato, Frampton scrisse la canzone ispirandosi a una ragazza che aveva conosciuto ai tempi, la quale, oltre ad amarlo profondamente, non gli faceva mancare la propria stima e il proprio supporto in quei giorni di difficoltà (nel 1975, il musicista, visto lo scarso successo ottenuto, stava per mollare la carriera e dedicarsi ad altro). Eppure, nonostante fosse chiara la genesi del brano, Frampton ebbe l’intuizione di renderlo universale, svincolandolo dalla propria vita privata, in modo tale che “chi indica la strada” potesse essere una persona qualsiasi, oppure, in un’accezione più ampia, anche un’entità superiore.

La versione originale della canzone compare nel quarto album in studio del cantante britannico, pubblicato nel 1975. A quei tempi, Frampton aveva un esiguo seguito e suoi dischi vendevano pochissimo, nonostante si stesse lentamente costruendo la reputazione di grande performer. Tuttavia, per quanta passione mettesse nella sua arte, non riusciva a sfondare e a raggiungere il grande pubblico. Vista la sua abilità di esecutore live, la sua etichetta, l’A&M, si giocò la carta del disco dal vivo, e chiese a Frampton di selezionare alcune registrazioni delle sue esibizioni, in modo da assemblarle in un disco. Il cantante selezionò sei brani, e quando si presentò con il materiale a Jerry Moss, il manager dell’etichetta, questi, tra l’ironico e l’inviperito, gli domandò: “Scusa, Peter, ma il resto dov’è?”.

Qualche tempo dopo, il songwriter si presentò con una scaletta più corposa, contenente anche Show Me the Way, che ebbe il placet dell’etichetta e che venne pubblicata, nel 1976, in un album dal titolo Frampton Comes Alive. Da quel momento, la storia cambiò radicalmente: Show Me The Way uscì come singolo e raggiunse la piazza numero 6 di Billboard, regalando al musicista il suo primo vero successo. Un boom inaspettato e inspiegabile, che portò Comes Alive a essere il primo best seller del 1976, con oltre otto milioni di copie vendute, trasformando finalmente Frampton in una stella di prima grandezza.

Il successo di Show Me The Way, in quella splendida versione live, lo si deve non solo alla melodia irresistibile e al ritornello di facile presa, ma anche a un colpo di genio che lascerà un’impronta indelebile nella storia della musica. Nell'intro della canzone, infatti, Frampton utilizzò un talkbox, uno speciale e mai sentito distorsore collegato alla chitarra, che permetteva di creare suoni vocali amplificati e distorti con la bocca. Un talkbox è, in buona sostanza, un dispositivo realizzato con tubi collegati a un driver a compressione, con l'altra estremità che finisce nella bocca dell'esecutore. L'unità viene poi collegata all'amplificatore per chitarra. Questo exploit fece girare la testa a molti musicisti dell’epoca che, attratti da quel suono inconsueto, corsero ad acquistarne uno o cercarono di crearlo artigianalmente. Circostanza, questa, che creò un surplus di lavoro per i dentisti, dal momento che molti giovani rocker persero parecchie carie a causa delle scariche elettriche dovute a talkbox difettosi.

Una curiosità: Show Me The Way è stata la prima canzone eseguita dal vivo da degli imberbi U2, durante un talent show del liceo, quando ancora si chiamavano Feedback.

 


 

 

Blackswan, lunedì 17/04/2023

venerdì 14 aprile 2023

LUCERO - SHOULD'VE LEARNED BY NOW (Thirty Tigers, 2023)

 


Il precedente When You Found Me, uscito nel 2021, era un disco sofferto, con molte ombre e poche luci, in cui l’inclinazione rock della band, pur persistendo, era mitigata da uno spirito meditabondo, da atmosfere a tratti contemplative, declinate con un mood crepuscolare. Un album che mostrava, come Among The Ghosts (2018), l’ennesima versione dei Lucero, un gruppo che, nel corso della propria carriera, pur nell’alveo di un suono riconoscibilissimo, ha continuato a evolversi, abbracciando, a seconda dei dischi, un chiassoso punk rock, il soul di Memphis, un’americana tinteggiata di malinconia e, quindi, da ultimo un southern dalle venature gotiche.

