venerdì 30 settembre 2022

VENUS - BANANARAMA (London Records, 1986)

 


Quando a maggio del 1986, le Bananarama pubblicano Venus, singolo tratto dal loro album True Confessions, scalano le classifiche di mezzo mondo, arrivando ad aggiudicarsi, addirittura, la prima piazza negli Stati Uniti. Quel trio femminile dal nome un po' stupido (scelto proprio per trasmettere un’idea di leggerezza e divertimento), e che aveva mosso i primi passi grazie ai buoni offici di Steve Jones e Paul Cook dei Sex Pistols, aveva eseguito spesso e volentieri la canzone dal vivo, anche prima della sua pubblicazione ufficiale.

Quando, visti gli ottimi riscontri del pubblico durante le performance live, la band decise che il brano potesse avere una versione definitiva da pubblicare come singolo, dovette però scontrarsi con i produttori Steve Jolley e Tony Swain, ai quali Venus non piaceva granchè, ma soprattutto erano restii all’interpretazione in chiave dance che Sara Dallin, Siobhan Fahey, e Keren Woodward volevano dare alla canzone. Ne derivarono numerosi alterchi che scaturirono nel licenziamento dei due produttori, prontamente rimpiazzati dal trio delle meraviglie composto da Mike Scott, Matt Aitken e Pete Waterman (al secolo meglio conosciuti con il marchio di fabbrica di Stock, Aitken & Waterman) che avevano da poco portato al successo You Spin Me Round (Like A Record) dei Dead Or Alive, che per le Bananarama rappresentava una vera e propria cartina di tornasole su come produrre un grande brano dance.

La canzone, che ha come protagonista la dea Venere, quale archetipo di bellezza e amore (Goddess on the mountain top, Burning like a silver flame, The summit of beauty and love), e che contiene velati ammiccamenti sessuali (I'm your Venus, I'm your fire, And your desire), divenne un tormentone radiofonico e un irresistibile riempipista, anche grazie al traino di un video frivolo e ammiccante, trasmesso massicciamente da MTV, in cui le tre ragazze apparivano in una veste decisamente più sexy rispetto al passato.

E questa è solo la storia più recente della canzone, il cui successo risale al 1969, quando il brano, scritto da Robbie van Leewuen, venne lanciato come singolo sul mercato dalla rock band olandese degli Shocking Blue, gruppo che furoreggiò in patria e negli States tra la fine degli anni ’60 e l’inizio del decennio successivo (le statistiche parlano di più di tredici milioni di copie vendute).

Corsi e ricorsi storici, Venus arrivò a piazzarsi in vetta a Billboard anche nella sua versione originaria, pubblicata per il mercato americano nel novembre del 1969. Il brano fu scritto dal chitarrista degli Shocking Blue ispirandosi a The Banjo Song di Tim Rose, portata al successo dai The Big 3 e, a sua volta, plasmata sul grande classico di Stephen Forster, Oh Susanna! Per non farsi mancare proprio nulla, poi, Robbie van Leeuwen prese in prestito, per l’incipit della canzone, lo stesso riff di Pinball Wizard degli Who.

Un patchwork riuscitissimo, dunque, interpretato dalla voce della iconica cantante Mariska Veres, una sorta di Cher dei Paesi Bassi, ai tempi, molto amata per la sua voce sensuale, le esibizioni eccentriche e il suo aspetto bizzarro, che presentava occhi cerchiati di kohl, zigomi alti e lunghi capelli nero corvino, che in realtà erano una parrucca. La bella Veres, peraltro, mai si accorse, che il testo che continuava a cantare in ogni apparizione pubblica, conteneva un errore di battitura: il termine “goddess”, ovvero “dea”, era stato sostituito per sbaglio da “goodness”, ovvero “divinità”. Una piccola sfumatura, per carità, ma che poi, in tutte le successive reinterpretazioni del brano, fu prontamente corretta.

 


 

 

Blackswan, venerdì 30/09/2022

giovedì 29 settembre 2022

DANCING IN THE MOOLIGHT - TOPLOADER (S2, 1999)

 


Bastano poche note iniziali per riconoscere Dancing In The Moonlight, una canzone che il 21 febbraio del 2000, la band inglese dei Toploader portò al successo, pubblicandola come terzo singolo dal loro album d’esordio, Onka's Big Moka (1999). Il brano, che si piazzò alla diciannovesima piazza delle charts inglesi, venne poi ripubblicato, con una nuova produzione, nel novembre dello stesso anno, e si piazzò, questa volta, alla posizione numero sette, conquistando anche la top 20 in Australia, Germania, Irlanda, Paesi Bassi, Norvegia e Spagna.

Questa, però, è solo una parte della storia, quella più recente. Perché, come spesso accade, una canzone torna a vivere una seconda volta e, magari, con maggior successo della prima. E’ proprio il caso di Dancing In The Moonlight che, nell’immaginario collettivo, vive come una canzone dei Toploader, anche se in realtà non fu scritta dalla band britannica, avendo invece natali lontani nel tempo.

Il brano, infatti, fu scritto dal tastierista e cantautore Sherman Kelly, nel 1969, dopo un viaggio nell'isola caraibica di Saint Croix. Kelly si recò in questo autentico paradiso terrestre con l’intenzione di passare una vacanza rilassante e immergersi nelle bellezze naturistiche e nelle tradizioni locali. Ma quella che pensava fosse una vacanza da sogno si trasformò, invece, in un vero e proprio incubo. Il musicista, infatti, fu la prima vittima di una spietata gang locale che, nel giro di poco tempo, uccise, massacrandoli, ben otto turisti americani. Kelly fu picchiato selvaggiamente, abbandonato in un lago di sangue e dato per morto. Se la cavò, invece, con numerosissime fratture facciali e profonde ferite al capo. Durante la lunga convalescenza, fu la musica a tenergli compagnia e l’idea di tornare a comporre e a suonare fu un vero e proprio lenimento per l’anima e il corpo, entrambi piagati da una violenza bruta e senza senso.

Fu in questo frangente che Kelly scrisse Dancing In The Moonlight, un brano che, negli intenti del tastierista, doveva spazzare via i brutti ricordi del pestaggio subito, immaginando un mondo diverso, un mondo in cui ogni essere umano vive in armonia, felice e leggero, ballando ogni notte illuminato dalla luce della luna. La prima band a registrare la canzone furono i Bofflongo, gruppo capitanato da Larry Hoppen, che aveva registrato l’album di debutto nel 1969. Per l’album successivo, rilasciato nel 1970, Sherman Kelly si unì alla band come tastierista, portando in dote proprio Dancing In The Moonlight, che fu pubblicato come singolo, senza tuttavia entrare nelle classifiche inglesi.

Nel 1971, Kelly se ne andò a Parigi per raggiungere un gruppo di amici espatriati dagli Stati Uniti, che lì avevano fondato i King Harvest. E una delle prime cose che fece, fu proprio quella di far ascoltare agli altri componenti (Dave "Doc" Robinson, Ron Altbach, Ed Tuleja e Rod Novak) la versione del brano registrata con i Bofflongo. La band ne restò entusiasta e decise di registrala a sua volta, mettendo in evidenza le tastiere e curando maggiormente gli arrangiamenti. Una prima versione fu pubblicata in Francia e, poi, dopo che il gruppo si sciolse, un’altra negli Stati Uniti, dove la band riprese a suonare, e riuscì finalmente ad avere il tanto agognato successo, visto che Dancing In The Moonlight riuscì a piazzarsi alla posizione numero tredici di Billboard.

Un’ultima curiosità. Ogni riga del testo termina con una parola che fa rima con "luce": “Everybody here is out of sight, They don't bark and they don't bite, They keep things loose they keep it tight, Everybody's dancing in the moonlight”.  Uno schema in rima particolarissimo che, nello stesso periodo, fu usato anche da Todd Rundgren per le liriche della sua celebre I Saw The Light.

 


 

 

Blackswan, giovedì 29/09/2022

martedì 27 settembre 2022

MEGADETH - THE SICK, THE DYING...THE DEAD (Universal,2022)

 


Sconfitto il brutto male che ne aveva seriamente minato la salute, e perso per strada il sodale David Ellefson, per i noti guai giudiziari, Dave Mustaine riporta sulle scene i suoi Megadeth, a sei anni dal precedente, più che discreto, Dystopia. Che ritornano, come forse nemmeno i fan più ottimisti si sarebbero aspettati, in ottima forma.

