sabato 30 settembre 2017

BLACK COUNTRY COMMUNION - BCCIV (J&R Adventures, 2017)

Quando nel 2013 Joe Bonamassa lasciò il gruppo per seguire le infinite diramazioni della sua carriera solista, nessuno avrebbe scommesso una lira sul fatto che i Black Country Communion sarebbero tornati insieme. Anche perché, diamo buone le voci di corridoio, due galli nel pollaio (lo stesso Bonamassa, e Hughes) avevano fatto non poca fatica a gestire quella complicata convivenza. Invece, il chitarrista newyorkese, lo scorso anno, ha fatto marcia indietro e ha chiesto agli altri tre componenti di rimettere in piedi il progetto, per la gioia di tutti coloro avevano trovato nel combo anglo-americano l’erede di quel suono classico riconducibile all’hard rock targato seventies. Una reunion tanto inaspettata quanto proficua, visto che il gruppo, con la complicità del solito Kevin Shirley (sodale di lunga data di Joe Bonamassa), nei due mesi trascorsi presso i Cave Studios di Malibù, ha levigato una scaletta di brani originali cazzutissimi, tanto espliciti nei loro evidenti riferimenti stilistici, quanto convincenti per l’alto tasso di ispirazione ed energia. Se poi c’è una band che può fregiarsi a ragion veduta del titolo nobiliare di “super gruppo”, questi sono proprio i Black Country Communion. Derek Sherinian, ex Dream Theater, pur possedendo un appeal un poco inferiore ai compagni di scuderia, è un talento che non si discute e a partire da Afterglow (2012), ha guadagnato sempre più spazio, diventando ora indispensabile nel tratteggiare il suono della band. Jason Bonham, figlio del grande “Bonzo”, ha ereditato la potenza del padre, tanto da non sfigurare in un ipotetico, quanto ozioso, confronto con l’illustre genitore, mentre Joe Bonamassa, inutile perderci troppo tempo, è uno dei migliori chitarristi blues in circolazione, capace però, quando è al servizio dei Black Country Communion, di tirare fuori quei ringhi hard che nella sua musica passano solitamente in secondo piano. Resta da spendere due parole per Glenn Hughes, che è l’attore protagonista del disco: la sua voce, infatti, nonostante abbia da poco compiuto le sessantacinque primavere, non ha perso nulla in potenza ed estensione da quando militava nei Deep Purple e divideva il microfono niente meno che con David Coverdale. La sua performance vocale è da urlo, così come la sua consueta prestazione al basso, che garantisce profondità e spessore al suono. Sono dieci le canzoni in scaletta e tutte da ascoltare con le casse dello stereo a palla: la band, infatti, randella senza tema, rinverdendo i fasti dell’epoca d’oro che fu degli Zep e dei Purple, senza, tuttavia, perdere l’occasione per creare, a livello compositivo, qualcosa di più complesso da una mera esibizione muscolare. Se, infatti, l’iniziale Collide, col suo riff durissimo, ricorda l’incedere devastante del “martello degli dei” e Sway è una bomba a orologeria, pronta a esplodere negli acuti impossibili di Hughes che infuocano il ritornello, brani come The Last Song For My Resting Place, attraversata dalle evocative note di un violino, e The Cove, con le sue atmosfere cupe e drammatiche, testimoniano un tentativo riuscito di creare partiture più dilatate ed elaborate. Il vertice del disco è però l’heavy funky di The Crow, che come un uragano spezza in due la scaletta, citando i Deep Purple e inanellando una serie d’assoli di tecnica al puro fulmicotone (Hughes, Sherinian e, quindi, Bonamassa). Se qualcuno avesse coltivato il dubbio di trovarsi di fronte a una reunion dettata da motivi squisitamente commerciali, è servito al primo ascolto: BCC IV è un discone di classic rock come se ne facevano una volta, e sigilla regalmente la prima parte di una carriera che, si spera, possa continuare ancora a lungo.