In questo nuovo Should've Learned By Now, la band è tornata all’essenza di un buon vecchio rock n' roll sanguigno e muscolare, senza tuttavia disdegnare quelle melodie da sempre amate dai fan della band e qualche ballata declinata con il cuore in mano. L’apertura "One Last F.U" mette subito in evidenza chitarre sferraglianti, sorrette dal battito ruspante del campanaccio e da un’urgenza espressiva contigua a un’indole punk: un brano vibrante, rumoroso, di quelli per far casino sotto il palco, tracannando bicchieroni di birra. E’ lo stesso spirito che anima il rock dritto e diretto di "Macon If We Make It", una canzone che, per quel retrogusto classico che evoca "Running On Empty" di Jackson Browne, è destinata a diventare uno dei momenti più surriscaldati dei prossimi live della band.

Il tiro è ruvido e sgangherato anche nel rock cupo e stradaiolo di "Buy A Little Time" e nella feroce autocommiserazione che pervade la title track (“Metà di quello che mi passa in testa sono stronzate che vendo a me stesso”), ma a prescindere da questi due episodi intrisi di pessimismo, altrove le cose si fanno decisamente più leggere e divertenti, talvolta anche dolci, di quella dolcezza ispida magistralmente declinata dalla voce polverosa e alcolica di Ben Nichols.

"She Leads Me" possiede un virile retrogusto country, ma il solido giro di chitarra viene ammorbidito dalla punteggiatura incisiva del pianoforte e da un ritornello che evoca certe delicatezze pop alla Jayhawks, mentre l’ariosa melodia che bacia di ottimismo "Nothing’s Alright" (una delle più belle canzoni mai scritte dalla band) sarebbe perfetta per i titoli di coda di un film romantico, in cui il protagonista torna alla vita dopo il dolore per una cocente delusione d’amore (“ma non penso più a lei, al modo in cui appariva quando varcava la porta. Ci siamo tutti innamorati perdutamente. Ora non penso molto a lei.”).

A completare una scaletta in cui arde il sacro fuoco del rock’n’roll, i due episodi finali virano decisamente verso un mood dal sapore agreste: malinconica e profondamente emotiva, "Drunken Moon" è una ballata che si aggira per territori famigliari ai Lucero, così come il country elettro-acustico di "Time To Go Home" (splendida la fisarmonica che richiama i Counting Crows) si sarebbe collocata perfettamente nei primi album della band.

Sempre uguali a loro stessi, ma fortunatamente mai prevedibili, i Lucero con Should’ve Learned By Now rispolverano l’ardore elettrico che si era un po' sopito nelle ultime prove, e rilasciano l’ennesimo ottimo album di una discografia che, da qualunque angolazione la si guardi, risulta assolutamente impeccabile. Perché, a prescindere dalle diverse declinazioni, è la scrittura quel che conta, e anche quando la band sceglie strade di vibrante elettricità, come in quest’ultimo disco, di grandi canzoni ne sa scrivere, eccome.

VOTO: 8

Genere: Rock, Americana

 


 

 

Blackswan, venerdì 14/04/2023

mercoledì 12 aprile 2023

DEPECHE MODE - MEMENTO MORI (Columbia, 2023)

 


Molti temevano, non a torto, che la morte di Andy Fletcher avrebbe potuto porre fine alla storia Depeche Mode. D’altra parte, anche se a livello compositivo il suo ruolo era ormai marginale, se non praticamente nullo, è altrettanto vero che nei suoi quarantadue anni di militanza, Fletch ha vestito i panni dell’angelo custode, è stato il collante del gruppo, quello che ha tenuto in piedi la baracca anche nei momenti più difficili (parecchi, a dire il vero), e ha sempre indicato la strada, prendendo per mano i propri compagni d’avventura e le loro insicurezze. Nonostante una vita artistica tumultuosa, Fletch ha dato le linee guida, ha mantenuto alta la dignità artistica della band, e non è un caso che i Depeche Mode, di dischi veramente brutti, non ne abbiano mai pubblicati. Certo, la qualità dell’ispirazione, nel corso dei decenni, è sensibilmente diminuita, ma la grandezza della band non è mai stata messa in discussione, anche grazie a tour sempre più, visivamente ed emotivamente, intensi.

Memento Mori è un album decisamente più riuscito di alcuni suoi predecessori, e anche se il materiale è stato concepito prima della dipartita di Fletcher, è difficile non pensare che il disco non sia, in qualche modo, un ultimo appassionato omaggio all’amico scomparso. Non è solo il titolo a evocare la triste mietitrice (“ricorda che devi morire”) e alcune esplicite foto contenute nel booklet, ma soprattutto il mood di una scaletta cupa, livida, votata a una malinconia immersa nella pece nera. Un album che potremmo definire esistenziale, che parla di morte per celebrare la vita e l'amore, che racconta della nostra caducità, di come affrontare l’esistenza, segnata dall’inevitabile, certo, ma foriera di momenti bellissimi, che non dobbiamo lasciarci sfuggire.