Mustaine non è ancora una vuota icona di un glorioso passato, ma un musicista che ha tanto da dire, e lo dice ancora con quel talento che ha sempre distinto i Megadeth come band capace di scartare i rigidi paletti del thrash metal. Dire che Dave Mustaine ha fatto la storia del rock suona come un inutile eufemismo, ma tant’è. L'uomo è uno dei musicisti heavy metal più influenti degli ultimi quarant'anni, una sorta di istituzione, autore di alcuni dei capitoli che definiscono il genere. Insopportabile enfant terrible per alcuni, carismatico idolo per altri, Mustaine non ha mai lasciato nessuno indifferente durante il suo travagliato, e ormai pluridecennale, percorso. Classici come Peace Sells... But Who's Buying, So far, So Good, So What e Rust in Peace, sono scolpiti nella pietra per i posteri, merito di un artista che è sempre stato capace di trovarsi nel posto giusto al momento giusto.

Sebbene la musica dei Megadeth abbia cessato di essere artisticamente rilevante da metà anni ’90 (seppure non siano mai mancati buoni dischi), sembra esserci un elemento nostalgico che continua a spingere la band verso il futuro, come un flusso costante e continuo, troppo forte per essere contenuto. Il nuovo millennio, poi, annovera dischi che, seppur non abbiamo in alcun modo modificato una formula ormai immutabile, hanno, tuttavia, fotografato un Mustaine volitivo e ispirato, ben lontano dai giorni della pensione e dell’oblio (cito The System Has Failed per tutti).

E’ del tutto evidente, però, che sarebbe folle aspettarsi dai Megadeth un nuovo Rust In Peace, ma questo The Sick, The Dying…The Dead, pur non avendo la magia del passato, è un disco di livello, con una solida direzione artistica, ottime canzoni e i soliti, eccitanti, riff tritaossa. Dave Mustaine, oggi sessantenne e reduce, come dicevamo, da una battaglia contro il cancro alla gola, non è più il ribelle di una volta, né come uomo né come musicista. Non è arrivato, però, non ha tirato i remi in barca, non si fa trascinare dalla corrente. E’ vivo e vegeto e lotta insieme a noi, mantiene acceso il fuoco con onestà e rispetto del proprio passato, con cui il legame è sempre saldo, un fattore questo che, inevitabilmente ha mantenuto longevo e stabile il progetto.

I singoli "We'll Be Back" e "Night Stalker" (con il cameo di Ice T), consapevolmente o meno, costruiscono un lungo ponte che collega i Megadeth agli anni d’oro, replicando, in qualche modo, il suono iniziale della band, senza che tuttavia si posso parlare di clonazione, perché esuberanza e gagliardia danno nuova linfa a una formula altrimenti fin troppo istituzionalizzata. Si gode fin da subito, e subito tutto appare eccitante, i vecchi tempi tornano in vita, ma senza nostalgia. Mustaine non riesuma, fa solo quello che sa fare al meglio, mettendoci un cuore grande così e la solita abilità tecnica. A dare manforte, il talentuoso Kiko Loureiro, i cui straordinari assoli sono un ulteriore gancio con frammenti del passato.

Sebbene l'autoplagio sarebbe comprensibile, specialmente in questa fase avanzata della carriera della band, le canzoni in scaletta assumono, spesso, colorazioni diverse quando Mustaine riesce abilmente a mescolare le carte, come nel finale ibrido della cupa "Dogs of Chernobyl", che fonde il suono Megadeth dei decenni ’80 e ’90 per un risultato davvero centrato. Se alcuni brani come "Junkie" e "Killing Time" suonano prevedibili, cioè suonano esattamente come un brano che ti aspetteresti dalla band, sorprende, invece, in positivo, l’approccio melodicissimo e quasi “radiofonico” di "Mission to Mars", che non cambierà la vita, ma, accidenti, è divertentissimo e si assimila in un paio di ascolti.  

Forse un minutaggio più ridotto e una maggior focalizzazione sulla scrittura avrebbe giovato maggiormente alla riuscita del disco, che, qui e là, denuncia qualche momento buttato lì solo per riempire gli spazi. Sono, però, dei difetti su cui è possibile sorvolare e che non incidono più di tanto su un album attraversato da echi del passato, ma ciò nonostante ancora vibrante, per buona parte ispirato, e abbastanza rumoroso da far danni ai padiglioni auricolari, così da mantenere vivo e vegeto un marchio storico che ha davanti a sé, ancora, un futuro. E fin tanto che il livello è questo, rallegriamoci che MegaDave sia tornato in salute.

VOTO: 7

 


 

 

Blackswan, martedì 27/09/2022

lunedì 26 settembre 2022

BREATHLESS - SEE THOSE COLOURS FLY (Tenor Vossa Records, 2022)

 


Uscito a fine luglio, See Those Colours Fly è il primo disco pubblicato dagli inglesi Breathless da dieci anni a questa parte, il terzo a essere stato rilasciato nel nuovo millennio. Autoprodotto, e mixato da Kramer (Galaxie 500 e Low), con cui la band aveva già lavorato su tre canzoni del loro Green To Blue (2012), il disco è stato ritardato da un terribile incidente accaduto al batterista Tristram Latimer Sayer, che è finito in coma, rischiando di perdere la vita, e non ha, quindi, potuto contribuire alle registrazioni dell’album, frutto esclusivo del lavoro del tastierista/cantante Dominic Appleton, del chitarrista Gary Mundy e del bassista Ari Neufeld. A complicare ulteriormente le cose, è arrivata anche la pandemia, che ha costretto il terzetto a evitare gli studi di registrazione professionali e a lavorare da casa, posticipando il lavoro di assemblaggio e rifinitura a quando le misure anti pandemia si sono allentate.

Eppure, nonostante gli imprevisti e i contrattempi, l’ispirazione non ne ha risentito assolutamente, e il disco è magico come solo i dischi dei Breathless sanno essere. E’ dolce abbandonarsi a questo dream pop malinconico e struggente, a queste melodie fluttuanti a mezz'aria, che emergono da una nebulosa emotiva indecifrabile, per poi sgranarsi lentamente e disperdersi in uno sfarfallio di colori, esattamente come nella bella copertina dell’artista Jay Cloth. Il cuore batte forte, la mente evoca, il corpo si dissolve e diventa un tutt'uno con un’estasi melodica plasmata in un romanticismo dal respiro lento, avvolgente, totalizzante.

La traccia di apertura "Looking For The Words" prende fiato attraverso una dolce caligine e si gonfia lentamente di maestosità sinfonica, suggerendo il tono di un disco che vive in una terra di nessuno, a metà strada tra cose mortali e tendenza all’assoluto. "The Party's Not Over" scivola fra brume autunnali, è uno scatto in bianconero tendente verso tonalità scure, la cui grana sonora evapora in sensazioni ipnagogiche, dolci e inquiete al contempo. "My Heart and I" destabilizza giocando sulla dissonanza lirica: da un lato, il dolce, quasi etereo, ornamento melodico, dall’altro, un testo che indaga sulla solitudine e il passare del tempo, con un retrogusto molto amaro. "We Should Go Driving" spinge appena poco di più sulla ritmica, veste un abito semplice e senza orpelli, è schietta e diretta nella sua progressione melodica che conduce verso lo sprofondo emotivo.

E’ un continuo saliscendi, "See Those Colours Fly", da un lato, l’estasi melodica, lo sfarfallio accattivante di melodie che conquistano al primo ascolto, dall’altro, i repentini tonfi al cuore, i languori malinconici, i groppi in gola, per una musica che non fa sconti sotto il profilo delle emozioni. Ed è tutto un fluttuare, un ondivago aggirarsi senza meta, perduti tra le stratificazioni di "So Far From Love", che intreccia vaporosi fili di dream pop a trame shoegaze, con la sensazione di trovarsi di fronte a dei R.E.M. sgranati dalla narcolessia, o nell’esitante incedere della mesta "The City Never Sleeps", uno sguardo arreso sugli anni bui della pandemia, o nell’inquietante progressione della conclusiva "I Watch You Sleep", sette minuti di crescendo aspri, terrigni, scartavetrati d’impaziente elettricità.  