VOTO: 7





Blackswan, sabato 30/09/2017

venerdì 29 settembre 2017

GUN - FAVOURITE PLEASURES (Cloburn Music, 2017)

Ci sono gruppi che legano la propria fama a una sola canzone e per quanto facciano successivamente, il loro nome continua a essere ricordato solo per quella hit. Vengono in mente i The Knack di My Sharona e vengono in mente gli scozzesi Gun, che nel 1994 scalarono le classifiche di mezzo mondo con Word Up!, rivisitazione in chiave hard rock di una canzone del gruppo funk newyorkese dei Cameo. Da Swagger in poi (Swagger era l’album che conteneva Word Up!) i Gun sono progressivamente usciti dai radar che contano e tra abbandoni (quello del cantante Mark Rankin), scioglimenti e reunion, sono comunque riusciti a coltivare una sparuta, ma appassionata schiera di fans. Saldamente in mano ai fratelli Dante e Giuliano Gizzi (due fratelli di chiare origini italiane), la band esce oggi nei negozi con l’ottavo album in studio (alla discografia bisogna aggiungere anche due greatest hits), registrato in completa solitudine presso gli studi della band, i More Code di Paisley. Ciò ha permesso al gruppo, a cui si è aggiunto il nuovo chitarrista Tommy Gentry, di prendersi il tempo e la libertà di fare le cose con calma, di scegliere le canzoni migliori tra il materiale da lavorare, di limarle e affinarle per la pubblicazione. I risultati di questo lavoro certosino si sentono, eccome: Favourite Pleasures è un brillantissimo disco di hard rock melodico, composto di dieci canzoni dal suono radiofonico, in equilibrio fra ruvidi riff e irresistibili melodie. Apre le danze She Knows classico brano da Rock Fm ed è subito chiaro che sarà difficile levare il disco dal piatto: canzone di superba fattura, orecchiabile al punto giusto e sorretta da un grintoso interplay fra le due chitarre elettriche. Il disco non conosce fillers né cadute di ispirazione e si mantiene su questo livello per tutta la sua durata. La successiva Here’s Where I Am è un omaggio riuscitissimo al glam rock anni ’70 ed evoca inevitabilmente il fantasma di Marc Bolan. Ritmica serratissima e un pizzico di elettronica per la title track, funkettone dal groove travolgente che testimonia quanto siano variegate le intuizioni della band. Le chitarre tamarrissime di Take Me Down, ad esempio, introducono una ritmica dance che fa venire in mente i Kiss del periodo I Was Made For Loving You, mentre Silent Heroes trova l’esatto punto di fusione fra i Clash di London Calling e i Beatles di Got To Get You Into My Life. Il meglio, però, è ancora tutto da ascoltare: Without You In My Life è una ballata elettrica attraversata da virile malinconia, e suona come la versione scorbutica di Save A Prayer dei Duran Duran e il delay pedal usato in Tragic Heroes fa librare le ariose chitarre, leggere verso il cielo di una giornata di sole. Chiude Boy Who Fooled The World, nostalgica ballata per pianoforte cantata da Dante Gizzi col cuore in mano e la fotografia di Elton John nel taschino della giacca. Chiosa perfetta di un disco talmente furbo nel carpire l’attenzione dell’ascoltare, da risultare, per assurdo, incredibilmente sincero. La versione deluxe di Favourite Pleasures contiene altri quattro brani non particolarmente significativi, a eccezione di una gagliardissima cover di (You Gotta) Fight For Your Right (To Party) dei Beastie Boys, irriverente brano del 1986, che saccheggiava spudoratamente un paio di riff dei Deep Purple.

VOTO: 8





Blackswan, venerdì 29/09/2017

giovedì 28 settembre 2017

PREVIEW


Dopo Wall OF Glass, il primo acclamatissimo singolo, è For What It's Wort a segnare un’ulteriore step in vista dell’uscita di As You Were, l’album che inaugura la carriera solistica dell’ex Oasis Liam Gallagher. Il disco, disponibile dal 6 ottobre, vede la collaborazione in fase produttiva di Greg Kurstin (Adele, Foo Fighters) e Dan Grech-Marguerat (Vaccines, Lana Del Ray). Gallagher ha inoltre annunciato un tour che partirà dalla sua città natale il cui ricavato sarà destinato alla fondazione “We Love Manchester Emergency Fund”.