Martin Gore e Dave Gahan sono due sopravvissuti, non possono fare a meno di guardare al passato, di rielaborare il lutto, ma piantano i piedi nel presente, affermando con forza la propria vitalità artistica.

Coadiuvato in fase di scrittura da Richard Butler (Psychedelic Furs) e prodotto da James Ford, il duo rilascia un disco dai suoni bellissimi (merito del lavoro della nostra Marta Salogni), incredibilmente brillanti se rapportati al clima talvolta claustrofobico di dodici canzoni, bilanciate sul  perfetto punto di fusione tra synth pop, industrial e melodie dolcissime, che riescono a insinuarsi nella sofferta coltre oscura che è il filo conduttore della scaletta.

A tratti, quella profondità emotiva che aveva segnato le migliori canzoni dei Depeche Mode, resta un po’ in superficie, e prevale il mestiere di chi la materia la gestisce con il pilota automatico. A parte "Ghost Again", una ballata brillante e radiofonica, che riflette sulla mortalità e che riannoda i fili che legano la band al synth pop anni ’80, mancano, inoltre, veri e propri istant classic; eppure, quando i due azzeccano la canzone, tirano fuori gioielli che non sfigurerebbero nei loro lavori migliori.

In tal senso, l’opener "My Cosmos Is Mine" è perfetto biglietto da visita di un disco crepuscolare, un gioiello di livida elettronica, fotografia dei giorni terribili in cui viviamo, ma anche un‘invocazione di speranza, un invito a cambiare il nostro approccio esistenziale per salvare il mondo. Un incipit ostico e disturbante, che contrasta con la melodia telefonata della successiva "Wagging Tongue" e la melodrammatica "Don’t Say You Love Me", il cui arrangiamento d’archi, ma è opinione personalissima, toglie un po’ di pathos a un brano altrimenti struggente.

Altrove, i DM volano a livelli altissimi, come nel disturbante clangore industrial che percuote la sofferta "My Favourite Stranger" o nelle atmosfere tanto lunatiche quanto orecchiabili del pulsare notturno di "Caroline’s Monkey". Allo stesso livello di songwriting si pongono "Always You", che possiede l’aura oscura di Violator e centra un ritornello ipnotico e stranamente euforico, "People Are Good", quasi disturbante nella sua fredda e cruda esposizione elettronica, e il post punk vibrante di "Never Let Me Go".

Se il pop soul orchestrale di "Soul To Me", per quanto fortemente attrattiva, appare un po’ fuori sincrono rispetto alla scaletta del disco (a tratti viene in mente l’Elvis Costello di "The House Is Empty Now"), la chiosa "Speak To Me" riesce a fermare il battito del cuore con uno slancio emotivo potentissimo, un connubio tra disperato romanticismo e anelito di speranza, sigillo perfetto di un album che gioca a scacchi con la morte (il Bergman evocato nel video di "Ghosts Again") ma il cui cuore trabocca di vita e di vitalità.

Difficile dire se questo nuovo lavoro rappresenti il capitolo finale della carriera discografica della band (come forse il titolo potrebbe suggerire), ma se così fosse, il sipario si abbasserebbe con il miglior disco dei Depeche Mode dai tempi di Playing The Angel.

VOTO: 8

Genere: Synth Pop, Elettronica, Post Punk

 


 


Blackswan, mercoledì 12/04/2023

martedì 11 aprile 2023

NEED YOU TONIGHT - INXS (Atlantic, 1987)

 


Ci vuole parecchia sfrontatezza per rivolgersi a una donna con parole come: “Vieni qui, Tutto quello che hai è questo momento” o anche "C'è qualcosa in te ragazza che mi fa sudare". Il rischio, che per la maggior parte di noi sfiora la certezza, è quello di prendersi un ceffone in pieno volto o, nel migliore dei casi, fare una figura patetica da lumacone sfigato. E’ ovvio, tuttavia, che se ti chiami Michael Hutchence non solo te lo puoi permettere, ma puoi essere credibilissimo anche quando quelle parole le inserisci nel testo di una canzone, e le canti, rivolgendoti a tutte le donne del mondo. Il successo di Need You Tonight, primo singolo estratto dal best seller Kick, sesto album in studio degli australiani INXS, sta per buona parte nell’efficacia delle sue liriche: sfacciate, arroganti, che suonerebbero stonatissime, allora e soprattutto oggi, se non uscissero dalla bocca di un bellissimo ragazzo, che, a dispetto della depressione che lo attanagliava, fece della sensualità il punto di forza della sua immagine.  

