lunedì 28 febbraio 2022

EDDIE VEDDER - EARTHLING (Seattle Surf/Republic, 2022)

 


La carriera solista di Eddie Vedder sembrava essersi arenata undici anni fa, evaporata tra i suoni di un ukulele, strumento a corda che il cantante dei Pearl Jam aveva imparato a suonare quasi per scherzo, alla fine degli anni ’90, e che era diventato, successivamente, una cosa molto seria, tanto da divenire il protagonista assoluto di un intero album (Ukulele Songs). Un progetto defilato, quello, come a voler marcare la distanza dalla casa madre e da tutta quella iconografia rock, che iniziava, dopo tanti anni, ad accumulare un po' di polvere.

Sorprende, ma per altri motivi, questo nuovo Earthling, che è l’esatto opposto del suo predecessore, un album in cui il rocker torna centrale e la posizione di retroguardia svanisce in nome di un approccio decisamente più sfrontato, elettrico e, in parte, rumoroso. Un disco mainstream, si potrebbe dire, di una artista che ha passato tutta la carriera a sfuggire da questa definizione, la cui accezione, però, come in questo caso, non è necessariamente negativa. Anzi. Vedder, infatti, coagula in Earthling tutto il suo “sentire” musicale: ci sono i Pearl Jam, le ballate acustiche, che lo hanno sempre visto come interprete appassionato, ci sono quelle scazzottate punk rock innervate di rabbia che pompano adrenalina, e c’è l’omaggio ai suoi eroi musicali, qui citati con amorevole devozione (Beatles, Tom Petty, Springsteen). Un'opera mainstream, dunque, perché si rivolge a tutti gli appassionati di rock con un linguaggio universale, codificato, diretto.

Un disco confuso, ha scritto qualcuno. In realtà, no. E’ semmai il disco di un artista che, fuori dallo steccato Pearl Jam e dal processo di scrittura collettivo, ha deciso di mettere in note tutto quello che gli passava per la testa, senza calcoli e con la libertà conquistata con il suo luminoso curriculum. C’è tanta carne al fuoco, è vero, ma la cottura è da chef stellato, grazie al collante di grandi linee vocali (quell’incredibile baritono che sa di caffè nero bollente), che dimostrano, se mai ce ne fosse bisogno, la straordinaria caratura di uno dei vocalist tra i più grandi di sempre.

Earthling non farà la storia del 2022, certo, ma è un disco che la storia la guarda con attenzione filologica e con lo sguardo divertito di un artista che non deve dimostrare nulla e può giocare al tavolo da poker con lo sguardo sornione di chi ha le spalle coperte anche in caso di sconfitta. Una scaletta varia, dicevamo, che parte alla grande con il crescendo di "Invincible", le cui chitarre sembrano prese in prestito da "Solsbury Hill" di Peter Gabriel e la cui progressione armonica sembra creata apposta per accendere il pubblico sotto il palco, a inizio concerto. Ci sono anche canzoni che suonano esattamente come se fossero state composte per un disco dei Pearl Jam: il saliscendi emotivo di "Brother The Cloud", che travolge per quegli improvvisi slanci elettrici, o l’uno - due di "Rose Of Jericho" e "Try" (straniante e riuscitissima la presenza di Stevie Wonder all’armonica) due canzoni, che scalciano con violenza e recuperano l’energia garage rock che animava Vitalogy.

Tra ospitate importanti (il citato Wonder, Chad Smith alla batteria e Elton John a duettare in "Picture", il brano più debole in scaletta, a dire il vero), Vedder si abbandona ad afflati nostalgici, abbracciando simbolicamente i suoi eroi di sempre: la splendida "Long Way" è una ballata radiofonica che accarezza le orecchie come una canzone perduta di Tom Petty, "The Dark" è springsteeniana fino al midollo, e "Mrs. Mills", con Ringo Starr alla batteria, sembra emergere dalle trame psichedeliche di "Sgt. Pepper".

Earthling è in definitiva un disco che piacerà ai fan dei Pearl Jam, ma anche a tutti coloro che amano il classic rock, di cui Vedder è interprete a tutto tondo. Messo da parte il simpatico ukulele, il cantante dei Pearl Jam è tornato a fare quello per cui è nato, e cioè scrivere canzoni appassionate, che guardano al passato, certo, ma che sono ancora tanto vitali e scalcianti da meritarsi un posto di riguardo tra i nostri ascolti più assidui del 2022.

VOTO: 7,5

 


 

Blackswan, lunedì 28/02/2022

venerdì 25 febbraio 2022

AMERICAN WOMAN - THE GUESS WHO (RCA, 1970)

 


Un colpo di culo, direbbe qualcuno, mentre altri, con un approccio meno prosaico, parlerebbero di una di quelle inaspettate illuminazioni, veri e propri colpi di scena nelle trame ordite dal destino, che cambiano per sempre le sorti della storia. Chiamatela pure come volete, ma la genesi di American Woman, leggendaria hit dei canadesi The Guess Who, nasce in modo totalmente fortuito e imprevedibile.

Nel 1969, in Ontario, la band capitanata da Randy Bachman, sta suonando di fronte a un pubblico caldissimo, che si gode le canzoni tratte dall’ultimo album, Canned Wheat. Troppo impeto, e a Bachman salta una corda della sua Les Paul. Randy chiede scusa, cambia la corda, e mentre sta accordando lo strumento, all’improvviso, per un’illuminazione o per un colpo di culo, si ritrova fra le dita un riff pazzesco. In quegli anni di totale libertà espressiva, la band gli va subito dietro, dando vita a un’improvvisata jam, su cui Burton Cummings si mette a cantare “American Woman, Stay Away From Me!”.

Nasce così quello che sarà il primo singolo canadese a raggiungere la vetta della Billboard Hot 100 statunitense, dove resterà per ben tre settimane, spopolando, contemporaneamente, anche nelle classifiche di Canada (dove arriva al primo posto), Svizzera e Paesi Bassi (al quarto), Germania (al sesto) e Austria (al settimo). Questi i numeri di un successo che resiste all’usura del tempo, visto che la canzone, oltre a essere stata votata, nel 2000 e nel 2005, il miglior singolo canadese di sempre in un sondaggio lanciato dal magazine Chart, è stata anche oggetto di numerose cover (quella di Lenny Kravitz la più celebre) ed è entrata a far parte della colonna sonora di numerosi film.

Quello, però, che non tutti sanno, è che la canzone non ha come oggetto un’ipotetica donna americana, ma è caratterizzata, invece, da una valenza fortemente politica. Perché la band, dove aver trovato casualmente quel riff epocale, completò il brano, raccontando, attraverso liriche affilatissime e scevre da fraintendimenti, il forte disagio che provava a vivere negli Stati Uniti, paese guerrafondaio, in cui molto spesso le libertà civili venivano negate e i diritti delle persone calpestati. Ecco, quindi, che l’American Woman del testo, altri non è se non la Statua della Libertà, simbolo per eccellenza dello stile di vita americano, che dovrebbe essere improntato a principi democratici, troppe volte disattesi.

