lunedì 31 luglio 2017

CANZONI



I Wild Ponies, duo di stanza a Nashville, composto dai coniugi Doug e Telisha Williams, hanno annunciato l’uscita del loro nuovo disco. L’album, che sarà nei negozi il 25 agosto, si intitolerà Galax, esattamente come la cittadina della Virginia in cui i due sono cresciuti e dove possiedono una fattoria con un piccolo studio di registrazione. Il duo ha appena pubblicato il video di Hearts And Bones, primo singolo tratto dall’album. Il video è stato girato in una calda serata estiva proprio nella fattoria di famiglia. La canzone, morbidissima, è stata l’ultima ad essere inserita in Galax ed è nata nel contesto intimo di una serata illanguidita da vino, candele e un cielo incredibilmente stellato. All’album hanno collaborato molti musicisti tra cui Neilson Hubbard, Fats Kaplin, Will Kimbrough and Audrey Spillman.





 Blackswan, lunedì 31/07/2017

sabato 29 luglio 2017

GENESIS – DUKE (Charisma, 1980)



Finita quella che solitamente viene definita l’era Gabriel, i Genesis ripartono ridimensionati nell’organico e con la barra del timone saldamente in mano a Phil Collins. Il batterista, con la fuoriuscita dal gruppo della prima donna di Bath, che gli imponeva regole ferree anche su come suonare la batteria, può finalmente dar sfogo alle proprie velleità di cantante (già sperimentate in rari episodi del passato: ad esempio in More Fool Me da Selling England By The Pound) e, più avanti, di compositore, oltre che sbrigliare lo stile pirotecnico che da quel momento contraddistinguerà il suo drumming all’interno del gruppo. Se all’esordio del nuovo ciclo i Genesis non sembrano risentire della mancanza del leader, pubblicando l’ottimo A Trick Of A Tail (1976), disco che equilibra l’affabulante romanticismo del passato (Ripples, Entangled, Mad Man Moon) con il piglio più marcatamente rock che aveva contraddistinto il precedente The Lamb Lies Down On Broadway (Squonk, Robbery Assault & Battery), il successivo Wind & Wuthering, uscito alla fine dello stesso anno, comincia a mostrare i segni di un cedimento d’ispirazione. Attraversato, fin dalla bella copertina di Colin Elgie, da un mood romantico e autunnale, il disco affianca piccoli gioielli (Blood On The Rooftops, Afterglow), ad aperture decisamente pop (Your Own Special Way) e a tentativi, per lo più frusti e privi di mordente (One For The Wine, …In That Quiet Earth) di rinverdire i fasti di un rock progressive ormai in balia della forza iconoclasta del nascente movimento punk. Chiuse le registrazioni del disco, è Steve Hackett, stufo di avere un ruolo marginale a livello compositivo, a mollare il colpo e a fare i bagagli. Esce così un nuovo album dall’ironico titolo …And The There Were Three (…E alla fine rimasero in tre), che vira decisamente verso il pop e una forma canzone più convenzionale. Trainato da due singoli di successo (l’improbabile e stucchevole calypso di Follow You, Follow Me e il romanticismo un po’ slavato della pur dignitosa Many Too Many), l’album vende benissimo (soprattutto negli States) ma segna un definitivo cambio di rotta della band, che comincia a intravvede il successo planetario, ma anche una normalizzazione del songwriting, che si allontana sempre più dalle asperità del lungo minutaggio e dalle strutture complesse del progressive.




