Da sempre ritengo i britannici Suede geneticamente incapaci di rilasciare un brutto disco. E non sto parlando solo di quegli album, come Dog Man Star (1994) e Coming Up (1996), con cui la band, guidata da Brett Anderson, conquistò la fama di essere una delle realtà più significative dell’era brit pop (definizione, nello specifico, a mio avviso, alquanto riduttiva). Da quando, infatti, nel 2013, dopo uno iato durato ben undici anni, tornarono a scrivere nuovo materiale, gli Suede hanno inanellato un filotto di dischi tutti di livello, a partire da Bloodsports, che riportò il gruppo ai vertici delle classifiche britanniche. E poco importa se, in fin dei conti, la formula vincente non è poi mai cambiata molto: in tutti questi anni, Anderson non ha perso il tocco, è sempre riuscito a lucidare il proprio songwriting, così da renderlo scintillante e moderno, nonostante l’indubbia familiarità del suono.
Avevo, pertanto, grandi aspettative rispetto a questo nuovo Autofiction, consapevole (ah, le certezze dei fan) che ancora una volta gli Suede avrebbero fatto centro, come era successo con il precedente, incantevole, The Blue Hour (2018). Quello che non mi sarei mai aspettato è che la band sarebbe riuscita ad alzare ulteriormente un’asticella posta già ad altezza considerevole. Dopo trent’anni di storia, un periodo di tempo tanto lungo da essere in grado di fiaccare l’ispirazione anche delle menti più lucide e talentuose. E invece…
Invece, Autofiction è un disco energico, attraversato da un’inaspettata urgenza emotiva, prodotto mirabilmente da Ed Buller, e altrettanto mirabilmente mixato da Alan Moulder, il cui lavoro ha dato alle undici canzoni in scaletta una rigogliosa pienezza di suoni che stordisce. E se tutto il disco possiede un surplus di ispirazione che non può lasciare indifferenti anche le orecchie più distratte, Autofiction contiene anche alcune delle canzoni più belle mai scritte dalla band. Un disco che mostra i muscoli, certo, ma che sa usare anche il cervello e che, soprattutto, getta il cuore oltre l’ostacolo, esibendo riff grondanti di elettricità, la seducente intensità del timbro melodrammatico di Anderson e melodie e liriche che convincono e commuovono.
Il singolo "She Stills Leads Me On", canzone dedicata alla madre del cantante, apre l’album con ritmo e intensità, evocando per un attimo gli Smiths, e conquistando fin da subito con un ritornello che entra rapido sotto pelle. Una corrosiva potenza post punk scuote l’ascolto con la successiva "Personality Disorder", sportellate elettriche che mandano ko con sferragliante urgenza. Una lectio magistralis a tante giovani band che si cimentano nel genere, e che viene ribadita anche nella conclusiva "Turn Off Your Brain And Yell", il cui pulsare sotterraneo esplode in una dirompente elettricità che non fa prigionieri.
Sono i riff di chitarra di Richard Oakes a tracciare la direzione del disco, riproducendo un’estetica indifferente alle mode eppure ancora così seducente: gli artigli leonini di "15 Again", le distorsioni inquiete con vista su sprofondi notturni di "Black Ice" o gli accenti gotici che innervano di tensione "Shadow Self", sono pagine di un manuale di essenzialità ed efficacia, e ci consegnano la miglior fotografia possibile degli Suede.
Non mancano, tuttavia, momenti in cui i giri del motore rallentano e le corde dell’emotività vengono toccate con maggior forza. In tal senso, "The Only Way I Can Love You", colpisce dritta al cuore con una melodia struggente e parole sincere su quanto sia fragile e complessa la costruzione di un amore (“Tutto il giorno mi nasconderò dal sole, mi sentirò come se qualcosa fosse appena iniziato, E ti amerò nell'unico modo in cui posso amarti, Tutto il giorno esiterò, spegnerò la luce e starò sveglio, E ti amerò nell'unico modo in cui posso amarti”), mentre "Drive Myself Home" conosce il sapore acre di una resa esistenziale (“Come faccio a dire quello che voglio dire ad alta voce? Quanto in basso, quanto in basso posso andare?) per quanto avvolta nel morbido velluto di splendidi arrangiamenti d’archi.
Autofiction è un disco che sta in bilico su un’ipotetica linea di demarcazione fra moderna lungimiranza e sguardo nostalgico, rende omaggio all'ingenuità dirompente e grintosa dei giorni memorabili di un lontano passato, ma con la maturità sonora di chi ha la piena consapevolezza del presente. Anche se i giorni del britpop sono ormai un’eco distante, gli Suede non hanno tradito le proprie radici, le hanno semplicemente rimodellate per una nuova era. E suonano, è questo il miracolo, più vitali che mai.
VOTO: 8
Blackswan, giovedì 13/10/2022
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