venerdì 30 dicembre 2022

MY HERO - FOO FIGHTERS (Roswell/Capitol, 1997)

 


Settima traccia da The Colour And The Shape, secondo album dei Foo Fighters, che vede anche l’ingresso nella line up del compianto Taylor Hawkins (avvenuto, però, dopo la registrazione del disco), My Hero è stata spesso interpretata come un omaggio postumo di Dave Grohl all’amico Kurt Cobain. In realtà, il chitarrista e cantante ha più volte smentito questo assunto, sostenendo che il significato della canzone non ha nulla a che vedere con l’ex compagno dei Nirvana.

Il brano, scritto dal punto di vista di un bambino, parla, infatti, di quelle persone che Grohl ha conosciuto nella sua vita e che, ai suoi occhi di ragazzo, gli sono apparse come eroi. Non si tratta però di celebrità, rockstar o personaggi di fantasia, ma di persone comuni, in grado di fare cose straordinarie. Nessun super potere e nessun fisico bestiale, solo la normalità che si trasforma in eroismo, affrontando con coraggio le piccole, grandi imprese della vita (“Ecco il mio eroe, Guardalo mentre va, Ecco il mio eroe, È normale”).

L’eroe raccontato da Grohl, semmai, sotto i riflettori, ci capita per caso, un po' come accade ai protagonisti di alcuni film di Clint Eastwood (Sully, Ore 15.17: Attacco Al Treno, Norman Jewell), che il destino ha costretto a misurarsi con eventi più grandi di loro, e che scoprono, loro malgrado, di avere dentro sé risorse, di cui nemmeno immaginavano l’esistenza.

In tal senso, il video che accompagna la canzone, è assai esplicito: un giovane salva un bambino, un cane e una foto da una casa in fiamme, mentre la band si esibisce al suo interno. Il volto dell'uomo, però, non viene mai mostrato, proprio per suggerire che gli eroi, quelli veri, sono persone comuni, a cui non interessa in alcun modo la celebrità. 

Il brano, dieci anni dopo la sua pubblicazione, fu oggetto di una polemica di natura politica. Il candidato repubblicano John McCain, infatti, usò la canzone durante la campagna presidenziale degli Stati Uniti del 2008. Quando David Grohl apprese attraverso i notiziari ciò che stava accadendo, andò su tutte le furie, ingiungendo a McCain di non passare più il brano durante i suoi comizi e rilasciando una dichiarazione carica di risentimento: “La cosa più triste è che My Hero è stata scritta per celebrare l’uomo comune e il suo straordinario potenziale. Essersene appropriato a nostra insaputa e utilizzato in un modo che perverte il sentimento originale del testo, stravolge il senso della canzone." Non ci fu verso, tuttavia, di far cambiare idea al candidato, che dimostrò di aver pagato regolarmente i diritti per poter suonare la canzone a ogni adunata pubblica.

Nonostante My Hero sia una canzone potente, vibrante e carica di energia positiva, Dave Grohl ne suonò un’intensa versione acustica in uno studio delle Hawaii, come contributo al Living Room Concert For America, una trasmissione di beneficenza, andata in onda su Fox il 29 marzo 2020, per raccogliere fondi durante l'epidemia di coronavirus. Grohl dedicò la canzone a tutti coloro che erano in prima linea nella lotta al virus e, curiosamente, suggerì a tutti di cantare l'ultimo ritornello durante il lavaggio delle mani: dura venti secondi, esattamente il tempo che veniva indicato per le abluzioni dalle linee guida anti-pandemia.   




Blackswan, venerdì 30/12/2022

giovedì 29 dicembre 2022

ORIANTHI - ROCK CANDY (Frontiers, 2022)

 


Orianthi Panagiris, chitarrista australiana di origini greche, ha iniziato a suonare fin da bambina, palesando già in età adolescenziale un talento e doti tecniche inusuali, che l’hanno portata nel corso della sua carriera, oltre a pubblicare alcuni dischi solisti, a collaborare con stelle di prima grandezza, quali Michael Jackson, Alice Cooper e Carlos Santana, tanto per citare alcune delle più celebri. Se da un lato, le qualità tecniche della trentasettenne chitarrista non si discutono, dall’altro, non si può certo affermare che a livello compositivo Orianthi abbia lasciato ai posteri pagine indelebili.

Rock Candy, quinto disco in studio pubblicato in quindici anni, è un album rapido (solo trentun minuti di durata) e divertente, che cerca di intercettare il maggior numero di ascoltatori, con una miscela di rock blues e pop assai elegante, ma con un approccio fin troppo indulgente verso il mainstream. Un colpo al cerchio e un colpo alla botte, si suol dire, e probabilmente questo è il maggior limite di un’artista, consapevole dei propri mezzi, ma che sembra non aver ancora deciso su quale sponda del fiume accamparsi.

"Illuminate Part.1", apre il disco con una breve intro strumentale, in cui, ovviamente è protagonista la chitarra, che gigioneggia su un tappeto di tastiere. Un'esibizione di tecnica sopraffina, per introdurre "Light It Up",  muscolare e rabbioso rock blues, che spinge sull’acceleratore, prima di schiudersi su un ritornello melodico e di facile presa. Buon equilibrio fra il ringhio delle chitarre e la melodia, atmosfera molto d’impatto, ma parecchio prevedibile. Quando, poi, parte l’assolo di chitarra si comprende. però, per quale motivo la ragazza abbia trovato posto su palchi importanti a fianco di musicisti coi fiocchi.

Con "Fire Togheter" la svolta verso sonorità più mainstream si fa più netta, il tiro è radiofonico, ma di ottima fattura, la chitarra ruggisce e sfrigola tra echi zeppeliniani, l’assolo si fa ricordare, e la pagnotta è portata a casa egregiamente. Risulta chiaro, però, che questo disco sta ben lontano da un rock blues verace e sanguigno, per inseguire, come succede nella successiva "Where Did Your Heart Go", un mood orecchiabile che cerca di uscire con forza dalla nicchia di genere, per compiacere a un pubblico il più vasto possibile. E tutto sommato, il risultato non dispiace, il brano è accattivante, la classe è indubbia e il bersaglio è centrato.

Certo, quando come in "Red Light" Orianthi mostra i muscoli in un riff tanto basilare quanto incendiario, si comprende quali cose egregie la ragazza potrebbe fare se solo decidesse che strada imboccare, perché qui, al netto del solito ritornello molto melodico, c’è anche sudore e un assolo di quelli che spacca letteralmente le casse dello stereo.

Il disco, però, è ondivago: la conturbante e sensuale "Void", chitarra e voce distorta, Hendrix nel cuore e tanta grinta, è da applausi, e se Rock Candy suonasse tutto a questi livelli, ci sarebbe da spellarsi le mani per la goduria. Allo stesso modo, la successiva "Burning", pizzicata di elettronica, è un rock blues sudato, in cui la melodia è gestita con intelligenza e scartavetrata da una chitarra distorta e abrasiva.  Poi, però, si passa a "Living Is Like Dying Without You", una ballata acustica e radiofonica, che funziona molto bene, per carità, ma è un po' troppo leccata per chi cerca emozioni vere.

A compensare, allora, la successiva "Witches & The Devil", altro rock blues muscolare e ad elevato livello di decibel, pesante e distorto, che s’infila, dopo due minuti, nella tirata dritta e diretta di "Getting To Me", un rock basico, ma come sempre illuminato dalle scintille di una chitarra coi controcazzi.

Chiude "Illuminate Part. II", un breve brano strumentale, che mette nuovamente in scena il talento alla sei corde di una ragazza dotata di grande tecnica, e che trova un inusuale cameo di violino piazzato alla fine, a testimonianza anche di soluzioni interessanti all'interno un songwriter per lo più prevedibile.