La canzone, come tutte quelle che compongono la scaletta di Kick, fu scritta da Michael Hutchence e Andrew Farriss, polistrumentista e mente pensante della band.

Need You Tonight, come alcune altre tracce dell'album, fu registrata in uno studio di Hong Kong, dove i due musicisti avevano lavorato per un paio di settimane. L’idea di partenza venne a Farriss iniziando a manipolare una traccia ritmica che aveva composto su una drum machine Roland 707. Farriss stava partendo per Hong Kong, ed era in attesa di un taxi che l’avrebbe portato all’aeroporto. Mentre aspettava, fu attraversato da una subitanea ispirazione e si mise velocemente al lavoro, per non lasciarsi sfuggire le idee che aveva in testa. Quando il taxista suonò alla porta, lo fece attendere per poter registrare una rapida demo su cassetta da portare con lui in viaggio.

Giunto a Hong Kong, fece ascoltare la cassetta a Hutchence, e Michael scrisse il testo in meno di un’ora, creando una trama sensuale che si adattasse al mood voluttuoso della musica. Farriss aveva portato con sé la sua drum machine, e fu in grado di ricostruire la traccia, aggiungendovi un riff di chitarra e una linea di basso, suonata con il synthbass. Dopo che Hutchence aggiunse le parti cantate, i due registrarono un demo più corposo, che fecero ascoltare al resto della band, quando tornarono a Sydney.

Need You Tonight è stata la canzone che diede agli INXS un successo globale, prima di allora, nemmeno sfiorato. La band, infatti, aveva pubblicato cinque album, che avevano dato loro ampia notorietà nella nativa Australia, ma stavano appena iniziando a farsi notare nella maggior parte degli altri paesi. Negli Stati Uniti, ad esempio, in molti conoscevano la band grazie al singolo What You Need, che passava frequentemente sul canale MTV, eppure gli INSX non riuscivano a sfondare in termini di vendite. L’Atlantic Records puntava tutto sul nuovo album per far decollare la band anche in America, ma appena i dirigenti dell’etichetta ascoltarono il lavoro finito, si rifiutarono di investire molti soldi per la distribuzione dell’album negli States, ritenendolo non adatto a quel mercato. Fu il manager degli INXS, Chris Murphy, a trovare l’escamotage giusto che mettesse d’accordo tutti. Convinse l’etichetta a organizzare un piccolo tour nei college americani, con l’intesa che se avesse avuto un buon ritorno di pubblico, l’Atlantic avrebbe dovuto spendersi in tutti i modi per promuovere massivamente il disco.

Così, quando il singolo e l'album furono pubblicati nell'ottobre 1987, gli INXS furono spediti in posti come Kalamazoo, Michigan e Poughkeepsie e New York, per esibirsi all’interno dei college locali. Come intuito da Murphy, il tour ebbe un notevole successo e le stazioni radio dei college, che avevano il polso della situazione sui gusti dei ragazzi americani, iniziarono a passare Need You Tonight, senza soluzione di continuità. Fu così che anche l’Atlantic promosse la canzone nelle stazioni radio commerciali, e dopo che MTV mise il video in rotazione, a partire dal 30 gennaio del 1988, Need You Tonight schizzò al primo posto delle classifiche americane.

Nella scaletta di Kick, Need You Tonight passa senza soluzione di continuità alla traccia successiva dell'album, una poesia che Andrew Farriss ha scritto e messo in musica, intitolata Mediate. Entrambe le tracce hanno la stessa ritmica e si basano sullo stesso groove di drum machine, e quindi possono vivere in perfetta simbiosi una a fianco all’altra. Quando la band si accorse di come i due brani legavano bene insieme, iniziò a eseguirli in medley, un po' come avevano fatto i Queen con We Will Rock You e We Are The Champions. Ed è così, legate una all’altra, che compaiono nel video musicale diretto da Richard Lowenstein, un amico australiano della band, che aveva curato anche il look dei componenti e, in particolar modo quello di Hutchence, i cui atteggiamenti metrosexual facevano impazzire le donne. La clip, che nella seconda parte, quella relativa a Mediate, omaggia Bob Dylan e la sua Subterranean Homesick Blues, vince ben cinque Video Music Awards, tra cui quello per il video dell’anno.

