sabato 31 agosto 2019

PREVIEW



Kiss My Ring è il quarto album di studio di King Salami And The Cumberland Three, garage rockers di Londra dediti al rhythm ‘n’ blues, seguito di Goin’ Back To Wurstville, uscito nel 2017. Presenta quattordici brani, un mix di nuovissime composizioni originali e una scelta eclettica di cover. L’album è stato registrato ai leggendari Gizzard Studios di Londra da Ed Deegan (Holly Golightly).
La band rappresenta davvero il lato migliore della Londra multiculturale, avendo i membri un mix di diverse eredità: caraibica, francese, giapponese e spagnola. Con un repertorio influenzato dalle grandi canzoni degli anni ’50 e ’60 fatte per sembrare fresche e nuove all’orecchio moderno, non potrete fare a meno di muovere i piedi quando i Cucumberland Three tuoneranno dai vostri altoparlanti.
King ulula come Screaming Jay Hawkins con Bo Diddley immediatamente al seguito, mentre Andre Williams offre un po’ del suo bacon e i Trashmen dietro di lui a suonare “Surfin’ Bird”. Questo è un uomo che non smette mai di dimenarsi, scuotersi e ballare. The Cumberland Three (tutti ex membri di band punk rock, tra cui i Parkinsons) scatenano una tempesta con il loro mix di rockabilly vintage, rock’n’roll disperato e soul da ballo: fuoco, energia, gusto e soprattutto divertimento!





Blackswan, sabato 31/08/2019

venerdì 30 agosto 2019

LILLIE MAE - OTHER GIRLS (Third Man Records, 2019)

Nonostante sia praticamente da sempre nel mondo della musica, l’avventura solista di Lillie Mae ha una genesi recentissima. La songwriter originaria dell’Illinois, infatti, arriva al suo album d’esordio solo nel 2017, avendo alle spalle già un ventennio di carriera. Lei, infatti era la cantante e la violinista dei Jypsi, band a conduzione famigliare, fondata a Galena (Illinois) nel 1994, che nel 2008 scalò le classifiche country con un album (Jypsi) capace di fondere mirabilmente roots e pop. Notata da Jack White, venne poi da questo inserita nella line up dei The Peackoks, la backing band con cui il chitarrista di Detroit registrò Lazaretto (è di Lillie la voce femminile che interpreta Temporary Ground, terza traccia dell’album) e presa, poi, sotto l’ala protettrice della Third Man Records, l’etichetta di proprietà dell’ex White Stripes.
Avere dalla propria parte uno come Jack White, è ovviamente un vantaggio non da poco, e aver avuto la fortuna di aprire i concerti dei The Raconteurs nell’ultimo e recentissimo tour, costituisce un surplus di visibilità per chi, giunta al secondo album, deve dimostrare che l’ottimo esordio non fu solo un colpo di fortuna. E’ chiaro che l’endorsement di White, per quanto importante, varrebbe nulla se la Mae non possedesse talento, ed è altrettanto ovvio che un sophomore, sinonimo di conferma e rilancio, deve avere tutte le carte in regola per il definitivo salto di qualità.
Non è un caso, quindi, che la violinista si sia affidata per questo Other Girls al genio indiscusso di Dave Cobb, uno dei migliori produttori di americana sul mercato. E la mano di Cobb si sente, eccome, nell’originalità degli arrangiamenti e nella costruzione melodica dei brani che sfugge all’ovvio e al prevedibile.
Così si passa dalla classicità bluegrass/folk di Whole Blue Heart alle atmosfere sognanti e psichedeliche di Terlingua Girl, che inizia morbida per poi esplodere in un incubo di satura elettricità o a You’ve Got Other Girls For That, ballata dai crescenti umori cupi, che narra di una relazione senza amore. Ci sono tante intuizioni e molte brillanti idee in un disco che suona ben più complesso di quanto possa apparire a un primo ascolto superficiale. Il folk arrembante dell’antiromantica Crisp & Cold (“Che cos’è l’amore? Perché non può essere reale?”) con le sue cupe reminiscenze anni ’60, il folk introspettivo e la melodia pop che trovano perfetto equilibrio in Some Gamble, l’incedere sbarazzino e le armonie vocali di Didn’t I o la conclusiva, bellissima, Love Dilly Love, bizzarro riff circolare, sovrapposizione di voci, approccio sperimentale verso un’ipotesi di avanguardia folk.
Sono molti i momenti davvero interessanti in Other Girls, soprattutto quando la Mae, chiaramente ispirata dal suo mentore e supportata da un innovatore come Dave Cobb, dribbla i paletti dell’ortodossia, per aggiungere elementi audaci e imprevedibili a una scaletta che suona freschissima. Il risultato è un disco di folk creativo e originale, che non solo conferma quanto di buono ascoltato all’esordio, ma suggerisce che la Mae, con ancora più coraggio, potrebbe davvero riuscire, in futuro, a stravolgere le coordinate del genere.