Orianthi ha il merito di tenere il minutaggio basso e carpire così l’attenzione dell’ascoltatore, esibendo una tecnica da califfa della sei corde, senza però gigioneggiare troppo in inutili assoli. Questo approccio elegante ma asciutto, è certo un merito. Però, resta il dubbio di cosa sarebbe in grado di fare se decidesse quale strada intraprendere con chiarezza. Un disco più lineare, gioverebbe ai contorni di un profilo, oggi, troppo indefinito. Rock Blues o mainstream? Questo è il dilemma. Se un giorno dovesse scegliere, avrebbe le armi per far bene comunque. Così, invece, resta una vaghezza nell’aria, che non convince fino in fondo.

VOTO: 6,5

 


 

 

Blackswan, giovedì 29/12/2022

martedì 27 dicembre 2022

THOMAS FRANK HOPPER - BLOODSTONE (Vrec Music Label, 2022)

 


Segnatevi il nome di Thomas Frank Hopper, giovane chitarrista e cantante belga, che ha dato alle stampe il suo esordio, intitolato Bloodstone. Background rock blues classicissimo, con vista sugli anni '70, ma piglio volitivo e approccio scorbutico, Hopper, a dispetto della giovane età, possiede la consapevolezza del veterano, quella che ti fa comprendere che per fare buona musica, non basta metterci sangue e sudore, ma devi anche avere memoria, conoscere a menadito i tuoi riferimenti e capire attraverso quali percorsi, una musica dalle radici antiche, possa ancora suonare fresca, se non proprio innovativa.  

Hopper, inevitabilmente, cita (nel finale di "Savages", ad esempio, onora i Led Zeppelin di "Dazed And Confused"), ma lo fa con una tale spavalderia da apparire credibilissimo, sventaglia riff abrasivi, ma i brani si allontanano dal prevedibile grazie a una costruzione non lineare, e si cimenta con successo anche quando affronta ballate folk ombrose ("Tomb Of The Giant") o blues antichi riletti attraverso un’evocativa atmosfera dal sapore cinematografico (la conclusiva, emozionante, "Mississippi").

Accompagnato da una backing band perfettamente funzionale al progetto e tanto tecnica quanto potente (Diego Higueras alla chitarra, Jacob Miller al basso e Nicolas Scalliet alla batteria), il ragazzo belga (il cui timbro vocale ricorda da vicino quello di Josh Kiszka dei Greta Van Fleet) dispiega un armamentario elettrico energico ed efficace, dimostrando di maneggiare con naturalezza le diverse sfaccettature del suono rock blues.  L’apripista è la title track, storia di un uomo che torna dal mondo dei morti per vendicarsi, e si capisce subito di pasta è fatto il ragazzo: anni ’70 nel cuore, riff spaccasassi e performance vocale tesa e coinvolgente.

Il tiro funky della sensualissima "Come Closer" è una botta di adrenalina che stende come un colpo da ko diretto sullo zigomo, e le schermaglie chitarristiche del finale sono orgasmo puro per tutti coloro che amano l’assalto elettrico della sei corde. Funzionano benissimo anche l’incedere blues ancheggiante di "Dirtylicious", il rock saltellante e furbetto di "Sweet Black Magic Sugar Babe" e la solare euforia a tutta slide della settantiana "Into The Water".

Le già citate ballad, una posta a metà album ("Tomb Of The Giant") e una alla fine ("Mississippi"), rallentano i giri di un motore, che diversamente gira a mille, sia quando le atmosfere si fanno più oscure e tese ("Tatanka") sia quando il chitarrista toglie dal taschino la foto degli Zep ("Bad Business" e "Savages", trainata da un giro di basso da pelle d’oca), tenendosi ben lontano però dal mero copia incolla, sia quando lambisce i confini dell’hard rock, con un vibrante e potentissimo approccio funky ("Mad Vagabond").

Difficile resistere a tanta autentica passione, a un suono così verace e sincero, spinto dalla vitalità travolgente di un ragazzo che sa esattamente da dove è partito e dove vuole arrivare. Per il momento è nicchia pura, ma sono convinto che Thomas Frank Hopper abbia tutte le carte in regolare per sfondare. Se amate il genere, l'ascolto è consigliatissimo.

VOTO: 8




Blackswan, martedì 27/12/2022





venerdì 23 dicembre 2022

KING'S X - THREE SIDES OF ONE (Insideout/Sony, 2022)

 


Se si fa mente locale su quest’anno che ormai sta svolgendo al termine, è facile sottolineare come il 2022 sia stato segnato da grandi ritorni: i Tears for Fears hanno pubblicato The Tipping Point, a febbraio, i Porcupine Tree si sono riuniti per l'attesissimo Closure/Continuation, e poi ancora gli A-ha e gli Skid Row, solo per citare i primi che vengono in mente. Tutti dischi che hanno dimostrato come questi artisti abbiano ancora molto da dire, esattamente come avviene per un altro gradito ritorno, quello dei King's X, che pubblicano Three Sides of One, il loro primo album dopo quattordici anni. In un corpus di lavori che si è sviluppato in circa quattro decenni, i King's X hanno ottenuto ciò che poche band possono vantare, e cioè che non hanno mai cambiato membri e non hanno mai pubblicato un disco brutto. Tutte le loro uscite si sono distinte per la qualità del songwriting e la potenza della performance.

A volte considerati come precursori del movimento progressive-metal (definizione un po' riduttiva per il power trio americano), i King's X sono sempre stati una band curiosa di sperimentare, che non si è mai adattata del tutto a uno stile o a un genere specifico. Le loro canzoni possiedono nerbo ma anche cambi di tonalità inaspettati, spesso, si sviluppano attraverso riff pesanti e distorti, ma le melodie sono cosparse di lussureggianti armonie alla Beatles. In teoria, questi elementi tanto disparati non dovrebbero riuscire a convivere, eppure la band è riuscita a farli coesistere su disco con efficacia per circa quarant’anni.

La stessa cosa avviene in questo Three Sides of One, un disco che incarna alla perfezione, nonostante la lunga assenza dalle scene, l’idea di musica che la band ha coltivato nel corso della sua lunga carriera.

L’opener "Let It Rain", si muove attraverso territori quasi garage rock, e un brano oscuro segnato dal drumming scarno del batterista Jerry Gaskill e dalla voce espressiva di Dug Pinnik, che se le cava ancora egregiamente nonostante i settantun anni d’età. Una canzone cruda e diretta, a cui segue la breve ma musicalmente avventurosa "Flood Pt.1", in cui il più fangoso dei riff metal si sposa con sezioni di archi dal sapore arabo ed efficaci armonie. "Nothing But The Truth" mostra una band in palla, che suona serrata e grintosa, e che mostra ben poco i segni dell'età. Qui, c’è da mettere in risalto il lungo assolo di chitarra di Ty Tabor, emozionante e avvincente, probabilmente uno dei suoi migliori di sempre. Tabor è anche la voce in "Take The Time", uno dei brani più riusciti del disco: strumentazione essenziale e una spolverata d'archi, una melodia leggera e ariosa, di facilissima presa, evidentemente ispirata ai Fab Four,

Stanno benissimo, i King’s X, e prova ne è che nessun brano in scaletta scende mai di livello: dal blues rock di "She Call Me Home" (che descrive in dettaglio l’esperienza del batterista Jerry Gaskill dopo essere andato in arresto cardiaco), alla tirata adrenalinica di "Festival", dal funk di "Swipe Up" alla solare "Give It Up", ogni canzone dà segni di un’incredibile vitalità e di come la band sia ancora in grado di costruire grandi canzoni, dirette, all’apparenza grezze e semplicissime, eppure sempre efficaci.

