mercoledì 29 giugno 2022

CUM ON FEEL THE NOIZE - QUIET RIOT (Pasha, 1983)

 


La storia discografica dei losangelini Quiet Riot inizia nel 1978, con due album omonimi, pubblicati a un anno di distanza l’uno dall’altro, che ottennero un ottimo riscontro in Giappone, ma senza una vera e propria hit che permettesse loro di agganciare il mercato statunitense ed europeo. Il successo, quello rotondo e appagante, arrivò solo nel 1983 con la pubblicazione del best seller Metal Health, il primo album heavy metal della storia ad aggiudicarsi la posizione più alta di Billboard, con oltre sei milioni di copie vendute.

Merito dell’exploit è dovuto soprattutto a Cum On Feel The Noize, cover di un grande successo dei britannici Slade, pubblicato dieci anni prima, nel 1973. Un brano glam rock, potente e innodico, dai colori sgargianti e dall’impatto energico devastante, che valse alla band anglosassone la prima piazza delle classifiche inglesi, raggiunta la settimana stessa della pubblicazione (cosa che non succedeva dai tempi, era il 1969, di Get Back dei Beatles).

Dal momento che le grandi canzoni sono in grado di attraversare il tempo senza mai perdere un briciolo della loro originale bellezza, la cover di Cum On Feel The Noize realizzata dai Quiet Riot riuscì a scalare le classifiche americane fino al quinto posto, nonostante i Quiet Riot fecero di tutto per non farla pubblicare.

Già, perché la band capitanata da Kevin DuBrow e Carlos Cavazo, quella canzone, non voleva proprio registrarla. Era stato, infatti, il produttore della band, Spencer Proffer, a spingere affinchè la cover del brano entrasse in scaletta, generando parecchi malumori da parte del gruppo, che voleva registrare solo canzoni originali. La cosa incredibile era che più il produttore insisteva, più i quattro ragazzi cercavano di prendere tempo. Quello gli chiedeva: “Allora, è pronta Cum On Feel The Noize, possiamo registrarla?”, e quelli, di rimando: “Sta venendo una favola, ci siamo quasi, manca davvero poco!”. In realtà, i Quiet Riot stavano cercando di sabotare l’idea di Proffer, sperando che tergiversando, il produttore si sarebbe arreso o dimenticato della canzone.

Alla fine, però, non fu più possibile procrastinare. La band entrò in studio scazzatissima, dicendo all’ingegnere del suono che quella registrazione sarebbe stata solo uno scherzo, nulla che bisognasse davvero prendere sul serio. Insomma, una cosa del tipo: “Registra, che ci facciamo due risate”. Quando il nastro partì, fu il batterista Frankie Banali a iniziare tenendo il ritmo, a cui si unirono il basso e la chitarra, mentre DuBrow se ne stava in disparte a ridacchiare, pensando a un clamoroso disastro. Ma disastro non fu, tanto che Proffer esclamò: “E’ fantastica! Peccato non averla registrata!”. Il nastro della registrazione, invece, c’era, cosa che fece imbestialire DuBrow, che fu quindi costretto a registrarvi sopra le parti vocali.

A prescindere dalla diversità di suono, le due versioni non combaciano completamente: i Quiet Riot, infatti, aggiunsero l’introduzione di batteria, che nell’originale manca, e siccome conoscevano poco il brano, omisero una strofa e un ritornello.

Anni dopo, Frankie Banali, intervistato, riconobbe la lungimiranza di Proffer, ammettendo che il produttore aveva fatto bene a inserire in scaletta quella canzone, che rappresentava la certezza in un songbook ancora tutto da scoprire di una giovane band alle prime arti: “La realtà è che, se non avessimo fatto quella canzone, probabilmente, in questo momento, stareste intervistando il batterista di un'altra band.”

Attenzione: se cercate su internet la canzone con il suo titolo originale, ben difficilmente la troverete. La parola ”cum”, che nel linguaggio comune indica lo sperma, è stata, infatti, sostituita con la più accomodante “come”.

 


 

 

Blackswan, mercoledì 29/06/2022

lunedì 27 giugno 2022

THE AMERICANS - STAND TRUE (Loose Music, 2022)

 


Ci eravamo quasi dimenticati dell’esistenza degli Americans, dal momento che dal loro convincente album d’esordio, I’ll Be Yours, sono trascorsi la bellezza di cinque anni. La band con sede a Los Angeles, composta dal frontman Patrick Ferris, dal chitarrista Zac Sokolow, dal bassista Jake Faulkner e dal batterista Tim Carr, torna alla ribalta con questo Stand True, un disco che dal punto di vista stilistico concede meno varietà del suo predecessore, ma che, per converso, ha il merito di affinare ulteriormente il loro suono, segnato da roots rock, country, americana, e da riferimenti classicissimi che vanno da John Mellencamp ai Drive By Truckers. In scaletta, undici solide canzoni, in riuscito connubio fra acustico ed elettrico, che parlano con passione di amore, tradimenti e perdite dolorose.

L'album si apre con la splendida title track, che prende il via con un godurioso fingerpicking in stile country, spostando presto gli accenti verso atmosfere bluesy, attraversate da scosse elettriche ed eccitate da un sontuoso assolo finale, tanto travolgente quanto ruvido. La band gira a mille, in palla e china sugli strumenti, facendo da contorno alla voce virile e appassionata di Patrick Ferris. Le oscillazioni vocali di Born With A Broken Heart, spalleggiate dalla potenza delle chitarre, danno vita a un viaggio emotivo tempestoso, che sembra uscito da un suggestivo incontro fra i Counting Crows e un Chris Isaak in overdose da testosterone.

Le struggenti storie d'amore di Isaak, opportunamente rivisitate con maggior spavalderia, tornano in mente nella grintosa Romeo (in cui si possono cogliere anche echi dei Dire Straits) e nel deliquio traboccante di sincero sentimento di What I Would Do, ballatona venata di soul, in cui Ferris si esibisce in una prova vocale di grande intensità. Il livello di scrittura, nonostante qualche momento più prevedibile, resta per tutta la durata del disco a un livello davvero notevole, come testimoniano la conclusiva Here With You, altro brano cantato con il cuore in mano e carico di emozioni, che sembrerebbe trattare la rabbia e il dolore che si prova a perdere qualcuno a causa della demenza, e nella dinoccolata Farewell, ballata in quota Dylan, che parla di un lutto e del disperato dolore per la morte di una persona cara, che ha sofferto tanto (“Sono felice che sia finalmente finita, Almeno lei è in un posto migliore”).

Se il fingerpicking di Guest Of Honor è un evidente richiamo alle canzoni più acustiche del loro primo album, l’emozionante Give Way, con le sue chitarre grintose, richiama la forza espressiva dei Creedence, mentre la scorticata Sore Bones è un tripudio di elettricità, che scuote con potenza le casse dello stereo. Resta da citare la ruvida cavalcata soul rock di The Day I Let You Down, evidente omaggio a The Band e uno dei momenti più alti di un disco profondamente americano e straordinariamente intenso. Da non perdere.

