lunedì 31 ottobre 2022

JOHN FULLBRIGHT - THE LIAR (Thirty Tigers, 2022)

 


Nel bel mezzo della cartina dell'Oklahoma, c'è un crocicchio di case chiamato Okemah, in cui vivono tremila anime, un terzo delle quali sono nativi americani. Appena poco più grande di un buco di culo, insomma. E nonostante ciò, Okemah è un luogo ricco di storia musicale, visto che ha dato i natali al grande Woody Guthrie e a un'altra Guthrie, Gwen, figura di riferimento del r'n'b anni '80. Sarà l'aria particolarmente buona, ma da queste parti nasce anche John Fullbright, classe 1986 e, fin dall’inizio della sua carriera, considerato giovane promessa del cantautorato a stelle e strisce.

Un artista così dotato che, infatti, con il suo primo lavoro in studio, From The Ground Up (2012), ottiene subito successo commerciale, apprezzamento della critica e una nomination ai Grammy Awards per il miglior album di Americana. Due anni di attività concertistica ma anche di studi, hanno portato il songwriter dell’Oklahoma a una completa maturazione artistica e a un nuovo disco, Songs (2014), altrettanto bello, composto da dodici canzoni, per cinquanta minuti di durata, in cui è la ballata intimista e confessionale, e una scrittura sincera e appassionata, a far la parte del leone.  

Oggi, a distanza di otto anni (un’eternità rispetto alle tempistiche dell’odierno mercato discografico) John Fullbright esce con un nuovo album, intitolato The Liar, ed è chiaro che il trentaquattrenne musicista americano ha fatto buon uso di tutto il tempo trascorso. Ha ingaggiato una nuova band per farsi accompagnare in studio, ha ampliato il proprio spettro musicale e ha consolidato, arricchendolo, il proprio stile. Uno scostamento dalle origini, che potrebbe in qualche modo spaventare i fan della prima ora, quelli che si aspettano la semplice intensità di un uomo chino sul suo pianoforte. Quel tipo di songwriting non è svanito del tutto, e infatti The Liar inizia con "Bearden 1645", un brano che palesa quale sia la comfort zone di Fullbright e che evoca un mood alla Billy Joel, anche se poi la canzone si arricchisce con un bell’assolo di slide.

C’è, però, un maggiore eclettismo in questo nuovo lavoro, che pur mantenendo una famigliarità emotiva, esibisce un’espressività più varia: in "Safe To Say" l’organo si sostituisce al piano per un brano dagli accenti fortemente gospel, la title track è una ballata che si sviluppa su coordinate country soul, "Where We Belong" è un classicissimo country accarezzato dal violino, mentre l’autoironica "Social Skills" è una filastrocca rock di due minuti, dritta e diretta, e senza fronzoli. Il pianoforte resta, ovviamente, il fulcro della musica di Fullbright, e anche se lo strumento viene avvolto spesso da arrangiamenti più corposi, le ballate spezza cuore, che sono il fiore all’occhiello del musicista dell’Oklahoma, non mancano ("Stars" e "Lucky" sono da brividi).

Registrato nello studio della fattoria di Steve e Charlene Ripley nel nord-est dell'Oklahoma, The Liar si avvale della presenza di alcuni dei migliori musicisti dello stato, la maggior parte dei quali ha già lavorato con Fullbright, tra cui Jesse Aycock, Aaron Boehler, Paul Wilkes, Stephen Lee e Paddy Ryan. Sono stati impiegati solo quattro giorni per registrare le dodici canzoni, ma nonostante le tempistiche compresse, il disco non è certo un parto frettoloso, anzi replica la brillantezza di Songs e From The Ground Up, offrendo una scaletta più ricca e composita, che non manca di toccare le corde del cuore grazie al consueto surplus di emotività.

Otto anni sono davvero una lunghissima distanza fra un disco e l’altro, ma queste dodici canzoni di ottima fattura, sono riuscite ad azzerarla. E, tutto sommato, è valsa la pena aspettare.

VOTO: 7,5

 


 

Blackswan, lunedì 31/10/2022

giovedì 27 ottobre 2022

TEENAGE DREAM - KATY PERRY (Capitol, 2010)

 


Secondo singolo e title track dal terzo album della californiana Katy Perry, Teenage Dream è un leggerissimo brano elettropop che racconta di come l’amore per un giovane uomo faccia sentire la cantante nuovamente adolescente.

Il brano fu concepito dalla Perry in un periodo particolarmente stressante, in cui le risultava insopportabile vivere a Los Angeles, la città in cui lavorava e che le faceva provare una pressione incredibile. Stufa delle dinamiche frenetiche e dell’arrivismo della metropoli, la cantante tornò a casa, a Santa Barbara, per ritrovare il sapore buono dei luoghi in cui era cresciuta e che la facevano sentire bene. Qui, la Perry ritrova un entusiasmo che sembrava essersi affievolito, e ricordando i giorni belli dell’adolescenza, mette mano alla genesi di Teenage Dream, trasportata dalla ritrovata vitalità di sentirsi in un luogo che le apparteneva veramente e che suscitava in lei ricordi belli di quand’era ragazzina, quando i sogni a occhi aperti le trasmettevano una gioia, in seguito mai più provata.

E cosa c’è di più bello ed emozionante, agli occhi di una ragazzina, se non immaginare il principe azzurro e l’amore della vita? E proprio di questo parla Teenage Dream, di quei sentimenti che si provano a quindici anni, che fanno battere il cuore in gola e tolgono il respiro, di quell’euforia totalizzante e pura che, invecchiando, le esperienze e i dolori della vita, tendono progressivamente a sfumare, trasformando l’amore in qualcosa di diverso, più profondo, probabilmente, ma decisamente meno intenso. Teenage Dream è, dunque, un invito rivolto alle persone di tornare a innamorarsi senza vergogna come quando erano ragazzi, di tornare a riprovare il fremito vitale dei sogni adolescenziali.

Riordinate le idee e trovato il concept, la Perry si mise al lavoro, coadiuvata da Lukasz "Dr. Luke" Gottwald e Max Martin, due produttori che, quando bisogna mettere in piedi un pezzo pop sfacciato e dal grande appeal radiofonico, hanno pochi eguali al mondo, e dall’amica Bonnie McKee, una cantautrice con alle spalle un album d’esordio passato inosservato (Trouble del 2004), che mise lo zampino in tutte e tre le hit estratte dall’album (California Gurls, Last Friday Night e, appunto, la title track).

Il lavoro fu tutt’altro che semplice, a causa della pignoleria e del perfezionismo dei due produttori, e le due amiche dovettero riscrivere il testo cinque o sei volte prima di avere l’approvazione. Il problema maggiore era quello di trovare le immagini giuste, che rendessero perfettamente l’immedesimazione dell’artista con la ragazza che era un tempo. Tutto doveva suonare naturale, con la giusta enfasi sulla giusta sillaba, in modo che la canzone suonasse sincera, profumasse d’estate, possedesse anche un pizzico di nostalgia e un retrogusto vagamente agrodolce. Una faticaccia che, però, valse alla Perry la top ten in quasi tutti i paesi del mondo, e un vero proprio record, mai più eguagliato, con ben 14.900.000 ascoltatori nella sola prima settimana di passaggi radiofonici.

