Lo svolgimento
delle "primarie" pentastellate e la festa di Rimini ci regalano
l'istantanea di una politica ormai declassata a un gigantesco reality show. Il
copione è pressocchè identico al genere televisivo: per la selezione di un
candidato si inizia con un casting, si passa alle votazioni on line, per poi
approdare alla vittoria con tanto di finale fulmicotonico su un palcoscenico
con la proclamazione del trionfatore, scandito al microfono davanti a una
platea urlante e infervorata, mentre dal cielo una pioggia di coriandoli
avvolge l'eletto, magari sull'onda del solito "We are the champions".
Più o meno così si è svolta la kermesse riminese che ha decretato l'investitura
di Luigi Di Maio a capo del Movimento 5 Stelle, e di candidato Premier alle
prossime elezioni politiche. Un vero trionfo per il vice presidente della
Camera che, per la conquista dell'ambito titolo, si è misurato con dei veri e
propri "big" del calibro di Vincenzo Cicchetti, Elena Fattori,
Andrea Frallicciardi, Domenico Ispirato, Gianmarco Novi, Nadia Piseddu, Marco
Zordan. Per la serie "Cronaca di una vittoria annunciata", a pochi è
sfuggito che a Di Maio piace vincere facile. Calato il sipario sul Grande
Fratello Grillino, sia pur sconcertati sull'esito dell'intera operazione,
abbiamo acquisito la piena consapevolezza di quanto ormai la retorica del
reality sia sempre più asservita alla politica. Un modello, quello del reality,
che pare spopolare da destra fino alla sinistra. Tutto passa dalla rete, da
Instagram, da Twitter. E da Facebook, come ci ha insegnato il nostro Renzi, il
più attivo frequentatore di social assieme all'altro Matteo, quello delle
ruspe, per intenderci. Una suggestione collettiva o quasi: oggi, se un politico
non fa un selfie non è smart, se non si avvale di Twitter, è decisamente out.
Barack Obama, rivolgendosi all'allora candidato Donald Trump, disse che la
presidenza degli Stati Uniti d'America non è un reality show. Mai più profetica
fu questa affermazione. Twitto, ergo sum, con buona pace di Cartesio.
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