Porter Stout, giovedì 28/09/2017

mercoledì 27 settembre 2017

PROPHETS OF RAGE - PROPHETS OF RAGE (Fantasy Record, 2017)

Difficile per chi ama i suoni estremi ed è rimasto legato alla breve, ma incendiaria stagione del nu metal, non provare un sottile brivido di piacere a sentir pronunciare il nome dei Rage Against The Machine. Quel ribollente magma di hip hop, heavy metal, funky e dogmi marxisti fu decisivo nella creazione e nella divulgazione di un genere, di cui la band losangelina rappresentò l’avanguardia più barricadera e politicizzata. E poco importa se l’avventura di Tom Morello e soci fu concentrata in solo cinque album (di cui uno di cover e un altro dal vivo): il ricordo è ancora così vivido e intenso, che al sentir pronunciare la parola “rage”, la memoria torna inevitabilmente a loro. “Rage”, ovvero rabbia. Non solo un vocabolo, ma un imperativo categorico, l’esplicitazione verbale di una musica arrembante e senza compromessi, il carburante nobile di una metrica politica declinata con l’accento su “fuck the system!”. Un marchio di fabbrica, soprattutto, da esibire come garanzia di qualità, anche se son passati quasi vent’anni dall’ultima fatica in studio dei RATM (Renegades, sopravvalutato disco di cover, datato 2000), rilasciata più per vincoli contrattuali che per reale convincimento artistico. Non è un caso, quindi, che Tom Morello, Tim Commerford e Brad Wilk, tornino sulle scene, riproponendo quel suono passionario e utilizzando l’egida assonante di Prophets Of Rage, come a voler rimarcare il concetto e sollecitare la memoria di tanti fans rimasti orfani della band. Disperso Zack De La Rocha, che ancora non si decide a sfornare questo benedetto disco solista, i tre superstiti hanno arruolato davanti ai microfoni Chuck D dei Public Enemy e B-Real dei Cypress Hill, hanno girato in tour per affinare l’intesa e il repertorio, e poi, sono tornati in studio, portandosi come souvenir dagli anni ’90 anche Brendan O’Brien, che già aveva curato le fortune della band fin da Evil Empire (1996). Se è vero che la mancanza di Zack De La Rocha e della sua voce aspra e abrasiva è praticamente impossibile da colmare, Chuck D e B-Real (che non sono certo gli ultimi arrivati) ci danno dentro che è un piacere, e le loro schermaglie vocali, insieme a qualche spruzzata di elettronica, rappresentano gli unici elementi di novità del disco. Che, per il resto, suona esattamente come deve suonare un album dei Rage Against The Machine: possente ritmica funky e la chitarra di Morello, protagonista assoluta, con i consueti riff a grattugia e i convulsi assoli in derapata. Certo, per quanto efficaci, pezzi come Radical Eyes, Hail To The Chief, Living On The 110 hanno perso l’effetto sorpresa e suonano esattamente per quello che sono, e cioè combustioni rap metal da molotov lanciate fuori tempo massimo. Così come, se pur ideologicamente superata, non dispiace la chiamata alle armi, tutta slogan e livore, di Who Owns Who e di Hands Up, brani destinati, però, a incendiare un auditorium vuoto. Il meglio, lo si ascolta in Take Me Higher, il cui groove funky aggiusta la mira della band verso una possibile evoluzione del suono, facendo centro, questa volta si, senza se e senza ma. In definitiva, Prophets Of Rage non è assolutamente un brutto disco, è semmai il disco risaputo di una band che non sa rassegnarsi allo scorrere del tempo e che rischia di finire come quei soldati giapponesi, persi in qualche isola del Pacifico e ancora convinti, dopo decenni, di combattere una guerra, in realtà cessata da anni. Tuttavia, al netto degli evidenti anacronismi, i Prophets Of Rage hanno il merito, non da poco, di veicolare concetti e passione, cose che, prevalentemente, mancano al pubblico dei più giovani. In questo mondo alla deriva, certi messaggi restano indispensabili trincee di buon senso e di riflessione. Questo, almeno, a Morello e soci lo dobbiamo.