Un testo diretto e puntuto, che, in ottica politica, rappresentava un attacco al ventre molle della società americana: “Donna americana, stai lontano da me…Non venire a gironzolare intorno alla mia porta, Non voglio più vedere la tua faccia, Ho cose più importanti da fare, che passare il mio tempo a invecchiare con te”. Ciò nonostante, come poc’anzi raccontato, la canzone sbaragliò le charts statunitensi, a dispetto del boicottaggio di parecchie radio, che si rifiutavano di passare un testo così esplicitamente critico nei confronti delle politiche dell’allora Presidente, Richard Nixon.

 


 

Blackswan, venerdì 25/02/2022

giovedì 24 febbraio 2022

ONCE HUMAN - SCAR WEAVER (earMUSIC, 2022)

 


Ci stavamo quasi dimenticando dell’esistenza dei Once Human, visto il lungo iato che ha separato la loro ultima uscita (Evolution, 2017) da questo nuovo Scar Weaver. Cinque anni, nell’attuale panorama musicale, sono tantissimi, band sono nate, altre si sono sciolte, alcune hanno scalato l’impervia rampa che porta al successo. Alla fine eccoli di nuovo, capitanati come sempre dalla conturbante Lauren Hart, e da Logan Mader, chitarrista già alla corte dei Machine Head e dei Soulfly (qui, anche in veste di produttore), con un disco a cui la lunga gestazione ha fatto un gran bene, dal momento che possiamo tranquillamente definirlo il miglior episodio dei tre pubblicati fino a oggi dal gruppo losangelino.

Meno diretto e più spigoloso, Scar Weaver porta a compimento il concetto di un metal contemporaneo e dinamico, sintesi fra mealodic death e arrembante groove, feroce, aggressivo, e presentato in un involucro di precisione da filo spinato sonoro. Una scaletta non facilmente digeribile (men che meno se non siete appassionati del genere), e complessa anche sotto il profilo dell’architettura delle canzoni, su cui è stato fatto un lavoro certosino, per dare profondità alla composizione ed esaltare i riff tecnici, ossianici e urticanti di Mader.

E che si tratti dell’oscura "Cold Arrival", delle atmosfere vitree di "Deserted" (con quello splendido lavoro alla chitarra che ricorda Dimebag Darrell) o della potenza minacciosa della luciferina "Erasure", non si può non sottolineare l’impressionante prova vocale della Hart: il suo screaming belluino, eppure incredibilmente misurato, trafigge i padiglioni auricolari, evitando con metodo ritornelli diretti o ovvi, e qualsiasi concessione alla suggestione melodica.

Un disco che non fa prigionieri, quindi, che colpisce con brutalità pur non disdegnando dinamici slanci groove (la notevole "Deadlock", cantata insieme a Robb Flynn dei Machine Head), e a cui una produzione impeccabile conferisce un’identità di suono che nei precedenti capitoli era mancata. Scar Weaver è esattamente il tipo di disco che la band aveva bisogno di realizzare, per tornare prepotentemente sulla scena e riprendersi la prima linea della mischia. Ben fatto!

VOTO: 7 




Blackswan, giovedì 24/ 02/2022

martedì 22 febbraio 2022

LEAVING NEW YORK - R.E.M. (Warner, 2004)

 


Ci sono luoghi legati indissolubilmente alla nostra esistenza, non solo come mero dato geografico, ma soprattutto perché diventati parte integrante dei nostri pensieri e dei nostri affetti. Non sono solo i luoghi in cui viviamo, ma anche i luoghi dove ci sentiamo protetti, che troviamo congeniali al nostro sentire, che evocano ricordi, pungolandoci con la nostalgia, che ci danno conforto e ci accolgono sempre a braccia aperte, avvolgendoci in un abbraccio lenitivo.

Quando esce Around The Sun (2004), la parabola discendente dei R.E.M. è già iniziata: il disco mostra una band senza smalto e ispirazione, che in seguito avrà ancora la forza di rilasciare due dischi discreti (Accelerate e Collapse Into Now), ma il cui destino pare irrimediabilmente segnato. In una scaletta non molto brillante, composta prevalentemente di ballate e connotata da un surplus di militanza politica, non mancano, tuttavia, buone canzoni come I Wanted To Be Wrong, The Outsiders e soprattutto, il primo singolo, Leaving New York. Che è proprio una canzone che parla di un luogo, anzi che parla dell’amore per uno di quei luoghi di cui scrivevamo all’inizio, quelli che ci sono entrati nel cuore per rimanerci e che ci fanno sentire bene ogni volta che li ritroviamo.

Così, Michael Stipe, figlio della Georgia e del Sud degli Stati Uniti, omaggia New York, sua città adottiva, metropoli rutilante che, invece di respingerlo, lo ha accolto fra le sue braccia, lo ha cresciuto e nutrito, gli ha dato la possibilità di realizzarsi sia come uomo e che come artista. La canzone fu scritta da Stipe una sera, mentre decollava dall’aeroporto JFK di New York, col cuore gonfio di nostalgia per dover abbandonare una città caotica e dalle mille contraddizioni, ma capace, comunque, ogni volta, di rigenerarlo nell’anima e di trasmettergli un vibrante afflato vitale. In tal senso, le liriche della canzone sono una vera e propria dichiarazione d’amore alla Grande Mela, che assume quasi le sembianze di una donna, da cui è impossibile staccarsi senza provare dolore: “Leaving was never my proud, Leaving New York, never easy, I saw the light fading out”.

Strano a dirsi, la canzone ebbe molto successo in Inghilterra (fu l’ultimo singolo dei R.E.M. a entrare nella top ten inglese, per la precisione, al quinto posto) e in Europa (in Italia conquistò la seconda piazza), ma non negli Stati Uniti, dove, per la prima volta nella storia, il singolo di lancio di un album della band non riuscì a entrare nella Billboard Hot 100.

Un’ultima curiosità: nel video, girato da Peter Care all’aeroporto JFK, compaiono alcuni scorci suggestivi della metropoli, tra cui è visibile anche l’insegna di Katz Delicatessen, il locale dell’East Village famoso per i sandwich di pastrami e per essere stata la location della sequenza del finto orgasmo di Harry Ti Presento Sally.