See Those Colours Fly è un disco di bellezza disarmante, che vive di contrasti, seducendo attraverso l’impalpabilità eterea delle melodie, contrapposta alla carnalità di emozioni che scuotono l’anima, serrano il cuore e inducono a un pianto liberatorio, le cui lacrime sgorgano dal tormento o dall’estasi spirituale. Un disco per sognatori, che non hanno bisogno di chiudere gli occhi, per lasciarsi trasportare in un mondo parallelo, dove bellezza, malinconia, solennità, immaterialità e tristezza sono i colori di un arazzo che ruba lo sguardo e restituisce poesia.

VOTO: 9

 


 

 

Blackswan, lunedì 26/09/2022

venerdì 23 settembre 2022

FLORENCE + THE MACHINE - DANCE FEVER (Polydor, 2022)

 


I dischi che si soffermano a riflettere sull'era della pandemia sono tantissimi, tanto da essere diventati quasi dei cliché. Certo, riflettere sulla vita, sulla società e di come ci siamo definiti in questi anni bui rappresenta comunque uno sforzo artistico apprezzabile. Tuttavia, il genere è diventato un territorio sovrappopolato, in cui i temi, ormai un po' frusti, sono sempre quelli di come riuscire a superare la solitudine e quanto gli altri siano importanti per noi. Meglio cercare un approccio diverso e rendere costruttiva la riflessione su come sfuggire all'isolamento, superare le proprie nevrosi e rimettersi in gioco. Ed è esattamente quello che si trova nel nuovo album di Florence + The Machine, che affronta un argomento trito e ritrito da una nuova prospettiva, quello dell’artista che crea musica, la suona, la balla, ne esalta il potere salvifico.

In Dance Fever, la cantante Florence Welch si chiede perché creiamo arte, concentrandosi sul fenomeno della "coreomania", una sorta di manifestazione isterica (detta anche tarantismo) a seguito della quale le persone sentono l’irrefrenabile bisogno di ballare fino allo sfinimento. Welch ha trovato questa follia estremamente stimolante, e ne ha tratto ispirazione per porre (e poi rispondere) la domanda sul perché balliamo, ci esibiamo e ci divertiamo, attraverso brani che trasmettono il tipo di beatitudine che potrebbe portare gli ascoltatori in uno stato di incontrollata euforia (le vibranti orchestrazioni dell’iniziale "King", la coinvolgente progressione melodica di "Free", il groove percussivo di "Daffodil").

Welch affronta il tema in "Choreomania", in cui la cantante immagina di ballare fino ad esaurirsi: “Ho continuato a girare e ho ballato fino alla morte”.  La musica controlla il corpo, spingendolo fin oltre la soglia del dolore, l'arte e la mortalità sono collegate, il che rende la musica qualcosa di diverso da un semplice piacere: è pericolosa e comporta dei rischi. Che però è necessario correre, perché se il rock’n’roll è morto, se il processo compositivo è agonizzante, per tornare a creare bisogna cercare l’essenza della musica, la sua intrinseca verità, non importa quanto faticosa e dolorosa sia la ricerca.  In questo senso, il disco è un esercizio di meta-scrittura di canzoni: Welch commenta il processo di comporre e suonare musica, mentre lo fa.

Solo così si può uscire dalla comfort zone: rischiando. Per Welch, la creatività significa sperimentare la completa libertà, e in tal senso, nella splendida "Free", la songwriter è chiarissima al riguardo: “Ma non c'è nient'altro che so fare / Se non aprire le braccia e darti tutto / Perché io ascolto la musica, sento il ritmo / E per un momento, quando ballo / sono libera”.

Come dicevamo all’inizio, Florence rivolge la sua attenzione anche agli effetti del Covid e della pandemia sulla creatività. Se la musica e il ballo sono sinonimo di libertà, le stesse diventano un bene prezioso, non solo per l’artista ma anche per tutti gli altri, in quanto rappresentano una sorta di liberazione, un’efficace terapia. La vita senza musica sarebbe inutile, a maggior ragione in questi anni bui di paure e isolamento. In tal senso, Dance Fever è una delle poche opere d'arte a tema pandemia che non suona artificiosa: è specifica sul valore della musica per l'individuo e, per estensione, per tutta la comunità.

L'arte, in definitiva, è una liberazione fisica dai demoni interiori, un processo laborioso e doloroso che fornisce un’indispensabile catarsi. L’ultima traccia in scaletta, "Morning Elvis", incarna questa convinzione: fare arte è più di un passatempo gioioso, è salvezza. Mentre il crescendo raggiunge il suo apice, la Welch canta: "Oh, sai che ho ancora paura… Ma se arrivo sul palco, ti mostrerò di cosa si tratta essere risparmiati”. Welch deve fare la sua arte ed eseguirla perché solo così sarà salva. E salvando se stessa, aiuta gli altri ad affrontare i loro traumi derivanti dal Covid. La pandemia ha portato con se la perdita, la scomparsa di cose e persone, senza le quali credevamo di non poter vivere. La musica, però, è stato un prezioso lenimento: ha permesso di superare il dolore e ha garantito la sopravvivenza. Per la Welch e per tutti noi.

VOTO: 7,5

 


 

 Blackswan, venerdì 23/09/2022

giovedì 22 settembre 2022

JAMESTOWN REVIVAL - YOUNG MAN (Thirty Tigers, 2022)

 


A distanza di otto anni dal loro album di debutto, Utah, e a tre anni dalla loro ultima fatica in studio, San Isabel, il duo texano, Jamestown Revival, ritorna con Young Man, un disco che abbraccia un suono essenziale e completamente acustico, figlio della decisione della band di escludere le chitarre elettriche e di asciugare gli arrangiamenti, per dare alle canzoni la possibilità di parlare da sole, senza nessuna spinta o artificio, la lingua più schietta del country folk. Obiettivo raggiunto, grazie a due fattori chiave essenziali, la produzione e la qualità delle canzoni.

I compiti dietro la consolle sono condivisi tra Robert Ellis, un musicista texano che ha alle spalle cinque album molto apprezzati dalla critica, e Josh Block, ingegnere del suono e batterista, che vanta numerose collaborazioni. Insieme, sono riusciti a creare un suono e una sensazione che, allo stesso tempo, possiede sia un sapore di radici d'altri tempi che un groove in linea con produzioni più moderne. Il risultato è quello di un suono suggestivo e caldo, grazie al quale vengono messe in piena luce quelle armonie, che da sempre sono il marchio di fabbrica di Jonathan Clay e Zach Chance, e melodie semplici ma efficacissime.

Detto questo, affinché una produzione così essenziale funzioni davvero, deve avere, però, le canzoni su cui lavorare, e qui, su Young Man, ce ne sono in abbondanza. A partire dalla traccia di apertura, "Coyote", che, trasognata, sussurra dolcemente nell'orecchio come un caldo vento del deserto, e dalla title track, con il banjo e i violini in primo piano, ad accendere un ritornello contagioso.

È da questa canzone, poi, che si dipana, il tema lirico dell'album, che riflette, cercando di riconnettersi con la purezza e l'innocenza di un tempo più semplice (quello della giovinezza), sulla consapevolezza che l'età e l'esperienza portano, senza, però, talvolta, essere in grado di rispondere alle domande, che, nel corso della vita, si presentano numerose e indefettibili. In tal senso, anche "Old Man Looking Back", si sofferma sul tema della presunta saggezza che deriva dall'età e sull'accettazione del fatto che lo scorrere del tempo e l'esperienza sono, in definitiva, i migliori insegnanti possibili.

Album di questo tipo, a volte, possono suonare monocordi, mancare di varietà nel ritmo e nel mood, ma in Young Man il rischio non si corre e le insidie sono azzerate, perchè il calibrato uso degli strumenti e degli arrangiamenti rende varia la scaletta, producendo sensazioni uditive diverse: una percezione sinistra e oscura emerge in "Moving Man", un surplus di passione in "Those Days", un piglio sbarazzino in "Way It Was", aperta da una meravigliosa intro di chitarra.