VOTO: 6,5





Blackswan, mercoledì 27/09/2017

martedì 26 settembre 2017

LIVING COLOUR - SHADE (Megaforce Records, 2017)


Sul finire degli anni ’80, prima dell’avvento del Nu Metal, i Living Colour hanno costituito la portata più sfiziosa servita alla tavola di quanti, stufi della solita zuppa, cercavano un alternativa al metal che imperava nel decennio. Composto esclusivamente da musicisti afroamericani, il combo newyorkese tracciò le coordinate del nascente suono meticcio, caratterizzato da un crossover che fondeva i suoni più estremi (heavy metal, punk rock, hardcore) con il groove e le ritmiche di matrice nera (funky, hip hop, soul, jazz). Alunni talentuosi della scuola aperta dai Bad Brains un decennio prima e capitanati da Vernon Reid, funambolico chitarrista con alle spalle una gavetta spesa fra le avanguardie jazz della metropoli (John Zorn, Bill Frisell), i Living Colour esordirono nel 1988 con Vivid, album supercult prodotto da Mick Jagger, che scalò le classifiche americane, raggiungendo il sesto posto di Billboard 200 e conquistando due dischi di platino (grazie anche al leggendario singolo, Cult Of Personality). Un livello qualitativo mantenuto alto anche dai due successivi lavori, Time’s Up (1990) e Stain (1993), ultimi capitoli di una storia conclusasi troppo rapidamente, durante le sessioni di registrazioni del loro quarto album. Tornati insieme a inizio millennio, Vernon Reid e soci (con la solo assenza del bassista Muzz Skillings) tentarono di rinverdire gli antichi fasti con due album, Collideoscope (2003) e The Chair In The Doorway (2009), tecnicamente ineccepibili, ma privi di quell’energia e creatività che avevano contraddistinto i loro esordi. Il ritorno sulle scene a distanza di otto anni, non solo, dunque, rappresenta una gradita sorpresa per i tanti fans orfani del gruppo, ma è una sorta di prova del nove per verificare se c’è ancora benzina in quella devastante macchina da guerra che negli anni ’90 non faceva prigionieri. Scommessa vinta, perché Shade è un buon disco, come sempre suonato benissimo e decisamente ispirato. Apre le danze Fredom Of Expression (F.O.X.), con la band che mostra subito i muscoli in tre minuti di feroce assalto all’arma bianca, costruito su un durissimo riff di zeppeliniana memoria: quasi una canzone manifesto per dimostrare che il tempo è passato ma non ha fatto danni. Mano pesantissima anche in Preachin Blues, gemma pescata dal repertorio di Robert Johnson e caratterizzata dalla ritmica elefantiaca e dalla slide urticante di Reid. Con Come On, invece, i Living Colour tenta di modernizzare il suono con inserti elettronici, ma nonostante la bella prova del cantante Corey Glover, il pezzo, abbastanza ripetitivo, resta tra i momenti più deboli dell’album. Straordinaria, invece, è Program, il cui efficacissimo groove funky deraglia in un finale rap metal che sembra preso da un disco dei Rage Against The Machine. Metrica rap che ritorna anche in Who Shot Ya? cover di una canzone di Notorius B.I.G. che in mano a Reid, però, ringhia come un pezzo dei Public Enemy o dei Body Count. Se alcuni episodi mostrano un po' la corda in termini di ispirazione (Pattern In Time e Always Wrong), altri, invece, raccontano di una band che gode ottima salute: il groove funky di Inner City Blues (brano a firma Marvin Gaye) è a dir poco travolgente, mentre la straordinaria Who’s That, slide sporchissima e trombone incandescente dell’ex Dirty Dozen Brass Band, Big Sam Williams, a condurre le danze, certifica la perfetta sintesi del suono Living Colour, la cui anima geneticamente black affoga nelle colate laviche della sei corde, tecnica e cattivissima, di Reid. Chiude Two Sides, intenso ballatone blues che sigilla un disco gagliardo, duro, arrabbiato, eppure estremamente eclettico nello svolgimento. Un ritorno finalmente convincente, che metterà d’accordo fans di vecchia data e nuovi adepti.