Three Sides of One è un ottimo disco, che accentua l’inevitabile quesito di fine ascolto: è l’ultimo capitolo di una gloriosa storia o potrebbe esserci altra musica in futuro? Non c'è modo di saperlo con certezza, ma piace pensare che l’avventura dei King's X andrà avanti ancora per qualche anno, considerando un’evidente rifiuto di arrendersi di fronte all’età che avanza e alla mortalità. Se questa, invece, dovesse essere la fine del cammino, nonostante la band abbia ancora parecchia benzina nel serbatoio, sarebbe un’uscita di scena di quelle da ricordare.

VOTO: 7,5

 


 

 

Blackswan, venerdì 23/12/2022

giovedì 22 dicembre 2022

FREEDOM - JON BATISTE (Universal, 2021)

 


Nato e cresciuto in Louisiana, Jon Batiste fa parte di una dinastia musicale di New Orleans che include grandi musicisti jazz, quali Lionel Batiste della Treme Brass Band, Milton Batiste dell'Olympia Brass Band e il batterista Russell Batiste Jr.

Lui ha iniziato la sua carriera molto giovane, e come pianista jazz, a soli 17 anni ha pubblicato il suo album di debutto, Times in New Orleans. In seguito, Batiste ha frequentato la Juilliard School, celebre scuola di musica, arte e spettacolo, dove ha formato gli Stay Human, una band composta da alunni della scuola che, nel 2015, è diventata la house band al The Late Show, un seguitissimo talk show della CBS, condotto da Stephen Colbert.

A tutt’oggi, ha all’attivo otto album, l’ultimo dei quali, We Are (2021), ha ottenuto ben 11 nomination alla 64esima edizione dei Grammy Award, vincendo il premio per album dell’anno. Premio meritatissimo, visto che We Are è un album stellare, capace di fondere un ricco bagaglio tradizionale a sonorità modernissime, dimostrando che Batiste conosce a menadito gospel classico, soul, jazz e funk, tanto quanto il pop e l'hip-hop degli ultimi due decenni. Un livello di semplicità disarmante, poi, e un sublime genio tecnico, trasformano We Are in un disco che dovrebbe essere ammirato sia per la sua musicalità e l'intricato songwriting, che per la capacità di adattarsi perfettamente alla musica contemporanea di oggi, a dimostrazione che Batiste è impareggiabile nella sua creatività, che lo rende artista senza tempo, anello di congiunzione fra epoche e sensibilità diverse.

Freedom, scritta in collaborazione con la cantautrice newyorkese Autumn Rowe e il pianista e compositore di Los Angeles, Andrae Alexander, è uno dei brani di punta di una scaletta impeccabile e coinvolgente. Il brano parla della rivoluzione sessuale e sociale guidata da artisti del calibro di Elvis Presley, James Brown e Mavis Staples, e del modo in cui si sono mossi e si sono espressi sul palco. Un sorta di cataclisma artistico che ha spinto gli esseri umani a sentirsi liberi e ad agire come volevano, senza sottostare ai dictat della società.“Quando muovo il mio corpo proprio così, non so perché ma ho voglia di libertà”, canta Batiste sulle note allegre e scanzonate della canzone, il cui messaggio, però, è profondo, e riguarda, soprattutto, i diritti dei gay e l'uguaglianza razziale.

"È come quando Elvis scuoteva i fianchi sul palco dell'Ed Sullivan Theatre e la gente palpitava", ha detto Batiste in un’intervista alla rivista Relix. "In qualche modo, coinvolgeva l'intero aspetto della lotta per i diritti delle persone e la loro libertà, e non solo il poter bere dalla stessa fontana d'acqua o andare nello stesso bagno. È anche per poter amare chi vogliamo ed essere come vogliamo essere." Per il musicista della Louisiana la sessualità è una parte fondamentale dell’habitus umano, e renderla libera dalle catene della società consente alle persone di essere se stesse, senza ipocrisia. Sono stati grandi artisti del passato attraverso la loro musica a consentire ai costumi di evolversi. “Vedi James Brown ballare in un certo modo” ha aggiunto Batiste “e ti fa venire voglia di essere libero, e ti fa aprire la tua identità e non adattarti allo stampo di ciò che la società vuole importi”.

Freedom, in tal senso, è una canzone che parla esplicitamente di rivoluzione sessuale, ma è anche un implicito invito ai musicisti a smuovere, attraverso la musica, tutti quegli ostacoli che impediscono agli esseri umani, di qualsiasi razza, religione o sesso, di essere veramente liberi. E’ anche questo che deve essere la musica, non solo divertimento, ma impegno. Non è un caso che Batiste, nel momento di ritirare il Grammy per il miglior disco dell’anno, ha voluto sottolineare subito questo aspetto: “Amo la musica, suono da quando ero un ragazzino. Per me è più che intrattenimento, è una pratica spirituale".  




Blackswan, giovedì, 22/12/2022

martedì 20 dicembre 2022

LA GRANGE - ZZ TOP (London Records, 1973)

 


La Grange è il nome di una piccola cittadina del Texas, posizionata a metà strada tra Houston e Austin, e attraversata dal fiume Colorado, le cui anse ne rendono piacevolissimo il paesaggio. Un luogo ameno, dove il tempo sembra essersi fermato agli inizi del ‘900, e che sarebbe, però, rimasto, nell’anonimato, se la Coca Cola, decenni fa, non avesse edificato un impianto di imbottigliamento e, soprattutto, se gli ZZ Top non avessero dato il nome della cittadina a una delle loro canzoni di maggior successo. La Grange è, infatti, è un travolgente brano boogie rock estratto come unico singolo da Tres Hombres, terzo album del trio texano, pubblicato nel 1973.

Non una canzone qualsiasi, ma una di quelle che, una volta pubblicata, è destinata a portare con sé, come effettivamente fece, un infinito strascico di polemiche. Già, perché il testo di La Grange utilizza un’indicazione geografica per parlare di un bordello. The Chicken Ranch, o Boarding House di Miss Edna, questo il nome della casa d’appuntamenti sita poco fuori la cittadina, era probabilmente la struttura più antica del Texas che si occupava della professione più antica del mondo.

Molte persone in Texas conoscevano l’esistenza del bordello, quasi una sorta d’istituzione per gli abitanti maschili della regione, e nessuno ci faceva caso. Tuttavia, quando la canzone fu pubblicata, attirò così tanta attenzione mediatica sulle attività illegali che si svolgevano lì, che la casa dovette chiudere. Ciò avvenne a causa delle pressioni di uno zelante giornalista televisivo di Houston, che aveva iniziato una battaglia contro i vizi e la corruzione diffuse nello Stato, tanto da indurre il Governatore dell’epoca a ordinare allo sceriffo di La Grange di chiudere la struttura.

Questo avvenne nonostante il fatto che The Chicken Ranch fosse un luogo controllatissimo e uno dei motori “economici” della zona. Le ragazze della signorina Edna, infatti, ricevevano visite settimanali dai medici locali e spendevano i loro soldi a La Grange, e quando fu necessario costruire un nuovo ospedale, la signorina Edna fece la prima e più corposa donazione. Nel locale, la cui clientela era assolutamente trasversale (giovanotti alla loro prima esperienza, operai, ricchi possidenti e senatori), e non si poteva bere, non si poteva imprecare, per accedervi bisognava avere un’aria rispettabile, e Miss Edna cacciava chiunque non si atteneva a queste regole o avesse comportamenti sopra le righe.

Non è un caso, quindi, che, sebbene La Grange fosse una piccola cittadina molto conservatrice, la gente si ribellò, invano, alla chiusura del bordello, che avvenne tre mesi dopo la pubblicazione della canzoni. Tre mesi soltanto per affossare ben cento anni di storia, per quanto discutibile potesse essere.