VOTO: 8

 


 

 

Blackswan, lunedì 27/06/2022

venerdì 24 giugno 2022

BRUNHILDE - 27 (CMM, 2022)

 


Giunti al quarto album in studio, dopo sette anni di carriera, i tedeschi Brunhilde tornano sulle scene con l’ambizioso 27, un concept album dedicato al leggendario Club dei 27, espressione giornalistica che si riferisce a un gruppo di artisti, in prevalenza cantanti, morti tutti all’età di ventisette anni, e di cui fanno parte figure iconiche come Brian Jones, Amy Winehouse, Kurt Cobain, Jim Morrison, Janis Joplin e Jimi hendrix, solo per citare i più famosi.

Ad aprire il disco, come a rimarcare l’omogeneità del progetto, sono le note sinistre di "Excerpts From Psalm 27", in cui una voce recitante declama i versetti del salmo biblico (il tema viene ripreso anche alla fine nell’altrettanto inquietante "The Book Of Revelation") dedicato al Trionfo della Fede (Il Signore è mia luce e mia salvezza). Un’intro dagli accenti orrorifici, che anticipa una scaletta assolutamente in linea con quelle che sono le consuete forme espressive della band: un aggressivo punk rock, in bilico tra derive metal e aperture radiofoniche, che consente di paragonare i Brumhilde ai primi Skunk Anansie e ai conterranei Guano Apes, due gruppi anch’essi guidati da figure femminili carismatiche come la vocalist Caro Loy, voce ruggente e bellezza luciferina.

Niente di nuovo sul fronte occidentale, per un disco prevedibile, a volte fin troppo, ma con alcuni momenti davvero riusciti. L’iniziale "Son Of A Gun" è una derapata di dinamico groove metal, che picchia duro e senza compromessi, a differenza della successiva e più debole "The Winner Takes It All", che inizia evocando i Korn, per poi perdersi in linee melodiche decisamente addomesticate.

Il brano nigliore del lotto è "Girl With 1000 Scars", rabbiosa e inquietante, con una notevole performance della Loy, a vestire i panni di una novella Nina Hagen. Un piglio punk metal, ribadito anche nell’oscura "Apartament 213" o nell’adrenalinica "SNAFU", due dei brani più riusciti di un disco, che trova momenti ispirati nelle aggressive linee sonore forgiate dalla chitarra di Kurt Bauereiss (il fulmicotone di "Eye For An Eye And Tit For Tat"), mentre altrove perde un po' di mordente, come in "Are The Kids All Rights?", brano dall’incedere monocorde, il cui ritornello, molto melodico, fa pensare a dei Cranberries in armatura metal.

Chiudono la scaletta, oltre alla citata "The Book Of Revelation", due cover, "The End" dei Doors, in una riuscita e spettrale versione per piano e voce, e una "House Of The Rising Sun" dal tiro heavy punk, il cui unico difetto è quello di essere un brano tanto inflazionato, da far provare quasi fastidio a riascoltarlo per l’ennesima volta.

VOTO: 7

 


 

Blackswan, venerdì 24/06/2022

giovedì 23 giugno 2022

HEAT OF THE MOMENT - ASIA (Geffen, 1982)

 


Gli Asia, uno dei supergruppi più tecnici di sempre: John Wetton (King Crimson e UK) al basso e alla voce, Carl Palmer (ELP) alla batteria, Steve Howe (Yes) alla chitarra e Goeff Downes (Yes e Buggles) alle tastiere. Una line up da urlo, la prima di tante, composta da musicisti tutti provenienti dal progressive, che decidono di affittare una sorta di casa delle vacanze, per essere liberi di dedicarsi a brani pop da classifica (senza, tuttavia, almeno in alcuni casi, dimenticare la complessità espositiva ereditata dalle rispettive band di provenienza).

L’omonimo esordio, datato 1982, resta, a tutt’oggi, il loro album migliore e anche quello più venduto, guadagnandosi, le settimane dopo l’uscita sul mercato, la prima piazza in diversi paesi. A trainare l’album il primo singolo, "Heat of the Moment", che rimane la loro canzone più famosa e raggiunse, negli Stati Uniti, la posizione numero 4 di Billboard Hot 100.

Il brano fu scritto da Wetton e Downes su impulso del bassista che, attraverso le liriche, intendeva chiedere scusa a Jill, la ragazza con cui stava (e che poi sposò) per averla trattata male (i primi versi, infatti, recitano: “I never meant to be so bad to you”). ”Heat Of The Moment”, che era stata concepita inizialmente come un brano dal sapore country, alla fine delle registrazioni, si trasformò in un energico e pompato brano pop rock, che descrive un'intensa relazione tra una giovane coppia che s’interroga su cosa accadrà quando entrambi invecchieranno.

Insomma, Wetton si cosparse il capo di cenere per cercare di riconquistare l’affetto dell’amata e per riuscirci, mise da parte l’orgoglio e gli atteggiamenti da rockstar, e aprì il suo cuore, mettendo a nudo l’anima. L’intenzione di Wetton, pur adottando canoni espressivi diversi, era quella di ispirarsi al cantautorato di Joni Mitchell, di cui era un fan sfegatato, e di scrivere, quindi, in prima persona, per sottolineare l’emotività della composizione. Esattamente, come aveva sempre fatto la cantautrice canadese.

I primi accordi del brano, furono composti da John Wetton l’anno prima della pubblicazione, quando si trovava in studio con i Wishbone Ash, per registrare “Number The Brave”. Quella traccia, poi, venne ampliata da Wetton e Downes in un solo pomeriggio e fu anche l’ultima canzone ad essere registrata dagli Asia, nonostante sia poi stata pubblicata come primo singolo.

Un’ultima curiosità legata al brano. “Heat Of The Moment” compare nella colonna sonora del film “40 Anni Vergine”, una leggera e spassosissima commedia diretta da Judd Apatow. Il personaggio principale del film (interpretato da Steve Carell) ha un poster di Asia appeso al muro della propria camera, circostanza, questa, che ironicamente aiuta a spiegare perché è ancora vergine a 40 anni. Wetton, che si disse entusiasta del film, trovò la cosa molto divertente, e affermò di essersi sbellicato dalle risate per la sequenza in cui Paul Rudd e Seth Rogen accusano Carell di essere gay, proprio a causa di quel poster.

 


 

 

Blackswan, giovedì 23/06/2022

martedì 21 giugno 2022

HARRY STYLES - HARRY'S HOUSE (Columbia, 2022)

 


Harry Styles ha iniziato la sua carriera musicale abbastanza presto, facendo un provino per X Factor nel 2010 e venendo ingaggiato, poi, da Simon Cowell per formare i One Direction con Niall Horan, Liam Payne, Louis Tomlinson e Zayn Malik. I One Direction si sono separati nel 2016, un anno dopo che Malik se ne era andato per dare inizio alla propria carriera da solista. Tutti i membri della boyband, a quel punto, hanno iniziato percorsi alternativi con vari gradi di successo, ma quella di Styles è stata di gran lunga la svolta più esplosiva, essendosi guadagnato, in poco tempo, due Brit Awards, un Grammy, un Ivor Novello Award e un American Music Award. 

Nella sua vita post-1D, Styles è diventato anche una sorta di musa creativa per i registi: Christopher Nolan ha detto che gli piaceva il suo "volto vecchio stile" e gli ha dato un ruolo in Dunkirk. A settembre, poi, Styles reciterà nel film giallo Don't Worry Darling, diretto da Olivia Wilde, che peraltro è anche la sua fidanzata. Un’immagine da star a tutto tondo, quindi, ma dai contorni gentili, avvalorata anche da una forte consapevolezza e da una mentalità aperta, grazie alla quale Styles si è schierato spesso su temi sociali di peso, attirando plausi da parte dell’opinione pubblica.