 


 

 

Blackswan, martedì 11/04/2023

giovedì 6 aprile 2023

EVA CASSIDY - I CAN ONLY BE ME (Blix Street Records, 2023)

 


Eva Cassidy nasce a Washington il due febbraio 1963 e, come molto spesso accade, è spinta alla musica dal padre, con cui iniziò a esibirsi molto giovane in piccoli club della città. L’asticella, però, si alzò solo più tardi (1986), quando la Cassidy fu notata dal produttore Chris Biondo, il primo a intravvedere in lei doti interpretative non comuni. Il gruppo con cui esordì, la Eva Cassidy Band, la collaborazione con un mito del funk, Chuck Brown, e un disco, The Other Side, con lui realizzato nel 1992, furono il trampolino di lancio per una carriera che, tuttavia, stentò a decollare. Tanto che la Cassidy, come succede a molti musicisti alle prime armi, non smise di esercitare la professione di infermiera, che le consentiva di sbarcare il lunario, coltivando parallelamente la propria passione per il canto.

Poi, sul finire del 1995, arrivò la svolta che, davvero, avrebbe potuto cambiare il corso degli eventi. Eva molla il lavoro e con l’aiuto di Biondo, organizza due serate al Blues Alley di Washington (il 2 e il 3 gennaio del 1996), un piccolo localino jazz, che, nonostante le feste natalizie, rimase aperto per l’occasione. L’intenzione era quella di pubblicare un disco con il meglio tratto dalle due esibizioni. Il fato, tuttavia, si accanì con la Cassidy: la registrazione della prima serata andò perduta per problemi tecnici, mentre quella della seconda serata, che confluirà in Live At Blues Alley, vede, invece, la Cassidy non in perfette condizioni fisiche, causa un fastidioso raffreddamento. Sarà. Ma quando Eva sale sul palco e inizia a cantare si aprono le porte del Paradiso. Perché la Cassidy, come più di un critico non ha avuto esitazioni ad affermare, è stata la più grande cantante di tutti i tempi. Basta ascoltare questo sfortunatissimo esordio (il disco fu, ai tempi, un flop commerciale), per rendersi conto di quanta duttilità fosse dotata la sua voce impossibile, capace di rileggere e interpretare senza tentennamenti e con gusto originale ballate soul da svenimento ("People Get Ready" di Curtis Mayfield), standard jazz già passati attraverso ugole importanti ("Autunm Leaves", "Check To Check", "What A Wonderful World") e hit del pop contemporaneo, come "Fields Of Gold" di Sting.

Eva Cassidy, però, se ne andò a causa di un melanoma nel 1996, senza riuscire a vedere la pubblicazione dell’album che, sperava, avrebbe potuto finalmente farla entrare nel firmamento luminoso dello star system. 

Tre anni dopo, è il 1999, la storia, seppur postuma, cambia radicalmente. Una storia a cui nessuno crederebbe, se non ci fossero inoppugnabili dati alla mano a dimostrarlo. E’ una fredda mattina di novembre, quando Fred Taylor, proprietario dello Scullers Club, un locale dove si suona musica jazz dal vivo, mentre sistema le sue cose, mette sul piatto Songbird, uno raccolta postuma della Cassidy, pubblicata l’anno prima. Ascolta la prima delle canzoni in scaletta, la cover di "Fields Of Gold" di Sting, e quasi sviene dall’emozione. “Stavo lì a studiare le mie carte e sono rimasto incantato - racconta Taylor al Boston Globe - mi sono fermato, ho mandato indietro il pezzo e ho ascoltato con attenzione tutto il disco, traccia per traccia. Me ne innamorai e decisi che dovevo assolutamente trovarla per farla suonare nel mio locale". Eva però non c’era più, era scomparsa tre anni prima, senza essere riuscita a portare la propria musica fuori dagli angusti confini di Washington. "Quando mi dissero che era morta nel '96 mi disperai - ricorda Taylor - pensai che nella mia carriera mi avevano entusiasmato molti artisti, avevo scoperto anche qualche talento, ma 'Autumn Leaves' come la cantava lei, mi dava delle emozioni mai provate prima".