Il tema musicale della canzone era ispirata a Boogie Chillen, un brano del leggendario John Lee Hooker e il celebre suono della chitarra di Billy Gibbons venne dato da una Stratocaster del 1955 pesantemente distorta. Nel 1992, Bernard Besman, che possedeva il copyright di Boogie Chillen, fece causa agli ZZ Top per plagio, ma dopo anni di contenzioso, il tribunale stabilì che il brano di John Lee Hooker era di dominio pubblico e che la band texana non aveva commesso alcun illecito.

La Grange contribuì non poco alla notorietà degli ZZ Top che fino ad allora erano molto famosi in Texas, ma non, invece, a livello nazionale. L’abbrivio dato da questo controverso brano portò al grande successo del successivo Fandango! (1975) e al leggendario Worldwide Texas Tour del 1976-1977 che ne seguì, durante il quale, la band, ormai divenuta stella di prima grandezza, suonava su un palco a forma di stato del Texas, adornato con piante autoctone (cactus) e animali locali (poiane e bufali).

Una curiosità: la maggior parte dell’edificio, in cui lavoravano le ragazze di Miss Edna, è ancora in piedi, e solo una stanza venne smontata e rimontata a Dallas, e lì trasformata in discoteca.

 


 

 

Blackswan, martedì 20/12/2022

lunedì 19 dicembre 2022

NIKKI LANE - DENIM & DIAMONDS (New West Records, 2022)

 


Highway Queen, uscito nel 2017, a dispetto della copertina clamorosamente roots, è un disco che ha segnato un deciso cambiamento nel suono che aveva caratterizzato i due album precedenti di Nikki Lane, entrambi più decisamente legati all’outlaw country. Oggi, quelle sonorità persistono, ma non sono più dominanti, mentre l’impianto musicale di questo nuovo Denim & Siamonds, come il suo predecessore, è molto più composito.

In questo nuovo lavoro, infatti, trovano asilo rock, americana, pop retrò, e cantautorato, il tutto plasmato dalla sapiente mano di Joshua Homme, il leader dei Queens Of Stone Age, qui in veste di produttore. Ed è indubbio che il suo tocco si senta, soprattutto nel suono di chitarra di certi brani, in cui sono preponderanti accenti più marcatamente rock.

Il cambiamento, ormai consolidato, è probabile che faccia storcere il naso a quella fetta di pubblico più legata al roots e che aveva amato la Lane degli esordi. Eppure, il deciso scarto di rotta, come per Highway Queen, ha prodotto un risultato finale decisamente brillante. Quello è stato decisamente il suo disco più popolare, ma è stato anche un lavoro con cui la Lane ha dovuto fare i conti con un’improvvisa popolarità, che ha portato in giro l'autoproclamatasi regina dell'autostrada in estenuanti tour, che l’hanno provata fisicamente e mentalmente. Tanto che, nonostante una carriera ancora breve, la songwriter del Sud Carolina aveva preso in considerazione di mollare il mondo della musica e rinunciare al successo, nella speranza di ritrovare la tranquillità perduta. Un tema, questo, sviscerato in "Good Enough", canzone posta, non a caso, nel cuore della scaletta, in cui la Lane parla dei suoi dubbi e della stanchezza cronica derivata dai continui spostamenti e concerti.

La ragazza, però, ha reagito, eccome, e Denim & Diamonds è la risposta, energica e pimpante, di chi è stato sul punto di mollare tutto e ha, invece, ritrovato, un’insospettabile forza emotiva.

Dal garage autobiografico di "Born Tough" al countrypolitan "Good Enough" e al rock rombante che attraversa "Black Widow" e la title track (impossibile non cogliere l’impronta di Homme), tutto funziona a meraviglia e la voce della Lane si adatta come un guanto su misura ai diversi stili.

La spavalderia con cui la songwriter affronta la scaletta è coinvolgente, i ritornelli e le melodie si sviluppano con naturalezza e non appaiono mai forzati, e la backing band, esaltata dal pedal steel di Matt Pynn (particolarmente efficace nella ballata "Faded"), fa da equilibrato contrappunto alle ruvide intemperanze della Lane.

Si spera che Denim & Diamonds sia una nuova ripartenza di una carriera che, come detto, si era arenata per l’usura della sua titolare, a cui, la lunga pausa, se ha fatto perdere un po' di rilevanza mediatica, per converso, ha comunque trasmesso una rinnovata euforia, fisicamente palpabile in tutte le dieci canzoni in scaletta. Questo nuovo disco mostra Nikki Lane al suo meglio, è la fotografa di un’artista che ha scelto una direzione diversa, pur continuando a mantenere un piede saldamente piantato nella musica country e roots del suo passato. Che ha solo sfumato, senza mai rinnegarlo veramente.

VOTO: 7

 


 

 

Blackswan, lunedì 19/12/2022

giovedì 15 dicembre 2022

BURNIN' FOR YOU - BLUE OYSTER CULT (Columbia, 1981)

 


Se Agents Of Fortune (1976) è stato il disco che ha dato una svolta decisiva alla carriera dei Blue Oyster Cult, Fire Of Unknown Origin (1981) ha rappresentato, sotto il profilo commerciale, una sorta di rinascita della band, dopo due album (Mirrors del 1979 e Cultosaurus Erectus del 1980) le cui vendite erano state assai deludenti. Il disco è stato, infatti, l'album in studio della band ad aver raggiunto la posizione più alta di Billboard 200, conquistando la piazza numero 24. Il merito di tale exploit, come spesso accade, era dovuto a una canzone, Burnin’ For You, che entrò nella Top 40 delle charts americane, piazzandosi, poi, al primo posto nella categoria Billboard Mainstream Rock.

La genesi del brano ruota intorno alla figura carismatica di Richard Meltzer, noto critico musicale (molti lo indicano come l’inventore della critica rock) che si dilettava a scrivere testi e che in passato aveva già collaborato con la band. Meltzer aveva per le mani una strana poesia intitolata Burn Out Tonight, i cui versi omaggiavano il rock’n’roll e la vita da rocker. Quando la propose ai BOC, per vedere se si poteva tirarne fuori qualcosa, le liriche piacquero moltissimo a Don "Buck Dharma" Roeser, il chitarrista della band, e al bassista Joe Bouchard, i quali si cimentarono, ognuno per conto proprio, a scrivere una canzone che ben si adattasse al testo.

Il brano scritto da Buck Dharma, che inizialmente avrebbe voluto inserirlo nel suo album solista, Flat Out, risultò il vincente nella bizzarra sfida fra i due, e fu incluso in Fire Of Unknown Origin, con il titolo definitivo di Burnin' For You.

Il testo è semplice e diretto, corroborato da una musica energica e dall’irresistibile appeal radiofonico, e comunica quella vibrante urgenza che è il carburante più nobile del rock ‘n’ roll.

I primi otto versi della canzone contengono tutti la parola "casa", che costituisce il tema della prima strofa: ”Casa nella valle, Casa in città, la casa non è bella, non c'è casa per me. Casa nell'oscurità, casa in autostrada, casa non è la mia strada, casa non sarà mai”.

Successivamente, la parola chiave diventa il "tempo", che appare in ogni riga della seconda strofa: “Il tempo è l'essenza, il tempo è la stagione, il tempo non è una ragione, non ho tempo per rallentare. Tempo eterno, è ora di giocare ai lati B, il tempo non è dalla mia parte, tempo non lo saprò mai”.

La vita di una rock è pura inquietudine, è vagabondare, è cogliere l’attimo. Non ci sono punti di riferimento certi, e l’unica cosa che conta davvero è "vivere per dare al diavolo ciò che gli è dovuto".