VOTO: 7





Blackswan, martedì 26/09/2017

lunedì 25 settembre 2017

IL MEGLIO DEL PEGGIO







Lo svolgimento delle "primarie" pentastellate e la festa di Rimini ci regalano l'istantanea di una politica ormai declassata a un gigantesco reality show. Il copione è pressocchè identico al genere televisivo: per la selezione di un candidato si inizia con un casting, si passa alle votazioni on line, per poi approdare alla vittoria con tanto di finale fulmicotonico su un palcoscenico con la proclamazione del trionfatore, scandito al microfono davanti a una platea urlante e infervorata, mentre dal cielo una pioggia di coriandoli avvolge l'eletto, magari sull'onda del solito "We are the champions". Più o meno così si è svolta la kermesse riminese che ha decretato l'investitura di Luigi Di Maio a capo del Movimento 5 Stelle, e di candidato Premier alle prossime elezioni politiche. Un vero trionfo per il vice presidente della Camera che, per la conquista dell'ambito titolo, si è misurato con dei veri e propri "big" del calibro di Vincenzo Cicchetti, Elena Fattori, Andrea Frallicciardi, Domenico Ispirato, Gianmarco Novi, Nadia Piseddu, Marco Zordan. Per la serie "Cronaca di una vittoria annunciata", a pochi è sfuggito che a Di Maio piace vincere facile. Calato il sipario sul Grande Fratello Grillino, sia pur sconcertati sull'esito dell'intera operazione, abbiamo acquisito la piena consapevolezza di quanto ormai la retorica del reality sia sempre più asservita alla politica. Un modello, quello del reality, che pare spopolare da destra fino alla sinistra. Tutto passa dalla rete, da Instagram, da Twitter. E da Facebook, come ci ha insegnato il nostro Renzi, il più attivo frequentatore di social assieme all'altro Matteo, quello delle ruspe, per intenderci. Una suggestione collettiva o quasi: oggi, se un politico non fa un selfie non è smart, se non si avvale di Twitter, è decisamente out. Barack Obama, rivolgendosi all'allora candidato Donald Trump, disse che la presidenza degli Stati Uniti d'America non è un reality show. Mai più profetica fu questa affermazione. Twitto, ergo sum, con buona pace di Cartesio.

Cleopatra, lunedì 25/09/2017

domenica 24 settembre 2017

PREVIEW




Phases, in uscita il 10 novembre prossimo, riaccende i riflettori sulla bravissima cantautrice del Missouri Angel Olsen. La compilation conterrà, oltre a tre inediti, b-sides, demo e versioni alternative di brani provenienti dalle sessions di Burn Of Fire For No Witness del 2014 e dall’acclamato My Woman della passata stagione. Due i singoli già disponibili all’ascolto in attesa dell’album: Specials e la splendida Fly On Your Woman.





Porter Stout, domenica 24/09/2017

sabato 23 settembre 2017

FOO FIGHTERS - CONCRETE AND GOLD (Roswell, RCA, 2017)