 


 

 

Blackswan, giovedì 27/10/2022

mercoledì 26 ottobre 2022

A.A. WILLIAMS - AS THE MOON RESTS (Bella Union, 2022)

 


Forever Blue era stato, a parere di chi scrive, uno degli album più suggestivi del 2020. Un disco gotico e notturno, che aveva attirato l’attenzione di stampa e pubblico, grazie a un filotto di canzoni emotivamente vulnerabili, interpretate con voce bassa e commossa, e avvolte da orchestrazioni lussureggianti, spesso preludio di intensi crescendo post rock. Con Songs From Isolation, uscito nel 2021, A.A. Williams aveva destrutturato grandi classici della letteratura rock (Cure, Pixies, Radiohead, etc.) immergendoli nella cupa disperazione dei giorni del lockdown.

Un’inquieta creatività, quella dell’artista inglese, che è culminata nella composizione di questo As The Moon Rests, un disco che si distanzia leggermente dalla cifra estetica dei suoi predecessori, pur mantenendo inalterato il mood malinconico e mesto, che è il marchio di fabbrica di una sensibilità artistica complessa e profonda. Fin dall’iniziale "Hollow Heart", infatti, è chiaro che questo sia un album molto più orientato al rock, anche se la preponderante elettricità delle chitarre è comunque compensata da altrettanti passaggi sonori delicati e meditabondi.

"Evaporate" possiede un’anima melodica minimalista, costruita su poche note di pianoforte, strapazzate da un riff di chitarra urticante, i cui echi quasi doom danno alla canzone un ronzante senso di disperazione. Come sempre, la voce della Williams è al centro della scena, il suo timbro è al contempo intensamente vulnerabile e totalmente accattivante. Qui, il mood gotico possiede una potenza espressiva tanto elegante quanto disturbante, una sensazione, questa, che permea l’intero minutaggio di un disco ambizioso ed emotivamente ricco.

L’ambiguo titolo del disco, inoltre, crea ulteriori suggestioni, anche visive: sembra ammiccare alla luce decrescente del giorno che va a morire, ma preso alla lettera può suggerire anche il graduale sorgere del sole, mentre la luna si ferma a riposare. In ogni caso, al centro della scena, c’è una visione di chiaro scuri, in cui la luce incerta del crepuscolo si posa su tutte le undici canzoni in scaletta.

Una sensazione evocata perfettamente dall’inquietudine che pervade la splendida Pristine, che si apre, librando tra volute morbidissime, prima che le chitarre e gli archi si schiantino fragorosamente al suolo in una febbricitante esplosione post rock. Se "Shallow Water" sfiora leggiadra i canoni esteti del chamber folk, grazie a una melodia semplice e alla voce rilassata ed evocativa della Williams, "For Nothing" è, per converso, uno sprofondo gotico, ipnotico ed emozionante nella reiterazione dei medesimi accordi, su cui la voce salmodiante e carica di dolore della Williams sorvola, fino all’ennesima sportellata elettrica.

As The Moon Rests non è certo un album minimalista perché potente e gonfio di umori, talvolta perfino divergenti (l’arpeggio di chitarra della title track che deflagra in un botto di convulsa elettricità limitrofa, ancora una volta, al doom metal); eppure, nella sua forma complessamente altalenante, la sostanza comunicativa resta semplice e immediata, e arriva direttamente al cuore, per stritolarlo in una morsa di mestizia e sognante malinconia. C’è una perfetta simbiosi fra melodie e arrangiamenti, che evitano ogni inutile sovraesposizione, pur riuscendo nell’intento di rendere la narrazione epica anche nei momenti maggiormente intimi e raccolti.

Si potrebbe parlare a lungo di un disco, nelle cui pieghe si nasconde un mondo di suggestioni che la Williams ha plasmato con la lucidità di chi sa dominare la materia senza bisogno di eccessi; ma nessuna parola, in questo caso, è paragonabile all’esperienza dell’ascolto. La sua formazione classica e l'amore sempre dichiarato per il metal convivono, qui, in un equilibrio e con una misura che lascia senza fiato. La Williams sa scrivere grandi canzoni in cui goth, doom e post-rock confluiscono in un sali e scendi palpitante, ove la quiete più sommessa si gonfia di fremente emotività, capace di aprire crepe nel cuore e generare un disperato soliloquio, salmastro di lacrime. In tal senso, As The Moon Rests è un dono prezioso per tutte quelle anime romantiche, che cercano nella musica una compagna con cui condividere i propri tormenti interiori. Mettete, quindi, nel lettore il cd e predisponetevi ad abbracciare questo tumultuoso flusso emotivo: che il rituale della voluptas dolendi abbia inizio.

VOTO: 9

 


 

 Blackswan, mercoledì 26/10/2022

lunedì 24 ottobre 2022

LAMB OF GOD - OMENS (Nuclear Blast, 2022)

 


I Lamb Of God sono una di quelle pochissime band che sono sempre state in grado di mantenere saldo il timone e di seguire senza incertezze la rotta, tanto che non è un’eresia affermare che musicalmente non abbiamo mai fatto un passo falso. Qualcuno potrebbe obbiettare che la band originaria della Virginia conosce a menadito i suoi limiti e i suoi pregi e che, forti di questa consapevolezza, abbia rilasciato più o meno sempre lo stesso disco. Questa, però, sarebbe una considerazione ingiusta per un gruppo che ha fissato gli standard del metal per oltre due decenni, e che in realtà non è mai stato del tutto estraneo al cambiamento, come avvenuto, ad esempio, nel bellissimo VII: Sturm Und Drang (2015).

Questo nuovo Omens rappresenta, dunque, un ulteriore tassello in una discografia solidissima ed esprime al meglio quello che è il patrimonio musicale di una band che non sembra aver subito le angherie del tempo: l’aggressività, il lirismo, l'armonia dei loro riff sono tutte componenti di un tiro di fuoco che continua a pompare decibel con intelligenza e credibile rabbia.

Mentre il loro eccellente album omonimo del 2020 offriva un senso di speranza in mezzo alle tribolazioni del mondo, Omens è un album fortemente nichilista e cupo, e fornisce una riflessione pessimista sui giorni tristi che viviamo. La ferocia è ovunque, nella musica e nelle liriche.

L'opener "Nevermore" mette in chiaro subito le cose: è un pugno in faccia, un inno rabbioso, sono i Lamb Of God come sempre li abbiamo amati, a cui si aggiunge anche la sorpresa di un breve inciso melodico in cui Randy Blythe canta pulito. La miscela infuocata di thrash, death e groove metal che ha sempre contraddistinto il suono della band americana continua a non far prigionieri ed è ancora incredibilmente vibrante e seducente. E forse lo è ancora di più alla luce di testi poetici che profetizzano la fine del nostro mondo, come avviene ad esempio, in Raven, omaggio a Edgar Allan Poe, in cui Blythe canta: “Questa è una resa dei conti, senti i corvi urlare”.

E’ questo il tema principale di un disco che osserva l’implosione di una società, in cui la pandemia e alcune folli scelte politiche hanno generato molteplici conflitti e dolorosi tormenti interiori. E così "Gomorrah", posta a metà disco, paragona, quasi inevitabilmente, la deriva etica presa dal nostro mondo al racconto biblico della distruzione di Sodoma e Gomorra. Il pessimismo, insomma, regna sovrano.

In generale, Omens, come dicevamo all’inizio, non aggiunge nulla di nuovo a quanto conoscevamo dei Lamb Of God, eppure tutto sembra a funzionare a dovere, anche nei pezzi, per così dire, più prevedibili come "To The Grave" e "III Designs". Ci sono, però, anche un paio di gioiellini che possono essere annoverati fra le cose migliori mai scritte della band: il deathcore di "Ditch", tecnica e furiosa, e la bellissima conclusiva "September Song", il cui inizio molto melodico (ecco un tentativo di uscire dalla comfort zone), e la ritmica in leggero controtempo, deflagrano poi in una seconda parte feroce, corroborata dal vibrante duello fra i due chitarristi Mark Morton e Willie Adler.