E’ indubbio che i Jamestown Revival abbiano preso un azzardo attraverso questo approccio scarno ed essenziale, ma è stato un rischio calcolato e vincente, che ha evidenziato una maggiore chiarezza espositiva rispetto ai loro album precedenti. La produzione asciutta ha rimosso alcune delle dolci sfumature pop del passato e le ha sostituite con qualcosa di più reale, concreto e permanente, senza tuttavia, che si sia persa l'accessibilità o il fascino che caratterizza il modo di Clay e Chance di scrivere canzoni.

VOTO: 7

 


 

 

Blackswan, giovedì 22/09/2022

martedì 20 settembre 2022

PASS THE DUTCHIE - MUSICAL YOUTH (MCA, 1982)

 


La parola “Dutchie” è un termine patois che sta a indicare un forno olandese, cioè una specie di pentola. Ora, direte giustamente voi, che senso ha intitolare una canzone “Passa la pentola”? Assolutamente nessuno. E infatti, il titolo originario del brano era un altro. La canzone, infatti, vide la luce a inizio 1982, ed era stata composta e cantata dal gruppo reggae The Mighty Diamonds, con il titolo Pass The Kutchie, che in gergo giamaicano sta a significare, più o meno, passami la pipa per fumare la cannabis. La canzone, così concepita non ebbe alcun successo.

Qualche mese più tardi, però, il brano venne regalato ai Musical Youth, una band britannico-jamaicana di reggae, composta da cinque ragazzini, di età compresa fra gli undici e i sedici anni, e inserita nel loro album d’esordio The Youth Of Today. I membri del gruppo, come detto, erano originari della Giamaica, e vivevano nella periferia di Birmingham, in Inghilterra. I Musical Youth erano stati messi in piedi, per gioco, da Freddie Waite, un musicista che aveva suonato in una reggae band nel paese natio. Waite coinvolse i suoi due figli, Patrick e Junior, e due dei loro compagni di classe, Kevin e Michael Grant, e registrò così un primo singolo, "Political", che attirò l'attenzione del DJ della BBC John Peel e soprattutto della MCA Records, che propose al gruppo la firma su un contratto, a condizione che Waite fosse sostituito con un altro ragazzino: Dennis Seaton, di quattordici anni.

I Musical Youth erano una band di talento e i cinque componenti, seppur giovanissimi, sapevano suonare i propri strumenti con discreta abilità tecnica. La gestione di questa giovanissima ensamble, però, fu disastrosa, e a parte l’exploit di Pass The Dutchie, e qualche altro singolo di successo, ma solo in Inghilterra, la band cadde a pezzi velocemente, soprattutto quando la MCA li mollò alla meno autorevole New Edition. La vita dei fratelli Waite, peraltro, precipitò in un gorgo di droga e violenza senza fine, come spesso accade ai figli delle periferie più disagiate: Patrick morì per droga nel 1993, all’età di soli ventiquattro anni, mentre Junior, per gli stessi motivi, finì in clinica. La loro cover di Pass The Kutchie fu, quindi, il loro unico momento di gloria, quello che avrebbe potuto trasformarsi in una redditizia carriera, che invece non arrivò mai. 

Vista la giovane età dei componenti della band e il tema trattato, il titolo e il testo della canzone vennero completamente stravolti, e tutti i riferimenti evidenti alla droga furono rimossi dal testo. Ad esempio, nel brano originale la frase "Come ci si sente quando non hai erba?", è stata opportunamente modificata, sostituendo la parola “erba” con “cibo”. In questa versione edulcorata, il brano si rilevò un autentico successo. Il 17 settembre del 1982, debuttò al numero 26 delle charts britanniche, e salì al numero 1 la settimana successiva. Nel febbraio 1983, raggiunse anche la piazza numero 10 nella classifica statunitense dei singoli di Billboard Hot 100, e ottenne la posizione n. 1 in almeno altri cinque paesi, vendendo alla fine più di cinque milioni di copie in tutto il mondo.

Strano a dirsi, ma il brano è tornato di moda proprio negli ultimi mesi, in quanto è stato inserito nella colonna sonora della serie televisiva, prodotta da Netflix, Stranger Things.

 


 

 

Blackswan, martedì 20/09/2022

lunedì 19 settembre 2022

OZZY OSBOURNE - PATIENT NUMBER 9 (Epic, 2022)

 


Quando due anni fa, uscì Ordinary Man, undicesimo album in studio della leggenda Ozzy Osbourne, in molti, sottoscritto compreso, erano convinti che quello sarebbe stato il suo ultimo disco di materiale originale. Giravano, infatti, voci, e continuano a girare, di uno stato di salute, per così dire, non ottimale.  Invece, il paziente, che sembrava più di là che di qua, torna per stupire tutti, con un disco che è allo stesso livello, se non superiore, del suo predecessore. E lo fa con la consueta ironia, sbertucciando la morte e la malattia in un titolo che è tutto un programma, aprendo la scaletta con una risata mefistofelica, che sa di scherno nei confronti di tanti gufi, e gioca coi titoli e i testi delle canzoni, che possiedono, evidentemente, un intento apotropaico ("Immortal", "Dead And Gone", "Mr. Darkness").

Patient Number 9 è un ritorno in grande stile, però, non certo uno stanco riaffacciarsi sulle scene alla ricerca di uno smalto perduto. Il disco, semmai, esprime la volontà di ribadire quel ruolo iconico, interpretato durante mezzo secolo di storia del rock, vero e proprio anello di congiunzione fra epoche e generi. Se già in Ordinary Man erano presenti inaspettati ospiti (Elton John, Post Malone, oltre a Slash, Tom Morello and more), in questa nuova prova, Ozzy addirittura esagera, chiamando alla sua corte un parterre de roi di straordinari chitarristi (Eric Clapton, Zakk Wylde, Jaff Beck, Mike Mc Cready, Toni Iommi), e integrando la consueta, ottima backing band (un plauso al chitarrista e produttore Andrew Watt) con musicisti del calibro di Robert Trujillo (Metallica), Chad Smith (Red Hot Chili Peppers), Josh Homme (QOTSA), Duff McKagan (Guns & Roses) e il compianto Taylor Hawkins.

Una formazione di fuoriclasse che, è bene precisare, sono estremamente funzionali a un progetto, che, è bene precisare anche questo, sarebbe stato in piedi egualmente. Perché Ozzy, per quanto acciaccato possa essere, le canzoni le sa scrivere davvero. Certo, è tutto prevedibile e il canovaccio è scontato, ma non c’è nulla che suoni posticcio, nulla che non riesca a divertire tutti coloro che sanno cosa aspettarsi dal Principe delle Tenebre, e magari, piacevolmente sorprendere chi, da queste parti, non è mai passato.

Patient Number 9 è, infatti, un disco che rappresenta al 100% la cifra estetica di Osbourne: il ghigno metal di riff rocciosi, l’appeal radiofonico di ritornelli e melodie, echi dei leggendari Black Sabbath, il feeling inquietante con le tenebre, un mix seducente di malinconia e nostalgia, e, soprattutto, quella voce lì, probabilmente ritoccata in studio per far fronte all’usura del tempo, ma comunque ancora in grado di evocare i giorni di gloria.

Il tema è risaputo, ma lo sviluppo è eccellente, e si fa davvero fatica, soprattutto se come il sottoscritto siete fan della prima ora, a trovare punti deboli o non all’altezza di cotanta fama. Il disco inizia con i sette minuti della title track, che mette immediatamente in evidenza l’ottima ispirazione che attraversa tutto il disco: un brano rock a tutto tondo, animato da suoni moderni e da un ritornello di quelli da cantare insieme sotto il palco. Jeff Beck alla chitarra è un plus che innanza ulteriormente la qualità della canzone con una sventagliata di elettricità e tecnica, testimonianza iniziale di quanta nobiltà musicale sia presente in questo disco.

Il basso distorto che apre "Immortal" e il riff di chitarra che spinge il piede sull’acceleratore, consegnano all’ascolto un altro brano che si muove sul confine fra rock e hard, ed è tagliato in due dall’assolo di Mike Mc Cready, la cui chitarra è effettata al parossismo. Se "Parasite" parte con un passo pesantissimo, per poi aprirsi a un ritornello di presa immediata, "No Escape From Now" è un colpo al cuore per i fan dei Black Sabbath, le cui atmosfere cupe vengono replicate da un riff sulfureo (soprattutto quello che taglia in due la canzone) e da un ottimo lavoro alla solista del sodale di sempre, Tony Iommi.