 


 

Blackswan, martedì 22/02/2022

lunedì 21 febbraio 2022

DAN ANDRIANO & THE BYGONES (Epitaph Records, 2022)

 


Se è vero che la pandemia ha frenato per lungo tempo il mercato discografico e, soprattutto, ci ha privati, e ci priva, del piacere di assistere ai concerti dei nostri artisti preferiti, è altrettanto vero che molti album, scritti e registrati in un periodo in cui i musicisti non potevano fare molto altro, ora stanno vedendo la luce, compensando in parte l’amarezza provata negli ultimi mesi. Uno di questi sforzi nati dal lockdown è il nuovo album solista del bassista e co-cantante degli Alkaline Trio, Dan Andriano, che gli ascoltatori devoti sanno essere incline a produrre ed esprimersi anche lontano dal pop punk ombroso della band di riferimento.

Andriano, fuori dalla casa madre, sviluppa la sua carriera solista, divertendosi a cambiare l’insegna della ditta, prima chiamata Dan Andriano In The Emergency Room (con cui ha pubblicato due bellissimi full lenght) e oggi, con un’inaspettata svolta, Dan Andriano & The Bygones. Cambia il nome, ma, sostanzialmente, non la proposta, che raggruma tutto l’armamentario sonoro di Andriano, quello già esibito nei precedenti lavori e negli album rilasciati sotto l’egida Alkaline Trio e, soprattutto, The Falcon, il supergruppo creato con Brendan Kelly dei The Lawrence Arms. Una miscela ad alto contenuto energetico in cui confluiscono rock, pop e punk, melodie irresistibili e chitarre sferraglianti, con qualche tentativo, in questo caso, di spostare, almeno di un poco, il baricentro della proposta.

Il solare brano di apertura, Narcissus, Amateur Classic Narcissist, scorre trainato da chitarre croccanti con quella leggerezza melodica che è la specialità della casa, prima di lasciare spazio all’irruenza di Sea Level, travolgente pop punk come nella miglior tradizione degli Alkaline Trio. La voce avvolgente e famigliare di Andriano funziona benissimo, così come il repertorio, prevedibile, ma efficace nella sua schietta semplicità. Sono, tuttavia, brani come Wrong, aperta dal pianoforte e da un mood alla Billy Bragg, per poi svilupparsi in un rumoroso crescendo, a rendere più attraente il disco, facendo trapelare la volontà del musicista di seguire la propria musa ispiratrice e uscire dal consueto seminato.

Tutto suona molto bene, per carità, ma è evidente che alcune canzoni, sebbene non prive di fascino, avrebbero forse avuto una resa migliore se un filo più strutturate. Inoltre, gli inevitabili confronti con la sua produzione in quota Alkaline Trio, non soddisferanno completamente chiunque si aspettava gli hook memorabili di quella band o i giri di chitarra affilati come un serramanico. Il disco, però, regge, è divertente e orecchiabilissimo, e se anche non tutto è centrato, alcune canzoni notevoli (la citata Wrong, la title track, la vibrante The Excess o la scorribanda elettrica di It’s A Trap Door!) sono lì a ricordarci quanto ancora possa essere scalpitante e vitale un disco di onestissimo rock’n’roll.  

VOTO: 7




Blackswan, lunedì 21/02/2022

giovedì 17 febbraio 2022

WOVENHAND - SILVER SASH (Glitterhouse Records, 2022)

 


Era dai tempi dell’acclamato Star Treatment (2016) che il “reverendo” David Eugene Edwards non dava segni di vita. Un periodo di pausa piuttosto lungo, utile a comporre e mettere insieme le canzoni di questo nuovissimo Silver Sash, il cui materiale (nove canzoni per la durata complessiva di soli trentatre minuti) è stato scritto in collaborazione con l’amico di lunga data Chuck French, noto anche come chitarrista della band post-hardcore/emo dei Planes Mistaken For Stars e membro stabile dei Wovenhand dal 2012.

Inutile dire che l’incontro artistico è stato decisamente proficuo e che il connubio fra i due ha prodotto un’opera vibrante, testimonianza di un livello d’ispirazione, che continua a rimanere, miracolosamente, su livelli altissimi. Anche perché, le canzoni in scaletta, sono state concepite e limate con estrema attenzione, visto che il disco ha indossato la sua veste definitiva dopo un lavoro durato la bellezza di quattro anni. Registrato a Denver, nella casa di Edwards, con la collaborazione di Jason Begin, Silver Sash raccoglie canzoni che il musicista americano teneva a languire nel proprio computer da tempo: brani, quindi, risalenti a epoche diverse, alcuni solo abbozzati, altri decisamente più strutturati.

Nessun rischio di trovarsi di fronte a una raccolta male assortita, però: il collante, ciò che rende perfettamente congruo il quadro d’insieme, è la visione di Edwards, il quale non smette di scandagliare la notte e il deserto, alla ricerca dei propri fantasmi interiori. Il risultato è, dunque, un disco nero come la pece, che si muove seguendo coordinate goth folk e post punk, che evocano la notte, i grandi spazi e un misticismo ieratico, il tutto contaminato da qualche breve inserto di elettronica.

Insomma, sono i Wowenhand al loro meglio, come si intuisce immediatamente dall’opener "Temple Timer", un brano oscuro, potente, attraversato da scariche di solenne elettricità, scandita dal salmodiare austero di Edwards. Una scaletta in odore di apocalisse, perfetta colonna sonora dei tempi bui che viviamo, in cui frementi tirate post punk ("Acacia" e "Omaha" sono una vera e propria lectio magistralis sul genere) si alternano a brani accesi di misticismo, esaltati dal timbro presbiteriano della voce emotivamente fluttuante di Edwards ("Duat Hawk"), o a schiumanti galoppate nel deserto, come nello stoner alla QOTSA di "Dead Dead Beat", un assalto all’arma bianca, il cui battito feroce e le chitarre rabbiose strattonano l’ascoltatore nel centro della mischia.

Chi aspettava da tempo un nuovo album dei Wovenhand, con Silver Sash ha visto premiata la propria pazienza. Merito anche di un minutaggio contenuto che esalta, senza dispersioni, la forza evocativa dei nove brani in scaletta, i quali, pur assumendo talvolta connotati truci e violenti, non perdono un briciolo della magia ipnotica che da sempre nutre la scrittura di Edwards. Che, sia alla guida dei Wovenhand come dei leggendari 16 Horsepower, ha influenzato e ispirato, come pochi hanno fatto, il mondo del rock alternativo americano. Una musica non facilmente etichettabile, un magma tenebroso, denso di spiritualità ancestrale e tormenti interiori, in cui convivono, in perfetto equilibrio, folk, old time, post punk e rock’n’roll. Patrimonio dell’oscurità.

VOTO: 8

 


 

Blackswan, giovedì 17/02/2022

martedì 15 febbraio 2022

THE LETTER - THE BOX TOPS (Mala, 1967)

 


Una band alle prime armi, una canzone che dura solo un minuto e cinquantotto secondi, una hit epocale. Questa è la storia di The Letter, unico grande successo dei Box Tops, band proveniente da Memphis e attiva nella seconda parte degli anni ’60, che vide militare tra le sue fila il grande Alex Chilton (Big Star), allora poco più che sedicenne. 