Omens, in definitiva, è un ottimo disco di metal, che non deluderà le aspettative dei fan, che sanno esattamente cosa aspettarsi dalla band originaria della Virginia. Il merito dei Lamb Of God è quello di essere riusciti ad affrontare un tema prevedibile come quello dell’umanità post pandemia, convogliando rabbia e frustrazione in quaranta minuti potenti e incendiari. E per quanto non ci siano novità sostanziali, la formula non mostra la corda della ripetitività e la band mette a segno l’ennesimo, ottimo capitolo di una discografia, fin qui, impeccabile.

VOTO: 7,5

 


 

 

Blackswan, lunedì 24/10/2022

venerdì 21 ottobre 2022

I CAN'T STAND THE RAIN - ANN PEEBLES (Hi Records, 1973)

 


Provate a non battere il piede a terra, mentre ascoltate I Can’t Stand The Rain, e vi pago da bere una birra: è praticamente impossibile. E non perché sia un brano particolarmente ritmato, ma quel groove, insinuante e voluttuoso, in un attimo entra sotto pelle e circola nel sangue, rendendo impossibile al corpo, resistergli.

Che questa sia una grande canzone, che ha attraversato i decenni senza perdere un briciolo del suo fascino, lo si capisce dando un’occhiata alle notizie che potete trovare in rete: Rolling Stone la piazza alla posizione 197 della classifica delle più grandi canzoni di ogni tempo, le reinterpretazioni del brano si sprecano (Eruption, Tina Turner, Lowell George, etc), e lo stesso John Lennon, durante un’intervista, la definì “la miglior canzone di sempre”.

Il brano fu scritto a Memphis dalla cantante soul Ann Peebles, dal suo partner (e poi marito) Don Bryant e dal DJ Bernard "Bernie" Miller, una sera del 1973. La cantante si trovava a casa sua in attesa di amici per andare ad ascoltare un concerto blues. Proprio mentre stavano per partire, il cielo si rannuvolò, e iniziò a piovere. La Peebles, rivolta al suo compagno Bryant, che lavorava alla Hi Records come compositore, sbottò: "Non sopporto la pioggia".

E siccome costui, era un frullatore di idee perennemente in funzione, appena sentì risuonare quella frase, capì di avere per le mani un favoloso incipit per una nuova canzone. Quindi si sedette al pianoforte e ha iniziò a suonare il riff portante, sviluppandolo in base ai suggerimenti della Peebles e del DJ Bernie Miller.

La canzone fu completata quella notte stessa e presentata la mattina successiva al maestro dello studio di Hi, Willie Mitchell, che in fase di arrangiamento, utilizzò un timbale elettrico, per creare il caratteristico suono a goccia di pioggia che si ascolta nella canzone.

Per la cronaca, i tre si dimenticarono completamente di quel concerto che era stato, involontariamente, il motore della loro ispirazione.

Nonostante, come si diceva, l’irresistibile ritmica della canzone spinga inevitabilmente ad ancheggiare, I Can’t Stand The Rain è, in realtà, un brano spacca cuore, che parla di una donna che non sopporta il suono della pioggia contro la sua finestra, perché le ricorda il suo amore perduto. La Peebles, giocando con l’assonanza fra (window) pane (finestra) e pain (dolore), ricorda ciò che è stato e ciò che ora non è più, e quando canta “Ti ricordi com'era dolce quando stavamo insieme? Tutto era così grandioso. Ora che ci siamo lasciati, (sento) solo un suono, che proprio non sopporto, non sopporto la pioggia contro la mia finestra”, non sai se ballare o metterti a piangere.

 


 

Blackswan, venerdì 21/10/2022

giovedì 20 ottobre 2022

RUSSIAN CIRCLES - GNOSIS (Sargent House, 2022)

 


Gnosis, l'ottavo album della band post rock americana dei Russian Circles, deriva il proprio titolo dallo gnosticismo, il termine si riferisce alla conoscenza spirituale, in particolare ai mezzi esoterici attraverso i quali gli esseri umani possono intravedere la vera natura del divino.

La band di Chicago è da sempre abituata a esplorare questo tipo di temi concettualmente impegnativi, e lo fa utilizzando trame sonore dense, bordate elettriche, groove ipnotici e un’esposizione semplice del movimento, per trasmettere, in modo immediato, una vasta gamma di emozioni. La solennità della loro musica, a dire il vero, potrebbe essere un macigno da portare, se non fosse così abilmente bilanciata dalla loro abilità compositiva e da una vibrante profondità emotiva.

Gnosis è probabilmente l'album più pesante, cupo e immediato dei Russian Circles, una sorta di crocevia in cui si scontrano la potenza dello sludge metal e le suggestioni cinematografiche del post rock. A causa della pandemia, il disco è stato concepito in maniera diametralmente opposta al consueto modus operandi (idee sviluppate e arricchite tramite sessioni in sala prove), e si compone di tracce scritte a distanza dai singoli membri del trio. Ciò conferisce alla scaletta un’esposizione chiara e, strano a dirsi, un più intenso senso di urgenza.

Se, infatti, i precedenti album della band esploravano trame prog-rock e dolci inflessioni psichedeliche, Gnosis raramente si abbandona a queste modalità espressive, cercando invece la forza e la brutalità come mood predominante. I riff di chitarra sono tra i più violenti che la band abbia mai scritto, basta ascoltare il fragore di "Tupilak" o le esplosioni black metal che aprono "Betrayal", per rendersi conto di quanta rabbia bruci in queste sette composizioni. Inevitabile, quindi, che Gnosis si incammini verso direzioni oscure e cupe, senza, tuttavia, perdere il consueto timbro maestoso e quelle suggestioni cinematiche che sono un marchio di fabbrica della band.

Ci sono, tuttavia, anche momenti di leggerezza all'interno di questo ribollente magma elettrico. La prima metà della title track riecheggia le esplorazioni sui precedenti album dei Russian Circles attraverso strutture di rock progressive, mentre la conclusiva "Bloom" è avvolta di malinconica dolcezza, quasi una luce alla fine del tunnel, un momento di stasi emotiva. Queste tracce sono rari barbagli di sole che attraversano l'oscurità viscosa della scaletta e portano lenimento ai padiglioni auricolari.

Come nel caso di ogni uscita dei Russian Circles, la produzione di Gnosis è straordinariamente ben realizzata, il nucleo fondante della registrazione è basata su una combinazione da sogno fra basso e batteria, realizzata presso l'Electric Audio di Steve Albini e mixata da Kurt Ballou nel suo studio God City. Questo ensemble di alto livello ha costruito una tavolozza sonora che si traduce in un suono diretto, verace e, comunque, abilmente organizzato.

Gnosis è uno degli album più duri e spietati dei Russian Circles, un disco che esplora gli angoli cupi del precedente Blood Year, iniettandoli, però, con rinnovata pesantezza e intensità. È allo stesso tempo, un album in cui il corporeo, una materia carnale e sanguinea, convive con una dimensione più cerebrale, in un'esplorazione intenzionalmente livida del mondo post pandemia, che pesa tanto sulla testa quanto sull'anima. Da ascoltare a volumi esagerati.

VOTO: 7,5

 


 


Blackswan, giovedì 20/10/2022

martedì 18 ottobre 2022

LADY MARMALADE - LABELLE (Epik, 1974)

 


Uno dei ritornelli più famosi di sempre recita "Voulez-vous coucher avec moi ce soir?", che tradotto dal francese significa "Vuoi dormire con me stanotte?", domanda, questa, che suggerisce ovvie implicazioni sessuali.