Si potrebbe dire qualsiasi cosa di Dave Grohl, ma non certo che sia uno stupido. Chiusa l’avventura Nirvana, ha massimizzato in termini mediatici quella militanza (che qualcuno direbbe marginale), battendo il ferro finché caldo e facendo spostare i riflettori sul progetto Foo Fighters, nato solo un anno dopo la morte di Kurt Cobain. Nel tempo, poi, ha costruito di sé stesso l’immagine di rocker springsteeniano, tutto casa e palco, sanguigno, sincero e piacione al punto giusto, conquistandosi le simpatie del pubblico e della stampa specializzata. E ancor di più, ha saputo creare un suono, immediatamente riconoscibile, che ha poi coltivato nel tempo con immutabile coerenza, figlia più del tornaconto economico (direbbero i detrattori) che di una genuina passione per la propria arte. Tanto che, a proposito dei Foo Fighters, si potrebbero dire le stesse cose che, più o meno si dicono degli Ac/Dc, e cioè che è da una vita che fanno sempre lo stesso disco. Certo, talvolta, dal cilindro di Grohl escono anche idee originali (un esempio per tutti, il giro degli States dell’ultimo Sonic Highways) e gli album della premiata ditta (vedi anche il nuovo Concrete And Gold) si avvalgono spesso di ospitate eccellenti, che accrescono ulteriormente l’appeal della proposta. Tuttavia, in testa all’ex batterista dei Nirvana, girano sempre, invariabilmente, due prototipi di canzone: il rock spaccone alla Monkey Wrench e la melodia di grana grossa alla Learn To Fly, tanto per citare un paio delle hit più famose della band di Seattle. Se l’ispirazione è alta (vedi, ad esempio, Wasting Light) la formula funziona a meraviglia; diversamente, Grohl, a cui diamo il merito, però, di non aver mai sbracato completamente, innesta il pilota automatico e si attesta sul minimo sindacale di scrittura. Esattamente ciò che avviene in Concrete And Gold, nono album in studio della band, che si avvale, in fase di produzione, degli offici di Greg Kurstin, mago del mainstream, e, in sala di registrazione, del cameo di un pugno di ospiti di primo piano, quali Paul McCartney (che suona la batteria in Sunday Rain), Allison Mosshart e, addirittura, Justin Timberlake (si, avete letto bene). Un ensemble di tutto rispetto, che però non riesce a incidere sulle sorti di un disco che più prevedibile di così era impossibile. Sul menù, infatti, ci sono sempre le stesse pietanze: suono potentissimo, riff di chitarra sferraglianti, la voce grossa di Grohl, talvolta addirittura in screaming (vedi il singolo Run) e melodie radiofoniche di facile presa. Metti il cd nel lettore e tutto è esattamente come (e dove) dovrebbe essere; se poi si alza il volume dello stereo al massimo, il risultato è assicurato e cinquanta minuti di sano divertimento non ve li toglie nessuno. D’altra parte, Grohl fa simpatia, esattamente come quei ragazzotti del luna park, tutto muscoli e un po’ guasconi, che dopo aver dato prova di forza al punchball, portano la fidanzata al chioschetto per mangiare lo zucchero filato. Sotto la canotta, un fisico possente e un cuore tenero da pubblicità della Coca Cola, pugni da vero maschio e languide carezze. E’ impossibile, allora, resistere alle chitarre tamarrissime di Make It Right, o al consunto deja vu’ da capelli al vento di Arrows (canzone che, con titoli diversi, ascoltiamo ripetutamente da nove dischi: se c’è piaciuta la prima volta, perché ora dovrebbe farci schifo?) o ancora, ai languori beatlesiani della morbida Happy Ever After (Zero Hour) (probabilmente, trasmessa per osmosi da Macca, che compare nella citata Sunday Rain). Tuttavia, a grattare sotto la patina luccicante del mainstream, stavolta si trovano davvero poche idee, e se si escludono la perfezione formale di T-Shirt (pillola sintetica del Grohl pensiero), il travolgente sali e scendi del singolo Run e la conclusiva e pinkfloydiana title track (brutta, certo, ma almeno “diversa”), tutto appare esattamente per quel che è: la pedissequa reiterazione di un suono standardizzato. Nel bene e nel male, questi sono i Foo Fighters dal 1995. Prendere o lasciare.