E siamo solo all’inizio di un disco, la cui vitalità è straordinariamente contagiosa e in cui i momenti da ricordare sono davvero tanti. Eric Clapton regala un tocco bluesy al superbo e vibrante rock di "One Of Those Days", e la magia si eleva a status celestiale, "Mr. Darkness" è un’evidente autocitazione, una canzone che abbiamo ascoltato decine di volte, e ciò nonostante l’incanto resta il medesimo e la formula continua a essere vincente. "Nothing Feels Right" è un mid tempo molto melodico e malinconico, ma trova un’inaspettata sferzata di energia nell’assolo di Zakk Wylde (suono straordinario, tecnica e fantasia da vendere), che, a parere di chi scrive, è il miglior contributo esterno al disco, "Degradation Rules" è sabba nero al 100%, evocato anche dall’armonica che cita "The Wizard" e dal riff luciferino di Iommi, mentre la sezione ritmica di "Dead And Gone", composta da Trujillo e Smith, riesce a rivitalizzare un brano non proprio all’altezza del resto. Chiudono le atmosfere ultraterrene di "Darkside Blues", e la sensazione è che Ozzy voglia congedarsi dal suo pubblico tornando nell’alveo di quelle sonorità antiche da cui tutto è iniziato.

I’ll Never Die, Because I’m Immortal” recita Ozzy nel brano di apertura, Patient Number 9, ed è quello, che ovviamente, tutti ci auguriamo. Perché dischi come questi non sono icone vuote figlie di un glorioso passato, ma la testimonianza, semmai, che il sacro fuoco del rock può sconfiggere l’usura del tempo e mantenere la passione di un cuore affaticato, ma ancora incredibilmente vitale.

VOTO: 8

 


 


Blackswan, lunedì 19/09/2022

venerdì 16 settembre 2022

H.E.A.T. - FORCE MAJEURE (earMusic, 2022)

 


Un nuovo album per gli svedesi H.E.A.T, l’ennesima dimostrazione che quando si tratta di suonare un hard rock melodico, istantaneamente accattivante e ben scritto, questi ragazzi hanno davvero pochi eguali al mondo.

La novità più sostanziosa del nuovo corso, è che è tornato il cantante originale Kenny Leckremo dopo l’abbandono di Erik Gronwall (ora in forza agli Skid Row), che ha prestato la propria ugola, e che ugola, agli ultimi quattro album in studio. Una fuoriuscita che avrebbe potuto essere esiziale per la carriera della band e che invece è stata gestita con grande intelligenza, grazie al recupero di un componente storico, per la gioia di tanti nostalgici fan.

La domanda, tuttavia, sorge spontanea, e cioè quanto il cambiamento di line up abbia inciso sui contenuti di questo nuovo disco. Quale direzione hanno preso gli H.E.A.T? Sono tornati al suono più AOR dei primi due album, a quello più commerciale di Into The Great Unknown, o hanno mantenuto lo slancio potente dell'ultimo H.E.A.T. 2 e lo stile decisamente più hard degli anni con Gronwall alla guida?

Se è vero che Leckremo porta in dote uno stile vocale leggermente diverso, è altrettanto vero che la scrittura e la direzione imboccata da Force Majeure sono una continuazione dell'ultimo lavoro in studio e dello stile che aveva vestito l’ottimo Address The Nation. Quindi, questo nuovo disco è fondamentalmente una prosecuzione del suo predecessore, possiede la stessa urgenza, la medesima grande produzione e quelle irresistibili melodie, che sono da sempre un marchio di fabbrica degli svedesi. Questo, insomma, con qualche muscolo in più, è un classico disco degli H.E.A.T, e le canzoni mantengono alto il livello compositivo che, piaccia o meno il genere, è sempre stato il fiore all’occhiello di questi moderni figliocci degli Europe (date un ascolto a Harder To Breathe per rendervi conto del parallelo). 

Ancora una volta, come sempre accade, in scaletta è un susseguirsi di canzoni killer una via l’altra, tre singoli che dimostrano tutto il talento della band a scrivere brani di impatto immediato (Back To The Rhythm, Nationwide e Hollywood) e altri otto gioiellini da applausi (Tainted Blood, Not For Sale, Hold Your Fire e Wings of An Airplane le migliori), tra cui Demon Eyes, una tirata NWOBHM (con assolo spaziale di Dave Dalone), che è probabilmente il brano più duro mai cantato da Leckremo in carriera.   

Senza grandi sorprese, almeno per quelli che sono fan di primo corso, gli H.E.A.T. hanno dimostrato, ancora una volta, di essere un gruppo rodatissimo, impermeabile agli imprevisti, e capace di correre sempre nella direzione giusta, con grande forma fisica e passo inarrestabile. Personalmente, preferivo il timbro di Gronwall, ma Leckremo non lo fa certo rimpiangere e, probabilmente, questa è anche la sua miglior prova di sempre. Se cause di forza maggiore hanno imposto un inaspettato cambiamento di formazione, gli H.E.A.T. restano, comunque un gran band, anzi, giocando un po' sul titolo dell’album, una vera e propria forza della natura.

VOTO: 7

 


 


Blackswan, venerdì 16/09/2022

giovedì 15 settembre 2022

HEAVEN IS A PLACE ON EARTH - BELINDA CARLISLE (Virgin/MCA, 1987)


 

Il nome di Belinda Carlisle è indissolubilmente legato a quella clamorosa hit che porta il nome di Heaven Is A Place On Earth. Non tutti sanno, però, che la carriera della musicista losangelina nasce qualche anno prima, quando, dopo aver lasciato il gruppo punk The Germs, per il quale suonava la batteria sotto lo pseudonimo di Dottie Danger, Belinda fondò le Go-Go’s insieme all’amica Jane Wiedin e alla batterista Gina Shock, alla chitarrista (ex bassista) Charlotte Caffey e alla bassista (ex chitarrista) Kathy Valentine.

Una band, questa, passata alla storia perché è stata il primo gruppo tutto al femminile ad aver avuto un album al primo posto nelle charts statunitensi (Beauty And The Beat, 1981) e perché le ragazze ebbero l’indubbio merito di essere riuscite a far digerire la loro new wave, non proprio commerciale, anche alle radio popolari statunitensi.  

L’avventura delle Go-Go’s, nonostante il successo mediatico, dura solo quattro anni. Nel 1984, il gruppo è una polveriera, volano stracci e il peso della notorietà è un fardello che diviene ogni giorno troppo pesante. Anche perché, queste cattivissime riot grrl, sono sempre sotto i riflettori, per una serie di comportamenti non proprio edificanti: distruzione di camere d'albergo, sfizi sessuali con fan di sesso maschile e uso smodato di droghe, a causa delle quali la Carlisle finisce in overdose e si salva la vita solo per il rotto della cuffia.

Belinda, dopo lo scioglimento, inizia disintossicarsi e a dedicarsi assiduamente alla palestra, e tornata in piena forma, dà il via, con l’aiuto del produttore Rick Nowels, alla propria carriera solista, pubblicando un album di successo (Belinda, 1986), in cui le sonorità si fanno pop rock e il tiro decisamene commerciale. La visibilità, quella vera, la ottiene però con il successivo Heaven On Earth (1987), che scala le classifiche di mezzo mondo, Italia compresa. Il merito? Ovviamente di un grande singolo, Heaven Is A Place On Earth, che tocca la vetta di Billboard negli States e arriva al primo posto anche in Inghilterra.

La canzone, un brano effervescente, il cui ritornello entra in testa fin dal primo ascolto, fu scritta da Rick Nowels (che aveva scritto e prodotto I Can't Wait di Stevie Nicks) e dalla newyorkese Ellen Shipley, musicista che si era ritirata dalle scene, dopo tre album di buona fattura. L'idea iniziale per comporre il brano venne proprio a Shipley, che durante una sosta in una stazione di servizio di Brooklyn, notò un biglietto di auguri che recitava "Heaven On Earth". Quando lei e Nowels iniziarono a lavorare per scrivere qualche canzone per il nuovo album di Belinda Carlisle, Shipley scrisse quella frase sulla lavagna, come idea di partenza per una nuova composizione. Nowels, attratto dalla scritta, aggiunse le parole "Is A Place", così da avere un titolo pronto all’uso, "Heaven Is A Place On Earth".Le prime note che scaturirono dalla penna dei due furono quelle del ritornello, intorno al quale costruirono l’intera struttura del testo. Che parla d’amore, nella sua accezione più sublime.