Un brano che, ai tempi, ebbe un incredibile successo di vendite, per quel testo limpido ma ambivalente, che ben poteva adattarsi a una storia d’amore totalizzante oppure alle speranze e alle paure di chi, in quegli anni, stava combattendo un’assurda guerra in Vietnam, lontano mille miglia da casa. Perché The Letter è la storia di un ragazzo che riceve una lettera dalla propria amata, una lettera gonfia di sentimento e nostalgia, un’implorazione a tornare, perché l’assenza è un pungolo costante che non lascia vivere.

E’ evidente che si tratta di una canzone d’amore, ma è altrettanto evidente che questo breve brano, così struggente e appassionato, non poteva che essere anche una delle canzoni preferite dai soldati americani, che ascoltandola si sentivano più vicini ai propri affetti e nutrivano la speranza che, un giorno, avrebbero fatto ritorno alle loro tranquille esistenze.

L’inizio è folgorante, suggerisce immediatamente la lontananza e l’urgenza di ricongiungersi con l’amata: “Dammi un biglietto per un aereo, Non ho tempo per prendere un treno veloce, I giorni solitari sono finiti, sto tornando a casa”. Non c’è un attimo da perdere, non importa quanta strada separi i due amanti, non importa quanto possa costare il viaggio (“I don't care how much money I gotta spend”), quella lettera è arrivata e ha aperto una ferita che va immediatamente rimarginata (“Mi ha scritto una lettera, Ha detto che non poteva più vivere senza di me, Ascolta signore, non vedi che devo tornare indietro?”).

La canzone, che fu pubblicata nel luglio del 1967, e che fu un successo clamoroso, tanto da raggiungere la prima piazza sia nelle classifiche statunitensi che in quelle canadesi, ha una genesi curiosa. The Letter, infatti, fu scritta da Wayne Carson, polistrumentista, produttore e autore di numerose hit, prendendo spunto da una dritta del padre, che gli consigliò di iniziare una canzone partendo dal verso “Gimme a ticket for an aeroplane”. Detto, fatto. Carson compose The Letter ispirato dal suggerimento paterno, e una volta pronta, inviò un demo del lavoro fatto a Chips Moman, proprietario dell'American Sound Studio a Memphis (Tennessee). Costui aveva adocchiato i DeVilles, una band locale di sbarbati, nelle cui fila militava Alex Chilton, un ragazzino con una voce dal timbro inconfondibile. Una volta arruolato il gruppo e cambiatogli il nome in The Box Tops, Moman mise loro a disposizione lo studio di registrazione, e i cinque giovanotti, nonostante fossero completamente inesperti, fecero il miracolo.

Oltre all'incredibile successo di vendite, la canzone è stata, infatti, posizionata dalla rivista Rolling Stone al numero 372 della lista delle 500 canzoni più belle di ogni tempo, e nel 2011, il singolo è stato inserito nella Grammy Hall of Fame.

Tra le tante cover del brano, merita una menzione quella realizzata da Joe Cocker nel 1970: una reinterpretazione così riuscita da regalare al musicista britannico la sua prima top ten nelle charts americane.

 


 

Blackswan, martedì 15/02/2022

lunedì 14 febbraio 2022

MADRUGADA - CHIMES AT MIDNIGHT (Warner Music Norway As, 2022)

 


Il ritorno sulle scene dopo uno iato di dieci anni (scioltasi nel 2008, la band è tornata nel 2019 per un lungo tour europeo) suscitava parecchi dubbi sullo stato di forma dei Madrugada, soprattutto perché quella lunga pausa era stata causata dalla morte dell’amico e chitarrista Robert Buras, una delle menti pensanti del gruppo norvegese. Quando, ormai, sembrava chiaro ai più, che l’avventura iniziata nel 1999, con il meraviglioso Industrial Silence, fosse finita per sempre, il tour citato poc’anzi aveva riacceso le speranze dei fan, oggi concretizzatesi con la pubblicazione di questo Chimes At Midnight, prima pubblicazione dopo quattordici anni di silenzio.

Fin dalle cupe note di apertura della splendida "Nobody Loves You Like I Do", una cosa è immediatamente chiara: questo è il classico suono dei Madrugada, declinato al suo meglio. Una sensazione spiazzante, come se il tempo si fosse fermato per non usurare una musica che avevamo imparato ad amare tanto tempo fa: lo stesso romanticismo disperato, lo stesso sguardo malinconico, l'odore della notte, le improvvise scariche elettriche, una voce, quella di Sivert Hoyem, il cui timbro, a tratti, evoca quello di Eddie Vedder, che scava gallerie nel profondo del cuore, dove vivono indicibili inquietudini.  

Non è però come tirar fuori dall’armadio un vecchio abito incelofanato e conservato con cura, non si sente l’odore della naftalina: la musica dei Madrugada è ancora assolutamente credibile, perfetta per rappresentare i tempi cupi che viviamo.  Non è solo l’estetica vagamente depressa, quello strattonare il crepuscolo come naturale ambientazione per una musica profondamente esistenzialista. No, qui c’è soprattutto il desiderio e il coraggio di parlare d’amore, che è tutto quello che ci resta, la forza interiore da opporre a un mondo sull’orlo dell’abisso.

C’è un’atmosfera profondamente romantica che avvolge tutto il disco e che emerge prepotente in canzoni come "Call My Name", "Running From The Love Of Your Life" o nella conclusiva "Ecstasy", il cui apice emotivo risiede in quel verso struggente, che è al contempo speranza e resistenza, l’empito di un cuore che non smette mai di battere, nonostante tutto: "Spill it all to the one who'll love you, It is truth, it is hope, It is unbelievable. Carry on, carry on, 'Cause I'll keep riding by your side…".

Un’ora di musica che tocca le corde dello struggimento, certo, ma che è anche cesello di artigianale maestria, opera di una band (oltre a Hoyem ci sono Frode Jacobsen al basso, Jon Lauvland Pettersen alla batteria, e i chitarristi Cato Thomassen e Christer Knutsen) che non ha perso il tocco, che fa sua la locuzione “less is more”, ma sa anche quando intervenire gonfiando con abile misura le melodie.