Con questo nuovo disco, lo stile dell’ex 1D si fa ancora più sciolto e creativamente flessibile, guarda al classic pop degli anni ’70 e al suono sintetico anni ’80, ma senza mai snaturare se stesso. Harry's House è, quindi, riccamente strutturato, deliziosamente sensuale, attinge da più generi senza sembrare derivativo e offre uno sguardo più vivido sulla personalità di Styles, di quanto non avessimo mai avuto prima.

In scaletta, ci sono, ad esempio, molteplici riferimenti al cibo, che Styles ama usare in relazione all'amore e al sesso. Nell'apertura dell'album, la fresca e funky "Music For A Sushi Restaurant,” Styles giustappone la lussuria sessuale a morsi gustosi: “Occhi verdi, riso fritto/ Potrei cucinarti un uovo/ A tarda notte, tempo di gioco/ Caffè sul fornello sì/ Sei un gelato dolce”.  Harry è affamato (di vita), riempie la sua casa di vino rosso ("Succo d'uva" in “Grapejuice”), cibi gustosi per la colazione ("Sciroppo d'acero, caffè, frittelle per due” in "Keep Driving"), ancora vino rosso e "una ginger ale" in "Little Freak" e "tè e toast" in "Matilda". C’è una profonda carnalità e un esuberante sensualità in questo continuo ammiccare ai piaceri della tavola, che permea quasi tutte le canzoni del disco.

Ma l'aspetto più straordinario di Harry's House è il suo stare in bilico tra coloratissima estroversione e un mood talvolta più famigliare e intimo. "Late Night Talking" possiede un vivace tiro indie-pop, le cui vibrazioni sembrano evocare Prince, il singolo principale "As It Was", è un ottimo esempio dell'ampiezza espressiva e del calore dell'album, una bomba melodica innescata da un giro di synth che ricorda "Take On Me" degli Ah-a, così come “Cinema”, dolce omaggio alla fidanzata Olivia Wilde, possiede un’armoniosa ossatura funky.

Altrove, invece, Styles ci colloca nell'ambiente rilassante di un giardino all'aperto, come, in "Grapejuice", che possiede il tocco vintage del crepitio di un vinile e parla di come sconfiggere l’ansia, dedicandosi a una deliziosa bottiglia di vino. Si ha l'impressione che questi morbidi momenti bucolici rispecchino un uomo che si avvicina ai trent’anni e che potrebbe optare definitivamente per un suono più intimo, come avviene nell’indie folk di “Little Freak” o nella splendida “Matilda”, meditabonda ballata soft pop dal cuore in mano.

Musicalmente, Harry's House è, quindi, il disco più ricco che abbia mai realizzato. Alcuni diranno che la casa di Harry contiene più mestiere che sostanza. Questa è una valutazione giusta solo in parte. E’ evidente che Styles sappia maneggiare il mainstream con intelligenza, puntando ovviamente al bersaglio grosso, che è quello di conquistare i piani alti delle classifiche. Ma in questo disco ci sono anche idee brillanti, arrangiamenti intriganti e momenti melodici decisamente irresistibili, e quasi mai banali. Per continuare con la metafora dell’appartamento, si può affermare che il ventottenne ragazzo di Redditch ha avuto gusto, evitando di riutilizzare il set di mobili abbinati, che mamma e papà hanno ricevuto come regali di nozze, e seguendo la tendenza del momento, ha utilizzato pezzi dai colori diversi e di diverse epoche. Una scelta che è l'equivalente sonoro di ciò che Styles ha fatto con Harry's House: l’amore di lunga data di Styles per le ere pop/rock classiche domina ancora, ma dopo tre album, l'ex One Direction è davvero diventato un raffinato designer con una visione variegata, fascinosamente retrò e al contempo inaspettatamente moderna. Se vi presenterete alla porta per un saluto, ne resterete affascinati.

VOTO: 7,5

 


 

 

Blackswan, martedì 21/06/2022

lunedì 20 giugno 2022

FOSTER THE PEOPLE - TORCHES (Startime/Columbia, 2011)

 


Esordire e prendersi tutto subito: una nomination ai Grammy, la top ten americana, la prima piazza in Australia, milioni di copie vendute con il singolo Pumped Up Kicks, una canzone che, ai tempi, restò per ben otto settimane stabilmente posizionata al terzo posto di Billboard.

Sono questi i numeri legati a Torches, primo disco dei Foster The People, band creata dal frontman Mark Foster dopo anni di dura gavetta. Una storia cominciata lontano, quando nel 2002, Mark, un talentuoso ragazzo dell’Ohio appassionato di musica, viene spinto dal padre a lasciare la provincia rurale per inseguire i suoi sogni di gloria nella rutilante Los Angeles. Qui, Foster, se la spassa tra feste e locali, ma è sempre pronto a tirare fuori la sua chitarra per intrattenere gli amici. Suona in alcune band locali, ma senza grande impegno, finisce per fare il cameriere e accantonare la sua passione, salvo poi, nel 2008, trovare lavoro presso la Mophonics, come autore di jingle commerciali. Di sera, si esibisce in un locale di musica elettronica accompagnato solo da un laptop, esperienza, questa, che per sua stessa ammissione, Mark definì mortificante, ma che, fortunatamente, sarà anche la scintilla per dare una svolta decisiva alla propria traballante carriera e decidere di mettere in piedi una band.

Foster decide, così, di arruolare alla causa il batterista Mark Pontius, uno studente di cinema, con alle spalle un’esperienza in varie band locali, e i Foster The People iniziano a esibirsi come duo, fino a quando, nel 2009, alla band si aggiungono anche il produttore Zach "Reazon" Heiligman e poi, il bassista Cubbie Fink, amico di lunga data di Mark e in quel momento disoccupato a causa dei nefasti effetti della recessione.

E qui inizia un’altra storia, fatta di milioni di copie vendute e di un inaspettato successo mediatico. Foster, infatti, scrive e registra una canzone intitolata Pumped Up Kicks e, nel 2010, la pubblica sul sito della band in download gratuito. Nel giro di qualche giorno, la canzone diventa virale, tanto che la rivista Nylon la utilizza per una campagna pubblicitaria online. E’ questo l’abbrivio che porta i Foster The People a pubblicare nel gennaio del 2011 un Ep omonimo contenente tre canzoni, "Pumped Up Kicks", "Houdini" e "Helena Beat", e quindi, l’album d’esordio, intitolato Torches e rilasciato il 23 maggio dello stesso anno.

Torches è un disco mainstream che più mainstream non si può, e non è infatti un caso che la metà delle canzoni in scaletta sia stata pubblicata anche come singolo. I brani, tutti firmati da Foster con il contributo di Greg Kurstin (produttore che ha lavorato con Beck, Foo Fighters, Adele, etc), Paul Epworth e Rich Costey (Sigur Ros, Muse, etc.), hanno uno sviluppo semplice e lineare, messo al servizio del ritornello, elemento fondamentale nella scrittura di Foster, uno che ha imparato ad andare subito al sodo, grazie al suo lavoro di autore di jingle pubblicitari. Questa struttura reiterata, tuttavia, non è priva di fascino: le melodie, infatti, sono irresistibili, gli arrangiamenti minimal, ma gustosissimi, e per tutti i trentotto minuti di durata dell’album si respira l’aria fresca e pulita di una splendente mattinata primaverile.