L’idea, infatti, era quella di parlare della terra come di un vero e proprio Paradiso, in ragione del fatto che l’amore era indiscutibilmente un sentimento di natura divina. Così, quelle liriche che tutti noi cantiamo a squarciagola, senza forse comprenderne il vero significato, sono  meno banali di quanto si possa pensare, ed elevano ad altezza Regno Dei Cieli l’amore fra uomo e donna: “Tesoro sai quanto vale? Il paradiso è un posto sulla terra, Dicono che in paradiso l'amore viene prima. Noi faremo del paradiso un posto sulla terra”.

Parole appassionate, ma non stupide, forse un po' zuccherine, certo. D’altronde, l’ispirazione per la canzone nasce da un biglietto d’auguri trovato in una stazione di servizio. Un’idea da un dollaro, che ne valse milioni.

 


 

Blackswan, giovedì 15/09/2022

martedì 13 settembre 2022

BLACK STONE CHERRY - LIVE FROM THE ROYAL ALBERT HALL (Mascot, 2022)

 


Il rock muscolare, sanguigno e ruspante dei Black Stone Cherry quasi sicuramente farà storcere il naso a chi è in cerca di musica “alta”, più elegante, complessa o raffinata. Figuriamo, poi, se la band originaria del Kentucky, rilascia un disco dal vivo, in cui la semplicità espositiva è rafforzata dalla presa diretta e da volumi importanti. Eppure, c’è un rapporto profondo che lega la band ai propri fan e, in genere a tutti coloro che mettono l’energia e la chitarra elettrica al primo posto nella scelta delle canzoni da ascoltare, un rapporto che è la sostanza stessa di questo vibrante rock carne e patate. Se desiderare, quindi, avere una fotografia chiara di come si sta sul palco, di come sia possibile spendere ogni stilla di sudore per dare gioia al proprio pubblico, e del legame profondo che lo lega ai propri idoli, bene, fermatevi qui per scoprire così vi aspetta.

Registrato durante il tour del Regno Unito del 2021, in uno dei luoghi più leggendari della musica britannica, questo impressionante show è, infatti, la dimostrazione di come la perfetta compenetrazione tra fan e band sia in grado di spostare le montagne, anche quando, e forse soprattutto, la musica è semplice, verace, senza troppi fronzoli.

I Black Stone Cherry sono sempre stati un gruppo che dal vivo rende al 100%, il loro rock ad alto tasso energetico, che si bagna nelle acque del southern, riuscendo a fondere modernità e tradizione, possiede una forza propulsiva disarmante, e parla una lingua trasversale, modificando un genere classico in modo che sia in grado di arrivare anche a quelle nuove generazioni che stanno scoprendo da poco la musica rock. A parte la scrittura delle canzoni, che come dicevamo non hanno molte pretese, la chiave del successo della band risiede proprio nei loro spettacoli irresistibilmente frenetici e nel modo in cui riescono a comunicare con una sincerità e una potenza che lascia storditi.

E’ probabile, quindi, che lo storico auditorium inglese non abbia mai assistito a uno show così tonitruante, ruvido e carnale, che ha come protagonista una band, la cui energia prodotta è in grado da sola di tenere accese le luci di tutto il quartiere circostante. Ogni cosa funziona alla perfezione: il drumming del batterista John Fred Young, un octopus dai mille tentacoli, che randella senza posa (e che suono quella batteria!), la dinamicità del chitarrista Ben Wells, il martello pneumatico di Steve Jewell Jr al basso e la potente presenza del frontman e chitarrista Chris Robertson, un vero e proprio mattatore, il cui feeling con il pubblico pagante è fisicamente palpabile anche ascoltato attraverso le casse dello stereo

Dall'apertura travolgente Me And Mary Jane in poi, i Black Stone Cherry non fanno prigionieri, e con incredibile determinazione danno tutto, ma proprio tutto, per rendere la serata indimenticabile. E se è vero che sarete conquistati dall’elettricità dei due cd audio (o vinili), sarà il dvd allegato alla confezione a farvi capire che, se amate il genere, avreste anche venduto i gioielli di famiglia pur di essere presenti all’evento. La livida Again è un invito senza mezzi termini ad alzare ulteriormente il volume dello stereo, Yeah Man, durante l’ascolto, è in grado di appiccare incendi ai mobili del salotto, la spavalderia di Ringin’ in My Head e il retrogusto southern di Like I Roll fanno vibrare le vene nei polsi. E c’è anche un momento di autentica commozione quando Robertson canta Things My Father Said, il brano dedicato al padre scomparso. I momenti salienti, però, sono davvero tanti, dalle bordate di Soul Creek e Blind Man, fino alla torrenziale Cheaper To Drink Alone, ai grandi classici amatissimi dai fan di Blame It On the Boom Boom e White Trash Millionare, e alla chiosa struggente di Peace Is Free.

Si potrà obbiettare che questo rock sia troppo grezzo per essere artisticamente incisivo, e forse è anche vero. Ma sono pronto a scommettere che una volta infilato il cd nel lettore, questo infuocato live vi terrà compagnia per tanti giorni a venire. Alzate il volume al massimo, allora, spolverate la vostra air guitar e preparatevi a litigare con i vicini.

VOTO: 8

 


 

 

Blackswan, martedì 13/09/2022

lunedì 12 settembre 2022

WAKE - THOUGHT FORM DESCENT (Metal Blade Records, 2022)

 


Ci sono band che restano perennemente uguali a loro stesse, e altre, invece, che, disco dopo disco, evolvono, trasformandosi in qualcosa di diverso da ciò che erano a inizio carriera. Ed è indubbio che i Wake appartengono a questa seconda categoria. Formatasi nel 2009 come ferocissimo gruppo devoto al grindcore, i cinque ragazzi canadesi, ad ogni pubblicazione, hanno scartato dalle proprie origini, plasmando, per ciascuno dei sei album in studio usciti fino ad oggi, un suono diverso.

I prodromi di questo ultimo sforzo, Thought Form Descent, già si intravedevano nel precedente Devouring Ruin del 2020, che a sua volta sviluppava elementi da Misery Rites del 2018. In tal senso, il nuovo album, se mantiene viva la velocità e la brutalità dei dischi che lo hanno preceduto, palesa un approccio maggiormente “narrativo” alle composizioni, e le canzoni sono più lunghe e ricche di deviazioni dal tema portante. Un disco, quindi, che fa dell’ampiezza, della profondità e della furia, che in realtà non è mai mancata nei lavori dei Wake, le sue arme vincenti, trasformando la scaletta in un’opera potente e dal sapore cinematografico.

E’ evidente che la band, spostandosi dall’originario grind verso territori death e black, abbia plasmato nel tempo un approccio quasi progressive, sviluppando architetture sonore più complesse e inserendo, come in questo caso, numerose sezioni melodiche. Insomma, se molti degli elementi della brutalità di un tempo permangono in tutta la loro belluina potenza, i Wake hanno anche cercato esplicitamente di sfidare tutti gli stereotipi di quelle sonorità estreme. Ciò significa che a fianco dei ritmi esplosivi, dei riff incandescenti e del growl teatrale del cantante Kyle Ball, si sviluppano anche break dinamici, intermezzi più morbidi e, come dicevamo, un maggior tasso melodico.

Thought Form Descent è quindi un disco epico e maestoso, che spazia in lungo e in largo, seducendo per la sua imprevedibilità, un’opera fluida e coesa, che si apre con "Infinite Inward" e il singolo principale "Swallow The Light", due bordate tanto veloci da togliere il fiato, entrambe superiori ai sei minuti di lunghezza ed entrambe caratterizzate da brevi pause melodiche, che mitigano la loro ferocia altrimenti vorticosa. Ben cinque tracce delle otto in scaletta possiedono un minutaggio esteso, ma nonostante ciò Thought Form Descent non ne risente e risulta incredibilmente dinamico, ogni scelta compositiva ha un senso e ogni traccia funziona sia come pezzo singolo che all'interno del contesto del disco. Tra le cose migliori dell’album, giusto citare l’epica "Observer To Master", con un lavoro alle chitarre che evoca i Mastodont e due assoli splendidi, e i nove minuti della potente e ariosa "Bleeding Eyes Of The Watcher".