VOTO: 7,5 





Blackswan, venerdì 30/08/2019

giovedì 29 agosto 2019

PREVIEW




Laura Cox è esattamente ciò che promette di essere: una rocker tosta che fa produrre alla sua chitarra suoni che scuoteranno il mondo in modo innovativo. Con questo disco, sarà catapultata tra le fila delle grandi chitarriste femminili. Potreste pensare a qualcosa di meglio di un mix di Nancy Wilson, Nita Strauss (Alice Cooper), The Runaways e Joan Jett, solo per citarne alcune?
Anche se fino ad ora la nuova stella delle sei corde ha pubblicato un solo album, i suoi potenti assoli, i cori accattivanti e la voce cruda non hanno solo preso d’assalto il web (380.000 followers su YouTube e 90 milioni di visualizzazioni) ma anche i suoi live sono sempre sold-out.
La chitarrista/cantante non ha ignorato il fatto che la sua vita come chitarrista donna potrebbe essere diversa da quella dei suoi colleghi maschi. Tuttavia, Laura ha ripetutamente sottolineato che non le importa del suo sex appeal e che tutto ciò che per lei conta è la chitarra.
Il suo album di debutto Hard Blues Shot (2017) ha venduto 10,000 copie in Francia dopo pochi mesi dall’uscita, e Laura ha acquistato enorme notorietà tra i chitarristi.
Il nuovo album, Burning Bright, è “rock’n’roll ad alta tensione”, nello stille di AC/DC e Danko Jones che incontra Joan Jett, mescolato con influenze southern e blues. Laura infatti definisce il proprio stile “southern hard blues”.
Registrato ai leggendari ICP Studios, suonato da un band impeccabile e masterizzato dal grande Howie Weinberg (Aerosmith, Oasis, The White Stripes), Burning Bright offre dieci bombe rock influenzate dal blues, dal classic rock e persino dall’hard rock.





Blackswan, giovedì 29/08/2019

mercoledì 28 agosto 2019

MAYBE APRIL - THE OTHER SIDE (Maybe April, 2019)

The Other Side è il classico disco che farà storcere il naso ai puristi del country, quelli per cui (quasi) tutto ciò che arriva da Nashville è il male assoluto, l’odiata antitesi di ciò che costituisce la veracità e la purezza del genere. Posizione spesso condivisibile, ci mancherebbe, anche se talvolta, come è inevitabile, ci si trova di fronte a eccezioni piacevolissime che confermano la regola.
E’ il caso di questo esordio delle Maybe April, duo composto da Katy Bishop e Alaina Stacey (Kristen Castro, terza componente originaria ha lasciato la band a febbraio di quest’anno) con all’attivo finora solo un Ep e un importante attività concertistica, che le ha vista aprire i live act di gente del calibro di Brandy Clark e Sarah Jarosz.
The Other Side, meglio chiarire subito, è un disco più pop (acustico) che country, in cui l’elemento roots è dato dall’utilizzo di strumenti tradizionali (banjo, chitarra acustica, mandolino, violino). Come delle Pistlol Annies o delle Dixie Chicks svolazzanti in una temperata brezza primaverile, le Maybe April costruisco le loro canzoni giocandosi le carte migliori sulle armonie vocali e su melodie, leggere, fresche e di facilissima presa emotiva.
Eppure, nonostante canzoni che trovano il loro habitat naturale nei passaggi radiofonici, le due ragazze mettono insieme anche delle liriche niente affatto banali: niente testosterone, pick up, alcool o polvere, ma storie di vita vera e di relazioni interpersonali raccontate da un appassionato e sofferto punto di vista femminile. Così, nell’iniziale Thruth Is, una melodia smaccatamente bubblegum pop, creata sull’interazione fra chitarra e mandolino, si contrappone a un testo diretto e pungente e allo sguardo cinico su un’attrazione unilaterale che non andrà mai in porto (“La verità è che non penso a te, non vedo il tuo viso in tutti gli estranei che incontro per strada”; e ancora: “La verità è solo una bugia che racconti a te stessa fin quando non diventa vera”). Lo stesso accade, ad esempio, nella malinconica Same Story, Different Scars, storia di un padre licenziato, che si ferma a bere un drink prima di tornare a casa e dare la notizia alla moglie e al figlio di quattro anni (“Tutti voliamo. Cadiamo tutti. Abbiamo tutti le stesse storie, con cicatrici diverse”).
C’è intelligenza e sensibilità in queste canzoni, che non saranno country fino in fondo, ma conoscono la forza di melodie luminose e il giocoso trasporto di due voci perfettamente in simbiosi. Così, nonostante la smaccata leggerezza di questa musica (o forse proprio per quella) è impossibile resistere a canzoni come Need You Now o You Were My Young, che entrano in testa al primo ascolto e finiscono per restarci a lungo.

VOTO: 7





Blackswan, mercoledì 28/08/2019

martedì 27 agosto 2019

PREVIEW




La nuova band formata da  Peter Scheithauer alla chitarra (Killing Machine, Belladonna, Temple of Brutality) e Butcho Vukovic alla voce (Watcha, Showtime) annuncia l'album di debutto omonimo in uscita il 27 settembre su earMUSIC.
In studio il duo è stato accompagnato da Bob Daisley (Ozzy Osbourne, Gary Moore, Rainbow) al basso, Vinny Appice (Dio, Black Sabbath) alla batteria, e Don Airey alle tastiere (Deep Purple, Rainbow). L'album è caratterizzato da un sound metal anni '80, seguendo le orme di Rainbow, Black Sabbath, Dio e Ozzy Osbourne.