La canzone, a cui questo verso pruriginoso si riferisce, lo sapete tutti, è la celebre Lady Marmalade, un brano interpretato dal trio r’n’b tutto al femminile delle Labelle (Patricia Holt, che prenderà il nome di Patti Labelle, Sandra Tucker, che abbandona il gruppo quasi subito, Nona Hendrix e Sarah Dash), che fu, però, scritto da Bob Crewe e Kenny Nolan. I due erano dei produttori che avevano lavorato a molte canzoni durante gli anni '60, inclusi i successi dei The Four Seasons. Il brano, che racconta la storia di una donna che seduce un uomo per le strade di New Orleans e che era ispirato alle numerose prostitute che affollavano la zona a luci rosse della città, era stranamente lontano dalle corde dei due produttori, ma, tuttavia, divenne il più grande successo del duo, replicando e superando le vendite della loro grande hit, My Eyes Adored You di Frankie Valli, e raggiungendo la prima piazza di Billboard nel marzo del 1975.

Originariamente, Lady Marmalade venne registrata dal gruppo disco The Eleventh Hour, che era composto da turnisti di studio e che comprendeva alla voce lo stesso Kenny Nolan. Fu il produttore Allen Toussaint (che fu inserito nella Rock and Roll Hall of Fame nel 1998) a suggerire il brano alle Labelle, che lo registrarono a New Orleans negli studi Sea-Saint del loro mentore.

Quando le Labelle lo eseguirono in televisione, per la prima volta, fu assolutamente proibito loro di cantare il ritornello, troppo oltraggioso per gli standard dell’epoca, che venne cambiato in "Voulez-vous danser avec moi ce soir?" che significa "Vuoi ballare con me?". Patti Labelle ha raccontato che, non conoscendo il francese, non riusciva a comprendere il motivo della censura e chiese numi a Bob Crewe. Quando conobbe il significato di quelle parole, la prima cosa che pensò fu: “Oh mio Dio, cosa penserà mia madre?”.

Presa consapevolezza del significato del brano e di cosa lo avesse ispirato, le Labelle trasformarono questa canzone in un oltraggioso inno di festa, che ben si accompagnava al loro aspetto glamour e alla loro spiccata sensualità. Se da un lato, il testo altamente “suggestivo” fece arruffare le piume al pubblico borghese e benpensante, in quanto sembrava rendere affascinante la prostituzione, dall’altro, divenne una canzone iconica per la comunità gay, che vedeva in quelle parole un forte spirito libertario e un invito a non discriminare.

Patti Labelle, a tal proposito, in seguito, spiegò: “Quella canzone era tabù. Voglio dire, perché cantare di una prostituta? Perché no? Avevo una buona amica che era una prostituta, ed è morta. Era un'amica, faceva le sue cose…Perché discriminarla? Sarebbe come discriminare perché tu sei bianco e io sono nera, o tu sei gay e qualcun altro è etero. Io non credo nella separazione fra le persone. Se il tuo lavoro è quello di una prostituta, chissenefrega!

Questo è stato l'unico successo accreditato alle Labelle, i cui membri, successivamente, continueranno in solitaria: Patti LaBelle, la cantante del trio, non ha mai smesso di incidere dischi come solista, con buoni riscontri commerciali negli anni ’80, Nona Hendryx, ha intrapreso una carriera solista molto eclettica, che ha incluso anche un tributo a Captain Beefheart, mentre Sarah Dash, ebbe un piccolo successo nel 1979 con Sinner Man e fece un lungo tour con Keith Richards.

Nel 2021 la Library of Congress degli Stati Uniti ha annunciato che Lady Marmalade è stata iscritta nel National Recording Registry, rendendola così, ufficialmente, tesoro nazionale.

 


 

 

Blackswan, martedì 18/10/2022

lunedì 17 ottobre 2022

AMANDA SHIRES - TAKE IT LIKE A MAN (Silver Knife Records/ATO, 2022)


 

Songwriter e violinista, membro delle Highwomen, moglie e pigmalione artistico di Jason Isbell, Amanda Shires non ha mai amato gli stretti confini del country tradizionale, preferendo un approccio meticcio e cercando di portare complessità a un genere ultra conservatore.

Lentamente, Amanda, è diventata un punto fermo nella scena della musica country di Nashville, città nella quale si è trasferita dal suo nativo Texas nel 2004, arrivando al successo con l’intimo e meditabondo My Piece of Land del 2016, un disco attraverso cui rifletteva sulla sua gravidanza e sulle realtà agrodolci della genitorialità casalinga. Nel 2019, come accennato, ha fondato il supergruppo country The Highwomen insieme a Maren Morris, Brandi Carlile e Natalie Hemby, una pugnace affermazione di femminilità in risposta alle radio country rock, che tendono a tenere ai margini la musica composta da donne.

Si è inoltre distinta nel tempo per le sue posizioni progressiste in tema di inclusività razziale e di genere, creando non poco scompiglio all’interno di un music system, come quello country, estremamente chiuso e tradizionalista. In tal senso, il suo settimo album si presenta come un ennesimo passo avanti nelle sue posizioni tenacemente di sinistra, un disco ancor più di rottura rispetto ai suoi precedenti, motivato dal desiderio di presentare un'immagine potente e sfaccettata dell’animo femminile. C’è un evidente volontà di trasgredire e di assestare un colpo al ventre molle della società conservatrice, come emerge dalle foto che troverete all’interno del cd: due sessualmente esplicite e, una terza, invece, che la rappresenta in veste bianca e casta, scattata ai piedi di un’imponente croce. Sacro e profano.

Così come è conturbante il video che accompagna l’opener "Hawk For The Dove", una cupa ballata dagli accenti blues, percossa da uno splendido assolo di violino, con cui la Shires si scaglia contro gli standard antiquati della sessualità femminile, a voler dimostrare che una donna, nonostante abbia compiuto i quarant’anni, può essere forte, sensuale e libera, non necessariamente il rimorchio della vita di un uomo (“Come on put pressure on me / I won’t break”). Allo stesso modo, nella vibrante title track, la songwriter ribadisce il tema dell’indipendenza femminile, giocando con le parole del titolo: “So che il costo del volo è l'atterraggio / Ma so che posso sopportarlo come un uomo / So che il costo del volo è l'atterraggio / Ma so che posso sopportarlo come Amanda”. Ogni donna è in grado di comportarsi come un uomo, ogni donna è in grado di essere se stessa. Un bel pugno in faccia agli stereotipi di genere.

Il produttore indie-pop, Lawrence Rothman (Marissa Nadler, Angel Olsen, Soccer Mommy, Kim Gordon, etc) ha compiuto un perfetto lavoro di bilanciamento, fondendo il suono di un violino crudo e vivido e liriche spesso aspre, con il lato poetico della Shires ed echi della tradizione, senza, però, dimenticare la direzione presa da alcuni giovani musicisti, che si spingono oltre i confini più tradizionali del country. "Stupid Love" è, così, un giocoso pezzo soul illuminato da un caldo arrangiamento di fiati, e il risultato è un numero sbarazzino che può richiamare alla mente Kacey Musgraves, mentre "Lonely At Night" è una ballata scintillante, che pesca il proprio abito nell’armadio del pop seventies.

Se questi sono brani davvero inusuali per chi arriva da Nashville, la morbida "Empty Cups", cantata in coppia con l’amica Maren Morris, riporta in luce la tradizione con una melodia forse prevedibile, ma sicuramente efficacissima.