Thought Form Descent è, dunque, l’ennesimo passo in avanti nell’evoluzione dei Wake, tanto che, a questo punto, è davvero arduo indovinare quale direzione potrà prendere in futuro la band. Nel frattempo, gli amanti del genere, potranno godersi un disco magistrale, che, a parere di scrive, è il migliore pubblicato fino a oggi dai canadesi.

VOTO: 8

 


 

 

Blackswan, lunedì 12/09/2022

 

giovedì 8 settembre 2022

PUMPED UP KICKS - FOSTER THE PEOPLE (Startime International/Columbia, 2011)

 


Pumped Up Kicks è una canzone leggera e dalla melodia accattivante, uno di quei brani che puoi ascoltare in cuffia seduto sul divano, per goderti un momento di relax, oppure alzarti in piedi e ballarlo. Fa lo stesso: in ogni caso, raggiunge il suo scopo, lasciandoti sulla bocca un buon sapore zuccherino e un sorriso divertito.

Autore della canzone è Mark Foster, un musicista losangelino, che dopo aver lavorato alla composizione di jingle pubblicitari, decide di dare una svolta a una carriera che gli sta troppo stretta. Arruola così il bassista Cubbie Fink e il batterista Mark Pontius, e dà vita al progetto Foster The People.

Nel 2011, Pumped Up Kicks viene pubblicata sul sito web della band, e grazie al passaparola, i Foster The People vengono notati sia dalla stampa specializzata che dalla Startime International, che li mette sotto contratto. Trainati dal successo del brano, Foster e compagni pubblicano un primo Ep omonimo e poi, nel giugno del 2011, Torches, il loro album d’esordio, che si piazza all’ottava piazza di Billboard, vendendo più di due milioni di copie.

L’apprezzamento per il primo singolo, quello che innesca la carriera dei Foster The People, è trasversale: la canzone è orecchiabile, ma non banale, piace ai teenager e a un pubblico più maturo, grazie alla sua anima indie e quella ritmica che fa battere istintivamente il piede e abbandonarsi a un morbido headbanging.

Eppure, nonostante Pumped Up Kids sia così deliziosamente melodica, le liriche trattano un argomento che è tutto, fuorchè rassicurante. Il protagonista del brano, infatti, è un emarginato, un giovane disadattato che sta perdendo il lume della ragione e medita vendetta, dopo aver trovato una pistola da sei colpi nell’armadio del padre (“He found a six-shooter gun In his dad's closet”). 

Quando scrive il testo della canzone, Foster è intenzionato a fotografare, senza mezze misura, lo sfacelo di una società in cui molti giovani vivono isolati e frustrati, che non sanno rapportarsi con il mondo circostante e che si nutrono di livore nei confronti delle istituzioni, della famiglia e dei coetanei più fortunati. Il suo intento è quello di mettersi nella testa di un giovane assassino, per comprenderne le dinamiche e le motivazioni, allo stesso modo di Truman Capote quando scrisse il suo celebre A Sangue Freddo.  

Oggetto dell’odio del giovane assassino sono soprattutto alcuni suoi coetanei, identificati attraverso un particolare tipo di scarpa in voga all’inizio degli anni ’90. A quei tempi la Reebok aveva lanciato sul mercato le Reebok Pump, una scarpa che aveva un pallone raffigurato sulla linguetta, che potevi ripetutamente schiacciare per gonfiare la tomaia e aver maggior spinta nel salto. Le vendite della scarpa inizialmente andavano a rilento (era la Nike a fare sfracelli, grazie a Michael Jordan che ne era testimonial). Poi, tutto cambiò, quando Dee Brown dei Boston Celtics, prima di una schiacciata vincente, si abbassò a gonfiare la linguetta delle sue Pumps a favore di telecamera, un gesto che fece la fortuna della Reebook e del modello di scarpa. Le scarpe divennero, così, molto costose e i ragazzi che le indossavano erano considerati dei fighetti privilegiati, e quindi invisi a chi poteva permettersi, ad esempio, solo un paio di Converse. Ed è proprio questo tipo di gioventù a essere chiamato in causa nella canzone e a essere minacciata dall’arrabbiato protagonista di Pumped Up Kicks (“You better run, better run faster than my bullet”).  

Una canzone allegra, dunque, ma dal testo oscuro e inquietante. Troppo inquietante, visto che MTV, ogni volta che riproduceva il video, toglieva l’audio sulle parole “pistola” e “proiettile”. E questo, nonostante Foster abbia sempre affermato che la canzone era una critica alla società e che quella violenza viveva solo nelle immagini create dalla fantasia malata del ragazzino che ne era protagonista.

Affermazioni senz’altro sensate, ma che non poterono impedire la censura del brano da parte dei circuiti radiofonici nazionali, quando, nel dicembre del 2012, alla Sandy Hook Elementary School di Newtown, in Connecticut, un ventenne di nome Adam Lanza fece fuoco all’impazzata, uccidendo ventisette persone, di cui venti bambini, fra i sei e i sette anni. 




Blackswan, giovedì 08/09/2022

martedì 6 settembre 2022

MY SLEEPING KARMA - ATMA (Napalm Records, 2022)

 


I riferimenti all’India, alla sua religione e alle sue divinità, sono una costante dei dischi dei My Sleeping Karma, band tedesca attiva dal 2006 e giunta, oggi, a pubblicare il sesto disco, il primo dopo sette anni di pausa. Se l’India vive nei titoli degli album e delle canzoni del gruppo teutonico, la musica, però, è quanto di più lontano possa esserci dalle sonorità che si ascoltano nell’esotica nazione asiatica. I My Sleeping Karma, infatti, sono una rock band che ha plasmato negli anni un ibrido in cui confluiscono psichedelia, stoner, post rock e schegge di metal. Basso, batteria, chitarra, tastiere, niente cantante e tanto groove.

Atma, che nell’induismo è il termine per indicare l’anima, nasce dopo un lungo iato, in cui la band aveva completamente perso l’ispirazione e la voglia di suonare. Piano piano, il gruppo è tornato in studio a registrare, partendo da abbozzi di idee, che lentamente hanno preso la forma di sei lunghe canzoni, caratterizzate dal consueto mood ipnotico, in perfetto equilibro fra momenti distesi, quasi cinematografici, e improvvisi uragani elettrici.

Il disco si apre con i nove minuti di "Maya Shakti", un fiume sonoro che fluisce tra profondità cavernose ed emerge spazi immensi di accecante bagliore. "Prema" è un’estensione della canzone precedente, una variazione sul tema, in cui è ancora la chitarra a indicare la strada, un percorso, questa volta, quasi sospeso a mezz’aria. "Mutki", la più breve del disco, coi suoi sei minuti e quaranta, suggerisce un senso di estasi e di meraviglia, "Avatara" è come perdersi in un bosco, trasmette una sensazione di pericolo, ma di un pericolo eccitante, di quelli che spingono all’esplorazione, alla scoperta. Si percepisce che qualcosa sta per succedere, qualcosa di buono o di cattivo sta arrivando col vento, che soffia insieme a un incredibile lavoro della sezione ritmica. "Pralaya" è probabilmente il brano concettualmente più semplice da interpretare, è cupo, si muove nel profondo, ha connotati goth ed evoca qualcosa dei Tool. "Ananda" e il suo carico di instabilità e disagio, chiudono un disco impervio e poco lineare, ma decisamente suggestivo.

Resta, però, una sensazione di incompiuta, quel retrogusto che ti fa dire che forse si poteva fare meglio, che non tutto è sviluppato come avrebbe potuto. Per carità, Atma è un album che formalmente non fa una piega, che si ascolta e si riascolta volentieri, trascinando l’ascoltatore in un vorticoso fluire di groove. Eppure, l’impressione finale, è che l’idea di base sia sempre la stessa, e che la band viaggi con il pilota automatico, senza grande pathos, senza scarti dal prevedibile, senza impennate di genio. Buono, ma con riserva.