A voler trovare un difetto, potremmo suggerire che un minutaggio inferiore avrebbe dato ulteriore efficacia a un filotto di canzoni prevalentemente ispirate. Ma quattordici anni di silenzio sono tanti, condensano emozioni e idee, espandono il desiderio di far breccia nella lunga afasia, di dire tutto ciò che è stato tenuto in serbo, come se vi fosse l’indifferibile necessità di svelare un segreto taciuto troppo a lungo. Il segreto di questo Chimes At Midnight è lo stesso che riserva una bottiglia di vino pregiato e lasciato invecchiare con amore: sprigiona sapori che ottundono i sensi, dando vita a un deliquio emotivo in cui il profumo inebria ed evoca. Dopo quattordici anni, pensavamo, probabilmente, di non aver più bisogno dei Madrugada, eppure, dopo aver messo nel lettore il disco, la sensazione è che queste canzoni siano indispensabili, imprescindibile nutrimento per l’anima e perfetta colonna sonora per soliloqui interiori con vista sul crepuscolo. Abbiamo aspettato tanto, ma ne è valsa la pena.

VOTO: 9

 


 


Blackswan, lunedì 14/02/2022

venerdì 11 febbraio 2022

ST. PAUL & THE BROKEN BONES - THE ALIEN COAST (ATO, 2022)

 


Birmingham, Alabama, profondo Sud degli Stati Uniti. Qui, nel 2012, un contabile annoiato da una vita ordinaria, decide di rischiare tutto e di dare forma ai propri sogni musicali. Si chiama Paul Janeway, e insieme al bassista Jesse Phillips fonda i St. Paul & The Broken Bones, band di otto elementi uniti da una passionaccia per il soul, il funky e il r’n’b. Il percorso musicale di Janeway, d’altra parte, si è sviluppato all’ombra del suono Stax e Motown: tantissimi dischi ascoltati da ragazzino, i primi passi mossi nel coro della chiesa, come nella miglior tradizione dei black singers, e le foto di Otis Redding e Sam Cooke tenute sul comodino del letto a indicare quotidianamente la strada.

La gavetta è quella consueta, fatta di piccole band non professionistiche, di prove in garage umidi, di concerti retribuiti poco e male, in piccoli locali della zona, di speranze alimentate solo dall’entusiasmo. A metà dei 2000, Paul inizia la (decisiva) collaborazione artistica con Phillips: nasce così una prima band semi-professionistica, The Secret Dangers, e le speranze di Janeway di uscire dall’anonimato si fanno più concrete.

La svolta, come detto, arriva nel 2012, quando gli appena costituiti St. Paul & The Broken Bones pubblicano un Ep autoprodotto (Greetings From St. Paul And The Broken Bones) che attira l’attenzione della Single Lock Records, casa discografica fondata da John Paul White (The Civil Wars) e da Ben Tanner (Alabama Shakes), il quale produce anche l’esordio della band, intitolato Half The City (2014). L’impressione suscitata dall’ottetto è tale che, non solo il disco scala, con ottimi risultati, le impervie charts americane, ma i Rolling Stones, in tour negli States, vogliono i St. Paul ad aprire due loro concerti. E’ l’inizio di una grande avventura proseguita con due dischi splendidi, Sea Of Noise (2016) e Young Sick Camellia (2018) e, quindi, con questo nuovo The Alien Coast, un lavoro che negli intenti del leader del combo dovrebbe possedere quello che viene definito “cosmic sound”.

Di sicuro, siamo di fronte a un album spiazzante, che taglia il cordone ombelicale con la prima parte di carriera, improntata a un r&b di scuola Stax e Motown, per esplorare territori meno conosciuti. Il cambiamento è un ingrediente naturale, qualcuno direbbe addirittura essenziale, nella maturazione creativa di un artista. Tuttavia, è sorprendente che la prima volta che la band registra nella propria città natale, là dove tutto nacque, si discosti così decisamente da quel linguaggio musicale originario, che aveva prodotto onori e gloria. I fan di lunga data, probabilmente, avevano già compreso, con Young Sick Camellia del 2018, che qualcosa stava bollendo in pentola, che il suono, un tempo decisamente immediato, si stava facendo più elusivo e complesso. Ciò nonostante, l'atmosfera “cosmica”, spesso minacciosa e privata dello scintillio degli ottoni che informa tutto The Alien Coast, e la sua costruzione di canzoni a forma libera, probabilmente sorprenderà anche coloro che si erano resi conto in anticipo di una possibile mutazione.

L’iniziale "3000 Ad Mass", che apre il disco con la voce di Janeway che ulula sulfurea su un tappeto d’organo e una ritmica martellante, dura solo un minuto e mezzo ma è talmente avvincente da strattonare l’ascoltatore verso le successive canzoni. Che sono davvero inaspettate, figlie di un percorso artistico che prende le distanze dal passato della band, in modo, forse, definitivo. Se è vero che il timbro vocale di Janeway continua a bagnarsi nelle più tradizionali acque del gospel e del soul, gli undici brani in scaletta sono, per così dire, insoliti: "The Last Dance" è un pezzo disco funk che paga debito a Moroder e ai Daft Punk, "Hunter And His Hounds" si dipana tra inquietanti trame dagli echi pinkfloydiani, mentre "Bermejo And The Devil" si dipana sensuale su ritmiche trap e "Atlas" impasta jazz, elettronica e chitarra acustica in un viaggio musicalmente avventuroso.

A complicare ulteriormente le cose, una buona parte di queste canzoni rifuggono da strutture convenzionali: ritornelli, lick, strofe e ponti sono liberi da regole e inseriti con una visione che, almeno all’inizio dell’ascolto, appare caotica, quasi inafferrabile.

La griffe della casa non è completamente sparita e il tocco soul persiste in ballate avvolgenti come la splendida "Ghost In Smoke". Ma sono episodi in un quadro dai colori sfuggenti, la cui astrazione, probabilmente, farà fuggire a gambe levate i fan della prima ora. I curiosi, invece, troveranno in questo The Alien Coast pane per i propri denti: St. Paul And The Broken Bones sono cambiati, bisogna prenderne atto, ma la loro musica, in un certo senso, oltre a essere più complessa, è addirittura migliore. Meritano, quindi, tutto il credito possibile, non solo per aver abbandonato una proficua comfort zone, ma anche per aver dato vita a un filotto di canzoni audaci, inaspettatamente sperimentali, imboccando una strada coraggiosa in un mondo in cui, purtroppo, la replica dei clichè è, prevalentemente, la norma.

VOTO: 8

 


 

Blackswan, venerdì 11/02/2022

mercoledì 9 febbraio 2022

PINEGROVE - 11:11 (Rough Trade, 2022)

 


Nel 2020, solo pochi mesi dopo l'uscita del loro quarto album Marigold, il cantante dei Pinegrove, Evan Stephens Hall, aveva dichiarato che la band avrebbe tirato il freno a mano e preso le distanze, almeno per un po', dallo studio di registrazione, per ricaricare le pile e dedicarsi alle rispettive famiglie. Nessuno, quindi, si sarebbe aspettato un ritorno sulle scene tanto rapido, e quello che poteva essere uno iato anche lungo, è stato interrotto dall’uscita di questo nuovo 11:11, i cui tempi di gestazione sono stati assolutamente normali (nel 2021 era anche uscita la colonna sonora Amperland NY). Semmai, se una pausa di riflessione c’è stata, questa è confluita nelle undici canzoni in scaletta, in cui a predominare è un andamento più lento e rilassato.