VOTO: 6






Blackswan, sabato 23/09/2017

giovedì 21 settembre 2017

HAYLEY THOMPSON – KING - PSYCHOTIC MELANCHOLIA (Hard To Kill Records, 2017)

Dopo aver concluso l’avventura nei bostoniani Banditas, Hayley Thompson – King tenta la strada in solitaria, pubblicando il suo album di debutto, dall’intrigante titolo Psychotic Melancholia. Un disco dal suono e dall’andamento davvero particolare e che racchiude la summa delle esperienze di vita della giovane cantante originaria del Massachusetts. Registrato in sei mesi presso i Verdant Studios di Athens e prodotto da Peter Weiss, Psychotic Melancholia è una sorta di “Sodom And Gomorrah concept album” (definizione della stessa songwriter) che riflette sulla condizione della donna nei testi sacri e nel mondo. Non un opera dai contenuti religiosi, però, ma la risposta agli interrogativi di una ragazza che, in passato, ha fatto parte della setta religiosa dei Clowns Of Christ e la cui infanzia è stata segnata da una educazione religiosa di stretta osservanza e il cui sguardo, però, si è fatto ora totalmente agnostico. Temi alti, quindi, per un disco in cui confluiscono le varie esperienze musicali di Hayley: la passione per il southern roots, ereditata durante i lunghi viaggi in compagnia del padre, un allenatore di cavalli, il talento canoro esercitato e affinato con un master in musica lirica conseguito presso il New England Conservatory Of Music e una predisposizione naturale verso suoni più ruvidi, quali il rock, il garage e la psichedelia. L’impasto, e non poteva essere altrimenti, ha dato vita a un’opera prima difficilmente collocabile, a meno di non voler dar credito alla definizione un po’ pigra di psychedelic country, che solo in parte rispecchia i contenuti di un disco che vive momenti davvero sorprendenti. Basti pensare che il disco si conclude con Wehmut, una straniante sonatina operistica, per voce e violoncello, in cui la Thompson- King (che nell’occasione canta in tedesco) dà sfoggio della sua formazione classica. Un brano fuori sincrono rispetto al resto del disco, ma che pone l’accento sul vero fiore all’occhiello di Psychotic Melancholia: le straordinarie doti vocali di Hayley, il cui soprano è caratterizzato da un possente vibrato, che nei momenti caldi del disco sfocia in un aggressivo screaming. Se le radici sono rispettate in alcuni brani più addomesticati (la ballata al Roipnol di Soul Kisser e la tradizionalissima Old Flames (Can’t Hold a Candle To You)), in altre canzoni emerge, invece un grinta da consumata rocker. Così, le chitarre impazzano, rockeggiando indomite sul più classico dei country (l’iniziale Large Hall, Slow Decay) o percuotono il finale della languida Dopesick, sciogliendo l’andamento sognante in uno sconquasso di distorsioni. Quando parte, poi, No Room For Jesus, non ci sono più fraintendimenti: garage puro, tonnellate di fuzz e coltello dai denti. Non è da meno Lot’s Wife (i riferimenti biblici si sprecano), rock blues basilare e assolo di chitarra acido come morsura. Da segnalare anche l’elettrica Teratoma, copia carbone sporca e sgranata di Knockin’ On Heaven’s Door, con la voce di Hayley a gridare alle stelle, senza che lo straordinario vibrato perda un solo briciolo del suo spessore tecnico. Disco breve, poco più di mezz’ora, in cui la Thompson-King centra però l’obiettivo di declinare un’idea inusuale di americana, che pur palesando diverse discendenze artistiche, mostra compattezza, personalità propria e un pugno di idee innovative.

VOTO: 7,5





Blackswan, giovedì 21/09/2017

mercoledì 20 settembre 2017

PREVIEW




Novità in casa Black Rebel Motorcycle Club, da qualche giorno è disponibile l’ascolto del nuovo singolo Little Thing Gone Wild. Il brano arriva a quattro anni di distanza da Specter At The Feast il loro ultimo lavoro in studio. Per l’album invece bisognerà pazientare fino al prossimo 12 gennaio, si intitolerà Wrong Creatures e sarà prodotto da Nick Launay (Nick Cave, Yeah Yeah Yeahs, Arcade Fire).