E’ un episodio, però, perché la Shires, come detto, intende sovvertire le regole e scardinare la visione maschilista che vede la donna solo come moglie e madre. Nella frizzante "Here He Comes" parla di un amore occasionale, così come in "Bad Behavior", che si avvale di qualche inserto di elettronica e un breve accenno rap, la sua voce maliziosa canta di libertà sessuale senza pudori: “Non so se ti voglio, ma forse sì, Forse è la mia natura, Forse mi piacciono gli estranei. E se lo facessi?”.

La Shires, però, oltre a provocare, è anche in grado di autentica poesia, come avviene nella malinconica ballata "Fault Lines", che racconta di un momento difficile del suo matrimonio (Jason Isbell è qui presente alla chitarra in molti pezzi), in modo onesto e sorprendentemente semplice, frammenti di vita vissuta, che si ricompongono nella più onesta delle ammissioni, il dubbio: "Potresti dire che è tutta colpa mia / Non siamo riusciti ad andare d'accordo / E se qualcuno me lo chiede dirò ciò che è vero / E in realtà è: non lo so.”.

Da qualunque lato lo si guardi, Take It Like A Man, non certifica solo l’alto livello di ispirazione di una musicista che cerca di innovare, ma soprattutto evidenzia il modo diretto in cui la Shires sa raccontare e raccontarsi, senza filtri a mediare, senza menzogne che accomodino il disagio, la rabbia o il dolore, senza eccessi che accompagnano il suo schierarsi, sempre tenace. Se il femminismo implicito nel titolo invita la donna allo stoicismo per superare le barriere di genere, la Shires riesce essere al contempo assai fragile e vulnerabile, dal momento che non teme affermare come il desiderio di autonomia è ondivago e cambia con il cambiare della vita e delle stagioni. Una tendenza alla libertà ma anche un desiderio d’amore da cui non è possibile smarcarsi tanto facilmente. “Potresti essere la mia rovina, ma io mi ci stendo sopra”, canta in "Stupid Love". Perché anche una donna forte, talvolta, fa cose stupide, come innamorarsi di chi non dovrebbe. E’ la vita, è il mistero dell’amore, e non ci sono regole che tengano.

VOTO: 8

 


 

 

Blackswan, lunedì 17/ 10/2022

giovedì 13 ottobre 2022

SUEDE - AUTOFICTION (BMG, 2022)

 


Da sempre ritengo i britannici Suede geneticamente incapaci di rilasciare un brutto disco. E non sto parlando solo di quegli album, come Dog Man Star (1994) e Coming Up (1996), con cui la band, guidata da Brett Anderson, conquistò la fama di essere una delle realtà più significative dell’era brit pop (definizione, nello specifico, a mio avviso, alquanto riduttiva). Da quando, infatti, nel 2013, dopo uno iato durato ben undici anni, tornarono a scrivere nuovo materiale, gli Suede hanno inanellato un filotto di dischi tutti di livello, a partire da Bloodsports, che riportò il gruppo ai vertici delle classifiche britanniche. E poco importa se, in fin dei conti, la formula vincente non è poi mai cambiata molto: in tutti questi anni, Anderson non ha perso il tocco, è sempre riuscito a lucidare il proprio songwriting, così da renderlo scintillante e moderno, nonostante l’indubbia familiarità del suono.

Avevo, pertanto, grandi aspettative rispetto a questo nuovo Autofiction, consapevole (ah, le certezze dei fan) che ancora una volta gli Suede avrebbero fatto centro, come era successo con il precedente, incantevole, The Blue Hour (2018). Quello che non mi sarei mai aspettato è che la band sarebbe riuscita ad alzare ulteriormente un’asticella posta già ad altezza considerevole. Dopo trent’anni di storia, un periodo di tempo tanto lungo da essere in grado di fiaccare l’ispirazione anche delle menti più lucide e talentuose. E invece…

Invece, Autofiction è un disco energico, attraversato da un’inaspettata urgenza emotiva, prodotto mirabilmente da Ed Buller, e altrettanto mirabilmente mixato da Alan Moulder, il cui lavoro ha dato alle undici canzoni in scaletta una rigogliosa pienezza di suoni che stordisce. E se tutto il disco possiede un surplus di ispirazione che non può lasciare indifferenti anche le orecchie più distratte, Autofiction contiene anche alcune delle canzoni più belle mai scritte dalla band. Un disco che mostra i muscoli, certo, ma che sa usare anche il cervello e che, soprattutto, getta il cuore oltre l’ostacolo, esibendo riff grondanti di elettricità, la seducente intensità del timbro melodrammatico di Anderson e melodie e liriche che convincono e commuovono.  

Il singolo "She Stills Leads Me On", canzone dedicata alla madre del cantante, apre l’album con ritmo e intensità, evocando per un attimo gli Smiths, e conquistando fin da subito con un ritornello che entra rapido sotto pelle.  Una corrosiva potenza post punk scuote l’ascolto con la successiva "Personality Disorder", sportellate elettriche che mandano ko con sferragliante urgenza. Una lectio magistralis a tante giovani band che si cimentano nel genere, e che viene ribadita anche nella conclusiva "Turn Off Your Brain And Yell", il cui pulsare sotterraneo esplode in una dirompente elettricità che non fa prigionieri.

Sono i riff di chitarra di Richard Oakes a tracciare la direzione del disco, riproducendo un’estetica indifferente alle mode eppure ancora così seducente: gli artigli leonini di "15 Again", le distorsioni inquiete con vista su sprofondi notturni di "Black Ice" o gli accenti gotici che innervano di tensione "Shadow Self", sono pagine di un manuale di essenzialità ed efficacia, e ci consegnano la miglior fotografia possibile degli Suede.

Non mancano, tuttavia, momenti in cui i giri del motore rallentano e le corde dell’emotività vengono toccate con maggior forza. In tal senso, "The Only Way I Can Love You", colpisce dritta al cuore con una melodia struggente e parole sincere su quanto sia fragile e complessa la costruzione di un amore (“Tutto il giorno mi nasconderò dal sole, mi sentirò come se qualcosa fosse appena iniziato, E ti amerò nell'unico modo in cui posso amarti, Tutto il giorno esiterò, spegnerò la luce e starò sveglio, E ti amerò nell'unico modo in cui posso amarti”), mentre "Drive Myself Home" conosce il sapore acre di una resa esistenziale (“Come faccio a dire quello che voglio dire ad alta voce? Quanto in basso, quanto in basso posso andare?) per quanto avvolta nel morbido velluto di splendidi arrangiamenti d’archi.

Autofiction è un disco che sta in bilico su un’ipotetica linea di demarcazione fra moderna lungimiranza e sguardo nostalgico, rende omaggio all'ingenuità dirompente e grintosa dei giorni memorabili di un lontano passato, ma con la maturità sonora di chi ha la piena consapevolezza del presente. Anche se i giorni del britpop sono ormai un’eco distante, gli Suede non hanno tradito le proprie radici, le hanno semplicemente rimodellate per una nuova era. E suonano, è questo il miracolo, più vitali che mai.

VOTO: 8

 


 

 Blackswan, giovedì 13/10/2022

martedì 11 ottobre 2022

CIGARETTES AND CHOCOLATE MILK - RUFUS WAINWRIGHT (DreamWorks Records, 2001)

 


Andamento caracollante e allegro, e melodia irresistibile, Cigarettes And Chocolate Milk è uno dei brani più famosi del repertorio di Rufus Wainwright, ed è una canzone che non fa mistero dell’argomento trattato: le dipendenze di ogni tipo, che nello specifico, per il cantante, erano le metamfetamine.