Nel testo, inoltre, c’è anche un piccolo indizio, inserito di proposito da Meltzer, per suggerire la sua paternità nella stesura delle liriche. "Time to play B-sides" fa, infatti, riferimento al lato B dei vinili a 45 giri, che spesso contenevano meri riempitivi, ma talvolta celavano autentici capolavori, che i critici musicali si dilettavano a scoprire.  

 


 

 

Blackswan, giovedì 15/12/2022

martedì 13 dicembre 2022

THRESHOLD - DIVIDING LINES (Nuclear Blast, 2022)

 


Trent’anni di carriera alle spalle, undici album in studio pubblicati, i britannici Threshold sono quelli che si possono definire come una vera e propria “istituzione” della scena prog metal. Al dodicesimo capitolo della loro corposa discografia, che vede alla voce Glynn Morgan, vocalist della prima ora, nuovamente arruolato alla causa dal precedente Legends Of The Shires (2017), i progster inglesi si confermano band di altissimo livello, clamorosamente in forma, nonostante il lungo tempo trascorso dai loro esordi.

Ognuna delle dieci tracce di cui si compone questo Dividing Lines è, infatti, realizzata per offrire all'ascoltatore la migliore esperienza sonora possibile, riunendo tutti gli elementi del rock classico sotto l’egida di un inimitabile stile progressivo, che è il marchio di fabbrica dei Threshold.

"Haunted" dà il via alla scaletta, palesando immediatamente le peculiarità di un suono scintillante: un riff di chitarra potente, rabbioso, che inchioda all’ascolto con un ringhio minaccioso, la batteria martellante e la voce ispida di Morgan, e poi, quelle straordinarie aperture melodiche, perfettamente incastonate nella dura pietra del rock. Un’apertura memorabile, seguita dai sei minuti di "Hall Of Echoes", un altro gioiello di melodia che si sviluppa su un tiro power metal dalle caratteristiche innodiche, sull’interazione perfetta tra tastiere e chitarra, e che sfocia in un ritornello da mandare a memoria fin dal primo ascolto.

Una fantastica introduzione alla tastiera apre "Let It Burn", un brano dal piglio galoppante, trainato da una linea di basso incalzante, e da un lavoro alla chitarra di Karl Groom che rasenta la perfezione. "Silenced" è prog moderno al 100%, si apre alla grande con voci in stile androide, e si sviluppa su un fragoroso ritmo di batteria e un lick pesante di chitarra, mentre un geniale riff di tastiera dal sapore funky, attraversa la traccia aggiungendo un tocco atmosferico. La bravura dei Threshold, come si evince da questi brani iniziali, sta soprattutto nel mascherare la pesantezza del metal con un approccio molto melodico, ma non zuccherino, dando vita a un equilibrio del quale ci si accorge solo dopo ripetuti ascolti.

"The Domino Effect" è la prima suite del disco, un brano di undici minuti costruito con gusto e intelligenza: l’introduzione morbida e melodica viene spazzata via da una ritmica aggressiva avvolta in un backup sinfonico. Si batte il piede, certo, ma è impossibile non accorgersi del lavoro straordinario in fase di composizione e arrangiamenti messo in opera dalla band. Trascinante fino a metà, il brano poi apre a una pausa molto melodica, quasi radiofonica, che include un assolo epico di Groom, per correre via veloce verso un finale super prog, con un incredibile duello fra tastiere e chitarra, che evoca, inevitabilmente, gli eroi che portarono in auge il genere negli anni ’70.  

"Complex" possiede un tiro potente, riff di chitarra aggressivo, basso e batteria che sparano autentici fuochi d’artificio, e una bizzarra partitura di tastiere spolverata da Richard West attraversa tutto il brano con un effetto fascinoso e straniante. "King Of Nothing" è costruito su drumming inesorabile, sostenuto da bassi pesanti e chitarre schiaccianti, un filo di elettronica e la voce melodica di Morgan a stemperare il ringhio metal della traccia.

Il senso del ritmo dei Threshold è quasi irreale tanto è perfetto, e quando parte "Lost Along The Way", sarà impossibile trattenersi dall’headbagging, salvo poi abbandonarsi a un ritornello super melodico, circondato da bassi ronzanti e un irresistibile groove di chitarra e tastiera. I quattro minuti di "Run" si sviluppano su un mood più oscuro, quasi angosciato, e sfociano in un finale in crescendo, una frenetica chiosa che culmina con l’ennesimo solo stratosferico di Groom.

L'album termina con "Defence Condition", altra suite di dieci minuti, una sorta di ulteriore vademecum di ciò di cui sono capaci i Threshold: è atmosferica, è pesante, è veloce, è melodica, è lenta, è straordinariamente tecnica, è, soprattutto, la testimonianza dell'indubbia abilità di una band che ha pochi eguali in ambito di prog moderno. Tanto che, nonostante l’ora abbondante della scaletta, non esiste un solo momento di stanca, e il desiderio, quando il disco finisce, è quello di riascoltarlo ancora e ancora. Chi ama il rock progressive, al netto di alcune escursioni nel metal, troverà probabilmente in Dividing Lines il suo disco preferito del 2022, posizionandolo alla stessa altezza del celebrato ritorno dei Porcupine Tree. Un autentico gioiello.

VOTO: 8,5

 


 

 

Blackswan, martedì 13/12/2022

lunedì 12 dicembre 2022

LARKIN POE - BLOOD HARMONY (Tricki-Woo Records, 2022)

 


Dopo due acclamati album, Venom & Faith e Self Made Man, che hanno implementato la loro rilevanza mediatica, ottenendo anche ottimi riscontri di vendite, le Larkin Poe, ovvero le sorelle Rebecca e Megan Lovell, duo roots rock con sede a Nashville, pubblicano Blood Harmony, un disco che nasce come tributo alla loro identità sudista (sono originarie di Atlanta, Georgia) e che dispiega uno scintillante armamentario musicale composto di blues, rock e southern. Un lavoro, questo, che impone, ancor più di prima, le Larkin Poe come una realtà potente nel panorama rock blues contemporaneo, e che sprigiona tutta la loro forza di donne indipendenti e consapevoli, cantanti, cantautrici e musiciste di grandissimo talento.

Entrambe polistrumentiste, Rebecca e Megan Lovell hanno creato un meccanismo perfettamente sincronizzato, in cui la prima è la voce solista e si cimenta anche alla chitarra e alle tastiere, mentre la seconda, che si dedica alle armonie, suona sia la lap steel che la resofonica, dando alle canzoni un tocco roots inconfondibile. Coprodotto dalle due ragazze insieme al chitarrista texano Tyler Bryant (Tyler Bryant & the Shakedown), che è anche il marito di Rebecca, Blood Harmony, si avvale del contributo di un’ottima backing band (il batterista Kevin McGowan e il bassista Tarka Layman) e, come accennato, indirizza la propria narrazione sul legame fra le due ragazze e la loro terra, gli affetti e le relazioni famigliari.

Brave a maneggiare le radici blues, utilizzando con sapienza gli strumenti della tradizione, Rebecca e Megan aggiungono alla ricetta anche uno spigliato approccio rock, un’inevitabile tocco southern e, all’occorrenza, un pizzico di soul, facendo leva su ottimi intrecci vocali e un senso del ritmo irresistibile.

Appare chiaro, fin dall’opener "Deep Stays Down", che le ragazze abbiamo lavorato molto bene anche sul songwriting, oggi più efficace che mai. L’inizio è folgorante e mette subito le carte in tavola: un inquietante ritmo blues, che pur nella sua semplicità crea immediatamente una grande atmosfera, portando l’ascoltatore alle radici del suono, fra scenari paludosi, e una storia di assassinio e dannazione (“There's a bullet in the gun, The gun went missing, Suspicion blew up like a shotgun shell, Zipping your lips. Keep the truth in prison…”).

