giovedì 30 dicembre 2021

OASIS - KNEBWORTH 1996 (Big Brothers Recordings/Kosmik Kyte, 2021)

 


La storia, più o meno, è nota a tutti. Negli anni ’90, in tutto il mondo, impazza la scena brit pop che, tra le centinaia di gruppi, vede come capostipiti i Blur e gli Oasis, protagonisti di una querelle musicale creata ad arte dalla stampa. I primi, londinesi, raffinati e fighetti, i secondi, invece, provenienti da Manchester, figli della working class, incarnazione perfetta dell’iconografia della rock band, tutta alcool, scazzottate e intemperanze assortite. “Due ladri d’auto di Manchester con gli spartiti dei Beatles”, li definirà mirabilmente qualcuno, cogliendo a pieno l’essenza della proposta musicale dei fratelli Gallagher, figli di quell’Inghilterra proletaria, tutta pub, stadio e fish and chips, bravi a intercettare e far rivivere con credibilità la passione inesausta del pubblico per le canzoni dei Fab Four.

Dureranno poco, almeno da un punto di vista creativo, i giorni di gloria degli irascibili fratellini: un esordio folgorante, Definitely Maybe, del 1994, e il successivo, (What’s The Story?), Morning Glory? (1995), universalmente riconosciuto come il loro capolavoro, due album capaci di coagulare energia rockista e gradevoli melodie di facile presa, che finiscono per ingolfare i passaggi radiofonici di mezzo mondo. Quando il 10 e l’11 agosto del 1996, gli Oasis salgono sul palco dello Knebworth Park, nella contea inglese dello Hertfordshire, la band vive il suo momento di maggior successo: i biglietti dei concerti si esauriscono in meno di un giorno e all’evento sono presenti circa 250.000, a fronte di una richiesta complessiva di più di un milione e mezzo di tagliandi.

Un evento epocale, quindi, per due serate, la prima, ai tempi, trasmessa da BBC1 Radio in esclusiva, la seconda, da cinquecento stazioni, che sono qui documentate in un cofanetto composto da due cd musicali e da un dvd contenente il film dell’evento, per la regia di Jake Scott, figlio del più celebre Ridley. Un ibrido fra concerto e documentario, che fotografa la performance, si sofferma sulla personalità dei fratelli Gallagher e il loro protagonismo guascone (non senza una punta, per così dire, di agiografia), e racconta, con sincero coinvolgimento emotivo, le storie, le avventure e disavventure dei fan che hanno partecipato all’evento.

Il concerto, nella sua evidente imperfezione (la resa sonora non è il massimo), resta un documento fondamentale, sia per i fan nostalgici dei fratelli Gallagher, sia per quegli appassionati che vogliono approfondire un periodo cruciale della storia musicale degli anni ’90, un’epoca non lontanissima nel tempo, ma che sembra distante ere geologiche (incredibile: in platea non compare nemmeno un telefonino!).

Gli Oasis, dal vivo, non avevano una grande presenza scenica (sempre molto statici sul palco), ma sapevano farsi valere grazie a un impatto energetico devastante (chi scrive, ai tempi, li vide tre volte e sempre con grande soddisfazione) e a un filotto di canzoni innodiche che, nel tempo, hanno ormai acquisito lo status di grandi classici: "Roll With It", "Live Forever", "Supersonic", "Some Might Say", "Don't Look Back In Anger", "Champagne Supernova" e "Wonderwall". Nel finale, anche una meravigliosa cover di "I Am The Walrus" dei Beatles, indispensabile omaggio alla principale fonte d’ispirazione degli Oasis e un nostalgico cerchio (di storia) che si chiude.

VOTO: 8

 


 

Blackswan, giovedì 30/12/2021

mercoledì 29 dicembre 2021

RODDY WOOMBLE - LO! SOUL (A Modern Way, 2021)

 


La carriera solista di Roddy Woomble procede per traiettorie assai distanti da quelle della casa madre Idlewild. Niente chitarre rombanti, il graffio punk rock e la foto dei Rem nel taschino della giacca, tutti elementi che hanno identificato il sound del gruppo di cui è leader e che hanno prodotto almeno due dischi, i notevoli 100 Broken Windows del 2000 e The Remote Part del 2002, tra le cose migliori dell’alternative rock scozzese del nuovo millennio. Altre idee in testa, evidentemente, e la voglia di esprimere una sensibilità, a cui il cui i volumi spacca casse e il fragore della sei corde stanno chiaramente stretti.