Certo, il cantautore usa metafore (jellybeans, ovvero gelatine), fa intuire, ammiccando (Everything it seems I like's a little bit stronger, A little bit thicker, a little bit harmful for me), e dice, dicendo che non può dire (And then there's those other things, Which for several reasons we won't mention), ma il senso è chiarissimo: Rufus Wainwright non ama la moderazione. Ciò che gli piace è troppo dolce, è troppo grasso, è troppo forte, insomma, fa male, proprio come fanno male le droghe.

In questa canzone, allora, canta in modo disinibito di voglie che soddisferà, di sigarette da fumare senza posa, di latte al cioccolato e di golose gelatine, anche se eviterà di comprarne troppe, perché poi le mangerà tutte in una volta sola (e le gelatine, ovviamente, non sono davvero gelatine). Rufus è felice di eccedere, è consapevole del male che gliene può derivare, ma non ne può fare a meno.

Tuttavia, il risvolto della medaglia di questi appetiti insaziabili, arriverà l’anno successivo alla pubblicazione della canzone, quando Wainwright entrò in riabilitazione proprio per disintossicarsi dalla metamfetamina e dall’alcool. Un periodo, quello vissuto in quegli anni, al contempo divertente e travagliato, su cui il songwriter, nel 2020, intervistato da Rolling Stones, ebbe a dire: "Quella canzone è stato l'ultimo sussulto del mio comportamento decadente, corroborato da droghe e alcol, quando c’era ancora qualcosa di giocoso in tutto quello che facevo. La canto ancora, quindi, in fin dei conti, deve essere stato divertente".

Cigarettes And Chocolate Milk è stata ispirata a una tremenda sbornia che Wainwright si prese, quando viveva a New York, nel famigerato Chelsea Hotel. Dopo una lunga notte di eccessi, il musicista si svegliò nel pomeriggio, completamente annebbiato e in preda a una gran sete. Decise che doveva avere del latte al cioccolato, così andò in un negozio, ne comprò un po', lo bevve tutto e si sentì male allo stomaco. Poi, nel tentativo di riprensersi, fumò una sigaretta, cosa che lo fece sentire anche peggio. Pienamente consapevole del simbolismo di quel pomeriggio, Wainwright scrisse, allora, il testo del brano, così da comprendere a pieno ciò che era diventato a seguito delle dipendenze, e ne venne fuori una canzone incredibilmente onesta.

Il brano è la prima traccia (ma viene ripresa anche nel finale) del bellissimo Poses, il secondo album di Wainwright, pubblicato nel 2001, e probabilmente l’opera che diede l’abbrivio definitivo alla sua straordinaria carriera. Eppure, Poses, rilasciato per la DreamWorks Records, che aveva Steven Spielberg come investitore e tasche molto profonde, non ebbe molto successo, in quanto l’etichetta non pubblicò alcuna canzone dell’album come singolo. Nello stesso anno, però, la popolarità di Wainwright crebbe a dismisura, quando la sua cover di Hallelujah venne inserita nella colonna sonora del film Shrek, anche questo uscito sotto l’egida Dreamworks. Valle un po' a capire, le case discografiche.

 


 

 

Blackswan, martedì 11/10/2022

lunedì 10 ottobre 2022

MARCUS KING - YOUNG BLOOD (American Recordings, 2022)

 


Abbandonate le atmosfere morbide che avvolgevano l’ultimo, e ottimo, El Dorado, Marcus King torna con questo Young Blood, un disco di rock blues ad alto voltaggio con vista sugli anni ’70, decennio che è la fonte primaria dell’ispirazione per le undici canzoni in scaletta. Se nel lavoro precedente il ragazzo della Carolina del Sud aveva tenuto sotto coperta l’impeto della sua sei corde, in questo nuovo lavoro, King torna a vestire i panni del virtuoso che avevamo imparato ad amare fin dai suoi esordi, sfornando una serie di riff e assoli infuocati, corroborati da una ritrovata spavalderia rock’n’roll.

Uscito per l’etichetta American Recordings del grande Rick Rubin, e prodotto nuovamente da Dan Auerbach, Young Blood è probabilmente il miglior disco della ancor breve, ma intensa carriera di King. Il quale, non ha mai nascosto le sue influenze (The Jimi Hendrix Experience, ZZ Top, Grand Funk Railroad e The Allman Brothers e, nello specifico, anche Free e Cream) rileggendole, però, con accenti moderni e avventurosi. Clamorosamente vintage, eppure così inaspettatamente fresco, Young Blood evita però l’operazione nostalgia, spingendo sulla velocità d’esecuzione, su una voce intrisa di soul e sul suono scintillante costruito dall’ottimo Auerbach, che ha restituito, modernizzandolo, il tiro infuocato del più classico dei power trio, costruendo un surplus di energia intorno alla Gibson Les Paul del fenomenale chitarrista.

Un disco vibrante, registrato tutto in presa diretta in pochissimo tempo, che si è avvalso in fase di scrittura del contributo dello stesso Auerbach, ma anche di Desmond Child, Greg Cartwright e Angelo Petraglia, e che è servito al giovane King per fare il punto su una periodo assai difficile della sua vita, segnato dalle dipendenze e da quelle perdite che, inevitabilmente, le dipendenze provocano.

Apre la scaletta "It's Too Late", un brano che parla di un amore al capolinea. La ritmica saltellante, il riff urticante e la voce roca di King, raggiungono vette altissime. Si parte a tavoletta con quel tipo di canzone che King sa costruire con grande consapevolezza, un brano tutto sangue e sudore, che spalanca con un calcione le porte sul mondo di Young Blood. Tutti in piedi ad applaudire per la successiva "Lie, Lie, Lie", un altro pezzo straordinario, con retrogusto Free, sorretto da un riff di chitarra orecchiabile, e dal basso e la batteria legati stretti da una scalpitante interconnessione sincronizzata. Al centro la chitarra di King vola alta con un assolo, nella parte finale, che lascia letteralmente senza fiato. Una canzone, questa, che fa comprendere la grandezza di un artista che possiede quel quid speciale che pochi altri hanno. Non è solo il virtuosismo alla chitarra, o la voce carica di fumante soul e la capacità di scrivere grandi canzoni; ciò che colpisce davvero è la passione, la capacità di padroneggiare lo strumento, senza perdere un solo grammo della sua incredibile urgenza espressiva.

Young Blood, come dicevamo, potrebbe essere descritto come un album blues rock dal sapore vintage anni '70, ma sarebbe un offesa a tutta la verace bellezza che troverete in scaletta e a una freschezza espositiva, a cui Auerbach ha contribuito, e non poco. Nessun filler, ma una sequenza di groove trascinanti e di spietati assoli di chitarra, tra i quali, come accennato, si nascondono anche disperazione e oscurità. E’ il caso di Pain, canzone spinta da un riff e da una ritmica adrenaliniche, in cui King riflette sul male di vivere ("I got the pain written all over me… I got the pain, it won't go away") o di "Blood On The Tracks", il cui groove sinuoso evoca i Creedence Clearwater Revival, mentre il chitarrista auspica una possibilità di fuga dalla vita di tutti i giorni, immaginando l’arrivo di treno, sul quale salire o, forse, buttarcisi sotto.

"Blues Worse Than I Ever Had" chiude l'album con un numero country rock che evoca l’amato Sud, ed è un brano così carico di sentimento, che arriva dritto al cuore e lo colma di sincera emozione.

Young Blood, inutile girarci intorno, è un gioiello, un disco che non ha un secondo di cedimento e che farà letteralmente impazzire tutti coloro che amano la chitarra elettrica. Se il precedente El Dorado, per quanto bello, aveva portato King fuori dalla sua usuale comfort zone, con Young Blood il ragazzo della Carolina del Sud si riappropria di un territorio, nel quale, il gioco di parole è inevitabile, regna come sovrano incontrastato. The King is back.