Il disco parte alla grandissima con Habitat, una canzone che inizia con quella giusta dose di elettricità che aveva contraddistinto molte cose dei lavori precedenti. Tuttavia, questo incipit “rumososo” dura ben poco e la canzone prende presto una strada acustica, immergendosi nei suoni della natura e in delicate atmosfere agresti. Da questo momento in avanti, lo spazio sonoro in cui si muovono i brani di 11:11 si fa più bucolico, quasi contemplativo, e i bordi più acuminati del background emo dei Pinegrove vengono levigati con cura, con l’unica eccezione del delizioso indie rock di Alaska, brano dal gancio melodico irresistibile.

Insomma, la band non cerca più quelle progressioni verso il climax esplosivo, Hall canta tenendosi su un registro medio e carezzevole, il suono delle chitarre si fa meno urgente, le ritmiche trattenute e mai invadenti. Ciò che è preponderante in 11:11 è, infatti, un mood deliberatamente pastorale, mai così evidente negli album precedenti: i gelidi sintetizzatori sono stati sostituiti dal suono caldo del pianoforte ("Flora"), le chitarre acustiche hanno assunto un ruolo centrale e la natura è protagonista assoluta nelle liriche di tutto l’album, ciò che appare del tutto evidente in brani come "Alaska" o "Swimming".

Una centralità che fa apparire il disco quasi come un concept dagli intenti ecologisti, che invita l’ascoltatore a tornare alla terra, abbandonare tutto (la città caotica, la superficialità dei rapporti umani, la logica del profitto), per ritrovare una primigenia dimensione naturale. Nonostante queste tematiche importanti e un approccio diverso al suono e agli arrangiamenti, i Pinegrove mantengono, però, intatta la sostanza della loro musica, che è fatta di melodie capaci di far vibrare le corde emotive dell’ascoltatore. In tal senso, mutate mutandis, 11:11 è un disco solido, che trova ulteriore forza espressiva in testi che, pur partendo da un punto d’osservazione soggettivo, riescono a veicolare un pensiero dalle connotazioni fortemente politiche: stiamo distruggendo il nostro mondo, cerchiamo di fare qualcosa prima che la deriva sia irreversibile.

VOTO: 7,5

 


 

Blackswan, mercoledì 09/02/2022

martedì 8 febbraio 2022

SOWING THE SEEDS OF LOVE - TEARS FOR FEARS (Fontana, 1989)

 


Quando nel 1989 vede la luce Seeds Of Love, i rapporti fra Curt Smith e Roland Orzabal sono, per usare un eufemismo, abbastanza tesi. Tanto che, alla fine delle registrazioni e del successivo tour, Smith se ne va, sbattendo la porta, stufo dell’egocentrismo di Orzabal e del suo modo cerebrale e pignolo di approcciarsi a composizione e produzione. Nonostante le ormai insanabili divergenze artistiche, però, l’alchimia musicale fra i due continua a funzionare al meglio, visto che il disco, pur palesando qualche pecca in fase di scrittura, contiene, comunque, alcune delle migliori canzoni mai pubblicate dalla band.

Costato un milione di sterline e il quasi fallimento della Mercury Records, Seeds Of Love si presenta come un album raffinato, un po' pretenzioso e ricco di sonorità jazzy e soul, che levigano elegantemente la grande passione di Orzabal per la musica dei Beatles. Come dicevamo, non tutto è centrato, a tratti il suono si fa verboso e ricco di orpelli, e la super produzione con ospitate di grido (Phil Collins, Manu Katchè, Oleta Adams), imbolsisce un po’ il tutto. Le cose buone, però, non mancano, a partire dal singolo Woman In Chains (straordinaria interpretazione vocale di Oleta Adams), al soul cristallino di Advice For The Young At Heart, e soprattutto, alla hit Sowing The Seeds Of Love, che, nonostante il minutaggio importante, raggiunge la top ten in Irlanda, Italia, Paesi Bassi, Nuova Zelanda, Spagna, Svezia, Regno Unito, mentre negli Stati Uniti, scala Billboard Hot 100, fino alla seconda piazza, e conquista la prima posizione nella classifica Modern Rock Tracks.  

La canzone è la summa del pensiero musicale di Orzabal: fondere il pop rock sixties di matrice beatlesiana con pennellate di elettronica, soul e psichedelia. Bersaglio centrato, visto che il brano suona esattamente come un pastiche dei Beatles, di cui, grazie anche a particolari tecniche di registrazione, replica il suono che i Fab Four avevano dato a Magical Mistery Tour.

A prescindere da questa lampante evidenza sonora, non tutti, però, sanno che il brano possiede forti connotazioni politiche. Sowing The Seeds Of Love, infatti, fu scritta nel giugno 1987, durante la settimana delle elezioni britanniche, in cui Margaret Thatcher e il Partito conservatore vinsero, ottenendo il terzo mandato consecutivo. L'elezione spinse Roland Orzabal a interessarsi attivamente alla politica, sposando in poco tempo gli ideali del socialismo. Il testo, in tal senso, è abbastanza esplicito, e contiene un riferimento chiarissimo alla vittoria della Thatcher e alle sue disastrose politiche di austerità: “Politician granny with your high ideals Have you no idea how the majority feels? So without love and a promise land, We're fools to the rules of a goverment plan”.

Strano a dirsi, ma nel testo di Sowing The Seeds Of Love, compare, poi, anche una poco velata polemica nei confronti di Paul Weller (che tra l’altro militava nella stessa fazione politica di Orzabal), colpevole di aver sciolto i Jam per dar vita agli Style Council, band evidentemente non gradita alla mente pensante dei Tears For Fears (“Kick out the style! Bring back the jam!”).

Un’ultima annotazione. Il video che accompagna la canzone è stato diretto dal regista Jim Blashfield, ha vinto due MTV Music Video Awards ed è stato realizzato con una particolare tecnica, in cui l’animazione, disegnata con matita su carta, venne poi trasferita su fogli di acetato fustellati e dipinta con colori acrilici.