Blackswan, martedì 27/08/2019

lunedì 26 agosto 2019

CREEDENCE CLEARWATER REVIVAL - LIVE AT WOODSTOCK (Craft Recordings, 2019)

La cronaca di quei leggendari giorni è più o meno nota a tutti gli appassionati. A Woodstock, i Creedence Clearwater Revival suonarono la notte tra il 16 e il 17 agosto e in considerevole ritardo rispetto all’orario concordato, perché il set dei Grateful Dead, band che li precedeva in scaletta, fu funestata da una svariata sequela di problemi tecnici, tra cui una messa a terra difettosa, estremamente pericolosa per l’incolumità dei musicisti.
Eppure, ai non addetti ai lavori, potrebbe sembrare che i CCR a Woodstock non abbiano mai messo piede, dal momento che il loro live act non compare né nel film del festival (in una successiva director’s cut compariranno quattro canzoni) né nella colonna sonora. Il fatto che la performance non fosse mai stata pubblicata nella sua interezza, venne spiegato da Fogerty, da un lato, con l’insoddisfazione della band per la qualità del concerto, dall’altro, con un po’ di arroganza, perché la band riteneva di aver già raggiunto il massimo della fama e di non aver bisogno di ulteriore esposizione mediatica.
Qualunque siano stati i motivi, il tempo ha portato Fogerty a più miti consigli, e finalmente, dopo cinquant’anni, l’esibizione integrale viene finalmente pubblicata dalla Craft Recordings. Per mettere le cose nella giusta prospettiva, si ricordi che il terzo album in studio della band, Green River, era appena stato pubblicato (il 3 agosto per la precisione) e stava scalando le charts americane, mentre il primo singolo tratto dall’album, Bad Moon Rising, nonostante fosse uscito in aprile, era ancora ben posizionato in classifica.
Come detto, i Credence iniziarono a suonare dopo la mezzanotte, di fronte a un pubblico, vien da pensare, abbastanza stanco; tuttavia, a parte qualche iniziale problema tecnico (ma chi non ne ha avuti a Woodstock?), è davvero difficile comprendere per quale motivo Fogerty abbia vietato per così tanto tempo la pubblicazione del live act, visto che, grazie anche alla rimasterizzazione e alla pulizia del nastro, risulta essere un’autentica bomba.
In direzione ostinata e contraria rispetto alla novelle vague dell’epoca, i Creedence, pur sposando le istanze giovanili del momento (il loro antimilitarismo era cosa nota), recuperavano il rock delle radici, pesantemente connotato da sonorità sudiste. Questo approccio swamp, se mai ce ne fosse stato bisogno, marchia a fuoco tutta la performance della band: un’esplosione di energia controllata dalla potenza del groove e insufflata di negritudine dal graffio r’n’b della voce di Fogerty.
L’uno-due inziale di Born On The Bayou e Green River è da ko, così come Bootleg e Commotion possiedono un tiro notevolissimo. Meno incisive le versioni di Bad Moon Rising e Proud Mary, prive di mordente, senza pathos, un po' troppo simili alle versioni in studio e decisamente i due momenti meno brillanti della performance.
E’ la tripletta finale, però, a valere il prezzo del biglietto. The Night Time Is The Right Time, dal repertorio di Ray Charles, è un blues tutto sangue e sudore, con Fogerty che canta rabbioso e sfodera un assolo dirompente e graffiante. Chiudono il live act Keep On Chooglin’ e Suzie Q, dieci minuti ciascuna di autentico furore jammistico, con Stu Cook al basso devastante macchina da guerra, e tutta la band rapita da un deliquio dionisiaco così autentico da farci ballare senza freni anche a distanza di mezzo secolo.
Il lavoro fatto sulla rimasterizzazione è eccellente, ogni strumento si coglie alla perfezione (forse la sola Proud Mary risulta un po' impastata), e probabilmente questa resa è di gran lunga migliore di quella che potevano cogliere mezzo milione di ragazzi assonnati, infreddoliti dalla pioggia e coperti di fango.
Se la domanda che vi state ponendo è se davvero ne vale la pena, la risposta è sicuramente sì. Non solo, a dispetto di cosa ne pensasse Fogerty, questo Live At Woodstock è un ottimo live che fotografa una band in un momento di forma straordinario, ma un capitolo di storia che, nel bene e nel male, resta imprescindibile. Mancava un tassello fondamentale, e ora lo abbiamo.

VOTO: 8





Blackswan, lunedì 26/08/2019

sabato 24 agosto 2019

PREVIEW



Sturgill Simpson ha annunciato la pubblicazione del nuovo album, Sound & Fury, via Elektra, il 27 settembre. 
Simpson ha anche rivelato che un film “anime” di accompagnamento alle canzoni dell’album sarà pubblicato su Netflix lo stesso giorno. 
Simpson ha registrato e autoprodotto Sound & Fury, a Waterford (MI), presso McGuire Motor Inn. 
Oltre all’annuncio dell'album, ha condiviso il primo assaggio di Sound & Fury attraverso la nuova canzone "Sing Along".
Il video ufficiale di "Sing Along" offre un'anteprima del film Netflix, Sound & Fury, diretto dal famoso regista Jumpei Mizusaki. Secondo i materiali della stampa che annunciano il progetto, il prossimo film "è interamente impostato sulla musica dell'album con un segmento anime diverso per ogni singola canzone."
Ascolta "Sing Along" qui sotto.