La tambureggiante Helena Beat apre il disco servendo subito una lezione su come creare una mirabile fusione fra pop ed elettronica, il ritornello entra in testa ancor prima che il brano finisca, e il suono dei synth, così sghembo e inusuale, sembra aver mandato a memoria la lezione degli MGMT di Oracular Spectacular. Pumped Up Kicks è la canzone simbolo dei Foster The People, un brano irresistibile, trainato da una melodia bubble gum e da una ritmica a cui è impossibile resistere, senza battere il piede o abbandonarsi a un morbido headbanging. Un brano famosissimo, che suscitò parecchie polemiche e anche la censura di MTV, in quanto incentrato sulla storia di un ragazzino disadattato, il quale trova la pistola del padre e decide di vendicarsi dei propri coetanei e di una società che non comprende il suo tormento interiore. Curioso come, da questa canzone, leggera e divertente, ma dalle liriche inquietanti, Foster, successivamente, prese le distanze, non tanto per il contenuto testuale, ma perché la trovava banale e mal strutturata, a causa di quel ritornello ripetuto per ben quattro volte a fine brano.

Il disco, nella sua leggerezza quasi adolescenziale, non ha però punti deboli e fila via sul velluto di un pop a presa rapida, sorretto, come si diceva, da arrangiamenti di finissima fattura. Call It What You Want è una chiamata alle armi per festaioli losangelini, possiede una sbarazzina ossatura funky su cui gigioneggia la voce rappata di Foster, Don’t Stop è un’altra bomba melodica che sembra scritta da degli Spoon in gita scolastica, Waste si srotola sinuosa verso un altro ritornello che manda ko, I Would Do Anything For You abbraccia vellutate atmosfere funky soul, e certi suoni (il basso, i synth) aggiungono alla pozione pizzichi di polvere dorata anni ’80, mentre Houdini, altro campione d’incassi, scritta da Foster in solo dieci minuti, brilla per l’uso magistrale delle tastiere oltre che per la consueta irresistibile carica melodica.

Chiudono il set le ritmate Life On The Nickel e Miss You, due brani che testimoniano la bravura di Foster nel far convivere ritmiche martellanti ed elettronica, e la conclusiva Warrant, il brano più lungo e strutturato del lotto, che sigilla un album delizioso e accattivante, una gemma pop che conquista fin da subito, diventando, ascolto dopo ascolto, sempre più contagiosa e virale.  




Blackswan, lunedì 20/06/2022

sabato 18 giugno 2022

WE'RE NOT GONNA TAKE IT - TWISTED SISTER (Atlantic, 1984)

 


Siete frustrati, vi sentite soffocare, c’è sempre qualcuno che vi dice cosa fare, come comportarvi, che vi impone regole rigide, obblighi e costrizioni? Beh, se vi sentite così, il consiglio è di prendere Stay Hungry, terzo album in studio degli americani Twisted Sister, di alzare il volume a palla, di schiacciare play sulla seconda traccia e iniziare a cantare a squarciagola: We're Not Gonna Take It! Probabilmente non risolverete nessuno dei vostri problemi, ma vi sentirete decisamente meglio.

Perché questa canzone possiede un intrinseco potere lenitivo, è una valvola di sfogo per gridare al mondo: mi sono rotto, lasciatemi in pace, io non sono come voi e non ho alcuna intenzione di chinare il capo di fronte alla vostra arroganza! Un brano dallo sviluppo antemico, un inno per chiunque voglia scagliarsi contro una figura autoritaria e sia pronto a combattere per la propria indipendenza.

Le liriche, tra l’altro, sono assolutamente neutre, non fanno riferimento a nessuno in particolare, ma ben si adattano a ogni situazione. Una scelta intenzionale, quella fatta dal cantante Dee Snider, per rendere universali i concetti veicolati e fare in modo che chiunque si possa immedesimare nel testo, dal ragazzino insofferente nei confronti dei genitori e dei professori, dall’adulto vessato da una soffocante dimensione lavorativa, dall’amante stufo e tradito, dal cittadino incazzato con la classe politica. Una canzone, quindi, che ha avuto un successo traversale, e che è stata usata per eventi sportivi, comizi politici e manifestazioni di protesta.

Dee Snider iniziò a scrivere il brano nel 1980, due anni prima che i Twisted Sister pubblicassero il loro primo album, Under the Blade, prendendo spunto dalla melodia di O Come, All Ye Faithful, una canzone di Natale che, in Italia, conosciamo con il titolo latino di Adeste Fidelis. Snider aveva in testa il gancio melodico, ma non riusciva a strutturare la canzone, almeno fino a quando non uscì Pyromania dei Def Leppard, un disco che fu la decisiva fonte d’ispirazione. Il cantante dei Twisted Sister, infatti, notava che molte delle canzoni dei Def Leppard utilizzavano variazioni del ritornello come strofe, e questa idea fu lo spunto che spinse Snider a completare We’re Not Gonna Take It, in tempo per essere inserita nel terzo album dei Twisted Sister, Stay Hungry, che è stato, poi, anche il disco della svolta, con cui la band uscì dai piccoli club per approdare alle arene.

We’re Not Gonna Take It, nel corso degli anni, ha spesso sconfinato dal mondo della musica a quello della politica. Nel 1985, il Parents Music Resource Center (PMRC), un gruppo guidato da Tipper Gore (la moglie del senatore Al Gore), promosse una campagna per ottenere etichette di avvertimento da incollare sui dischi che contenevano testi espliciti, e tra le prime canzoni messe all’indice c’era proprio il brano dei Twisted Sister, considerato violento e offensivo. Nel 2012, il compagno di corsa di Mitt Romney, Paul Ryan, ha usato la canzone durante la campagna presidenziale del Partito Repubblicano, scatenando così l’ira di Dee Snider, il quale si lamentò di non condividere alcuna delle idee proposte dal partito di Ryan. Strano, però, perché solo tre anni più tardi, la canzone fu usata anche da Donald Trump, le cui idee politiche si collocavano ancora più a destra. In questo caso, il cantante non se ne lamentò, e anzi, espresse il suo pieno appoggio a quello che in seguito sarebbe diventato Presidente, definendolo “un buon amico e un bravo ragazzo”.

 


 

 

Blackswan, sabato 18/06/2022

giovedì 16 giugno 2022

REEF - SHOOT ME YOUR ACE (Raging Sea Records, 2022)

 


Non sono certo di primo pelo, i britannici Reef, essendo in attività da metà degli anni ’90, decennio che li ha portati alla ribalta delle scene, grazie alla pubblicazione di un paio di dischi, Replenish (1995) e Glow (1997), ben accolti dalla critica e dal pubblico (l’esordio, per dire, si è guadagnato il disco d’oro). Poi, nel 2003, la band si scioglie, torna di nuovo sulle scene nel 2010, per un tour sold out, ma non pubblica più nessun disco in studio fino al 2018, quando esce Revelation, che vede nella line up il chitarrista Jesse Wood (figlio di Ron Wood) al posto del dimissionario Kenwin House.