 


 

Blackswan, martedì 08/02/2022

lunedì 7 febbraio 2022

PALACE - SHOALS (Fiction Records, 2022)

 


Il terzo album in studio della band londinese dei Palace è chiaramente figlio di questi due anni terribili, che hanno sconvolto il mondo e lasciato segni indelebili nelle coscienze. In tal senso, Shoals riflette sulle paure e le ansie, che sono state il nostro pane quotidiano durante i giorni della pandemia, attraverso dodici fascinosi brani, che esplorano i temi del subconscio, dei sogni e dell'esistenzialismo. Un notevole passo avanti, per il gruppo capitanato dal vocalist Leo Wyndham, che dopo il successo dei primi due album, con cui hanno creato una solida base di fan, ha provato, riuscendoci, a perfezionare e ridefinire il proprio suono, trasformandolo in qualcosa di più profondo e meditabondo, a testimonianza di una raggiunta maturità compositiva. E il risultato, non ce ne vogliano i fan della prima ora, è di gran lunga il miglior album della band britannica.

Il disco inizia con "Never Said It Was Easy", che introduce all’ascolto con grandi accordi di pianoforte e un riverbero importante, che ben bilanciano la stratificazione delle voci e testi commoventi del frontman Leo Wyndham, in un’atmosfera che richiama alla mente alcune cose di Bon Iver. Sebbene l'umore generale sia malinconico, la canzone suona tutt’altro che depressa e si percepisce, invece, un diffuso senso di speranza e di ottimismo. Questa vibrazione positiva scorre nelle vene anche di altri brani, a partire da "Shame On You", che replica il suono dei primi Coldplay, in "Fade", vibrante nella sua classicissima veste indie rock, e nel singolo "Gravity", il cui avvolgente fluttuare si poggia su una sinuosa linea di basso funky, che conduce a un ritornello vaporoso e accattivante.

Mentre la scaletta del disco scorre, l’impressione è quella che le canzoni crescano d’intensità, le strutture dei brani si facciano più dense, articolate, cariche di pathos.  Così "Give Me The Rain" e "Friends Forever", che rappresentano il cuore pulsante dell’opera, sono altri due momenti musicalmente appassionanti, venati di malinconia e deliziosamente melodici, così come l’altro singolo, "Lover (Don't Let Me Down)", che è perfettamente rappresentativo del mood sognante ed evocativo che abbraccia tutti i cinquanta minuti di Shoals. L’ultima parte del disco, a dire il vero, cala un po' d’intensità e risulta meno avvincente di quanto si è ascoltato prima: "Sleeper", "Salt" e "Shoals" sono tutti brani solidi ma rispetto ai precedenti suonano leggermente piatti e privi del medesimo livello d’ispirazione. Per fortuna, però, la canzone finale "Where Sky Becomes Sea" completa l'album così come è iniziato: una ballata essenziale e dolcissima, in cui la voce morbida e carezzevole di Wyndham trova spazio per brillare nuovamente su un tessuto di languori malinconici.

Shoals è una vera e propria vetrina sul nuovo corso intrapreso dai Palace, un disco ricco e dinamico, in cui però emerge una profondità compositiva dall’umore agrodolce, che abbinata a una voce emotivamente coinvolgente, alle eccellenti trame di chitarra e una sezione ritmica impeccabile, fa di questo lavoro un’ottima base di partenza per il 2022 musicale che verrà. Un album commovente e dall’intelligente appeal melodico, in cui nessuna traccia, anche quelle meno ispirate, risulta fuori posto.

VOTO: 7,5

 


 

Blackswan, lunedì 07/02/2022

venerdì 4 febbraio 2022

MILES KANE - CHANGE THE SHOW (BMG, 2022)

 


Se ripenso ai suoi dischi fino a oggi pubblicati, sia come membro dei The Rascals e dei Last Shadow Puppets, sia come solista, ho sempre l’impressione che dalla penna di Miles Kane possa uscire qualcosa di buono e che il mio credito nei suoi confronti sia praticamente illimitato. Non è solo questione di essere fan, è semmai il lascito di una ponderata fiducia, quella che mi fa essere sicuro, prima ancora di schiacciare il tasto play per ascoltare questo nuovo Change The Show, che le mie orecchie saranno deliziate da brillanti melodie pop e il mio piede non smetterà un secondo solo di tenere il tempo. Perché (oddio, mi rendo conto di quanto sia personale questo giudizio), Kane non sarà forse mai in grado di cambiare il corso della musica, ma è sicuramente capace di conquistarti senza il minimo sforzo con la sua innata brillantezza e il suo stile unico. Quando poi Kane è Kane al 100%, lo sguardo lucido di nostalgia rivolto agli anni ’60, la foto dei Beatles tenuta con cura nel taschino della giacca e una geneticamente comprovata passionaccia per il mod revival, quello filtrato dalla lectio magistralis di sir Paul Weller, allora il gioco è fatto.

Parte piano, Change The Show, con la bella "Tears Are Falling", bigiotteria beatlesiana che si trasforma in gioiello perchè declinata con eleganza di nobile blasone. E  nonostante le riflessioni esistenziali contenute nel testo, si capisce subito che la scaletta del disco sarà trainata da un surplus di vitalità, così potente da lambire i confini dell’euforia. La prova provata arriva con la successiva "Don't Let It Get You Down", irresistibile frenesia da dancefloor, il cui gancio pop entra in testa prima ancora di aver avuto il tempo di comprendere quanto siano incredibilmente brillanti gli arrangiamenti, seducente l’occhiolino strizzato alle sonorità sudamericane e semplicemente magica la linea melodica del ritornello. Funziona nello stesso modo "Nothing's Ever Gonna Be Good Enough", cantata in coppia con Corinne Bailey Rae, un up tempo che ti stende con un beat travolgente, quasi insolente nella sua sfacciata contagiosità e la cui incubazione dura il tempo di un unico ascolto.

In realtà, non c'è un solo momento durante Change The Show in cui Kane non abbia in pugno l’ascoltatore: a partire dal sornione canticchiare della citata "Tears Are Falling" fino alla ritmica travolgente del northern soul di "Tell Me What You're Feeling", al nostalgico divertissiment anni ’60 di "Caroline" o alle movenze sensuali della conclusiva "Adios", tutto, ma proprio tutto, suona deliberatamente accattivante.

Presentata come una raccolta di canzoni sulla sua vita e le sue esperienze, Change The Show è un album la cui briosa leggerezza è vera e propria manna dal cielo, che ci rinfranca dal grigiore di questi mesi di rassegnata tristezza. Per sua stessa ammissione, Kane dice di averci lavorato due anni, ma nonostante ciò questi brani suonano immediati, diretti e divertentissimi. Una sorta di vademecum su come scrivere la perfetta canzone pop: non un disco che sposterà gli equilibri, ma la cui contagiosa allegrezza è destinata a rendere migliori le nostre giornate.