Blackswan, sabato 24/08/2019

venerdì 23 agosto 2019

BRUCE SPRINGSTEEN - AMERICAN SKIN (41 Shots) (CBS, 2001)



41 colpi di pistola rimbombano nella notte. Esattamente 41, non uno di più, non uno di meno. E’ il 4 febbraio del 1999. Ahmed Amadou Diallo ha 22 anni, è immigrato dalla Guinea a New York per motivi di studio e si mantiene facendo il venditore ambulante: commercia in cappelli, guanti e altre cianfrusaglie. Sono le 23.30, quando rientra nel suo appartamento al 1157 di Wheeler Avenue nel Bronx, dopo una massacrante giornata di lavoro. I suoi coinquilini sono andati a dormire.
Diallo ha fame e in frigorifero non c’è nulla. Decide, allora, di uscire a comprare qualcosa da mettere sotto i denti. Sotto la sua abitazione, quattro poliziotti del NYPD - Sezione Crimini Stradali stanno facendo dei controlli di routine. Si chiamano Edward McMellon, Sean Carroll, Kenneth Boss e Richard Murphy. Stanno cercando un presunto stupratore, che pare sia stato avvistato nei paraggi. Diallo è appena uscito dal suo portone, quando i poliziotti gli intimano l’alt: è nero e somiglia incredibilmente all’identikit del ricercato.
Le forze dell’ordine puntano le pistole e urlano al ragazzo di esibire i propri documenti. Ahmed infila una mano in tasca. In pochi secondi, vengono esplosi 41 colpi di pistola, non uno di più non uno di meno. Sono diciannove i proiettili colpiscono Diallo, che muore all’istante, mentre gli altri crivellano il muro, l’ingresso del palazzo e danneggiano il salotto dell’appartamento a piano terra. Sul marciapiede, vicino al corpo martoriato di colpi, in una pozza di sangue, viene rinvenuto un portafoglio. Contiene i documenti che Diallo voleva esibire e che invece i poliziotti avevano scambiato per un’arma.
Il 25 febbraio del 2000, dopo svariati processi, tutti e quattro gli agenti incriminati vengono prosciolti da ogni accusa. Secondo i giudici si è trattato di una tragica fatalità. Bisogna aspettare due anni, e finalmente, nel 2002, i familiari di Diallo vengono risarciti in sede civile, mentre la Sezione Crimini Stradali della Polizia di New York fu soppressa.
Un vicenda terribile, che mette in discussione i valori fondamentali a cui è ispirata la democrazia americana. E’ questo quello che pensa Bruce Springsteen, che rimane tanto scioccato dalla triste vicenda di Diallo, da volerne scrivere una canzone.
Così, quasi nell’immediatezza dei fatti, il Boss compone American Skin (41 Shots), dolente tributo allo sfortunato ragazzo e atto d’accusa nei confronti della brutalità della polizia.
Le struggenti noti di tastiera accompagnano un testo che richiama esplicitamente i fatti (E’ una pistola, è un coltello, è un portafoglio? Questa è la tua vita, Non è un segreto, nessun segreto, amico mio. Puoi essere ucciso solo perché vivi nella tua pelle americana) e quelle due parole, 41 shots, ripetute all’infinito come un doloroso mantra, attirarono contro Springsteen l’ira dei Repubblicani, del dipartimento di Polizia e dell’allora sindaco di New York, Rudolph Giuliani, che ebbe a dichiarare, testuali parole: “C'è ancora gente che sta cercando di creare l'impressione che gli agenti di polizia siano colpevoli".
La canzone venne inizialmente suonata solo dal vivo, prima di trovar posto in Live In New York City del 2001 e poi in High Hopes (2013) in una definitiva versione in studio.





Blackswan, venerdì 23/08/2019

giovedì 22 agosto 2019

PREVIEW




L’album arriva dopo l’acclamatissimo After The Party del 2017, che ha debuttato al diciannovesimo posto nella classifica di Billboard Top Current Albums e al numero 67 nella Top 200. Nel realizzare il disco, la band ha nuovamente unito le forze col produttore Will Yip (Mannequin Pussy, Quicksand), trascorrendo sei settimane a registrare nello Studio 4 ai Conshohocken, di proprietà dello stesso Yip. “È il periodo di tempo più lungo passato a lavorare assieme a Will,” osserva il cantante Greg Barnett. “Volevamo assicurarci che queste storie non si perdessero nella musica.”
La band ha anche pubblicato il video del primo singolo “Anna”, traccia nella quale The Menzingers conducono il loro incisivo songwriting sui temi dell’amore e del romanticismo, esplorando le glorie e i fallimenti delle relazioni umane. Pezzo malinconico di jangle-pop, “Anna” dipinge un ritratto di nostalgia amorosa, con tanto di ricordi sognanti di danze in cucina ubriachi di vino.
Su Hello Exile, The Menzingers portano la loro narrazione lirica a un livello completamente nuovo e condividono le loro riflessioni sui momenti del passato e del presente: i casini al liceo, relazioni tormentate, l’invecchiamento e l’alcol e la noia della politica. Con la band che raggiunge una profonda intimità messa a nudo su tutto il disco, Hello Exile emerge come il loro lavoro più emotivo di sempre.





Blackswan, giovedì 22/08/2019

mercoledì 21 agosto 2019

ANGELA PERLEY - 4:30 (Indipendent, 2019)