VOTO: 8

 


 


Blackswan, lunedì 10/10/2022

giovedì 6 ottobre 2022

CREEDENCE CLEARWATER REVIVAL - AT ROYAL ALBERT HALL (Craft Recordings, 2022)

 


Alla fine degli anni ’60, San Francisco è il cuore pulsante della scena musicale statunitense: qui, tra visioni psichedeliche e deliri in acido, prende forma la nouvelle vague del rock a stelle e strisce, capitanata da gruppi come Grateful Dead e Jefferson Airplane, che ben incarnano i fermenti culturali e artistici della città. Frisco, però, è anche il luogo che dà i natali artistici ai Creedence Clearwater Revival, band formatasi a El Cerrito, piccolo borgo ai confini orientali della città, capitanata dal chitarrista e cantante John Fogerty. Il quale, a dispetto delle sperimentazioni lisergiche tanto in voga nella bay area, ha in mente un solo concetto: il Revival. Fogerty ama senza mezzi termini gli anni ’50, il rock’n’roll primitivo di Chuck Berry, Little Richard e Eddie Cochran, il blues e il folk nelle loro accezioni più pure, e guarda come riferimento stilistico Dale Hawkins, trentenne musicista della Lousiana, che rilegge il rock e il blues delle radici con accento sudista, creando un sottogenere che prenderà il nome di Swamp Rock.

In piena rivoluzione power flower, Fogerty attua una sorta di controriforma tradizionalista, rimette al centro del suo progetto il roots rock e la musica nera, scrive canzoni essenziali, utilizza le cover per riaffermare il vincolo col passato. Revival, per i Creedence, significava anche fare le cose semplicemente, ed essere bravi con le cose semplici, di solito, si rivela, artisticamente, la cosa più complessa.

Per tutti questi motivi, la band capitanata da John Fogerty, a fronte di un pubblico caldissimo e appassionato per la loro proposta rock’n’roll vibrante e lineare, facevano storcere il naso a parte della critica, innamorata delle istanze “progressive” che facevano della San Francisco psichedelica l’ombelico musicale del mondo. Il tempo, ovviamente, ha rimesso a posto le cose, e nessuno oggi può rinnegare il tributo seminale dei CCR alla storia della musica americana moderna.

Prova ne è l’entusiasmo che ha accolto l’uscita di questo live alla Royal Albert Hall di Londra, risalente al 14 aprile del 1970. Una registrazione su cui si è vociferato per decenni e che sembrava essere una sorta di chimera creata dall’affetto e dal passaparola dei fan. I nastri di quella serata, diventati leggenda nel corso dei cinquantadue anni di distanza dalla loro registrazione, oggi, diventano realtà, e grazie a uno straordinario lavoro di pulizia e rimasterizzazione, riportano alla luce una performance straordinaria, di quelle che fanno esclamare, senza tema di errore, che i Creedence Clearwater Revival, oggi come allora, sono la più grande rock‘n’roll band mai esistita.

Lo spettacolo fu registrato dalla BBC durante il primo tour europeo del gruppo (che due anni dopo si sarebbe sciolto), ma, come detto, non furono mai resi pubblici, presumibilmente a causa delle note battaglie legali tra il gruppo e la sua etichetta originale, la Fantasy Records, anche se, poi, le riprese del concerto sono apparse in vari momenti nel corso dei decenni. Vale anche la pena ricordare, per fare postuma chiarezza, che la Fantasy aveva pubblicato un album dal vivo molto simile intitolato The Royal Albert Hall Concert prima di rendersi conto che i nastri erano stati etichettati erroneamente e che l'album era stato registrato dieci settimane prima e a 5.000 miglia presso l’Oakland Coliseum (l'album è stato poi ribattezzato The Concert).

Lo spettacolo della Royal Albert Hall cattura la band all'apice assoluto della propria breve carriera, che li ha visti piazzare sette singoli nella Top 5 e cinque album nella Top 10 (due dei quali n.1) in poco più di due anni, per poi svanire con la stessa rapidità con cui si erano fatti amare dal proprio pubblico.

Un sound, quello dei Creedence che si basava sulla forza espressiva delle loro canzoni, sulla potente voce da nero e sulla vibrante chitarra solista del frontman John Fogerty, il cui controllo dittatoriale della band fu il motore trainante del successo e anche il motivo del loro rapido eclissarsi. Intorno al leader, però, suona una band straordinariamente consapevole dei propri mezzi, che fa del ritmo uno straordinario punto di forza, capace di generare groove primordiali sui brani più lenti e scatenare un’energia bruciante sulle canzoni più vigorose.

Detto questo, il concerto alla Royal Albert Hall può definirsi, guardando indietro nel tempo con l’obbiettività della distanza, tanto l’apice della loro gloria, quanto l’inizio della fine, visto che Tom Fogerty mollò l’anno successivo e la band chiuse i battenti nel 1972. Quella notte, però, fu autentica magia, e oggi possiamo riappropriarci di queste dodici canzoni, nelle quali si racchiude l’essenza stessa del rock’n’roll. Un brivido scorre lungo la schiena, ascoltando il ruggito di grandi classici come "Born on the Bayou", "Green River", "Fortunate Son", "Travelin' Band" e, naturalmente, "Proud Mary", la feroce rilettura di una fragorosa "Good Golly Miss Molly" e il sabba elettrico, che chiude lo show, di una sferragliante "Keep On Chooglin’".

Ed è così inevitabile, se siete fan, provare alla gola una stretta di nostalgia, a pensare che se fosse possibile viaggiare a ritroso nel tempo, avremmo tutti fatto carte false per essere presenti nella cattedrale della musica londinese ad ascoltare il cuore del rock’n’roll battere all’impazzata.

Documento imprescindibile.

VOTO: 10

 


 


Blackswan, giovedì 06/10/2022

martedì 4 ottobre 2022

MY GUY - MARY WELLS (Motown, 1964)

 


La chiamavano “Queen Of Motown”, ma Mary Weels, nonostante i luminosissimi giorni di gloria vissuti, nel momento di maggior successo, prese una decisione fatale, che le rovinò la carriera. 

Nata a Detroit, il 13 maggio del 1943, da una famiglia indigente, ammalatasi di tubercolosi all’età di dieci anni, Mary fin da bambina conobbe il pane duro della vita. Il padre assente, un fratellino gravemente malato di meningite spinale, la Wells aiuta la mamma a sbarcare il lunario facendo le pulizie. Questo, tuttavia, non le impedisce di coltivare la sua passione per la musica e per il canto, prima come distrazione per i patimenti di un’esistenza grama, poi, con l’intento di raggranellare qualche dollaro per aiutare la famiglia. Prima la chiesa, poi i localini notturni di Detroit, fino a quando, nel 1960, ha l’occasione della sua vita. E la sfrutta benissimo.

Viene, infatti, notata da Berry Gordy, il fondatore della Tamla Records, il quale le chiede di esibirsi, interpretando Bye Bye Baby, un brano che era destinato al grande Jackie Wilson. Gordy rimane così impressionato dalle doti vocali della Wells, che le fa registrare la canzone e firmare un contratto. Il singolo viene lanciato nel settembre del 1960 e raggiunge l’ottava piazza della classifica r’n’b e, poi, la quarantacinquesima piazza di quella pop. Davvero niente male per una sconosciuta esordiente, che fino al giorno prima viveva solo di sogni, e che ora è diventata la first lady della Motown (fu la prima artista donna solista di successo dell’etichetta), tanto da essere affidata alle cure delle esperte mani di Smokey Robinson.