E’ il 1978 e la band, nonostante un ottimo riscontro di vendite, sembra aver imboccato definitivamente la strada del declino artistico: i vecchi fans, che si sentono traditi dalla svolta presa da Collins (è lui l’eterno colpevole), iniziano a darsela a gambe levate, e la critica, influenzata anche dal nascente movimento new wave e da un nuovo modo di concepire la musica, non lesina critiche feroci a un gruppo che, viste le ultime prove, appare evidentemente in debito d’ossigeno. Quando il 28 marzo del 1980 esce il nuovo Duke, in pochi si sarebbe aspettati un disco migliore del suo predecessore. E invece Collins, Rutherford e Banks piazzano il colpo di coda che non ti aspetti, un disco gagliardo e ispirato, equidistante da tutti le opere che lo hanno preceduto ma anche da quelle che gli succederanno. I tre, insomma, tornano ad avere le idee chiare e a trovare quell’ispirazione che sembrava perduta. Non a caso, Tony Banks e Mike Rutherford hanno da poco pubblicato i loro primi, convincenti, album solisti (rispettivamente intitolati A Curious Feeling e Smallcreep’s Day), mentre Collins è alle prese con il fallimento del suo primo matrimonio, che lo spinge, potere artistico del dolore, a scrivere alcune delle sue migliori canzoni di sempre. Duke è una sorta di concept album che suona decisamente più rock (il singolo Turn It On Again è il biglietto da visita del disco), spigoloso in alcuni brani nei quali si tenta di ripensare al consunto canovaccio prog, modernizzandone le sembianze (l’iniziale suite spezzettata in Behind The Lines, Duchess e Guide Vocal e quella finale suddivisa in Duke’s Travels e Duke’s End), più ammiccante in alcuni episodi a firma Collins (le belle Misunderstanding e Please Don’t Ask), che indossano le vesti di un elegante adult pop, attraverso il quale il cantante riflette sui propri tormenti d’amore.





Il mercato viene aggredito con la già citata Turn It On Again, uno spiazzante riff in 13/8 che spinge i Genesis nella top ten delle classifiche inglesi e li conferma ai vertici di quelle statunitensi, laddove, durante il periodo Gabriel, non avevano mai nemmeno pensato di potersi avvicinare. Se da un lato, sarebbe ingeneroso un paragone fra Duke e il periodo d’oro della band, è però di tutta evidenza che questo è probabilmente l’ultimo album dei Genesis a meritare attenzione artistica. In primo luogo, infatti, è apprezzabile il tentativo di guardare al presente e di evolvere il suono mutuando anche strumenti morfologicamente agli antipodi con la storia della band (la drum machine in Duchess, ad esempio, è l’antipasto elettronico di quello che si sentirà massicciamente nei successivi Abacab e Genesis); e inoltre, non mancano certo buone canzoni in senso assoluto, come l’iniziale e festosa Behind The Lines, arrotondata affermazione d’orgoglio di una band che si sente viva e vegeta, o certi acquarelli pianistici di Banks (la sonnacchiosa Heathaze, la breve e struggente Guide Vocal), nipotini rachitici della grandeur malinconica di Firth Of Fifth. Per i fan della prima ora l’avventura dei Genesis si conclude definitivamente qui. A prescindere, però, dai gusti personali (da questo momento in poi il terzetto acquisirà stuoli di nuovi fans e avrà un ritorno commerciale mai raggiunto prima), è fuori di dubbio che l’influenza di Collins sarà determinante nel prosieguo della storia. Lanciato in una clamorosa carriera solista (Face Value del 1981, Against All Odds del 1984 e, soprattutto, No Jacket Required del 1985), il cantante batterista (l’ordine corretto ormai è questo) trasformerà i Genesis in una sorta di personale side project, attraverso il quale testare in fotocopia le idee che lo condurranno a vendere milioni di dischi. Da solo e con la band.





Blackswan, sabato 29/07/2017


venerdì 28 luglio 2017

LONDON GRAMMAR– TRUTH IS A BEAUTIFUL THING (Ministry Of Sound, 2017)