Porter Stout, mercoledì 20/09/2017

martedì 19 settembre 2017

WALTER TROUT - WE'RE ALL IN THIS TOGETHER (Mascot/Provogue, 2017)

A volte i miracoli succedono, e chi non ci credere vada a leggersi la storia di Walter Trout. Nel 2014, il leggendario chitarrista del New Jersey (oltre a un’eccellente carriera solista, Trout ha militato nei Canned Heat e negli Heartbreakers di John Mayall), era a due passi dalla morte. Chiuso in una stanza d’ospedale, a causa di una devastante cirrosi epatica, Walter attendeva un trapianto di fegato che non arrivava. Un’operazione costosissima, che potè affrontare solo con il contributo dei suoi fans, grazie a un progetto di crowfunding, con cui i suoi estimatori riuscirono a raccogliere i fondi per sostenere le spese sanitarie. La lenta guarigione e il tormento della malattia furono raccontate in Battle Scars, album del 2015, vincitore di due Blues Music Awards, che rielaborava il dolore ed esorcizzava la paura della morte. Il successivo Live In Amsterdam, pubblicato lo scorso anno, certificava il ritorno sulle scene e il ritorno alla vita, confermando uno stato di forma stupefacente per chi solo qualche tempo prima si era trovato a giocare a scacchi la sua partita con la morte. Questo nuovo We’re All In This Together rappresenta un ulteriore passo avanti, il lieto fine di una favola che assume i connotati di un inno alla gioia di vivere: una grande festa organizzata da Trout, invitando tutti i migliori chitarristi in circolazione (e non solo), per celebrare il potere salvifico della musica. Trout è in forma smagliante e se la gioca ad armi pari con tutti i suoi ospiti, dando vita a una pioggia torrenziale di rock blues ad altissimo tasso energetico. Si parte con lo shuffle cadenzato di Gonna Hurt Like Hell, con Kenny Wayne Sheperd a fare da sparring partner in un duetto di adrenalina pura. Ain’t Goin’ Back è un altro gioiellino dagli accenti sudisti, in cui Walter dardeggia note con il mago della slide, Sonny Landreth, in quattro minuti e mezzo di tecnica e sudore. In The Other Side Of The Pillow, classicissimo blues chicagoano, arriva Charlie Musselwithe, leggendario armonicista e primo ospite senza la sei corde a tracolla. Tutto talmente bello che potrebbe bastare così. E invece, il meglio deve ancora arrivare. She Listens To The Blackbird Sing, in compagnia di Mike Zito, è uno straordinario brano southern, che suona come un outtakes da Brothers And Sisters degli Allman Brothers Band; The Sky Is Crying, ever green già rimasticato da Stevie Ray Vaughn e Gary Moore, è qui riproposto con Warren Haynes, in un alchimia di chitarre e voci di un’intensità che lascia basiti; She Steals My Heart Away mischia leggermente le carte con uno splendido ballatone soul, corroborato dal sax di Edgard Winter (fratello del più celebre e compianto Johnny). La title track, un torrido slow blues, in cui Walter Trout e Joe Bonamassa fanno a gara a chi ce l'ha più lungo (l'assolo), chiude una scaletta di settanta minuti di musica appassionata, con il grande chitarrista del New Jersey a celebrare un’inaspettata seconda giovinezza. Disco pressoché perfetto e un vero e proprio istant classic per tutti coloro che amano la chitarra elettrica.





Blackswan, martedì 19/09/2017

lunedì 18 settembre 2017

PREVIEW







Il quartetto rock londinese di Wolf Alice ha realizzato il video di Beautifully Unconventional, primo singolo estratto dal loro sophomore album Visions of Life, in uscita il 29 settembre via Dirty Hit/RCA Records. La band è pronta a scalare nuovamente le charts britanniche come era successo, nel 2015, con il loro precedente My Love Is Cool, arrivato fino alla seconda piazza della classifica. Il video, diretto da Stephen Agnew, vede la cantante Ellie Rowsell nei panni glamour di una Marilyn Monroe 2.0. La canzone? Irresistibile.





Blackswan, lunedì 18/09/2017