A molti il nome di Angela Perley dirà poco o niente; eppure questa songwriter originaria di Columbus (Ohio) è in circolazione dal 2009 come leader degli Howlin’ Moons, band con la quale ha rilasciato due full lenght in studio e un pugno di Ep, che le hanno dato, in patria, una discreta visibilità.
Dopo dieci anni di carriera, la Perley, ha deciso di sgravarsi dall’egida della band che l’accompagna fin dagli inizi e di rilasciare questo 4:30, primo episodio che porta solo il suo nome. Ad accompagnarla, però, c’è sempre il fido Chris Connor, notevole chitarrista la cui impronta è evidente anche in questo disco, e a mixare torna Michael Landolt (Maroon 5, O.A.R.), che aveva prodotto il precedente album.
In 4:30, la bella songwriter americana coagula tutta la sua esperienza e da libero sfogo alle sue passioni. Che non sono incentrate solo sul genere americana, anzi. Pur in un quadro d’insieme assai omogeneo, le dodici canzoni in scaletta costituiscono infatti un accattivante melange in cui si trovano graffiante rock’n’roll, intense ballate, chitarre rombanti, ganci pop di facile presa, un pizzico di glam, una spolverata di indie e, si, anche spiccioli di country.
Un disco eterogeneo, dunque, ma tutt’altro che confuso, e per questo assai divertente per tutta la sua durata. Apre l’ariosa title track, morbida ballata elettroacustica con un gran bel lavoro alle chitarre. Tre minuti e mezzo di dolcezza che si disperdono tra le scintille glam della fragorosa Let Go, tutta chitarre lancia in resta e ammiccamenti indie.
Back In Town è un bolide pub rock, melodia orecchiabile scartavetrata dal graffio delle chitarre, mentre la successiva He Rides High, si veste di romanticismo crepuscolare e ricorda alcune cose della Stevie Nicks più sofferta. Una grande canzone che, insieme alle reminiscenze nostalgiche di Don’t Look Back Mary, rappresenta il cuore pulsante dell’album e un esempio di scrittura semplice fin che si vuole, ma decisamente appassionata.
Un inizio disco di quelli che lasciano il segno, a cui si aggiungono altre sette canzoni tutte centrate, ognuna con un motivo per essere ricordata. Da citare almeno l’intensa Local Heroes, il brano decisamente più country del lotto, l’indie rock scatenato di Friends, il retrogusto sixties di Dangerous Love dalla suadente melodia pop. Chiudono le scorbutiche chitarre di una tesa Walk With Me, brano che sigilla un disco che piacerà molto ai fan di Lydia Loveless e Jade Jackson. Da provare.

VOTO: 7,5





Blackswan, mercoledì 21/08/2019

martedì 20 agosto 2019

PREVIEW




I Twin Peaks annunciano il nuovo album Lookout Low in uscita il 13 settembre su Communion Records/Caroline International. Per Lookout Low la band formata dai chitarristi Cadien Lake James e Clay Frankel, il bassista Jack Dolan, il polistrumentista Colin Croom, e il batterista Connor Brodner, ha lavorato con il leggendario produttore Ethan Johns (Paul McCartney, Kings of Leon, Laura Marling, White Denim) presso il Monnow Valley Studio.





Blackswan, martedì 20/08/2019

lunedì 19 agosto 2019

ALICE HOWE - VISIONS (Indipendent, 2019)

Non c’è dubbio che Alice Howe, songwriter originaria di Boston, abbia le carte in regola per suscitare grande interesse in tutti coloro che sono appassionati di roots music. C’è, infatti, qualcosa di estremamente famigliare e immediatamente riconoscibile nelle dieci canzoni che compongono questo esordio: la Howe non inventa nulla, ma ritorna al passato, immergendosi con sacro rispetto in quelle sonorità blues, folk e country che andavano per la maggiore negli anni a cavallo tra la fine dei ’60 e l’inizio dei ’70 nella California del sud.
Le dieci canzoni di Visons, sia i brani originali che le cover, sono dunque un omaggio al passato, curato con attenzione filologica e qualche tocco di modernità. Questo esordio è, dunque, un disco dal suono inevitabilmente vintage, per cesellare il quale, la Howe si è fatta produrre dal bassista Freebo (noto per la sua collaborazione come turnista con Dr. John, Bonnie Raitt, Loudon Wainwright III, Ringo Star, John Mayall) e si è fatta affiancare dal chitarrista Fuzzbee Morse, dal tastierista John 'JT' Thomas e dal percussionista John Molo, tutti musicisti con comprovata esperienza in ambito West Coast.
Da parte sua, la Howe dimostra di essere in possesso di un brillante songwriting, di ottime capacità interpretative e di una voce calda e radiosa (talvolta può far venire in mente Joan Baez), perfetta per interpretare un repertorio che non conosce cedimenti o sbavature.
Aprono la scaletta le morbide armonie di Twilight, ballata country folk, semplice e appassionata, che introduce al meglio il mood dell’album. Album, che si tinge spesso di blues, come nello shuffle di Getaway Car, punteggiato da un brillante arrangiamento di ottoni e irrobustito dai riff assassini dell’hammond, o nella cover di Honey Bee, presa dal repertorio di Muddy Waters, in cui a farla da padrona sono le bollenti partiture di piano elettrico.
Ottime anche le altre cover: il classico To Long At The Fair di Joel Zoss, la celebre Bring It On Home To Me di Sam Cooke, arrangiata da urlo in una chiave più decisamente blues, e soprattutto il Bob Dylan di Don’t Think Twice, It’s All Right, canzone riletta da centinaia di artisti, ma che la Howe riesce a far sua attraverso un approccio semplice, che mette in evidenza la straordinaria melodia e una voce appassionata e consapevole.
Non c’è nulla di nuovo in Visions, e poco importa, perché la grazia e lo stile di questa ragazza tolgono la polvere a un suono antico con una ventata di temperata freschezza. Un esordio tutto da godere e un nome, quello di Alice Howe, da segnare sul taccuino anche per il futuro.