Ecco, quindi, il senso di questo Lo! Soul, un gioiellino di adult pop che vive in territori lontanissimi da quelli abitati dagli Idlewild. Unica costante, il gusto per melodie di facile presa, che sono la specialità di casa Woomble; per il resto, le dieci canzoni in scaletta vestono inediti abiti intessuti di synth, pianoforte e batteria elettronica. Il tutto confezionato con cura artigianale dallo stesso Woomble e da Andrew Mitchell, che produce e suona, e mette mano alla scrittura di quasi tutte le composizioni.

Un disco, Lo! Soul che viaggia sui binari della malinconia verso un mondo parallelo, a tratti vagamente claustrofobico, di sicuro più propenso alla meditazione, alla visione nostalgica, o a un trasognato fluttuare, come avviene proprio nell’incipit "Return To Disappear", che richiama le tavolozze sonore di band come i Beach House. I versi poetici di Woomble, declamati su un impianto elettronico, aprono la strada al pop confessionale di "Secret Show", a metà strada tra spoken e cantato, o all’inquieto battito new wave di "As If It Did Not Happen", il cui outro recitato evoca un nostalgico desiderio di ritornare all’infanzia. Cose che non avremmo mai pensato di ascoltare da chi da sempre ha declinato la propria idea di musica attraverso uno sferragliante rock ad alto contenuto energetico.

Se "Architecture In La" è il momento più giocoso del disco, un brano acchiappone, al cui mood ondeggiante è davvero difficile resistere, sono però le canzoni in cui Wooble imbocca la strada della ballata a essere incredibilmente efficaci: il sapore agrodolce della pianistica "People Move Out" lascia a bocca aperta per intensità, allo stesso modo della title track, tre note che sfiorano il cuore con indicibile malinconia, o della conclusiva, sublime, "Dead Of The Moon", in cui Woomble veste i panni del crooner di gran classe.

Lo! Soul è un disco dall’architettura scarna eppure incredibilmente denso di pathos, un album lontanissimo da ciò che fino a oggi conoscevamo del leader degli Idlewild, eppure egualmente identificativo di un musicista che, non sempre è riuscito a mettere a fuoco la propria arte, ma che non smette, comunque, mai di provarci. Forse non farà fare salti di gioia ai fan di vecchia data della band scozzese, ma se avete mente e cuore aperto alle novità, Lo! Soul saprà conquistarvi dalla prima all’ultima nota.

VOTO: 7,5

 


 

Blackswan, mercoledì 29/12/2021

martedì 28 dicembre 2021

IL 2021 IN DODICI CANZONI (Parte Quarta)

Dodici canzoni, una per ogni mese dell'anno, che hanno attraversato il 2021 e che fanno parte di una playlist molto personale, che non ha la pretese di essere esaustiva (e come potrebbe mai esserlo?), ma che cerca solo di rappresentare al meglio quanto ascoltato durante l'anno.

 

Lathums - Fight On


 

Lana Del Rey - Arcadia


 

Sam Fender - Aye




Blackswan, martedì 28/12/2021


lunedì 27 dicembre 2021

IL 2021 IN DODICI CANZONI (Parte Terza)

Dodici canzoni, una per ogni mese dell'anno, che hanno attraversato il 2021 e che fanno parte di una playlist molto personale, che non ha la pretese di essere esaustiva (e come potrebbe mai esserlo?), ma che cerca solo di rappresentare al meglio quanto ascoltato durante l'anno.

 

The Vintage Caravan - Can't Get You Off My Mind



Ego Kill Talent - Deliverance



Mdou Moctar - Afrique Victime




Blackswan, lunedì 27/12/2021

giovedì 23 dicembre 2021

IL 2021 IN DODICI CANZONI (Parte Seconda)

Dodici canzoni, una per ogni mese dell'anno, che hanno attraversato il 2021 e che fanno parte di una playlist molto personale, che non ha la pretese di essere esaustiva (e come potrebbe mai esserlo?), ma che cerca solo di rappresentare al meglio quanto ascoltato durante l'anno.

 

Jon Batiste - I Need You


 

Curtis Harding - Can't Hide It


Lucero - When You Find Me



Blackswan, giovedì 23/12/2021

mercoledì 22 dicembre 2021

IL 2021 IN DODICI CANZONI (Parte Prima)

Dodici canzoni, una per ogni mese dell'anno, che hanno attraversato il 2021 e che fanno parte di una playlist molto personale, che non ha la pretese di essere esaustiva (e come potrebbe mai esserlo?), ma che cerca solo di rappresentare al meglio quanto ascoltato durante l'anno.