Quando nel 2013 uscì If You Wait, ricordo che per parecchio tempo non si fece altro che parlare, in termini lusinghieri, dei London Grammar e del loro album d’esordio. Tutti convinti, anche da un ritorno di vendite davvero importante, che la band originaria di Nottigham avrebbe spaccato il mondo. Invece, niente. I tre ragazzi sono spariti dalla circolazione, come se quell’improvviso successo mediatico li riguardasse solo marginalmente. Sono passati quattro anni, in cui probabilmente Hannah Reid e soci hanno cercato di capire cosa avrebbero voluto fare da grandi, se continuare cioè sulla strada già intrapresa oppure giocare un’altra mano al tavolo del successo con carte completamente diverse. Un dilemma evidentemente non facile da risolvere, vista la lunga gestazione per dare alle stampe il loro sophomore. Il nuovo Truth Is A Beautiful Thing, per quanto frutto di un lungo ragionamento, non suona però molto diverso dal suo predecessore e conferma pregi e difetti che avevano contraddistinto If You Wait. Inutile girarci intorno: i Grammar London sono una band che si prende terribilmente sul serio, incapace di tenere sotto controllo una congenita propensione al melodramma e una mano un po’troppo ridondante quando si tratta di arrangiare. Ed è altrettanto evidente, anche a un orecchio non particolarmente allenato, che certe melodie sono figlie di deja vù riadattati per l’occasione (Big Picture sembra la cover in chiave ambient pop di Where The Streets Have No Name degli U2). A parte, però, queste considerazioni da addetti ai lavori, è indubbio che Truth Is A Beautiful Thing, pur non avendo singoli spacca-classifica, funzioni bene dalla prima all’ultima canzone. Non certo una musica per allegroni, quella proposta dai London Grammar, ma un pop soul che punta dritto al crepuscolo, attraverso le movenze quasi cinematografiche di canzoni strutturate sull’emozionante voce da contralto, questa si straordinaria, della leader Hannah Reid. Così, è davvero difficile restare indifferenti a piccoli gioielli come Oh Woman Oh Man, Non Believer e Rooting For You, tutte canzoni che un cuore votato alla malinconia farà fatica a rimuovere dal proprio iPod. Niente di nuovo sul fronte occidentale, dunque, ma un disco ben calibrato, che non svende l’intelligenza compositiva a esigenze di classifica e che conferma i London Grammar come una band che, pur non rischiando nulla, sa maneggiare la materia pop con invidiabile classe.

VOTO: 6,5





Blackswan, venerdì 28/07/2017

giovedì 27 luglio 2017

HALEY & ALEXIS – ALL IN (Self-Released, 2017)



La suggestione è di quelle che non può lasciare indifferenti: due sorelle, gemelle, bionde e bellissime, che imbracciano la chitarra elettrica e si dedicano anima e corpo al sacro verbo del southern rock. Roba da perderci il sonno. Le due ragazze in questione arrivano da Atlanta, Georgia, e, pur essendo del tutto simili da un punto di vista fisico, hanno avuto un approccio del tutto diverso al mondo della musica. Haley, che delle due è la cantante, fin da ragazzina è stata travolta dalla grande passione per il rock, che la spinta a prendere lezioni di canto, a partecipare alle selezioni per American Idol e a esibirsi ovunque ve ne fosse la possibilità. Alexis, che invece suona la chitarra, ha iniziato a suonare più tardi, dopo essersi dedicata allo sport agonistico (pallavolo e basket). Alla fine, ha deciso di mollare tutto, seguendo le orme della sorella e fondando la loro attuale band che vede nella line up Chris Love alla batteria, Tom Waite alla chitarra e Dennis Stevenson al basso. All In, prodotto da Lee Davis e Mama “Jan” Smith, è l’esordio sulla lunga distanza (nel 2014 era uscito un Ep con cinque brani) con cui le due sorelle si sono già fatte notare dalla stampa locale (Jezebel Magazine, quest’anno, le ha indicate come il meglio in circolazione in città). Il disco, a essere sinceri, è molto meno rock di quanto ci si aspettasse: le undici canzoni in scaletta, infatti, pur mettendo in evidenza una buona grinta e utilizzando arrangiamenti che pongono le chitarre in primo piano, hanno un appeal decisamente radiofonico e virano spesso e volentieri verso melodie di facilissima presa. Il risultato è buono solo a metà: il materiale è ovvio e un po’ consunto e talvolta il songwriting è al minimo sindacale di creatività (I’ll Find You e It Hurts, ad esempio, sono risapute e fin troppo stucchevoli nello scontato impianto melodico). Le cose, invece, funzionano molto bene nella tripletta iniziale (Heartbeat, Kisses Never Lie e Firestorm) e nella conclusiva Rain (You Won’t Get To Me) nelle quali un mix equilibrato fra rock e pop, fra chitarre elettriche e melodia, mette in luce le buone potenzialità delle due sorelle che, pur muovendosi a una certa distanza dalle proprie radici sudiste, dimostrano di saper maneggiare egregiamente sonorità più mainstream.

VOTO: 6





Blackswan, giovedì 27/07/2017