VOTO: 7,5





Blackswan, lunedì 19/08/2019

sabato 17 agosto 2019

DAVID SYLVIAN - MOSTALGIA (Virgin, 1984)





Nel novembre del 1982, David Sylvian mette fine all’avventura Japan, quando la band è all’apice della carriera, dopo aver pubblicato Tin Drum, sintesi di una musica che gioca con la dance più modaiola, la new wave, il pop romantico ed è adornata di un’estetica che guarda a oriente con sguardo decadente e ombroso.

Brilliant Trees, il primo album di Sylvian lontano dai Japan, sfuma gli accenti glam dei lavori precedenti, tratteggiando diafani acquarelli, ricchi di sfumate citazioni e di melodie che mescolano sperimentazioni ambient, folk minimale e vellutati passaggi jazz (The Ink In The Well).
Incline a un pop sofisticato e intellettuale, Sylvian ricama piccole grandi canzoni sospese in un curioso equilibrio fra temporalità e spiritualità. Se da un lato, il funky elusivo di Red Guitar e le cupe tonalità della liquida Backwaters hanno ancora le sembianze del carnale materialismo che richiama alla mente l'avventura “giapponese” appena conclusasi, Nostalgia sfuma la malinconia in uno sgranato bianco e nero, gioca coi silenzi un’incorporea trama melodica, evoca un immaginario di esotici languori e sottintende un dolore remoto e spirituale.
Immobile, maestosa, attraversata da un’intima e definitiva tristezza (The Sound Of Waves In A Pool Of Water/I’m Drowing In My Nostalgia), Nostalgia rappresenta la summa della poetica di Sylvian e l’anello di congiunzione fra la lentezza avvolgente di The Night Porter (Gentlemen Take Polaroid, 1980) e la maestosa fragilità di Let The Happiness In (Secrets Of Beehive, 1987).





Blackswan, sabato 17/08/2019

venerdì 16 agosto 2019

SUNSLEEPER - You Can Miss Something & Not Want It Back (Rude Records, 2019)

Se la son presa con calma, i Sunsleeper, hanno fatto passare tre anni dal loro esordio, avvenuto nel 2016 con l’Ep Stay The Same, hanno affinato le idee, trovato dieci canzoni che potessero funzionare, le hanno sistemate, arrangiate e finalmente pubblicate.
Il risultato è questo You Can Miss Something & Not Want It Back, un disco ben curato in fase di produzione e omogeneo nel suono, con cui la band originaria dello Utah ha messo a punto la propria idea di emo rock, perfezionando il songwriting e dando corpo ulteriore alle buone idee già intuite all’esordio.
Il disco, è questa la prima sensazione, è ben suonato e trova forza nell’affiatamento della band e in un suono che, come si diceva, risulta coerente, compatto ed equilibrato. In linea con le caratteristiche del genere, la scaletta procede tra atmosfere malinconiche, melodie facilmente assimilabili, a cui, per converso, fanno da contraltare improvvise bordate di chitarra e grintose accelerazioni.
Tuttavia, come spesso accade nei dischi emo, il confine tra una grande canzone e un prodotto di facile ascolto, buono per la truppa, è assai labile. Così i Sunsleeper oscillano fra brani ispirati e sorretti da buone idee, che richiamano alla mente la miglior tradizione emo di inizio millennio, e altri momenti totalmente prescindibili.
L’apertura carezzevole di Feel The Same, così semplice e diretta, è un ottimo biglietto da visita; ma le doti della band sono confermate anche dalla sognante progressione di Souvenir, dalle accelerazioni di No Cure, dall’ottimismo sferragliante di I Hope You’re Ok o dalla melodia nebulizzata della conclusiva Home.
Ci sono però anche episodi più banalotti, che tolgono spessore alla scaletta, come la prevedibile Casual Mistakes o il mood adolescenziale delle chitarre pop punk di Soften Up.
Piccoli difetti che, però, non pesano più di tanto sull’economia di un disco gradevolissimo e di facile ascolto. Nonostante la maturità artistica sia ancora lontana, i Sunsleeper possiedono indubbio talento e, se sapranno seguire la strada tracciata da grandi band di genere, come a esempio i Brand New, dando profondità e spessore alle composizioni, ne ascolteremo delle belle. Comunque sia, promossi.

VOTO: 6,5





Blackswan, venerdì 16/08/2019

mercoledì 14 agosto 2019

PREVIEW




La band southern rock Whiskey Myers annuncia i dettagli del nuovo album omonimo, il quinto per la loro carriera, in uscita il 27 settembre su Snakefarm Records/Spinefarm. Whiskey Myers è il seguito di Mud del 2016. La band condivide anche il primo singolo "Die Rockin'", un ode dal sapore gospel e dalle tinte rock'n'roll.
"Si tratta del primo album che abbiamo autoprodotto ed è 100% Whiskey Myers. Ed è per questo che abbiamo deciso di intitolarlo Whiskey Myers", afferma il chitarrista solista John Jeffers.
“Hp scritto Die Rockin’ con il leggendario Ray Wylie Hubbard, e riassume davvero la nostra vita rock’n’roll,” dice il frontman Cody Cannon. “Siamo consumati dalla musica e siamo grandi fan delle leggende che ci hanno preceduto. Siamo sulla strada e in studio per cercare di rendere omaggio ai grandi che hanno ispirato questa generazione e ci sforziamo di creare un po’ di magia che sia nostra”.
Jeffers: “Siamo stati fortunati a lavorare con grandi produttori durante la nostra carriera, ma l’autoproduzione ci ha dato la libertà di provare idee pazze in studio, il che ci ha condotti a questo punto di completa soddisfazione per il risultato finale e più eccitati che mai nel regalare questa nuova musica ai nostri fan”.