 

Balthazar - Losers


 

Duran Duran - Anniversary

 

Brandi Carlile - Right On Time



Blackswan, mercoledì 22/12/2021


martedì 21 dicembre 2021

TERRY CALLIER - OCCASIONAL RAIN (The Verve Music Group, 1972)

 


Terry Callier è uno di quei musicisti che non è semplice etichettare. Sebbene possa rivendicare la corona del soul folk con la stessa autorità di chiunque altro, il cantante di Chicago ha sempre posseduto un DNA più complicato. Ordinary Joe, la luccicante apertura di Occasional Rain, il cui vinile, tra l’altro, è un oggetto da collezione molto ricercato, chiarisce che Callier è un musicista inafferrabile, un’anima musicale ricca di sfaccettature, capace di oscillare fra i generi con una padronanza che è solo di pochi.  

In tutta la sua estetica artistica scorre, poi, fluente, il sangue della sua nativa Chicago, come confluenza essenziale di molti filoni della musica nera. Così, l’incredibile combinazione dello struggente songwriting di Callier e dei brillanti arrangiamenti eterei di Charles Stepney, ha prodotto, in questo disco (che anticipa di un solo anno il capolavoro indiscusso What Color Is Love) un suono decisamente unico, contiguo, per certi versi, al gospel gotico (e psichedelico) dei leggendari Rotary Connection.  

In altre parole, l'atmosfera in Occasional Rain è decisamente cupa. Le canzoni sono intense, a tratti addirittura commoventi, dal momento che le liriche parlano di tradimenti, di vite spezzate e di amori perduti, tuti racconti resi con una carica emotiva sincera, che va oltre ogni superficiale melodramma. Callier, in tal senso, ricorda un po' il cantante folk urbano Len Chandler (chiedete a Dylan per le referenze), nella misura in cui riesce a distillare emozioni crude in testi che non hanno bisogno di ricorrere al melenso ricatto della lacrima. Ogni emozione, in questo disco, suona così incredibilmente verace e palpitante (provate a trattenere le lacrime, se siete capaci, durante l’ascolto di Do You Finally Need A Friend): la voce profonda e densa di Callier, la grazia cristallina degli arrangiamenti, che creano un connubio indissolubile fra blues, soul e armonie gospel, il contributo decisivo dei soprani Kitty Haywood e Minnie Riperton, il cui tono vagamente spettrale riesce a essere al contempo tanto ossessionante quanto incredibilmente carezzevole.

Tutti questi elementi rendono affascinante, non soltanto Occasional Rain, ma un po' tutto questo periodo creativo della storia musicale di Callier. Da un lato, il matrimonio artistico con l'ingegnoso Stepney, ha prodotto una tela sonora unica per i suoi colori secondari dal sapore quasi operistico, dall’altro, una scrittura luminosa, ricca di sfumature, che mette al centro la poetica di Callier, un musicista e un narratore talmente ispirato, che potrebbe eseguire in modo convincente qualsiasi canzone con nient'altro che una chitarra acustica. 

Questa forte spinta narrativa, indissolubile dalle melodie, è ciò che rende Occasional Rain un classico senza tempo, un'opera d'arte dai connotati intellettuali, che, tuttavia, esprime un profondo radicamento nella cultura popolare di quel momento storico e di quella città, Chicago, che è stata per Callier qualcosa di più che una semplice fonte d’ispirazione. Grande musica, è fuor di dubbio, ma anche una profonda umanità, capace di rendere universali i palpiti del cuore. Folk, psichedelia, soul, gospel e, soprattutto, blues. Il blues: una delle poche forme d’arte al mondo che sappia essere contemporaneamente colta e popolare. Callier lo aveva capito meglio di chiunque altro, ed è questa la forza di un disco, di cui molto difficilmente riuscirete a fare a meno.

 


 

 

Blackswan, martedì 21/12/2021

lunedì 20 dicembre 2021

ADELE - 30 (Columbia, 2021)

 


Quando Adele ha pubblicato il suo album di debutto 19, nel 2008, e ha poi conseguito seguito il successo mondiale con 21, due anni dopo, piaccia o meno, si è ritagliata una nicchia importante nel mondo della musica, che col passare del tempo, è andata sempre più ad ampliarsi. La sua voce potente e piena di sentimento, il suo modo di scrivere canzoni, che l’ha sempre distinta da molti artisti coevi, e il suo approccio sincero alla cronaca degli alti e bassi della sua vita, ha reso la sua musica avvincente, anche fuori dal circuito squisitamente mainstream.