In tandem con quest’ultimo, la Wells assapora il successo con un pugno di singoli tutti entrati nella top ten r’n’b, milioni di dischi venduti e la nomea di grande performer live, visto che il suo modo di stare sul palco era decisamente grintoso rispetto ai canoni dell’epoca. Il botto, quello vero, arriva però nel 1964, quando pubblica My Guy, un brano scritto e prodotto dal pigmalione Smokey Robinson. La canzone, un delizioso e ballabile r’n’b, racconta la storia di una donna che rifiuta le profferte sessuali di un bell’uomo, perché fedele al proprio fidanzato, un ragazzo ordinario nel fisico e nell’aspetto, di cui però è innamoratissima. My Guy è subito un clamoroso successo, tanto da diventare la signature song di Mary Wells: raggiunge la vetta di Billboard 100, dove rimane per due settimane e guida la classifica R&B della rivista Cashbox per sette settimane di fila.

A questo punto, però, qualcosa si rompe. Dopo aver pubblicato un paio di duetti con il compagno di etichetta, Marvin Gaye, la Wells, forte di una clausola del contratto, molla la Motown, e firma per la 20th Century Fox, etichetta per la quale pubblica un paio di singoli di buon successo, Ain't That the Truth e Use Your Head. Tuttavia la nuova carriera stenta a decollare, a causa anche di Gordy che, non avendo preso bene l’allontanamento della Queen Of Motown, costringe molte stazioni radio a non passare le canzoni dell’ex pupilla.

Così, in un solo anno, il rapporto con la 20th Century Fox va a rotoli, Mary passa da un’etichetta all’altra, me non se la fila più nessuno. Nel 1974, molla tutto e si allontana dalle scene, per prendersi cura della famiglia.

Nel 1977, Wells divorzia da Cecil Womack e torna a esibirsi, venendo notata dal presidente della CBS Urban Larkin Arnold, che le offre un contratto con la sussidiaria della CBS Epic Records, con cui pubblica In and Out of Love, nell'ottobre 1981, che viene trainato a un discreto successo dal singolo disco funky, Gigolò. Poi, di nuovo, la lenta discesa nelle ombre dell’anonimato.

Nel 1990, mentre sta registrando un album per la Motorcity Records di Ian Levine, Mary si accorge di avere problemi alla voce. Si fa visitare in ospedale e i medici le diagnosticano un cancro alla laringe. I trattamenti per la malattia ne devastano la voce, costringendola a lasciare per sempre la carriera musicale, e dal momento che non ha un'assicurazione sanitaria, i costi per le cure la mandano in bancarotta, costringendola a vendere anche la casa. Viene aiutata da vecchi amici, colleghi, ammiratori (Diana Ross, Mary Wilson, Martha Reeves, Dionne Warwick, Rod Stewart, Bruce Springsteen, Aretha Franklin e Bonnie Raitt) e vince una causa sui diritti d’autore sui suoi vecchi successi contro la Motown.  Nonostante la situazione economica sia sensibilmente migliorata, la malattia però non dà scampo. La Wells viene ricoverata d’urgenza in ospedale per una polmonite e muore, la sera del 26 luglio del 1992, all’età di quarantanove anni.

Oggi, la First Lady della Motown riposa nel Forest Lawn Memorial Park di Glendale a soli duecentosessanta metri dalla tomba di Sam Cooke. E pare che di notte, passando davanti al cimitero, se fai molta attenzione, puoi sentire duettare gli angeli.  




Blackswan, martedì 04/10/2022

lunedì 3 ottobre 2022

BORIS - HEAVY ROCKS (Relapse Records, 2022)

 


All'inizio di quest'anno, i giapponesi Boris avevano rilasciato un disco sonnacchioso intitolato W, che aveva lasciato i fan, per usare un eufemismo, un poco stupiti. Anche presa come una curiosità in una discografia notoriamente eterogenea, W apriva al quesito su quale direzione avrebbero preso i Boris, soprattutto di fronte a un’uscita, come questo Heavy Rocks, così ravvicinata nel tempo.

D’altra parte, il power trio si è costruito nel tempo un nome grazie a una formula multicolor che impastava stoner e sludge metal, facendo la gioia di tanti appassionati di genere, nonostante numerosi deragliamenti di natura sperimentale. Il corpus della loro opera, inoltre, è notoriamente labirintico: non solo una quantità spropositata di LP e collaborazioni, il cui ordine di bellezza varia a seconda di chi lo chiedi, ma molti di questi sono disponibili in una sfilza di formati o versioni remixate, con tracklist e persino arrangiamenti di singole canzoni, diversi. Per i fan è sicuramente una gioia scavare nei meandri della discografia, ma consigliare questa band a un neofita, necessiterebbe un manuale di istruzioni non propriamente agevole.

Fortunatamente, arrivati a bussare alla porta di questo nuovo Heavy Rocks, possiamo tranquillamente lasciare tutto il pesante passato dei Boris alle spalle. Questo disco, infatti, è abbastanza solido sia da rappresentare una pietra miliare della carriera recente della band, sia da offrire un valido punto di ingresso anche agli ascoltatori casuali (in netto contrasto, peraltro, con il precedente W). Sebbene sia un apparente successore della serie fondata dal leggendario Heavy Rocks (2002) e riavviata con Heavy Rocks (2011), non condivide materiale con nessuno dei due, ed è semplicemente accomunato dal fatto che sono tutti e tre rock, e tutti e tre sono pesanti. Questo, probabilmente, è il più grintoso della serie, tutto rumore e ringhio in un modo che ricorda lo sguardo duro di NO (2020).

Molte di queste canzoni virano verso il caos, pur senza dimenticare un discreto piglio melodico (l'apertura "She Is Burning"), ma la costante della scaletta risiede nella pura adrenalina, nelle voci gutturali, nello scambio infuocato di chitarre soliste e nel livello francamente irresponsabile con cui il mix spara i volumi dall’ampli del trio. Heavy Rocks suona, insomma, come carta vetrata, senza se e senza ma.

I Boris, tuttavia, non sono propriamente lineari, e se la cavano egregiamente quando offrono a tutta questa energia uno spazio più astratto in cui esprimersi: "blah blah blah" e "Nosferatou" utilizzano echi free jazz e un sassofono collassato per suonare a pieno ritmo sulle rispettive basi di noise rock e doom. C'è una grande volatilità nelle strutture delle singole canzoni, e la band si prende la libertà di dinamizzare potenti hook rock come "Cramper" e "Question 1", nel momento in cui hanno stabilito un movimento di strofa/ritornello, con digressioni inaspettate, o di sfumare la splendida "My Name Is Blank" proprio mentre raggiunge il suo apice.

Nella parte finale del disco, c’è un calo d’ispirazione, e così l’hardcore di "Ghostly Imagination" suona posticcio e senza pathos, mentre la conclusiva e sperimentale "(non) Last Song", col pianoforte in bella evidenza, sembra più un riempitivo che il sostanziarsi di una vera e propria idea. È un peccato, perchè Heavy Rocks, se l’ispirazione fosse stata tutta all’altezza, sarebbe potuto annoverarsi come un momento determinante in una infinita discografia a macchia di leopardo. Il disco, però, convince, momenti ottimi ce ne sono, eccome, e in definitiva, da una delle band più eclettiche e strane in circolazione, ci si può aspettare di tutto, picchi illuminati e momenti meno nobili. Prendere o lasciare: i Boris sono i Boris, e non c’è verso di inquadrarli in schemi prefissati.

VOTO: 7

 


 

 

Blackswan, lunedì 03 / 10/ 2022