Shoot Me Your Ace è, dunque, l’ennesimo ritorno sulle scene, di una band che, oltre ai nuovi Wood e Luke Bullen alla batteria, dell’ossatura originaria ha mantenuto solo il cantante Gary Stringer e il bassista Jack Bessant. La novità di maggior rilievo, però, è la presenza di Andy Taylor (si, proprio lui, il chitarrista dei Duran Duran) in produzione e come musicista aggiunto, il cui ottimo lavoro alla consolle, si sente, eccome. Shoot Me Your Ace, infatti, è un disco (il sesto per la precisione) di rock’n’roll molto più coeso e brillante rispetto al precedente Revelation, che era un lavoro molto buono, ma troppo eterogeneo, in cui gospel, country, rock e southern convivevano in modo un po' confuso e senza coordinate precise.

Taylor ha ricompattato l’ambiente e ha dato una linea precisa, contribuendo alla pienezza del suono con ottimi ceselli di chitarra. Una visione d’insieme efficacissima, che avevamo già apprezzato nel suo lavoro con i Thunder (Backstreet Symphony), e che è risultata vincente, nonostante l’ex Duran Duran, abbia un ben connotato background pop.

Anima vintage e tiro rockista, ma senza mai mostrare troppo i muscoli, Shoot Me Your Ace si apre con la spinta e il brio di della title track, un hard rock incisivo, che sprizza energia grazie all’interplay delle due chitarre, quelle di Wood e Taylor. Il singolo "Best Of Me" possiede il tiro di un brano degli Ac/Dc, accentuato dalla funambolica voce di Stringer, che sulle note alte sembra il sosia vocale di Brian Johnson.

Tutto funziona bene, sia nella melodia incisiva della stonesiana "When Can I See You Again?", sia nei riff serrati di "Wolfman", un brano in quota Led Zeppelin, sia quando la band ammorbidisce la proposta, aprendo alle dolci armonie vocali e all’atmosfera rilassata e solare di "Right On".

Certo, questo disco non ha pretese di originalità o di sconvolgere l’ascoltatore con chissà quale magica alchimia; ma i Reef dimostrano di essere in palla come ai vecchi tempi, sia quando sfoderano un rock blues grintoso come "Refugee", che possiede uno dei riff più poderosi dell’album (caro Jesse, il dna di papà si sente eccome) o quando vestono i panni delle pietre rotolanti nella conclusiva e granitica "Strange Love", che chiude un disco ruvido e gagliardo, e che conferma l'ottimo stato di salute della band britannica.

VOTO: 7

 


 


Blackswan, giovedì 16/06/2022

martedì 14 giugno 2022

GIRLS AND BOYS - BLUR (EMI, 1994)

 


Se con Modern Life Is Rubbish (1993) il mondo si accorge dei Blur, è, però, Parklife, pubblicato l’anno successivo, in piena esplosione del fenomeno brit-pop, a portare la band capitanata da Damon Albarn ai vertici delle classifiche europee, e non solo. Un disco libero nella forma, che cita le radici del rock anglosassone, ma lo fa con una freschezza inusitata e un’attitudine melodica che conquista fin dal primo ascolto, grazie a singoli di presa immediata come la title track, To The End, End Of A Century e, soprattutto, un vero e proprio tormentone come Girls And Boys.

La canzone, che debuttò alla quinta piazza delle classifiche inglesi e arrivò alla quarta posizione nella modern rock chart di Billboard, fu scritta da Damon Albarn dopo essere stato in vacanza a Magaluf, sull'isola spagnola di Maiorca. Albarn rimase sconcertato nel vedere tutta quella gioventù che entrava e usciva dai locali, beveva e ballava, e poi copulava senza freni inibitori e, soprattutto, senza criterio e senza consapevolezza. Una feroce satira, quindi, nei confronti della cultura edonistica coltivata nei locali alla moda degli anni ’90 e sulla promiscuità sessuale del tempo.

Albarn ha, comunque, sempre negato che la canzone avessi intenti moralisti, anche se quel verso ripetuto (“Ragazze che vogliono ragazzi, A chi piace che i ragazzi siano ragazze, A chi piacciono le ragazze come se fossero ragazzi, Dovrebbe essere sempre qualcuno da amare davvero”) suggerirebbe esattamente il contrario: se dovete fare sesso, fatelo con le persone a cui volete bene.

Di sicuro, visto il clamoroso successo commerciale del brano, quei giovani stigmatizzati nella canzone e definiti con il termine “herd” (mandria), non compresero il significato più profondo del testo, e continuarono allegramente a ballare Girls And Boys, dando involontariamente ragione alla mordace e sarcastica immagine, che di loro diede Albarn.

D’altra parte, come affermò il chitarrista Graham Cox, in un’intervista rilascia a NME nel 2013: “È la tipica canzone divertente, a cui il pubblico risponde. Principalmente, perché non c'è niente di troppo complicato in essa e ha una sorta di ritornello cantilenante e questa strana connotazione sessuale. È un ritmo da discoteca con testi su vacanze e sesso. È una risata totale". Salvo, poi, mettere le mani avanti, affermando che il brano era stato scritto dopo aver osservato la gioventù, ma senza alcuna esperienza diretta da parte dei componenti della band. Come a dire: noi eravamo dei ragazzi seri, non certo come quelli là.

 


 

 

Blackswan, martedì 14/06/2022

lunedì 13 giugno 2022

KEVIN MORBY - THIS IS A PHOTOGRAPH (Dead Oceans, 2022)

 


A soli trentaquattro anni, Kevin Morby ha già alle spalle un passato artistico di tutto rispetto ed è diventato un punto di riferimento fondamentale per il circuito indie americano. Texano d’origine, ma trapiantato a Kansas City, il cantautore vanta nel proprio curriculum la militanza in due band indie rock di successo, Woods e The Babies, e questo, prima di dare vita a un’intensa carriera solista, attraverso sette dischi, tutti di altissimo livello. Musicista inquieto, ma al contempo devoto all’understatement dell’uomo qualunque, Morby ha vissuto in diverse città degli Stati Uniti, da Los Angeles a New York City, e ha viaggiato di continuo, nei luoghi più disparati, per accumulare esperienze che potessero arricchire e influenzare la propria arte.

Non è un caso, quindi, che This is a Photograph, il suo settimo disco in studio, sia, in tal senso, un lavoro eterogeneo (ma non incoerente), figlio della propria sfera privata, certo, ma anche delle tante influenze acquisite nel suo febbrile girovagare e della vita vissuta, quella vera, quella delle persone che vivono al di fuori della bolla dello star system, da cui il cantautore americano si è sempre tenuto lontano.

Morby si è risintonizzato con Sam Cohen, con cui aveva già collaborato in passato a dischi splendidi come Singing Saw del 2016 e Oh My God nel 2019 ed è andato a registrare a Memphis, città nella quale si è trasferito per qualche tempo.

Vivere in prima persona i luoghi della sua musica, ha sempre giocato un ruolo fondamentale per le canzoni di Morby e il suo tempo trascorso a Memphis entra in gioco direttamente anche per This is a Photograph. Rinchiuso al Peabody Hotel, Morby ha, infatti, assorbito l'essenza della città e dei suoi suoni, che poi ha filtrato attraverso la propria sensibilità. Ciò è particolarmente evidente, ad esempio, in "A Coat of Butterflies", un sincero omaggio al compianto Jeff Buckley, scomparso 25 anni fa, proprio nelle acque del Wolf River, un affluente del Mississippi.

