lunedì 31 ottobre 2016

CHRIS STALCUP AND THE GRANGE – DOWNHEARTED FOOLS



Chris Stalcup molto probabilmente sbarca il lunario con un’altra professione. Già, perché Downhearted Fools è il disco, detto con tutto il rispetto e l’ammirazione possibile, di un artigiano del rock americano che dà l’impressione di utilizzare la musica come un mezzo personale, un modo per raccontare le giornate noiose in Georgia, i vicini di casa intenti a risolvere chissà quale problema, la birra al pub, la pesca della domenica mattina al fiume. A voler ridurre all’osso questo Downhearted Fools ci si trova di fronte infatti a un onesto cesellatore di parole e note, uno di quelli insomma che passano le serate con la chitarra acustica sul divano, un quaderno ed una penna sempre a disposizione sopra il comodino e un whiskey da sorseggiare. Molti vivono il rock con questo approccio, la differenza sta nel risultato. E in questo caso, quando le canzoni passano dal soggiorno alla studio di registrazione, con l’aggiunta dei The Grange, il risultato resta confidenziale. Quello di Stalcup è dunque un disco di rock americano che fa della narrazione il suo punto di forza; prendiamo ad esempio un brano come “Pete and Clyde”, un flusso della coscienza su un giro armonico che abbiamo ascoltato in tante altre canzoni, e poi un lungo monologo parlato, a lasciare la backing back da sottofondo ipnotico. Eppure il fascino c’è, come nella iniziale “Ogeechee River”, il cui incedere acustico convince anche e soprattutto per il lavoro strumentale. Se infatti Stalcup non può vantare un’ugola degna di nota (che comunque basta per quanto ci vuole comunicare), i The Grange sono una bella band di supporto, quando tutti siamo consapevoli che fare rock per ricamare è molto più complesso e difficile che farlo per rumoreggiare. Purtroppo si percepisce una certa stanchezza nella costruzione e nel cantato, e due pezzi consecutivi come “Downhearted Fools” e “Get you off my mind”, se non viene posta la giusta attenzione, sembrano un’unica canzone. Si sentirebbe l’esigenza, è vero, di un cambio di tono, un ritornello che porti un po’ di sole e spudorata leggerezza, ma probabilmente è tutto voluto. Se poi la copertina (bellissima) riecheggia in maniera spudorata i quadri di Hopper, ecco che il conto torna: l’America della solitudine, delle strade desolate, dei racconti di Cheever e della crudezza di Cormac McCarthy. In definitiva, Downhearted Fools non va preso nella sua accezione più rock, perché può deludere l’ascoltatore mancandone i requisiti essenziali del genere. E’ invece un buon disco di americana, in cui la scrittura supera di gran lunga l’impatto. Per quanto invece riguarda l’altra professione, mi piace immaginarlo come un falegname, curvo su un tronco di un albero e con il pensiero rivolto alla prossima storia. 


VOTO: 6,5





Melonstone, martedì 01/11/2016

domenica 30 ottobre 2016

SUNDAY MORNING MUSIC



 

Jim Carroll Band - People Who Died

Ha appena compiuto 16 anni Jim Carroll quando Kerouak e Ginsberg si interessano ad alcune sue raccolte di poesie. Prende così il via la carriera letteraria di uno dei personaggi centrali del sommovimento culturale della New York degli anni ’70. Il 1978 è l’anno chiave: esce il romanzo autobiografico The Basketball Diaries in cui si narrano le vicende di un ribelle metropolitano dedito all’uso di eroina (nel 1995 diventerà un film con Leonardo Di Caprio) inoltre, incoraggiato dall’amica Patti Smith, nasce la Jim Carroll Band che due anni più tardi esordirà con Catholic Boy, disco imprescindibile della prima ondata Post Punk. Ramones e Lou Reed le principali fonti d’ispirazione: Punk Rock devastante e sensibilità poetica. 