Le medesime atmosfere gotiche avvolgono Bad Spell, un grintoso blues rock che piacerebbe tanto a Jack White, e che suona cupo, intenso, riuscendo a far convivere contemporaneamente la ferocia con un irresistibile appeal di ascolto.

Il disco, poi, prende altre direzioni, abbracciando la ballata soul in "Might As Well Be Me", o il country rock radiofonico di "Georgia Off My Mind", una vera e propria lettera d’amore alla terra natia, abbandonata dalle due ragazze per inseguire i loro sogni di musiciste, in cui la slide serpeggia sorniona fra splendide armonie.

Quando, poi, Rebecca e Megan mostrano i muscoli, il risultato è davvero sorprendente, ed è una goduria lasciarsi strattonare da brani come "Strike Gold", canzone che è un vademecum su come le Larkin Poe sappiano scrivere canzoni che si piantano in testa alla velocità della luce: una tagliente lap steel, un irresistibile groove, sincronizzati fraseggi vocali e una sezione ritmica potente e serrata.

Tutto funziona davvero bene in una scaletta che non lascia spazio a filler, sia quando nella title track si evoca un assolato immaginario sudista, sia quando, come in Summertime Sunset la potenza espressiva delle due ragazze lambisce territori contigui all’hard rock. Il disco termina esattamente come è iniziato, con il blues, questa volta scarno, di Lips As Cold As Diamonds, un altro brano attraversato da atmosfere gotiche, in cui i riferimenti alla morte si muovono attraverso un’ossatura malinconica, in cui si intrecciano chitarre acustiche ed evocativa pedal steel.

Non vi è dubbio che le Larkin Poe siano maturate tantissimo e che oggi abbiano  un’esperienza alle spalle che consente loro di muoversi attraverso sonorità roots con grande autorevolezza. E ben venga anche quel filo di furbizia melodica con cui riescono ad accostarsi anche a orecchie meno allenate al genere: Blood Harmony è un ascolto che conquista dalla prima all’ultima traccia, un gran disco, direi il migliore della loro, ancor breve, ma entusiasmante carriera. Raccomandato.

VOTO: 8

 


 

 

Blackswan, lunedì 12/12/2022

venerdì 9 dicembre 2022

VORBID - A SWAN BY THE EDGE OF MANDALA (Indie Recordings, 2022)


 

Il loro esordio, Mind, aveva attirato l’attenzione sui norvegesi Vorbid, di cui si intravvedeva una classe infinita, seppur quel disco suonasse in qualche modo acerbo, soprattutto in fase di produzione. L’impressione, insomma, è che fossero una buona band di tecno thrash, capace di combinare riff pesanti a soluzioni progressive, ricordando molto da vicino maestri del genere, quali i Voivod. Di buon prospetto, ma troppo derivativi e non sempre lucidi.

Con questo nuovo A Swan By The Edge Of Mandala, i Vorbid sono saliti di livello in modo sorprendente, facendo un’evoluzione sonora e stilistica che li vede approdati su un altro pianeta, in termini di originalità ed efficacia compositiva. Una maturazione incredibile, grazie alla quale i norvegesi hanno costruito uno stile proprio, pur pagando debito, in termini di ispirazione, oltre che ai citati Voivod anche ai Porcupine Tree, agli Opeth, ai Mastond, e per la struttura di alcune canzoni, addirittura ai King Crimson, paragone questo, azzardato, ma non del tutto peregrino.

I riff di chitarra sono ancora radicati nel thrash con molte belle armonie, ma questa volta sono molto più all'avanguardia e imprevedibili, riuscendo a far convivere l’incredibile pulizia tecnica e una disturbante distorsione granulosa. I brani, infatti, abbinano un costante sferragliare elettrico a partiture complesse e momenti più melodici, anche in acustico, mentre la voce alterna screaming e cantato pulito, e la ritmica è spiazzante, accelera e rallenta, giocando spesso su tempi dispari.

È davvero difficile descrivere a parole quanto sia unico questo mix di influenze, e come sia impossibile etichettare A Swan By The Edge Of Mandala, rischiando di non rendergli giustizia. Allora è decisamente meglio dedicarsi all’ascolto per cercare di comprendere. Forse basterebbe una canzone come "Ex Ante" per lasciare a bocca aperta ogni appassionato, che si troverebbe di fronte a una complessa e fascinosa epopea prog metal, spinta da un fantastico lavoro di chitarra solista. Raramente, si sono ascoltate negli ultimi anni composizioni così avventurose, che combinano in modo tanto originale il fascino del prog settantiano, gli arrangiamenti del prog moderno e l'intensità del thrash metal.

Stilisticamente, l'album spazia tra canzoni dirette e dinamiche, che si poggiano su un’infinità di riff e su ritmiche imprevedibili ("By The Edge Of Mandala", "Union", "Derealization"), a fascinose digressioni prog, che si muovono, ondivaghe, tra momenti melodici e esplosioni d’intensità disarmante, con una chiarezza espositiva impressionante ("Paradigm", l'ottimo opener "Ecotone", e la già citata "Ex Ante").

Se le chitarre sono l’asse portante del disco, è però necessario sottolineare il lavoro del batterista Marcus Gullovsen, che riesce a gestire tutti gli estremi del drumming con naturale semplicità, picchiando all’occorrenza (in fin dei conti l’ossatura è thrash), ma inventandosi un turbinio di cambi tempo che lascia senza fiato.

Si potrebbe obiettare, ed è forse l’unica nota negativa di A Swan By The Edge Of Mandala, che tanta complessità stilistica tolga alle canzoni un po' di cuore, con il risultato che nel complesso il disco finisca per risultare un filo algido. Tuttavia, si tratta proprio del classico pelo nell’uovo, perché, in fin dei conti, questo è un album di livello altissimo e chiunque sia appassionato di rock progressivo e thrash metal, e di quei dischi che, come un tempo, godevano di ricche e lunghe parti strumentali, non dovrebbe lasciarselo scappare. Insieme al sophomore degli americani The Offering, a parere di chi scrive, il più plausibile candidato a disco metal dell’anno.

VOTO: 8,5

 


 

 

Blackswan, venerdì 09/12/2022

giovedì 8 dicembre 2022

OWNER OF A LONELY HEART - YES (Atlantic, 1983)

 


Owner Of A Lonely Heart venne rilasciato come primo singolo estratto dall’album 90125 (1983) e, sembra incredibile a dirsi, è stato anche l'unico brano degli Yes a raggiungere la prima piazza delle classifiche americane.

L'album da cui è tratta la canzone, ha rappresentato un drastico allontanamento dal suono progressive che aveva reso famosa la band negli anni '70, e, pietra dello scandalo, conteneva chitarre effettate e distorte, campionamenti e sintetizzatori, che ai tempi erano molto popolari, ma mal si adattavano alla storia degli Yes. 

Queste nuove sonorità finirono col creare una situazione paradossale. Se da un lato, infatti, grazie all’aiuto di MTV, gli Yes si trovarono improvvisamente amati da un nuovo pubblico composto prevalentemente di giovani (che non si capacitava, peraltro, di come gran parte del loro catalogo precedente consistesse in brani complessi, che spesso duravano ben più di 10 minuti), dall’altro, i fan della prima ora, rimasero scioccati da questa volta decisamente pop oriented, che sposava una formula canzone dal minutaggio ridotto e dall’irresistibile appeal radiofonico.

Un cambiamento drastico, che però si rivelò quanto mai fortunato per la carriera della band. Anche perché l’Atlantic Records, la casa discografica che pubblicò 90125, aveva investito molti soldi per fare un disco, l’aveva promosso con un battage pubblicitario a tappeto e aveva anche lanciato un bel video, che fu passato a tambur battente dall’allora neonata MTV. La forza trainante dell'etichetta, inoltre, era rappresentata dal manager Ahmet Ertegun, che aveva già fatto la fortuna di numerosi artisti e che si spese in prima persona perchè il brano si trasformasse in un successo planetario.