VOTO: 6,5

 


 

 

Blackswan, martedì 06/09/2022

 

lunedì 5 settembre 2022

NEIL YOUNG + PROMISE OF THE REAL - NOISE & FLOWERS (Reprise, 2022)

 


Ennesimo album live pescato dai suoi infiniti archivi, Noise & Flowers fotografa Neil Young durante il tour europeo del 2019 insieme ai Promise Of The Real, la band capitanata da Lukes Nelson, con cui il canadese ha già registrato due album in studio (The Monsanto Years e The Visitor) e uno dal vivo (Earth).

Il disco contiene quattordici canzoni pescate da nove concerti tenuti in giro per l’Europa appena due settimane dopo che Elliot Roberts, amico di una vita di Young e suo manager da oltre 50 anni, è morto all'età di settantasei anni. Young si è accostato, quindi, a ogni spettacolo con l’intento di celebrare e onorare la memoria di Roberts. Nelle note di copertina dell'album, il rocker spiega: "Suonare in sua memoria lo ha reso uno dei tour più speciali di sempre. Ci siamo messi in viaggio e abbiamo portato il suo grande spirito con noi in ogni canzone. Questa musica non appartiene a nessuno. È nell'aria. Ogni nota è stata suonata per il grande amico della musica, Elliot.” E si sente. L’atmosfera è vibrante, Young e i Promise Of The Real suonano con trasporto e fanno quello che sanno fare al meglio, in tutti i brani in scaletta.

Nel rendere omaggio al manager che ha guidato la carriera di Young per oltre mezzo secolo, Noise & Flowers esplora tutti gli angoli della sua vasta discografia. Nel disco convivono inni immortali ("Mr. Soul", "Helpless", "Rockin' in the Free World", "Alabama") con brani risalenti agli anni '70 eseguiti raramente ("Field of Opportunity", "On the Beach") oltre a gemme degli anni '90 ("From Hank To Hendrix", "Throw Your Hatred Down").

Il disco si apre con una versione vertiginosa del classico dei Buffalo Springfield, "Mr. Soul", e all'inizio si ha quasi l’impressione che sia una cover di ("I Can't Get No") Satisfaction dei Rolling Stones. La band è sul pezzo, la musica gira a mille, l’elettricità è palpabile, e sembra davvero che Young stia ricordando il primo incontro con Elliot Roberts, avvenuto cinquant’anni fa. Una sensazione, questa, che permea tutta la durata di questo Noise And Flowers. Come, ad esempio, nella successiva "Everybody Knows This Is Nowhere", in cui l’interazione vocale fra Lukas e Micah Nelson, Corey McCormick e Young evoca la sensazione di essere immersi in una gloriosa registrazione dei CSN&Y.

L'interplay tra Young e i Promise of the Real è fantastico e, oserei dire, che la band riesce spesso a replicare il grande sound dei Crazy Horse: con intuizione quasi telepatica, i ragazzi assecondano alla perfezione il canadese, sia durante le numerose e rumorose sfuriate rock, sia quando il suono si addolcisce in morbide ballate country. La scaletta è una sorta di greatest hits dal vivo, e vengono suonati molti di quei brani che ti aspetti sempre di sentir suonare dal vecchio zio Neil: una versione travolgente di "Rockin’ In A Free World", le sempre splendide "Alabama" e "Comes A Time", un’emozionante "From Hank To Hendrix", e le conclusive turbolenze elettriche di una sferragliante "Fuckin Up". Ci sarebbe stata bene anche "Hey Hey, My My", ma non si può chiedere tutto alla vita e, in definitiva, va bene così.

Perché Noise & Flowers è un live intenso e vibrante, e considerato il fatto che è stato registrato solo tre anni fa, suggerisce una cosa importante, la più importante di tutte: che Young, nonostante la veneranda età, è ancora in forma smagliante e, soprattutto, è sempre pervaso da una voglia matta di suonare, e di divertirsi facendolo.

VOTO: 8

 


 


Blackswan, lunedì 05/09/2022

venerdì 2 settembre 2022

LE FREAK - CHIC (Atlantic, 1978)

 


Se stai leggendo queste righe e il titolo della canzone non ti dice nulla, probabilmente è perché vivi su Marte. Già, perché Le Freak, hit senza tempo contenuta nell’album C’est Chic, rilasciato nel 1978 dalla band newyorkese degli Chic, è una delle canzoni più famose della storia, un brano che ha venduto milioni di copie, risultando ancor oggi un irresistibile riempi pista in quelle discoteche che passano musica vintage anni’70. 

La band nacque dall’incontro fra il chitarrista Nile Rodgers e il bassista Bernard Edwards, che dopo aver tentato la fortuna in alcuni gruppi del circuito newyorkese, ingaggiarono il batterista Tony Thompson, precedentemente al servizio delle Labelle, e la cantante Norma Jean Wright, per dare vita a un gruppo che, negli intenti, avrebbe dovuto sfondare nell’allora rigogliosissimo panorama dance. Si diedero il nome di Chic e, dopo aver firmato un contratto per l’Atlantic Records, pubblicarono, nel 1977, il loro primo singolo, Everybody Dance. L’album d’esordio, Chic, fu pubblicato alla fine dello stesso anno, e arrivò ad avere un ottimo riscontro di vendite grazie al singolo Dance, Dance, Dance (Yowsah, Yowsah, Yowsah), che scalò Billboard 100 fino alla posizione numero 6.

E qui, più o meno, inizia la storia di Le Freak, una canzone ballabile e divertentissima, che nasce però da una cocente arrabbiatura e dal desiderio di sputtanare uno zelante buttafuori. Ecco i fatti. Era la vigilia di Capodanno del 1977, quando Rodgers e Edwards furono invitati allo Studio 54, un club molto popolare e alla moda di New York, in cui si poteva ballare la musica del momento e dove, ogni sera, potevi incontrare tantissime celebrità. I due erano stati invitati da Grace Jones, una cantante giamaicana, che aveva appena esordito con il suo primo album in studio (Portfolio) e che era intenzionata a collaborare per il disco successivo con i due Chic. Quando giunsero al locale, i loro nomi, però, non erano nella lista degli invitati, e non riuscirono a convincere il buttafuori che loro erano due musicisti famosi, nonostante dall’interno risuonassero le note della loro Dance, Dance, Dance. Vestiti di tutto punto e senza sapere cosa fare la notte di capodanno, Rodgers e Edwards, furibondi, se ne tornarono a casa e iniziarono a scrivere una canzone, il cui intento era sbeffeggiare e mettere alla berlina il buttafuori del locale. Tanto che il titolo provvisorio del brano doveva essere Fuck Off, e cioè la frase pronunciata dal buttafuori prima di chiudere loro la porta in faccia. Tuttavia, quando registrarono il brano, dal momento che Edwards non era a suo agio con le imprecazioni (la canzone, poi, avrebbe potuto trovare la censura da parte delle radio), il titolo fu modificato in Freak Off, trasformato quindi nel Le Freak, che tutti conosciamo.

La canzone raggiunse per tre volte la prima posizione di Billboard 100 (due a dicembre 1978 e una gennaio 1979) ed è stato il più grande successo commerciale di tutti i tempi per la Atlantic Records, con ben tredici milioni di copie vendute, di cui due milioni solo negli Stati Uniti.

E pensare che alla casa discografica la canzone non piaceva e non aveva intenzione di pubblicarla come singolo. Nile Rodgers ricorda, che quando riunirono tutto lo staff dell’Atlantic per far ascoltare Le Freak in anteprima, una volta passato il brano, nella stanza calò un silenzio di tomba, tutti uscirono dalla sala conferenze, lasciando i due musicisti da soli con il loro avvocato. I dirigenti Atlantic tornarono nella stanza dicendo che la canzone faceva schifo e che avrebbero preferito pubblicare come singolo qualcos’altro. Fortunatamente per loro, però, le cose andarono come voluto dai due musicisti, che da quel momento in avanti si guadagnarono un posto al sole nello star system dell’epoca.

 


 

 

Blackswan, venerdì 02/09/2022