 

 

 

Sister Rosetta Tharpe - Didn't It Rain

1964, tour inglese di Sister Rosetta Tharpe. Nel filmato la si vede, intabarrata in un elegantissimo cappotto bianco, scendere da un calesse sul piazzale di una piccola stazione ferroviaria e, una volta imbracciata la mitica Gibson Les Paul, prodursi in un’incredibile versione di Didn’t It Rain. Oltre i binari, una tribuna improvvisata gremita da ragazzi entusiasti che si farebbe meno fatica a trovare ai concerti dei Beatles. Niente di strano, Rosetta è la “Madrina del Rock’n’ Roll” e i Fab Four probabilmente non sarebbero mai esistiti senza di lei. Video bellissimo da preservare e diffondere.

 

 

 

North Mississippi Allstars - Rollin 'n Tumblin

Jim Dickinson, il grande musicista dell’Arkansas scomparso qualche anno fa (collaborazioni con Dylan, Stones, Ry Cooder e produttore di Replacements, Big Star e Tav Falco), andava sicuramente fiero della propria discendenza. Stiamo parlando di Luther e Cody e della loro band, i North Mississippi Allstars, una delle realtà più consolidate del Southern e del Rock/Blues americano. World Boogie Is Coming è stato uno dei dischi più genuini ed appassionanti del 2013 e lo scatenato traditional Rollin ‘n Tublin li rappresenta al loro meglio.

 

 

Porter Stout, domenica 30/10/2016

sabato 29 ottobre 2016

MELISSA ETHERIDGE – MEMPHIS ROCK AND SOUL (2016, Stax)



Melissa Etheridge non è certo una di quelle artiste che hanno rinnovato profondamente la musica; eppure, i suoi dischi sono sempre stati pervasi da una sincerità di fondo che l’ha fatta amare, dal pubblico e dalla critica, concedendole perfino il lusso di aggiudicarsi un premio Oscar nel 2007 e ben due Grammy Award. Le sue canzoni, infatti, possiedono quello spirito indomito e battagliero, a cui la Etheridge non ha mai rinunciato anche nel corso della vita, vincendo una grave malattia, raccontando senza veli la propria omosessualità e combattendo tutte le battaglie nelle quali vi fossero in gioco i diritti civili e le istanze dei meno fortunati. Una donna grintosa e irriducibile,  dunque, che ha saputo contaminare di inesauribile energia il suo melodico heartland rock (quasi sempre) diretto e senza fronzoli, essenziale quanto si vuole, ma sempre irrorato di trasporto e passione. Memphis Rock And Soul, nonostante sia un disco di cover, non smentisce l’assunto di cui sopra. Anzi, fin da subito, la prima cosa che viene in mente è per quale motivo Melissa abbia atteso così tanto tempo per affrontare un catalogo, quello della Stax, così adatto al suo timbro vocale graffiante e appassionato. Anche perché questi classici, che tutti ben conosciamo, non risultano affatto smunte repliche degli originali o impettiti omaggi al bei tempi che furono. Tutt’altro. La Etheridge, infatti, ci mette la consueta grinta e canta con trasporto, rispolverando brani noti che, se da un lato mantengono l’originaria morfologia, dall’altro, quello che conta, sembrano ardere di un nuovo fuoco. Così Melissa, prende armi e bagagli e se ne va a Memphis, dove ingaggia un gruppo di musicisti che la materia la conosce a menadito, per aver già suonato con un maestro come Al Green. Rispettato l’approccio filologico, la chitarrista originaria del Kansas aggiunge il graffio rock, quella peculiarità interpretativa che da sempre è presente nei suoi dischi, e fa decisamente centro. Brani tirati o ballate, la Etheridge non sfigura mai, e anzi rende addirittura credibile un’abusatissima I’ve Been Loving You Too Long di Otis Redding e fa ancora meglio degli Excitements, rispolverando la super hit Wait A Minute, portata al successo per la prima volta da Barbara Stephens. Melissa riesce, in definitiva, a reggere il confronto con il passato, senza essere schiacciata dal peso di straordinari evergreen, la cui scelta poteva rivelarsi un clamoroso passo falso. Invece, alla resa dei conti Memphis Rock And Soul è una scommessa vinta,  come tutte le battaglie che la Etheridge ha dovuto affrontare nella sua travagliata esistenza. Divertente e appassionato. 