Taylor allora chiamò un amico che lavorava alla WBOS-FM, una radio locale di Boston, consigliandogli il disco, e fu così che Songbird trovò spazio con sempre più frequenza nelle programmazioni radiofoniche, suscitando fra gli ascoltatori un incontenibile entusiasmo. Il nome di Eva Cassidy cominciò allora a circolare negli ambienti che contano e Songbird scalò le classifiche di mezzo mondo, raggiungendo la prima piazza delle charts britanniche.

Tra le numerose pubblicazioni, tutte ovviamente successive al decesso della cantante, questo nuovo I Can Only Be Me (With The London Symphony Orchestra) è di certo tra le più interessanti, e il merito va alla Blix Street Records che ha giocato d’azzardo, riportando in vita alcune classiche interpretazioni di Eva Cassidy, rilette qui in modo inconsueto.

Grazie, infatti, alle stesse tecnologie di restauro audio con apprendimento automatico usate nel film The Beatles: Get Back (2021), la voce della Cassidy è stata isolata e combinata con l’accompagnamento della London Symphony Orchestra e i nuovi arrangiamenti che dei brani sono stati fatti da Christopher Willis e William Ross. Quello che poteva essere un artificioso pasticcio, suona in realtà come uno straordinario omaggio all’arte della sfortunata musicista, la cui voce, intrecciata alle partiture orchestrali, torna a brillare in tutta la sua luminosa bellezza.

Ciò che risalta maggiormente è la straordinaria duttilità di una voce che esplorava con disinvoltura svariati generi, impossessandosi letteralmente di canzoni altrui e trasformandole attraverso la propria romantica sensibilità e una tecnica a dir poco mostruosa. Qui, più che altrove, gli arrangiamenti arricchiscono ulteriormente la potenza interpretativa di Eva, mettendo in luce anche quelle piccole sfumature che, in realtà, sono il plus che rende la voce della Cassidy un unicum inimitabile.

L’eleganza e la misura con cui la cantante affronta la complessità di alcune linee vocali (il traditional Waly Waly, e Tall Trees in Georgia di Buffy Sainte-Marie) è stupefacente, così come il pathos che gonfia di struggimenti le malinconiche Songbird (dal songbook dei Fleetwod Mac) e Autumn Leaves (celebre stand jazz composto da Joseph Kosma nel 1945), lascia senza parole.

La Cassidy è assolutamente superba anche quando si misura con il pop, plasmando con sofferto intimismo una hit come Time After Time di Cyndi Lauper, o quando affronta con straordinaria intensità inni soul quali People Get Ready di Curtis Mayfield, Ain’t No Sunshine di Billy Whiters e la conclusiva I Can Only Be Me di Stevie Wonder, o il livido blues di "You’ve Changed" di Billie Holiday, forse il vertice di questa stupefacente raccolta.

Un disco, questo I Can Only Be Me, che accresce il rimpianto di non aver mai potuto ascoltare dal vivo la sfortunata musicista che, il due febbraio di quest’anno, avrebbe compiuto sessant’anni. Il conto è presto fatto: ci siamo persi ventisette anni di musica meravigliosa e anche se, dagli archivi, periodicamente escono album postumi, è lecito domandarsi quale direzione avrebbe preso la sua carriera se fosse sopravvissuta alla maligna sorte che l’ha rapita così giovane. Un domanda per la quale esiste una sola risposta: Dio mio, che cosa ci siamo persi!

VOTO: 8

Genere: Pop Orchestrale

 


 

 

Blackswan, giovedì 06/04/2023

martedì 4 aprile 2023

NE OBLIVISCARIS - EXUL (Season Of Mist, 2023)

 


Come spesso è accaduto in questi anni, anche Exul, quarta fatica in studio dei progressive metaller australiani No Obliviscaris ha avuto una genesi assai complicata. Annunciato nel 2019, i lavori per la registrazione dell’album sono stati poi rimandati a causa della pandemia e del lockdown, aprendo un periodo di incertezze che ha portato il gruppo alla soglia dello scioglimento e ha registrato l’abbandono dello storico batterista Daniel Presland, che ha salutato tutti lo scorso anno per dedicarsi ad altro. Ciò nonostante, la band ha portato a termine il disco che, al pari dei suoi tre predecessori, ha mantenuto intatta quella chimica ingegnosamente frenetica ed elegantemente sinfonica, che li ha portati a essere una delle band più amate dagli appassionati del genere.

Exul è, forse, un disco meno eccentrico dei tre album già pubblicati, ma per converso è eccezionalmente coeso, maturo e focalizzato con precisione in ogni minimo dettaglio. Soprattutto, è un disco più cupo, il cui nucleo è oscuro e minaccioso, trasuda tormento e disperazione, e riflette, quasi inevitabilmente, i sentimenti nati in questi anni di isolamento e incertezza.