Da quando è uscito 21, Adele è diventata così una vera e propria icona, e la pubblicazione poi di 25 (2015) e il boom clamoroso del suo singolo Hello (prima piazza in ben trentacinque classifiche mondiali!) l'hanno trasformata in un vero e proprio fenomeno di massa: la sua sofferta sensibilità, la sua musica diretta ma non banale, per non parlare della sua pura abilità vocale, l'hanno resa un appuntamento fisso nelle radio e nelle charts di tutto il mondo.

E così, in poco tempo, nell’immaginario collettivo, Adele è diventata sinonimo di “canzone soul triste”, Adele è diventata “un suono”. E non è difficile immaginare diversi produttori che, in durante le registrazioni di un disco, incoraggino le proprie artiste a cantare esattamente come farebbe Lei.

Queste, dunque, le aspettative che hanno accompagnato l’uscita tardiva del quarto album in studio, 30, disco anticipato da "Easy On Me", ballata meditabonda, voce potente, il consueto approccio sincero, melodia guidata dal pianoforte e arrangiamento scarno. Tutti gli elementi che hanno definito uno stile unico: questo è il suono che i fan si aspettavano, questo è il caldo abbraccio di Adele, che era mancato per sei anni.

Per buona parte della scaletta, 30 soddisfa appieno le attese di chi da sempre ha amato la cantante londinese, grazie a un filotto di canzoni, levigate da una produzione “cinematografica” e, talvolta, un po’ patinata (direbbero forse i detrattori), in cui Adele riversa senza filtri il suo cuore, la sua anima e le sue lacrime. Cioè, il suo suono.

Oltre a "Easy On Me", si muovono sulle stesse coordinate anche l’iniziale e classicissima "Strangers by Nature", che evoca il fantasma di Judy Garland e che starebbe benissimo in un disco di Rufus Wainwright, la ricerca del conforto dal dolore nel gospel dagli echi seventies e dalle partiture pianistiche di "I Drink Wine", il minimalismo di "Hold On" e l’intensa "To Be Loved", con Tobias Jesso al piano, in cui Adele dà sfoggio delle sue incredibili doti vocali. Chi cercava quel suono in purezza è accontentato, perché queste canzoni rappresentano il marchio di fabbrica costruito in carriera e sono tutte, pur nella loro prevedibilità, molto belle.

Il disco, però, vive anche di momenti che potremmo quasi definire “anomali”, con cui la songwriter britannica esce dalla sua comfort zone, per provare a imboccare altre strade. Come avviene, ad esempio, nel levigato panorama sonoro di "My Little Love", una delicata dedica al proprio figlio, che cattura atmosfere à la Sade. Un brano lungo, caldo e incredibilmente sincero, che esprime la preoccupazione di una madre (Adele ha divorziato da poco e si è trasferita da Londra a Los Angeles) per aver mandato in frantumi il mondo del proprio figlio, la cui voce, peraltro, compare nel campionamento di un dialogo reale, che riveste di ulteriore intimità questi sei minuti e mezzo, che sono il picco emotivo dell’album. In "Cry Your Heart Out", poi, Adele manipola elettronicamente la sua voce per riflettere il disorientamento di non essere all'altezza delle proprie aspettative sentimentali, e ne esce un brano incredibilmente leggero e frizzante, trascinato da un groove dagli ammiccamenti reggae. Un'inaspettata novità.

La sperimentazione vocale entra in gioco anche su "Oh My God", un altro brano gioioso, in cui il vortice delle voci si appoggia su un'irresistibile ritmica R&B, mentre Adele canta la propria rinascita, l’incertezza ma anche la speranza per una vita nuova. Così come nella successiva "Can I Get It", che inizia con vibrazioni molto "Rolling In The Deep" prima di aprirsi a un groove sbarazzino e danzereccio.

In scaletta, altri due gioielli che meritano di essere ricordati: le toccanti atmosfere soul di "Woman Like Me", melodia essenziale, chitarra e voce, e un testo che raggruma il dolore per il matrimonio fallito, e "Love Is A Game", perfetto mix tra l'Adele di un tempo e quella di oggi, brano dall’incipit cinematografico, il cui sviluppo, poi, cita in modo inequivocabile Amy Winehouse, non solo nel titolo, ma anche nel modo di cantare e in uno stupefacente arrangiamento in quota Motown.