VOTO: 7





Blackswan, sabato 29/10/2016

venerdì 28 ottobre 2016

TUNS – TUNS (Royal Mountain, 2016)



Se pensate che i Beatles siano stati i più grandi geni della storia del Rock, i R.E.M. la migliore band americana degli ’80 e gli XTC quella inglese, i TUNS sono il vostro gruppo preferito del 2016. Anzi il supergruppo preferito, perché Mike O’Neil, Chris Murphy e Matt Murphy (nessuna parentela tra i due) hanno alle spalle una lunga militanza in alcune tra le Indie band più conosciute del Canada, rispettivamente, Inbreds, Sloan e Super Fiendz. Tutte provenienti dalla scena underground di Halifax della prima metà degli anni ’90. La formazione è il più classico dei Power Trio, chitarra (Matt), basso (Mike), batteria (Chris): l’ABC del Rock’n’Roll.
TUNS (acronimo di Technical University of Nova Scotia, il college frequentato in gioventù dai due Murphy), è anche il titolo del loro esordio, che prevede in scaletta nove canzoni inedite di scintillante Power Pop. Mezz’ora in tutto da mandare a memoria da qui all’inizio dell’inverno per poi goderne a lungo. Perché, c’è da scommetterci, superata la prima fase del “mah, popettino innocuo”, ti si attacca alle orecchie come le dita delle zie nel più allucinante dei compleanni e non ti molla più. Fate la prova con il riff ipnotico di Mind Over Matter, la quarta traccia e se, dopo un paio di ascolti, non cominciate a fischiettarlo in giro per l’ufficio vuol dire che quell’ufficio dovete mollarlo: vi sta inaridendo peggio della sabbia del Gobi. Stessa storia con Back Among Friends, la killer-song che apre l’album rimandando ai gioiellini Pop/Rock di Romantics e Nick Lowe. 




Per non dire degli impasti vocali della solare Mixed Messages: producono gli stessi, prodigiosi, effetti della DeLorean di Ritorno al Futuro scaraventandoci all’istante, indietro negli anni, tra le mura del Cavern Club nel 1961, giusto in tempo per sentire anche Throw It All Away, la love song (vaporosa come zucchero filato) che Matt, Mike e Chris canteranno subito dopo nel brulichio di gridolini delle teenager sotto il palco. I TUNS hanno comunque il respiro più ampio, nel disco non c’è solamente l’amore viscerale per le melodie immediate dei sixties. Proseguendo nell’ascolto infatti, potremmo imbatterci nella psichedelia pulsante di Look Who’s Back In Town Again, l’avvolgente e fascinosa Lonely Life magnificata dal drummig ossessivo di Chris Murphy oppure, in Mind Your Manners, illuminante trattatello su come la frenesia ritmica debba applicarsi al Pop. Infine, To Your Satisfaction e I Cant Wait Forever, i due pezzi da applausi che chiudono l’album lasciandoci con emozioni contrastanti: appagamento misto a scontento. Troppo belle le canzoni della band canadese, troppo breve la loro durata. Il bis è dunque necessario per superare l’impasse. I TUNS sono destinati a monopolizzare gli stereo di chi bada sopratutto alla sostanza e se ne fotte allegramente di quanto possano essere derivativi. Da mettere su anche quando a cena ti capita davanti uno che ti fa due palle così su Jamie xx e non puoi mandarlo affanculo perché è il nuovo fidanzato di tua sorella. Nient’altro da aggiungere, grande esordio, grandi TUNS!