La band, come dicevamo, ha perso il proprio batterista, il cui drumming, impetuoso e feroce, ha dato un contributo decisivo nel forgiare il sound Ne Obliviscaris. Se Exul racchiude, dunque, l’ultima performance di Presland dietro le pelli, per converso vede esordire nella line up il nostro Martino Garattoni, un bassista straordinario per tecnica, potenza e fantasia, vera e propria architrave su cui si posano le complesse architetture progressive death metal della band.

Exul è un disco crepuscolare, in bilico tra ferocia e orchestrazioni, e attraversato da un senso melodrammatico per la malinconia, reso incisivo dalle parti di violino suonato da Tim Charles, elemento, questo, che rende il suono del gruppo così evocativo e originale.

La ritmica da assalto all’arma bianca e i riff di chitarra di "Equus", il brano che apre la scaletta, trasudano furia e disperazione, elementi che permeano tutta la scaletta di Exul e che vengono portati al parossismo dal perfetto interplay tra il growl luciferino e catacombale di Xenoyr e il cantato pulito di Charles, che a tratti tocca vette angeliche. Un contrappunto emotivamente eccitante, per un brano che racchiude il ruggito del metal estremo e parti melodiche tratteggiate dal suono dolce di archi e chitarra acustica. La successiva "Misericorde", divisa in due parti ("As The Flesh Falls" e "Anathomy Of Quiescence") rappresenta il nucleo dell’opera, è il brano più sperimentale e ben testimonia dell’universo musicale dei Ne Obliviscaris: la prima parte è scossa da arrembante brutalità e accelerazioni tech-death metal, declinate attraverso un adrenalinico andamento di sali e scendi, mentre la seconda parte, più morbida e dolente, è aperta dal violino di Charles che sbriciola il cuore per intensità, a cui si aggiunge, poi, la chitarra elettrica che percorre orizzonti pinkfloydiani fino a un crescendo che evoca i Sigur Ros di "Untitled 8". Diciassette minuti di musica di una bellezza che lascia senza parole.

La seconda metà del disco è forse meno sorprendente, pur mantenendo altissima la qualità di scrittura: "Suspyre" e "Graal" rappresentano la formula più collaudata dalla band australiana, e ribadiscono l’immensa caratura tecnica dei Ne Obliviscaris, esibita, però, senza mai gigioneggiare in inutili orpelli (in Graal il lavoro al basso di Garattoni è pura poesia), mentre lo strumentale conclusivo "Anhedonia" (il brano dal minutaggio più breve) è un’inquietante coda dagli accenti ossianici, che si perde tra le brume di cupi accordi di pianoforte, lamenti vocali e disarmonia sinfonica.

Exul è, in definitiva, l’ennesimo grande disco di una band che non sbaglia un colpo, e si pone, in modo diverso, ma sullo stesso piano dei suoi celebrati predecessori. La differenza risiede nell’approccio maggiormente tenebroso e malinconico, reso perfettamente dal mix fra rabbiosa belligeranza e tetre orchestrazioni, mentre il surplus è rappresentato in alcuni momenti in cui gli avventurosi arrangiamenti alzano ulteriormente l’asticella, facendo così di Exul un disco imperdibile per chi ama il genere.

VOTO: 9

Genere: Progressive Death Metal

 


 

 

Blackswan, martedì 04/04/2023

lunedì 3 aprile 2023

HOST - IX (Nuclear Blast, 2023)

 


Senza conoscere la storia dei Paradise Lost, verrebbe davvero difficile credere che, sotto il moniker Host, si celano Nick Holmes e Gregor Mackintosh, menti pensanti della band death doom metal britannica. Chi invece ha seguito il gruppo durante tutti gli anni di onorata carriera sa esattamente che un disco come IX è molto più che plausibile. La storia, infatti, parla chiaro. Nel 1997, dopo il successo di Draconian Times (1995), i Paradise Lost decisero di fare un balzo stilistico totalmente inaspettato. Con l'uscita di One Second (1997), infatti, abbandonarono bruscamente l'ibrido metal/doom sferragliante di cui erano pionieri, e virarono decisamente verso il rock elettronico, in un periodo in cui l’utilizzo dell’elettronica non era propriamente ben voluto dai fan del metal (nel decennio successivo gli inserti elettronici iniziarono a diventare una costante anche nel metal). Nonostante le proteste della propria fan base, imperterrita, la band ha calcato ulteriormente la mano su quel suonoa, dando alle stampe, nel 1999, Host (da cui il nome di questo progetto parallelo), un disco che rinnegava completamente le origini metal dei Paradise Lost, trasformandoli in qualcosa di molto vicino ai Depeche Mode.  