Perché This is a Photograph è un disco che parla delle connessioni che il cantautore ha sia con luoghi, sia con le persone che fanno, e hanno fatto, parte della sua vita. La title track, ad esempio, apre una finestra sul passato, con Morby intento a sfogliare un album fotografico, quando scopre una foto di suo padre, giovane e a torso nudo, in posa su un prato. Poche ore prima di scoprire la foto, suo padre gli è crollato davanti per un malore, ed è stato portato d'urgenza in ospedale, in gravi condizioni. Una storia tratta dalla vita reale, che spinge, tuttavia, a riflettere su quegli affetti che spesso diamo per scontati, e di cui si comprende l’importanza solo quando si rischia di perderli.

E’ inevitabile, quindi, che il cantautore parli anche d’amore, e racconti, con il cuore in mano, del suo rapporto più importante, quello con la sua compagna di vita. Per la maggior parte degli ultimi cinque anni, Morby ha avuto una relazione con Katie Crutchfield, alias Waxahatchee. I due si sono incontrati durante un tour, hanno poi collaborato spesso tramite sessioni di cover live pubblicate su Instagram, e hanno persino lavorato insieme per una rilettura del classico dei Velvet Underground, After Hours. Ecco, quindi, che il songwriter texano, cede al romanticismo, rivolgendosi a Katie nella meditativa "Stop Before I Cry", promettendo amore eterno nel verso: "Posso vivere nelle tue canzoni per sempre, e tu puoi vivere nelle mie” e toccando vertici di appassionato lirismo, quando declama: "Perché Katie, quando canti per me, e’ come una melodia che viene dalla montagna, che esce dal mare, che si ferma nelle pianure o su, in un cielo di Mémphis."

C'è un profondo senso di adorazione nelle parole di Morby contenute in questo This is a Photograph, parole destinate ai suoi cari, ai luoghi della sua memoria, a quelle che sono, e sono state, le sue influenze. Un disco che cerca di veicolare amore e positività, anche nei momenti in cui tutto è sul punto di crollare, anche quando, come nella meravigliosa "A Random Act Of Kindness", non ci sono più né tempo né denaro, ma la speranza è ancora in grado di lenire le ferite di un grande dolore.

Oggi, Morby, è un artista a tutto tondo, che ha il pieno controllo di quello che fa, e la cui scrittura, dal passo caracollante, arriva esattamente dove si è prefissa di arrivare, nello specifico, grazie anche a straordinari arrangiamenti, che danno lustro a ogni nota suonata. Soprattutto, però, il ragazzo del Texas, è rimasto sé stesso, una persona qualunque, che vive una vita normale e indaga sui sentimenti che prova ogni giorno. Un grande narratore lo è sempre stato, ma il racconto contenuto in This Is A Photograph, è così profondo e così vulnerabile, che questo potrebbe anche essere considerato il suo lavoro migliore.

VOTO: 8

 


 

 

Blackswan, lunedì 13/06/2022

giovedì 9 giugno 2022

YESTERDAY WILL BE GREAT - THE WEATHER IS FANTASTIC (Bloom Recordings, 2022)

 


Sono passati ormai tre anni da Y, disco d’esordio dei romagnoli Yesterday Will Be Great, un album che aveva colpito per la messa in scena diretta e priva di fronzoli e per un pugno di canzoni immerse in un’ipnotica circolarità post rock, alchimia fra visioni lisergiche, inquietudine noise e solenne lirismo. Un primo passo importante, che ha spinto verso l’alto l’asticella delle aspettative, per un sophomore che aveva l’arduo compito di replicare le ottime impressioni suscitate a suo tempo.

The Weather Is Fantastic, registrato con la supervisione di Nicola Manzan (Bologna Violenta, Ronin), nonostante il cambio di line up, con l’entrata di Giuseppe De Domenico al basso, al fianco di Simone Ricci (chitarra) e Daniele Mambelli (batteria), conferma il piglio energico e la visione d’insieme del suo predecessore, testimoniando lo stato di salute di un trio capace di maneggiare una materia nota con consapevolezza e padronanza, arricchendo le consuete bordate elettriche post con digressioni che rendono ancora più ampio il loro raggio d’azione.

Registrato quasi del tutto in presa diretta, nella seconda metà del 2021, presso il PMS Studio di Alfonsine (RA), The Weather Is Fantastic è la fotografia di un mondo desolato e perso in un’irreversibile deriva etica, di una società caotica, violenta e disillusa, che ha smarrito la propria profonda identità e vive di stereotipi e banalità, concetto ribadito anche dal titolo dell’album, che ammicca a quelle insulse conversazioni sul tempo, figlie di una comunicazione posticcia e atona.  E’ la superficialità dei nostri tempi, di un’umanità che non conosce più il senso della profondità e della lentezza, vite di piccolo cabotaggio, ferme nelle acque apparentemente tranquille dei propri limitati approdi, ma incapaci di gettare lo sguardo verso l’orizzonte e di cercare nell’alterità una nuova visione.

Le sei canzoni che compongono la scaletta rispecchiano questi concetti con il consueto approccio ambivalente che permeava anche il precedente lavoro. Da un lato, le atmosfere livide, le spirali discendenti, gli sprofondi verso crinali bui, gli smarrimenti emotivi e il fiato corto e aspro, di chi ha perso la rotta in un territorio ostile, in cui anche le melodie più dolci ("Little Blue Flower"), possiedono un retrogusto amaramente sinistro, oppure s’infrangono nello sciabordio impetuoso di acque limacciose ("Trees/Giant"). Dall’altro, la scelta di sei canzoni interamente strumentali, il cui intento è scartare dall’ovvio, da una formula prevedibile e più compiacente, per spingere l’ascoltatore fuori dalla dimensione di comodo di un ascolto orizzontale, e cercare, invece, quel rapporto complesso e profondo che dovrebbe, sempre, instaurarsi con qualsiasi forma d’arte. La foto di un’umanità sull’orlo del baratro, quindi, ma anche la mano tesa di una musica che è invito ad alzare la testa, a guardare, di nuovo, lontano.

In un panorama omologato e piatto, in cui la dominante estetica del pensiero unico appiattisce le emozioni, gli Yesterday Will Be Great scelgono così di andare controcorrente, abbandonandosi al fiume in piena dell’improvvisazione: liberare la mente, aprire il cuore e strattonare gli strumenti, alla ricerca di una sincerità espressiva senza filtri, in cui l’uomo e il musicista tornino centrali, esprimendo quel complesso e fascinoso sistema, che lega indissolubilmente cuore e cervello.

Tra rabbia e malinconici languori di dolcezza, tra minimalismo fosco e rumorosa irruenza elettrica, il suono sporco della band romagnola coglie l’essenza stessa di uno stile, il post rock, e tratteggia i contorni cupi di un’umanità in debito di ossigeno, a cui resta una speranza che sta tutta nel potere lenitivo dell’imperfetta bellezza della musica. Perché il tempo, oggigiorno, è tutto tranne che fantastico, ma dietro le nuvole si nasconde sempre il sole. Basta cercarlo.

VOTO: 8

 


 

Blackswan, giovedì 09/06/2022

martedì 7 giugno 2022

TINY DANCER - ELTON JOHN (DJM Records, 1971)

 


Blue-jean baby, L.A. lady, Seamstress for the band…” recita uno degli incipit più celebri della storia del rock, una dolcissima ballata per pianoforte, scritta da Elton John e inserita nel suo Madman Across The Water del 1971. Le liriche, come di consueto, furono scritte dall’amico e pigmalione artistico, Bernie Taupin, il quale fu ispirato dal primo viaggio fatto negli Stati Uniti al seguito di John e della sua band.