Blackswan, mercoledì 14/08/2019

martedì 13 agosto 2019

THE RITUALISTS - PAINTED PEOPLE (Out Of Line, 2019)

A cavallo dell’onda lunga del movimento new wave e post punk revival, arrivano da New York i Revivalists, con il loro album d’esordio Painted People, un disco che amalgama diversi elementi in un patchwork musicale decisamente intrigante.
Sono tante le influenze esplicitamente dichiarate dal gruppo, a partire da mostri sacri come David Bowie, T-Rex, Velvet Underground, Roxy Music, Duran Duran, e più o meno tutte si colgono nelle dieci canzoni che compongono la scaletta di questo brillante primo album. Nella musica della band newyorkese, infatti, convivono elementi pop, new wave, art rock, un tocco di glam e uno di psichedelia, il tutto riletto con un bel piglio modernista e un mood appassionato.
Sopra un impasto, a volte un po' pesante, di tastieroni anni ’80 (Rattles) e grintose chitarre (True Dictator), emergono soprattutto splendide linee di basso (da godersi soprattutto in cuffia) e la voce del leader, Christian Dryden, cantante molto impostato, ma dal timbro duttile, e che si trova a proprio agio sia nei momenti più morbidi e sognanti che nei passaggi più grintosi.
Un disco dal mood prevalentemente solare ed energico, ricco di ganci melodici di facile presa (talvolta vien da pensare ai Killers di Hot Fuss), che sfiora appena le atmosfere cupe della dark wave, prediligendo un linguaggio meno ostico e più fruibile.
Poco male, perché comunque ci sono gran belle canzoni, a partire dal singolo Ice Flower, sorretto da una potentissima linea di basso. Da segnalare come highlights del disco anche i toni psichedelici di Sunset, ballata che si gonfia in una bella coda strumentale, e le ritmiche dance e il giro di chitarra della tesa e vibrante Over The Lie (gli Interpol stanno dietro l’angolo), decisamente la migliore del lotto.
Un esordio centrato, che palesa idee chiare e uno stile personale, e che, a cercare il pelo nell’uovo, guadagnerebbe più forza con arrangiamenti più equilibrati e asciutti (a volte la carne al fuoco è davvero troppa). Comunque sia, promossi a pieni voti.

VOTO: 7





Blackswan, martedì 13/08/2019

lunedì 12 agosto 2019

PREVIEW



“Kids in ‘99” è stata scritta per commemorare i tre ragazzi di Seattle che nel 1999 hanno perso la vita in seguito all’esplosione del gasdotto dell’Olympic Pipeline a Bellingham, Washington. “Nel 1999 vivevo a Bellingham e l’esplosione dell’Olympic Pipeline mi ha davvero sconvolto”, commenta il frontman Ben Gibbard. “Dopo tutti questi anni penso sia giunto il momento che questa tragedia abbia la sua canzone folk”.
Oltre a “Kids in ‘99” e “Blue Bloods”, prodotte da Peter Katis (The National, Interpol, Kurt Vile), l’EP include anche “To The Ground” e “Before The Bombs”, prodotte da Rich Costey durante le registrazioni dell’acclamato nono album in studio “Thank You for Today”, e “Man in Blue”, autoprodotta dalla band.
Nati nel 1997 e pubblicato nel 1998 l’incredibile album di debutto dal titolo “Something About Airplanes”, i Death Cab for Cutie sono diventati in breve tempo una delle più convincenti e creative realtà della scena indie rock internazionale. Nel 2005 la band debutta su Atlantic Records con il quinto album in studio dal titolo “Plans” (trainato dai singoli “Soul Meets Body” e “I Will Follow You Into The Dark”) che viene certificato platino a pochi mesi dall’uscita. Con “I Will Follow You Into The Dark” e “Plans” la band ha ricevuto le prime nomination ai GRAMMY®, rispettivamente nelle categorie “Best Pop Performance By Duo Or Group With Vocals” e “Best Alternative Album”. “Directions”, DVD del 2006 strettamente legato a “Plans”, ha portato una nuova nomination alla band nella categoria “Best Longform Music Video”.
L’album del 2008 “Narrow Stairs” ha debuttato alla posizione #1 della classifica SoundScan/Billboard 200 e fatto guadagnare alla band altre due nomination ai GRAMMY® come “Best Alternative Album” e “Best Rock Song” (con la hit “I Will Possess Your Heart”). L’EP “The Open Door” del 2009 ha regalato alla band la terza nomination consecutiva ai GRAMMY® nella categoria “Best Alternative Album”. Nel 2011 arriva l’album “Codes And Keys” e con lui la quarta nomination consecutiva come “Best Alternative Music Album”.
L’ottavo album in studio dei Death Cab for Cutie, “Kintsugi”, ha debuttato alla prima posizione delle classifiche “Top Alternative Albums” e “Top Rock Albums” di Billboard e ha ricevuto una nomination ai GRAMMY® nella categoria “Best Rock Album”.