Questa svolta, osteggiata da molti, col passare del tempo è stata rivalutata sia dal pubblico che dalla critica, ma nel frattempo il gruppo è tornato ad abbracciare le proprie radici metal. Almeno fino a oggi e a questo IX, che pur non inserito nella discografia della casa madre, vede i due membri fondatori tornare a quella controversa formula.

Nonostante in modo un po’ sibillino, Holmes e Mackintosh, al momento dell’uscita del disco, abbiano voluto prendere le distanze dall’album del 1999, è quasi inevitabile che l’ascolto di IX ci porti direttamente lì, nonostante alcune differenze. Negli anni trascorsi dall'uscita di Host, infatti, l'abilità di scrivere canzoni sia di Nick Holmes che di Greg Mackintosh è migliorata notevolmente, così come la tecnologia e la loro capacità di farne buon uso. Se è vero che ventiquattro anni fa l’intento di omaggiare i Depeche Mode era più che evidente, oggi, la band di Dave Gahan rappresenta senza ombra di dubbio la matrice di queste canzoni, ma IX è molto di più: una perfetta miscela di goth pop elettronico anni '80 e industrial, incupita da quella tristezza crepuscolare che da sempre rappresenta l’habitus emotivo dei lavori targati Paradise Lost.

Certo, ad ascoltare un singolo come "Tomorrow's Sky", un electro pop su ritmiche dance, si viene un po’ sviati da quello che è invece il corpus di un album che è cupo, malinconico, intimista e decadente, che evoca i Depeche, e perché no, anche i Cure, e che richiama sonorità anni ’80, avvolgendole fra strati di sintetizzatori, archi e pianoforti, il tutto declinato attraverso una sensibilità che non riesce a prescindere dal radicato amore per il doom. In tal senso, IX pur rappresentando una deviazione dal percorso principale, non rappresenta uno strappo netto, ma raccoglie in sé molti elementi già presenti in passato: le sfumature gotiche e le influenze doom latenti di "Draconian Times", gli elementi pop elettronici di "One Second" e "Host" e certe ibridazioni presenti in "Symbol of Life", sono qui tutte presenti.

"Wretched Soul" apre l'album determinato a dimostrare che IX non è semplicemente Host parte due, le atmosfere richiamano un cupo doom che si muove a un ritmo letargico mentre crea un'atmosfera malinconica con strati di synth, chitarre acustiche ed elettriche, e un’inquietante performance vocale di Nick Holmes. Se canzoni come la citata "Tomorrow's Sky", "Divine Emotion" e "Inquisition" si muovono per territori electro pop pungolati di malinconia e richiamano alla mente inevitabilmente i Depeche Mode, altrove, il legame con il metal non si è completamente sfilacciato ("Instinct") e il duo dimostra abilità nell’equilibrare rock e inserti elettronici ("Hiding From Tomorrow").

Il risultato è un suono riccamente stratificato all'interno di un'ampia gamma di dinamiche e stili, e ciò rende IX un disco perfettamente riuscito, una sorta di rivincita nei confronti dei tanti detrattori del passato. L’incursione dei Paradise Lost nella musica elettronica, nonostante fecero del loro meglio con la tecnologia e la scarsa esperienza a disposizione, a prescindere dalla bontà dei risultati, fu un mezzo fallimento, e anche se Holmes e Mackintosh avessero pubblicato il miglior album di elettronica degli anni ’90, la maggior parte dei fan, come effettivamente è stato, li avrebbe rinnegati. Oggi, gli ascoltatori sono più aperti all’esplorazione artistica anche da parte di band con un suono consolidato nel tempo, e come già detto la tecnologia è decisamente migliorata. Questa era, dunque, l'occasione perfetta per rivisitare una passione che i due erano stati costretti ad abbandonare decenni fa, una sfida a dimostrare che quando ci sono idee e ispirazione, tentare un azzardo, può produrre ottimi risultati. Se ne facciano, quindi, una ragione i metallari più ortodossi: IX è un ottimo disco, che speriamo, in futuro, abbia anche un seguito. 

VOTO: 7,5

Genere: Synth Pop




Blackswan, lunedì 03/04/2023