Spesso, si pensa che la canzone fosse dedicata da Bernie alla sua fidanzata Maxine Feibelmann, che divenne la sua prima moglie nel 1971. E’ lei la blue-jean baby, la sarta (seamstress) per la band, di cui all’incipit citato poco sopra. Maxine, infatti, aveva accompagnato il fidanzato nei primi tour di Elton John, e aveva dato il suo contributo cucendo i costumi di scena e rammendando i vestiti dei musicisti. Non è un caso, quindi, che il suo nome compaia fra i ringraziamenti nei crediti di Madman Across The Water.

Tuttavia, tempo dopo, fu lo stesso Taupin a negare che la canzone fosse dedicata alla moglie, raccontando, invece, che il brano era un omaggio alla California (L.A. Lady), dove si era recato insieme a John nell’autunno del 1970. Dalla sua prospettiva, tutta anglosassone, era un sogno trovarsi in un posto in cui splendeva sempre il sole, tanto che gli abitanti sembrava proprio che irraggiassero luce. Il suo intento, dunque, era quello di cogliere e cristallizzare le sensazioni del momento, e di omaggiare le donne che aveva incontrato in quel posto dalle atmosfere magiche, soprattutto quando si recava con l’amico nei negozi di abbigliamento, su e giù per lo Strip. Bernie voleva raccontare queste splendide creature, che erano spiriti liberi, disinibiti, vestite di jeans aderenti all’anca e camicette di pizzo, e sensuali nelle movenze. E tutte, proprio tutte, con amorevole gentilezza, si offrivano di cucirgli toppe colorate sui pantaloni. Altro che Inghilterra! La California era un vero e proprio paradiso sulla terra.

Quando iniziò a pensare al titolo da dare alla canzone, Taupin, in un primo momento, optò per Small Dancer o Little Dancer. Nessuna delle due soluzioni, però, lo convinceva completamente, perché trovava entrambi i titoli molto prevedibili e poco orecchiabili. Alla fine, ebbe l’intuizione, ed utilizzò quella che definì una licenza poetica, Tiny Dancer, il cui aggettivo Tiny, ovvero minuscolo, ben si adattava alla grazia delle ragazze che aveva incontrato.

La canzone non fu mai pubblicata come singolo in Inghilterra, mentre negli Stati Uniti ebbe una tiepida accoglienza, raggiungendo soltanto la piazza numero 41. Il motivo del fallimento è dovuto all’eccessiva durata del brano, ben sei minuti e dodici secondi, un minutaggio, questo, inviso a molte stazioni radio, che vista la lunghezza, si rifiutavano di passarla.

Eppure, nel corso degli anni, Tiny Dancer è diventata uno dei classici del repertorio di Elton John, trovando finalmente il successo commerciale dopo il 2000, quando fu inserita nella colonna sonora del leggendario Almost Famous (Oscar per la miglior sceneggiatura originale), film diretto da Cameron Crowe, interpretato fra gli altri, da uno straordinario Philip Seymour Hoffman, nel ruolo del critico musicale Lester Bangs. Il brano compare durante una sequenza in cui la band, che viaggia sul tour bus, vive un momento difficile e depresso; bastano, però, poche note di Tiny Dancer, perché tutti inizino a cantarla, ritrovando nell’amore per la musica, quel legame e quelle motivazioni che stavano vacillando. Elton John fu piacevolmente sorpreso dall’inserimento del brano nella colonna sonora del film, arrivando a dire che Cameron aveva letteralmente resuscitato la canzone. Impossibile dargli torto: quando negli anni successivi, divenne possibile il download digitale, nel 2005 Tiny Dancer fu certificata Gold per aver venduto ben 500.000 copie, arrivate a 3.000.000 nel 2018.
 
 

 
 
Blackswan, martedì 07/06/2022

lunedì 6 giugno 2022

MALEVOLENCE - MALICIOUS INTENT (Nuclear Blast, 2022)

 


Dopo due album notevoli, Reign Of Suffering (2013) e Self Supremacy (2017), che sono valsi ai Malevolence lo status di giovani promesse del metal, la band britannica, originaria di Sheffield, torna sulle scene con un terzo lavoro che, non solo ha tenuto fede alle aspettative, ma che rappresenta un ulteriore passo verso l’alto di una discografia inappuntabile.

Un disco, Malicious Intent, di altissima qualità, che definisce ulteriormente lo stile di una band capace fino ad oggi di proporre con idee e intelligenza una musica brutale e declinata con giovane spavalderia. Un suono immediatamente riconoscibile che, però, non fa mistero delle proprie radici, innestate nel fertile terreno groove degli anni ’90 e nei riff caotici e pesanti mutuati dalla tradizione metalcore. E così, la band britannica, pur mantenendo un proprio codice identificativo, si pone in un’ipotetica terra di mezzo in cui sono accampate le armate dei Pantera e dei Trivium, solo per citare due dei riferimenti più lampanti (e non è un caso che Matt Heafy dei Trivium compaia nell’oscura e devastante "Salvation").

Non sorprende, quindi, che nove dei dieci brani in scaletta colpiscano l’ascoltatore con la stessa forza letale di una mazza da baseball sul cranio, tra voci ringhianti, riff serratissimi, ritmica esplosiva, senza, tuttavia, dimenticare, qui e là, di suggerire anche qualche gancio melodico dall’oscuro potere antemico ("Above All Else").

Una brutalità imperante, ma non fine a se stessa, perché queste canzoni, oltre a esprimere una grande consapevolezza su quelli che sono i riferimenti stilistici, testimoniano un approccio non lineare alla scrittura (i cambi tempo e la struttura a frammentazione della title track) e la capacità di creare una perfetta creatura simbiotica fra dinamismo groove e ferocia hardcore (la devastante "On Broken Glass").

A far da spartiacque nel magma ribollente di Malicious Intent, a metà album, compare anche un inaspettato e suggestivo rallentamento della tensione; e così, quando parte "Higher Place", una virile ballata dagli accenti epici, si comprende come i Malevolence siano una band capace anche di giocare dall’altra parte del campo, dove la forza bruta lascia il passo a una melodia tanto scorticata quanto avvincente e irresistibile.

Groove, hardcore o metalcore, poco importano le definizioni: i Malevolence possiedono un’identità ben precisa, e una passione e un’attitudine che faranno breccia nel cuore di tutti coloro che amano le sonorità più estreme. Se l’heavy metal, oggi, è un genere ancora in salute, con milioni di adepti sparsi in tutto il mondo, lo si deve proprio a band e ad album di questa caratura.

VOTO: 8

 


 

 Blackswan, lunedì 06/06/2022

 

venerdì 3 giugno 2022

IAN NOE - RIVER FOOLS & MOUNTAIN SAINTS (Thirty Tigers, 2022)

 


Che il Kentucky sia divenuto oggetto di una fertile narrazione da parte di una formidabile nuova generazione di cantautori country, tra cui Sturgill Simpson, Kelsey Waldon e Tyler Childers, è un dato oggettivo. A questo notevole elenco di musicisti si aggiunge anche Ian Noe, che di quella terra è figlio, e il cui nuovo album, River Fools and Mountain Saints, è un ritratto coinvolgente e appassionato delle vite e della società nella regione degli Appalachi.