VOTO: 7,5

 


 

Blackswan, venerdì 04/02/2022

giovedì 3 febbraio 2022

CRYSTAL SPIDERS - MORIERIS (Ripple Music, 2021)

 


Che i Crystal Spiders fossero una band dall’ottimo potenziale, lo si era capito fin dal loro album di debutto, Molt (2020), di cui in molti avevano parlato in termini assolutamente lusinghieri. Li aspettavamo al varco del secondo album, quindi, quello comunemente ritenuto il più difficile, per vedere se le buone impressioni sarebbero state confermate o se, invece, il loro approccio al metal, così grezzo e arrembante, fosse stato annacquato in favore di un suono meno estremo. Fortunatamente, la formula non è stata cambiata, e anzi, questo Morieris, testimonia un altro passo in avanti della band capitanata dalla cantante e bassista Brenna Leath.

Merito, è abbastanza evidente, di una presenza più sostanziale di Mike Dean: il leggendario bassista dei Corrosion Of Comformity, che aveva prodotto il debutto, ma si era tenuto in una posizione, per così dire, defilata, oggi è a tutti gli effetti il terzo membro e chitarrista della band. E non è circostanza da poco, visto che il suono di Morieris ha acquisito volumi e ulteriore sostanza, e la proposta doom/stoner, avvolta in spire psichedeliche e declinata con vista sulla notte, si è fatta decisamente più velenosa.

Lo si capisce fin dalla title track che apre il disco, un brano dal passo lento e pesante, stritolato da bassi rimbombanti, percosso dalla ritmica sinistra di Tradd Yancey, scartavetrato da un riff di sabbathiana memoria, e trasportato in una luciferina dimensione parallela dalla voce sensuale di Brenna. Siamo tornati e, ancora una volta, non facciamo prigionieri.

L’esiziale corpo a corpo continua, quindi, nella successiva "Septix", ferocia stoner allo stato puro, basso demoniaco, chitarre slabbrate e batteria martellante, che spingono l’ascoltatore in un antro oscuro e misterioso, in cui la voce veemente di Brenna affonda inquietanti staffilate psichedeliche. Con la terza e la quarta traccia, "Harness" e "Offering", i Crystal Spiders danno il colpo da ko: un uno - due che erge un fragoroso muro di suono, che cavalca schiumando tra le sabbie del deserto, una danza febbrile di elettricità, oscura come la notte, spaventosa come un cimitero, minacciosa come un sabba di streghe.

Sia "Pandora" che "En Medias Res" continuano questa corsa da brivido: la prima, esplode, come un fragore di tuono, in due minuti selvaggi da attraversare con il batticuore, mentre la seconda è lenta, caracollante, ma pervasa da un persistente lezzo sulfureo e da un inquietante invocazione alla tenebra. Un brano lungo, avvolgente, che solo apparentemente sembra far tirare il fiato all’ascoltatore. In realtà, lo stordisce, per poi colpirlo alla gola con la ferocia distorta di "Maelstrom", e invischiarlo, quindi, nel pantano ipnotico della conclusiva "Golden Paw", la ritmica cadenzata, il basso che spinge verso l’abisso, mentre la chitarra sgangherata di Dean sostiene le note acute e ammalianti della voce di Brenna.

Si conclude così questo viaggio nelle tenebre di una musica magnetica, fragorosa, urticante, con cui i Crystal Spiders confermano lo stato di grazia del debutto e salgono  parecchie posizioni di un’ipotetica classifica delle migliori band di genere.

VOTO: 8

 


 

Blackswan, giovedì 03/02/2022

martedì 1 febbraio 2022

NICKOLAS BUTLER - LA CASA VICINO ALLE NUVOLE (Marsilio, 2021)

 


Gretchen Connors sembra avere tutto: il fascino, un impiego prestigioso, un ricchissimo conto in banca e diverse proprietà tra una costa e l'altra degli Stati Uniti. Ma allora perché si è messa in testa di far costruire una lussuosa dimora tra le aspre montagne del Wyoming? E soprattutto perché pretende che sia pronta in pochi mesi? Quando Cole, Bart e Teddy, titolari della True Triangle Construction e amici da una vita, vengono assoldati per la gestione del cantiere, nutrono molti dubbi sulle motivazioni reali della signora, ma la somma esorbitante che gli viene offerta per consegnare l'appalto nei tempi prescritti, con la prospettiva di ricavare più soldi di quanti ne abbiano mai sognati, li convince ad accettare.

Cole, Bart e Teddy sono amici da sempre e conducono una vita ordinaria in un piccolo centro del Wyoming. Sono titolari della True Triangle Construction, un’impresa edilizia che prende appalti nella zona e consente loro di sbarcare il lunario. La vita, però, è dura, ci sono conti e bollette da pagare, e le prospettive di un futuro migliore sono ridotte all’osso. Così, quando Gretchen Connors, un’affascinante e misteriosa manager californiana, propone loro di costruire a tempo di record un’immensa casa arroccata sulle montagne, accettano con entusiasmo l’incarico, sedotti dal lauto compenso. L’impresa, tuttavia, si dimostra ai limiti dell’impossibile: il luogo tanto bello quanto impervio, le tempistiche ridotte e il clima inclemente, mettono a dura prova i tre uomini, che lentamente vengono trascinati in un gorgo di autodistruzione, che cambierà per sempre le loro esistenze.

Nonostante la trama a dir poco esile, Butler riesce, con la consueta maestria, a creare una narrazione palpitante, i cui inaspettati sviluppi vengono innescati come il timer di una bomba a orologeria, che deflagra in un’improvvisa svolta thriller, trasformando un’ordinaria storia di provincia in un noir dalle tinte fosche.  

A prescindere da questo primo piano di lettura, però, La Casa Vicino Alle Nuvole è soprattutto un romanzo che parla del collasso del sogno americano, dello sfruttamento della forza lavoro da parte di un’elite, che si appropria delle vite degli esseri umani e s’impadronisce del comune patrimonio naturale, modificandone la struttura, solo per appagare i propri sfizi. Da una parte, dunque, una minoranza, il cui spietato potere gestisce senza scrupoli il tessuto urbano e sociale della nazione, dall’altra, una maggioranza di poveracci, alla ricerca di un impossibile riscatto, che combatte un’aspra lotta per la sopravvivenza, il cui esito finale è, però, già scritto. Un racconto, quello di Butler, che tratteggia, quindi, il ritratto di una società brutale, in cui ogni speranza di realizzazione passa solo attraverso il denaro: La Casa Vicino Alle Nuvole è, in tal senso, il lamento disperato di una classe operaia travolta da un sistema nazione irreversibile, in cui la frenesia e il profitto hanno cancellato ogni residuo di etica e di buon senso.

Straordinario come sempre a rappresentare la vita della provincia americana e a raccontare storie virili di amicizia, in questo nuovo romanzo, però, Butler si concentra, soprattutto, sul messaggio politico, dimenticandosi, così, di approfondire i suoi personaggi che, a parte Gretchen Connors, restano tutti psicologicamente sfocati, ridotti come sono a piccoli ingranaggi di quella macchina feroce chiamata capitalismo.

 

Blackswan, martedì 01/02/2022