La canzone, come molto del materiale di 90125, fu scritta da Trevor Horn, Trevor Rabin, Chris Squire e Jon Anderson, che era appena rientrato nel gruppo, dopo essersene allontanato nel 1980. Quando Anderson mise mano ai testi delle canzoni, si trovò in una situazione complicata, perché se le composizioni erano già a buon punto, le liriche, invece, erano state appena abbozzate e mancavano ritornelli e strofe efficaci, tanto che ci vollero ben tre settimane di lavoro per aggiustare dei brani che, altrimenti, non potevano essere registrati. Su Owner Of A Lonely Heart si misero al lavoro Trevor Rabin e Jon Anderson. Le prime parole che i due misero insieme furono:” Muoviti, vivi sempre la tua vita senza pensare al futuro", e ancora: “Dimostralo a te stesso, vinci o perdi”.

Il resto, invece, lo scrisse tutto Anderson, perché il chitarrista aveva un impegno e dovette abbandonare gli studi in tutta fretta. Il brano, che suona energico e divertente, affronta nelle liriche un tema paradossale e decisamente suggestivo. L’idea di Anderson era quella di provare a riflettere sulle pene d’amore, ma da un’altra prospettiva, che non fosse quello dello struggimento sic et simpliciter. In buona sostanza, nelle intenzioni del cantante, il testo doveva sottolineare come, una volta che un uomo ha provato una delusione d’amore, la solitudine divenga preferibile ad avere il cuore spezzato. Resta unico proprietario del tuo cuore e vivi da solo, perché appena ti aprirai ai sentimenti, il rischio sarà quello di soffrire indicibili sofferenze. Meglio soli che disperati, questo è il senso. 

A proposito del brano, Rabin amava anche raccontare un gustoso aneddoto riguardo alla sua composizione, sostenendo che la linea di basso l’aveva scritta nel bagno di casa sua, che aveva un’acustica molto buona, durante quella che lui definì una "visita particolarmente lunga" (e chi ha orecchie per intendere, intenda).

Il disco fu prodotto da Trevor Horn, noto per la sua militanza nei Buggles e per aver preso il posto di Jon Anderson come cantante degli Yes per il loro album Drama del 1980. Quando la band si sciolse, Horn si dedicò a tempo pieno all’attività di produttore, e quindi la soluzione più ovvia fu proprio quella di richiamarlo a mettere mano anche al materiale di 90125. Il lavoro fatto, è di tutta evidenza, portò degli ottimi risultati, tanto che Owner Of A Lonely Heart raggiunse la prima piazza di Billboard negli Stati Uniti, la settimana del 21 gennaio 1984, e mantenne la posizione anche la settimana successiva, quando nel Regno Unito, un'altra canzone prodotta da Horn, e cioè Relax dei Frankie Goes To Hollywood, raggiungeva il primato. Ciò ha reso Horn l'unico produttore al mondo ad avere due successi simultanei, in cima alle charts, sia nel Regno Unito che negli Stati Uniti, con due canzoni diverse di artisti diversi.

Owner Of A Lonely Heart, inoltre, è probabilmente la prima hit rock a utilizzare un campionamento. Il break di batteria all'inizio e il suono del clacson che compare alcune volte nel corso del brano, suonano molto simili, infatti, a una breve sezione Kool Is Back, canzone del 1971 a firma Funk, Inc. 




Blackswan, giovedì 08/12/2022

martedì 6 dicembre 2022

MIDNIGHT RIDER - BEYOND THE BLOOD RED HORIZON (Massacre Records, 2022)

 


Che bella realtà, quella dei tedeschi Midnight Rider! Se, infatti, è un dato di fatto che centinaia di band si ispirano al classico heavy metal e cercano di emulare lo spirito che animava le miglior band del periodo, spesso senza riuscirci, la band di Coblenza, fin dal debutto di Manifestation del 2017, è riuscita a incarnare perfettamente l'essenza di quel suono, inchinandosi con deferenza e amore innanzi all’altare dei primi Judas Priest (grazie anche alla somiglianza del timbro vocale di Wayne con quello del giovane Halford), riuscendo, però, a evitare emulazioni fini a se stesse. Alla ricetta, però, vanno aggiunte anche altre citazioni da quegli anni leggendari, e nel disco, qui e là, spuntano echi di grandi band, come Black Sabbath, Led Zeppelin, Saxon, e chi più ne ha, più ne metta.

Il tanto atteso secondo album dei tedeschi, Beyond The Blood Red Horizon, continua nella stessa direzione del debutto, con solo lo sgabello della batteria occupato dal nuovo membro, Tim. Ciò significa che siamo ancora una volta teletrasportati nella seconda metà degli anni ’70 (e prima anni ’80), con la giusta dose di blues e hard rock iniettata da riff pesanti e da una fragorosa sezione ritmica, propria del classic metal.

La title track, che è anche il primo singolo e apre il disco, racchiude immediatamente la chiave di lettura di tutta la scaletta: puro metal old school della fine degli anni Settanta, con un tocco melodico importante e un senso per il grande riff ritmico, che potrebbe ricordare i Thin Lizzy.

"No Man's Land", "Intruder" e "Time Of Dying" sono ammantate di un fascino oscuro che evoca, ovviamente, i Black Sabbath, mentre l’epica "No Regrets" ruba la scena con grande dinamismo grazie ai fantastici assoli di chitarra di Blumi e a transizioni geniali.

Se è fuor di dubbio che i Midnight Rider, nella maggior parte dei casi, indossano con orgoglio le influenze dei loro eroi, senza, peraltro, vergognarsene, è altrettanto evidente come questo album eviti accuratamente la mera operazione del copia-incolla. Stupisce, infatti, la produzione calda e organica, un meraviglioso suono analogico, e si ha la netta sensazione di una band che stia sugli strumenti con gioia e dedizione, sgocciolando sudore e passione. Tante ottime canzoni, con una menzione speciale alla conclusiva "Always Marching On", un rockaccio adrenalinico che si apre con un riff da batticuore che evoca i Deep Purple, lasciando un buon sapore in bocca, per un disco che si beve tutto d’un fiato.

Considerate le atmosfere bollenti e le sonorità d’antan, questo è un album che meriterebbe di essere ascoltato in vinile, in modo che il viaggio a ritroso nel tempo sia il più soddisfacente possibile. La speranza è, poi, quella di poterli ascoltare dal vivo, e chissà se prima o poi passeranno dalle nostre parti. Intanto, godetevi questo goduriosissimo sophomore, sperando che non trascorrano altri cinque anni per un terzo capitolo.

VOTO: 7,5

 


 

 

Blackswan, Martedì 06/12/2022

lunedì 5 dicembre 2022

ALTER BRIDGE - PAWNS AND KINGS (Napalm Records, 2022)

 


Composti da tre membri dei Creed, Mark Tremonti, Brian Marshall e Scott Phillips, e da Myles Kennedy alla voce, gli Alter Bridge hanno iniziato a calcare le scene nel gennaio del 2004 e, con questa nuova uscita, sono giunti al settimo album in studio e a un milione di copie vendute in carriera. Un risultato ottimo, se si considera che i quattro musicisti si snodano spesso in progetti collaterali, come la band di Mark Tremonti e il lavoro da solista di Myles Kennedy, che svolge anche i compiti di frontman nella line up dei The Conspirators di Slash.

A tre anni di distanza da Walk The Sky, da annoverarsi come un buon disco, ma niente di più, con Pawns And Kings, gli Alter Bridge azzeccano un album quasi perfetto, spostando verso l’alto l’asticella dell’ispirazione e, presentandosi con una vigoria inaspettata, soprattutto alla luce del lungo blocco pandemico.