VOTO: 8





Porter Stout, venerdì 28/10/2016

giovedì 27 ottobre 2016

THE MARCUS KING BAND – THE MARCUS KING BAND



Che Marcus King sia un fuoriclasse assoluto non v’è alcun dubbio, e basta anche un rapido ascolto di questo disco, per renderci conto che siamo di fronte alla più interessante novità di un panorama, come quello del rock blues, spesso troppo legato a prevedibili clichè. Il primo ad accorgersi di quanto fosse bravo Marcus è stato Warren Haynes, che dopo averlo ascoltato suonare dal vivo, ne è rimasto folgorato, l’ha messo sotto contratto per la sua etichetta, la Evil Teen Records, e ha prodotto il suo primo disco, Soul Insight, che nel 2015 si è piazzato nella top ten di Billboard Blues. Niente male per uno sbarbato che ha da poco compiuto vent’anni, ma che è già in possesso di una maturità compositiva da musicista navigatissimo. Il suo retroterra è tutto merito del padre, il bluesman Marvin King, che lo ha svezzato con una discografia di grandi classici blues e lo ha voluto con lui sul palco, ancora minorenne, a farsi le ossa nei circuiti del South Carolina. La natura ha fatto il resto: una voce possente e graffiante da soulman di colore e un talento chitarristico che, pur essendosi formato all’ombra di miti come Duane Allman e lo stesso Haynes, ha acquisito ormai uno stile personalissimo. Un fuoriclasse, dicevamo, uno destinato a fare grandi cose e già pronto per essere annoverato fra i migliori interpreti del genere. Il suo secondo disco, che potremmo definire della consacrazione, è un’opera però straordinariamente eclettica, vivace e ricca di spunti creativi, tanto che inserire questo sophomore sotto l’etichetta di southern rock o rock blues si farebbe un torto a Marcus King e alla sua musica libera da convenzioni. Gli afrori sudisti ci sono tutti, così come anche la passione per il Memphis soul e la musica del diavolo; eppure King spiazza l’ascoltatore con un linguaggio multiforme, che pronuncia il verbo sudista con accenti jazz, funky e pop. 




La lezione del grande Duane Allman è stata mandata a memoria e quello che in altre mani poteva essere un solido disco di rock blues, nelle mani di King diviene un affresco cangiante, in cui la chitarra, svincolata dal dogma southern “riff graffiante e assolo interminabile”, preferisce esprimersi attraverso moduli jazzistici (qualcuno ha detto In Memory Of Elisabeth Reed?). Il disco spiazza fin dalle prime battute: jazz, soul e blues vestono di fiati la brillante Ain’t Nothing Wrong With That, un brano che travolge per il suo contagioso entusiasmo e svela di che pasta è fatta la chitarra di King, straordinario nel cesellare un assolo tanto icastico quanto scintillante. Self Hautred, con l’ospitata di Dereck Trucks, imbocca la strada della psichedelia e per cinque minuti e mezzo la sensazione è quella di ascoltare i Beatles di Taxman suonati da una Allman Brothers Band in trip lisergico. Rita Is Gone è un ballatone soul strappa mutande, con la voce miele e liquerizia di Marcus che ci massaggia l’anima, omaggiando il grande Otis Redding, mentre in Thespian Espionage si tenta un azzardo fusion, peraltro perfettamente riuscito, in cui fluato e chitarra elettrica si passano il testimone dell’assolo e la batteria di uno straordinario Stephen Campbell gioca con i controtempi. Insomma, si tratta di grandi pezzi che si smarcano dall’ovvio e cercano, con ottimi risultati, altre modalità di espressione. Eppure, anche in quei brani in cui King resta più legato a formule convenzionali, riesce a inserire qualcosa di prezioso per l’ascoltatore. Virginia, ad esempio, è un robusto brano southern attraversato dalle chitarre di King e Haynes (qui anche in veste di ospite), che dardeggiano assoli senza però essere mai invasive; e quando parte Radio Soldier, canzone dalla solida struttura rock blues, si resta a bocca aperta per l’incredibile riff arpeggiato che apre il brano e per l’assolo centrale di chitarra, che suona, fin dal primo ascolto, come un istant classic. Al secondo capitolo della sua discografia King ha fatto decisamente centro, rilasciando uno dei dischi più versatili, divertenti e ben suonati dell’anno. Pertanto, se amate gruppi come i Gov’t Mule e la Tedeschi Trucks Band, per citare un paio di nomi, non lasciatevi sfuggire questo disco: il ragazzino è un genietto e il futuro del genere è saldamente nelle sue mani.

VOTO: 9





Blackswan, giovedì 27/10/2016