Blackswan, lunedì 12/08/2019

sabato 10 agosto 2019

ATTICA LOCKE - TEXAS BLUES (Bompiani, 2019)

Lark è una manciata di case a ridosso delle paludi, una cittadina dimenticata dal tempo e dal progresso. È tagliata in due dalla Highway 59: di qua c'è la tavola calda di Geneva Sweet, dove servono limonata dolcissima e pesce gatto fritto da mangiare seduti al bancone insieme a neri che in altri locali verrebbero cacciati; di là c'è una grande casa in perfetto ordine, tetto a cupola e staccionata bianca intorno, la dimora dei Jefferson, la famiglia più potente della zona. Come accade spesso nel Texas orientale, solo pochi metri separano mondi molto lontani. Un giorno due corpi affiorano dal bayou: erano un avvocato di colore di mezza età arrivato da Chicago e una giovane donna bianca del posto. In apparenza un caso già chiuso, l'ennesimo crimine a sfondo razziale che tutti dimenticheranno presto. Ma Darren Mathews, appena arrivato a Lark, capisce in fretta che niente è come sembra, lui che incarna una suprema contraddizione: un ranger nero che deve difendere la legge e dalla legge difendersi.

Un ranger texano sospeso dal servizio e dedito all’alcol, un moglie in cerca di verità, due omicidi apparentemente collegati, una chitarra da restituire in nome di un’antica amicizia, una cittadina situata nel buco del culo del Texas, la fratellanza ariana, il bayou, il pesce gatto fritto, il bourbon, la birra ghiacciata.
Questi sono gli elementi che compongono Texas Blues, un romanzo che ha le sembianze del poliziesco, che intriga grazie a un ottimo ritmo, a un susseguirsi di colpi di scena e un finale, ulteriore alla risoluzione del caso, davvero inaspettato.
In realtà, la scrittrice texana Attica Locke, qui alla sua quinta prova, non si limita a tratteggiare una solida storia noir, ma dipinge semmai un appassionato affresco della propria terra. Un luogo, come diceva Joe Lansdale, che è soprattutto “uno stato mentale”, crocevia di disarmanti contraddizioni, dove tutto è bianco o nero, ricchezza smisurata e povertà assoluta, modernità e inveterate tradizioni, razzismo geneticamente radicato e lotta per conquistare e affermare la propria dignità di essere umano. Ma anche una terra che evoca ricordi, che crea legami indissolubili, che mescola il sangue in amori impossibili, che commuove di fronte all’aspra bellezza del paesaggio.
La prosa della Locke è asciutta e diretta, eppure è attraversata da momenti di quell’appassionato lirismo di chi, pur consapevole del mondo spietato in cui è cresciuto, non smette, nemmeno per un istante, di amarlo.
A far da colonna sonora al romanzo è, come intuibile dal titolo, il blues: non solo una musica, ma il canto di un aedo che narra l’epica di tante vite ai margini, a cui (forse) solo l’amore saprà dare redenzione.

Blackswan, sabato 10/08/2019

venerdì 9 agosto 2019

SOUTHERN AVENUE - KEEP ON (Concord, 2019)

Sono passati due anni dall’omonimo esordio datato 2017, e finalmente i Southern Avenue sono riusciti a guadagnarsi l’attenzione del pubblico e della stampa specializzata. Già, perché il primo album, per quanto splendido, era passato, almeno alle nostre latitudini, quasi sotto silenzio. Keep On, che segna il passaggio del combo dalla Stax alla Concord Records, conferma tutte le cose buone e le aspettative che avevamo sui Southern Avenue, band che si propone come una delle realtà più interessanti in circolazione quando c’è da rileggere un suono classico con spunti di originalità.
Quale sia il piatto forte della casa è chiaro fin dal nome del gruppo: la Southern Avenue attraversa Memphis (Tennesse) da est a ovest, fino a prendere il nome di McClemore Avenue, la strada dove si trova Soulville, ovvero il palazzo della Stax Records.
Il quintetto ha voluto chiamarsi proprio così, Southern Avenue, come a voler rimarcare orgogliosamente le proprie radici e ha tracciare un’immaginaria retta che congiunge la grande tradizione nera della celebre label alla proposta musicale contenuta nei loro dischi. Soul, r’n’b, funky e gospel, declinati con un accento rock blues, sono le frecce all’arco della band capitanata dalla vigorosa vocalist Tierinni Jackson: un sound che pesca a piene mani dal passato Stax (etichetta sotto la quale è uscito l’esordio) rivisitato però in chiave moderna.
Nati come blues band fondata dal chitarrista Ori Naftaly, i Southern Avenue hanno progressivamente mutato suono, cambiando la line up originaria, con l’inserimento della sorella di Tierinni, Tikyra Jackson, alla batteria, Daniel McKee al basso e Jeremy Powell alle tastiere. E’ stato soprattutto l’influsso delle due sorelle Jackson che, come da miglior tradizione, sono cresciute cantando nel coro di una locale chiesa, a influenzare il nuovo corso del gruppo.
Sono dodici canzoni in scaletta, tutte suonate e arrangiate benissimo: sezione ritmica potente, groove micidiali, spolverate di hammond, arrangiamenti di ottoni, la chitarra di Naftaly, musicista essenziale e dalle solide radici rock blues, e soprattutto la voce di Tierinni Jackson, una che sulle note alte va a nozze e tira certi acuti da far tremare il vetro delle finestre.
Travolgenti quando spingono il piede sull’acceleratore funky (Jive, Swichup e Whiskey Love), grintosi quando imboccano la strada del rock blues (il riff hendrixiano di She Gets Me High, The Tea I Sip) classicissimi nei rimandi sixties della conclusiva We’re Gonna Make It, suono Stax millesimato.
Disco voluttuoso e trascinante, Keep On si tiene lontano da passatismi e stereotipi, mantenendo altissima la temperatura e rileggendo il genere con rinnovato vigore e inusitata freschezza.

VOTO: 8





Blackswan, venerdì 09/08/2019