L’arma vincente del quartetto è da sempre il perfetto equilibrio fra la forza propulsiva dei riff di Tremonti e l’approccio più melodico apportato da Kennedy: se il primo, infatti, strattona le canzoni, attraverso l’aggressività tonitruante della sua sei corde, verso territori decisamente metal, Kennedy mitiga la ferocia mediante la sua voce cristallina e arabeschi melodici di facilissima presa.

Questo preponderante bilanciamento, in Pawns And Kings, talvolta, però, deborda un poco verso suoni più aggressivi del solito, e si veste di qualche piccola novità rispetto al passato. In tal senso, i sali e scendi convulsi dell’opener "This Is War" pervadono il brano di un’epica melodrammatica e teatrale che può ricordare i lavori solisti di Serj Tankian (System Of A Down), mentre la melodica "Stay", cantata Tremonti, è un brano che esce decisamente dal seminato, facendo pensare addirittura a una canzone dei Pearl Jam.

Se alcuni episodi precedenti (Fortress del 2013 e The Last Hero del 2016) procedevano col pilota automatico inserito, facendo pensare a lavori di routine privi di sincero mordente, Pawns And Kings, invece, offre la miglior versione possibile degli Alter Bridge. Il groove di "Dead Among The Living" è un vero tsunami elettrico che piega la propria forza distruttiva solo d’innanzi a un ritornello irresistibile, "Silver Tongue" è un chewing-gum per le orecchie, melodica e al contempo potente, mentre "Sin After Sin", con un intro bluesy e psichedelico, dispiega tutto il sapere di Tremonti: riff abrasivo e un suono di chitarra incredibile. Se la sezione ritmica è, come di consueto una macchina da guerra, e Kennedy spara decibel ad altezze vertiginose, è comunque il chitarrista il vero asse portante di un disco potente e intenso, attraversato da assoli e riff abrasivi, tutti distribuiti con misura ed efficacia.

Non ci sono momenti di stanca, nonostante il ponderoso minutaggio del disco (oltre cinquanta minuti), e tutto funziona alla perfezione, sia quando la band costruisce brani accattivanti, diretti e piacioni, come "Holidays", sia quando costruisce otto minuti e mezzo di trame prog metal, come nell’epica e drammatica "Fable Of The Silent Son", il brano più lungo di tutto il loro repertorio.

Non ci sono grandi novità, in questo lavoro, e in tal senso, la presenza in cabina di regia di Michael ‘Elvis’ Baskette, produttore della band dai tempi di Blackbird, è un evidente segno di continuità; ma Pawns And Kings suona intenso, vibrante e aggressivo, risultando decisamente il miglior disco degli Alter Bridge da dieci anni a questa parte.

VOTO: 7,5

 


 

 

Blackswan, lunedì 05/11/2022

venerdì 2 dicembre 2022

I CAN SEE CLEARLY NOW - JOHNNY NASH (Epic, 1972)

 


Johnny Nash è quello che si può considerare un texano doc, essendo nato a Houston, nel 1940, dove è anche morto, ottant’anni dopo, nel 2020. Eppure, il suo nome è da sempre legato indissolubilmente alla Giamaica e al reggae.

La sua storia di musicista inizia, come spesso accade ai talenti precoci, in giovanissima età. Fin da bambino fece parte del coro della chiesa di quartiere, e poi, a tredici anni, ebbe la fortuna di esibirsi cantando in un programma televisivo locale, chiamato Matinee, diventando così così uno dei primi, e rarissimi, volti neri a comparire sullo schermo. A 16 anni, ottenne un contratto discografico con la ABC Paramount, cosa che gli permise di esibirsi regolarmente nel The Arthur Godfrey Show, una trasmissione a diffusione nazionale. Durante questo periodo, ebbe la possibilità di scrivere le sue prime composizioni, registrando un paio di canzoni, A Very Special Love e Almost In Your Arms, che sono state piccole hit, grazie alla sua esposizione in televisione.

Dopo aver cambiato diverse case discografiche, senza tuttavia riuscire ad accasarsi in modo definitivo, la carriera di Nash ha una svolta decisiva 1967, quando si recò in Giamaica per registrare un suo brano, Hold Me Tight, e una cover di Cupid di Sam Cooke, con la collaborazione di una sezione ritmica locale. Inaspettatamente, entrambe le canzoni divennero grandi successi in terra di Giamaica, e nei due anni successivi, entrarono anche nelle classifiche del Regno Unito e degli Stati Uniti. Nel 1972, altre due canzoni, Cecilia e Mother And Child Reunion trovarono un certo successo negli States, incorporando inusitati ritmi reggae, tendenza che Nash seguì anche per la sua celebre I Can See Clearly Now. Insomma, fra Nash e la Giamaica si instaurò un vero e proprio rapporto d’amore, consolidato anche dalla collaborazione con Bob Marley, un giovane musicista e arrangiatore locale, che di lì a poco sarebbe diventata una stella di prima grandezza, e che per l’amico texano compose qualche canzone, tra cui Stir It Up, che sarà anche l’ultima hit del musicista americano.

Il successo, quello vero, Nash lo consegue, però, con la citata I Can See Clearly Now, un brano scritto di suo pugno, che venne registrato a Londra con i membri della The Average White Band, un gruppo funk, noto anche per la collaborazione con Eric Clapton, che, nel 1974, sfornò una clamorosa hit con Pick Up The Pieces, che raggiunse la prima piazza di Billboard 100.

Il titolo del brano e liriche in esso contenute, furono oggetto di curiose interpretazioni. Quando I Can See Clearly Now uscì, infatti, girava una storia secondo cui Nash l’aveva scritta mentre si stava riprendendo da un intervento di cataratta. Non c’è nessuna prova che ciò sia realmente accaduto, e con tutta probabilità questa curiosa notizia fu fatta circolare dall’agente del musicista, per creare un po' di rumors intorno al brano. Ancora più strampalata, la voce che girava su quello che avrebbe dovuto essere il significato recondito della canzone, che a dispetto del testo ottimista, era, invece, una consapevole presa di coscienza delle brutture del mondo, attraverso la quale, in buona sostanza, si rendeva auspicabile il suicidio, come soluzione a tutti i problemi. Un volo pindarico, questo, magari affascinante, ma privo completamente di fondamento.

Perché I Can See Clearly Now è un canto di coraggio e di speranza, un’ode a tutte quelle persone che hanno vissuto delle avversità, ma sono riuscite a superarle. Difficile attribuire un diverso significato a liriche tanto ottimiste e assertive, corroborate, peraltro, da una melodia incredibilmente allegra:”Posso vedere chiaramente ora che la pioggia è sparita, riesco a vedere tutti gli ostacoli sulla mia strada, sono finite le nuvole scure che mi rendevano cieco…sarà una luminosa giornata di sole, Oh, sì, posso farcela ora il dolore è scomparso, tutti i cattivi sentimenti sono scomparsi, ecco quell'arcobaleno per cui ho pregato…”.

I Can See Cearly Now, che è anche una delle canzoni più usate nel cinema (la trovate, ad esempio, nella sequenza finale di Ti Odio, Ti Lascio, Ti…, gustosa commedia romantica del 2006, con Vince Vaughn e Jennifer Aniston) è stata la prima canzone dalle sonorità reggae a raggiungere la prima piazza di Billboard 100, dove rimase, per quattro settimane, alla fine del 1972. Gira voce, inoltre, che sebbene il brano, ai tempi, vendette ben sette milioni di copie, Martyn Ford, che ne era stato l’arrangiatore, percepì come compenso la misera somma di 35 dollari.  




Blackswan, venerdì 02/12/2022