Noe, prima di emergere come musicista, aveva lavorato come subappaltatore edile e poi su una piattaforma petrolifera. Lavori duri, che forgiano il carattere e che sono state esperienze di vita che hanno influito, e non poco, sulla scrittura di liriche sempre in bilico fra crudo verismo e romanticismo. Noe ha continuato però a coltivare il suo sogno, suonando in piccoli locali del circuito folk, fino a quando non è stato notato, nel 2019, dal grande John Prine, che l’ha preso sotto la sua ala protettrice.

Dopo un EP autoprodotto, Noe è riuscito a dare alla luce il suo primo album in studio, Between the Country, prodotto dal guru Dave Cobb, dimostrando fin da subito un talento naturale per una delle cose più difficili che un cantautore ispirato alle radici possa fare: tratteggiare lucidi ritratti regionali attraverso un linguaggio semplice e familiare, che avesse però la forza di uscire dagli stretti confini della sua terra e diventare universale. E che avesse una visione lucida sulla vita nella complicata regione degli Appalachi di oggi, era abbastanza chiaro in canzoni straordinarie come "Meth Head", "Junk Town" e "That Kind of Life".

River Fools and Mountain Saints, concepito durante il periodo buio della pandemia, inanella una serie di ritratti acuti di personaggi tratti dalla realtà circostante: depressi, marginali, spesso ubriachi, alcuni con delle fisse musicali, molti inclini ad atti impulsivi, tutti alle prese con il declino delle loro città, gli sconvolgimenti climatici e travolgenti disastri naturali.

Prodotto dallo stesso Noe e da Andrija Tokic, che ha lavorato con gruppi roots-rock come Alabama Shakes e Hurray for the Riff Raff, il disco dispiega svariati strumenti di accompagnamento, tra cui pedal steel, corno francese e organo, che arricchiscono il suono della chitarra acustica del cantante, principale protagonista dell’opera.

Ci sono tante storie in queste canzoni dagli umori mutevoli. "Strip Job Blues 1984", un brano dal sapore bluesy guidato dal violino, riguarda un camionista che trasporta carichi di estrazione mineraria, ben consapevole che a breve si ritroverà senza un lavoro e nessuna casa a cui tornare (“dicono che quello che guadagni non compensa quello che perdi"). "Ballad of a Retired Man", al contrario, è la toccante e sommessa storia di un veterano del Vietnam, ormai anziano, che si ritira dal proprio lavoro di asfaltatore di strade e si ritrova a morire, senza cure, solo con il conforto dei propri nipoti. Una guerra imprecisata è la protagonista di "POW Blues", un rock martellante, che racconta di un prigioniero, detenuto in una terra straniera, che desidera disperatamente tornare a casa, all’amato Kentucky.

La canzone "River Fool", a cui si fa riferimento nel titolo dell'album, è, invece, un racconto dedicato a un bevitore di vino, che "trascorre le sue giornate in una foschia fangosa", strimpellando occasionalmente successi dei Creedence Clearwater Revival su una vecchia chitarra, mentre "Appalachia Haze" è una foto di gruppo che immortala alcuni abitanti del Kentucky (un vagabondo, una donna alcolizzata, un politico che promette che le cose cambieranno), inserendola in una cornice vividissima di pini tagliati e ponti lavati dalle acque alluvionali. La scaletta si conclude con un mix sorprendente, in cui “Road May Flood”, storia di un uomo che ha perso la moglie a causa di un’alluvione, si innesta perfettamente su una lenta rilettura di "It's a Heartache", brano del 1977 a firma Bonnie Tyler.

Ian Noe, in River Fools & Mountain Saints, accompagna l’ascoltatore in luoghi che conosce a menadito, in quella terra che lo ha cresciuto e verso la quale prova contrastanti sentimenti di amore e odio. E lo fa, raccontando storie di uomini e donne, senza, però, instillare compassione o pietà, ma fotografando il modo in cui le persone imparano a gestire una vita dura, il modo in cui cercano la dignità, qualunque cosa accada, e nonostante tutto.

VOTO: 8

 


 

Blackswan, venerdì 03/06/2022

giovedì 2 giugno 2022

GOT TO GET YOU INTO MY LIFE - THE BEATLES (Parlophone, 1966)

 


Ti ho detto che ho bisogno di te, ogni singolo giorno della mia vita? Non sei scappata, non hai mentito, sapevi che volevo solo stringerti…voglio che tu mi ascolti, Dici che staremo insieme ogni giorno, Devo farti entrare nella mia vita” Ecco alcuni versi da Got To Get You Into My Life, penultima traccia di quel capolavoro che porta il nome di Revolver, e che fu scritta quasi totalmente da Paul McCartney, anche se, come di consueto, nei crediti viene citato anche il nome di John Lennon.

Un brano pimpante e divertente, le cui parole sembrano alludere a una relazione amorosa sul punto di nascere e a quei sentimenti così totalizzanti, che fanno battere il cuore forte e che affollano la testa, impedendo di pensare ad altro. In realtà, chi pensa che questa sia una canzone d’amore è completamente fuori strada. O meglio, in qualche modo l’amore c'entra, ma in questo caso, l’oggetto del desiderio è la droga, nello specifico, la marijuana. E’ lo stesso Paul a raccontarlo nel suo libro, datato 1997, Many Years From Now: “Got to Get You into My Life era una di quelle che scrissi quando fui iniziato alla marijuana... Quindi è proprio una canzone su quello, non è su qualcuna in particolare”.

Non ci sono, però, riferimenti espliciti alla droga nella canzone, che sembra quindi parlare della felicità di un ragazzo che è beatamente innamorato: “Ooh, allora ti vedo all'improvviso, Ooh, ti ho detto che ho bisogno di te, Ogni singolo giorno della mia vita”. Eppure, nel momento in cui si conosce il motivo per cui McCartney l’ha scritta, viene decisamente facile pensare, che l’incipit del testo, ad esempio, ammicchi proprio a una “piacevole dipendenza”: “I was alone, I took a ride, I didn't know what I would find there / Another road where maybe I could see some other kind of mind there» ("Ero solo, ho fatto un viaggio, non sapevo cosa avrei trovato là / Un'altra strada dove forse potrei incontrare qualche altro modo di pensare").

A prescindere dal contenuto testuale, la canzone è importante, perché è la prima volta che i fiati compaiono in un brano dei Beatles. In studio, al momento della registrazione, fu, infatti, chiamata una sezione fiati (tre trombe e due sax tenori), perché McCartney aveva intenzione di dare al brano un suono molto soul, che ricordasse quello Stax e Motown. Non solo. Per la prima volta, a prova di quanto i fab four fossero capaci di innovare, i microfoni furono inseriti direttamente nella campana degli strumenti a fiato, e non più a un metro di distanza, come si era soliti fare fino ad allora.

La canzone fu in seguito oggetto di numerose cover, tra cui spicca, per notorietà, quella eseguita dagli Earth, Wind & Fire, una rilettura funky inserita nella colonna sonora del film del 1978 Sgt. Pepper's Lonely Hearts Club Band. La pellicola, interpretata da Peter Frampton, The Bee Gees e Aerosmith, fu un clamoroso fiasco al botteghino, ma la canzone, in questa nuova veste, scalò le classifiche americane, arrivando fino al nono posto.

 


 

Blackswan, giovedì 02/06/2022