Pur non avendo in scaletta hit scala classifiche, è fuor di dubbio che 30 vivrà lo stesso impatto mediatico e lo stesso successo dei lavori precedenti, e ingolferà le radio FM di numerosi passaggi. Adele è un’artista che vende, che piace trasversalmente, che sa conquistare la gente con melodie che toccano il cuore e con testi in cui tutti possono ritrovarsi. Sarebbe però riduttivo riconoscerle solo ed esclusivamente lo status di fenomeno commerciale. Con questo nuovo lavoro, infatti, siamo anche di fronte a una musicista che ha raggiunto la maturità della consapevolezza, e che oltre alle innegabili e consuete doti vocali è cresciuta esponenzialmente anche come autrice. Capace di essere fedele a se stessa e al contempo di rinnovarsi, di cercare altre strade che, forse, in futuro, porteranno ulteriori e più decisivi cambiamenti.  

VOTO: 8




Blackswan, lunedì 20/12/2021

giovedì 16 dicembre 2021

THE SUN AIN'T GONNA SHINE (ANYMORE) - THE WALKER BROTHERS (Philiphs, 1966)

 


E’ il 1965, quando Frankie Valli, leader degli acclamati The Four Seasons, intenzionato a intraprendere una carriera solista fuori dalla casa madre (ai tempi, una rarità quasi assoluta), interpreta The Sun Ain’t Gonna Shine, un brano scritto appositamente per lui dagli amici Bob Crewe e Bob Gaudio, già artefici del successo della band, in veste di produttori e co-autori. La canzone, registrata a giugno di quell’anno e uscita come singolo il mese dopo, fu un mezzo fiasco e non riuscì a entrare nella Billboard Hot 100, fermandosi alla 128 piazza.

Nonostante l'iniziale passo falso, Valli non si diede per vinto, e raggiunse il successo, e che successo, due anni più tardi, con la super hit Can't Take My Eyes Off You, che arrivò alla seconda posizione delle classifiche americane, vincendo anche un disco d’oro.

Quella battuta d’arresto, però, restò un brutto rospo da ingoiare, perché non solo The Sun Ain’t Gonna Shine era una grande canzone, ma perché, solo qualche mese dopo la sua versione, nel febbraio del 1966, il brano ebbe un’incredibile exploit grazie alla cover che ne fecero i The Walker Brothers, una band americana, formatisi a Los Angeles, che si era trasferita in Inghilterra l’anno precedente.

Il gruppo, che aveva già conquistato la vetta delle classifiche inglesi con il singolo My Ship Is Coming In, reinterpretò la canzone scritta da Crewe e Gaudio, modificandone il titolo in The Sun Ain’t Gonna Shine Anymore, arrivando a conquistare la vetta delle charts britanniche e la tredicesima posizione di Billboard 100, oltre a entrare nella top ten di svariati paesi, tra cui Canada, Irlanda, Germania, Paesi Bassi, Nuova Zelanda e Norvegia.

Davvero una stranezza, se si pensa che la canzone è la stessa di quella interpretata da Valli qualche mese prima, e che il testo, lontano dall’essere compiacente verso il grande pubblico, è di una mestizia assoluta.

Perché parla della fine di un amore e di un lutto affettivo che non può essere rielaborato, di un’assenza che produce solo dolore e oscurità, rendendo la vita inutile, priva di significato: “La solitudine è il mantello che indossi, c'è sempre una profonda sfumatura di blu” (il blu è il colore della malinconia –ndr).

E poi quei due versi, che utilizzano immagini naturistiche, per sottolineare il vuoto esistenziale lasciato dalla propria amata: “Il sole non splenderà più, La luna non sorgerà nel cielo”. Parole che suggeriscono un dolore irreversibile e che richiamano alle mente i versi di Funeral Blues, magnifica poesia scritta da W.H Auden, nel 1936: “Non servon più le stelle: spegnetele anche tutte; imballate la luna, smontate pure il sole; svuotatemi l'oceano e sradicate il bosco…”.

Senza amore, restano solo lacrime (“Le lacrime ti annebbiano sempre gli occhi, quando sei senza amore”), nulla ormai ha più senso (“Il vuoto è il posto in cui ti trovi, non c'è niente da perdere ma niente più da vincere”) se non implorare un impossibile ritorno (“Solo, senza di te, piccola ragazza, ho bisogno di te, non posso andare avanti”). 

La canzone, a dispetto della versione flop di Frankie Valli, è stata oggetto di numerose reinterpretazioni, la più famosa delle quali è quella fatta da Cher, nel 1996, e contenuta nel suo ventiduesimo album, It's a Man's World. La cover, pubblicata come quarto singolo, arrivò fino alla ventiseiesima piazza delle classifiche inglesi, con buona pace del leader dei The Four Seasons, che quel rospo, temo, non l’abbia ancora ingoiato.

 


 

Blackswan, giovedì 16/12/2021

martedì 14 dicembre 2021

DAVE GAHAN & SOULSAVERS (Columbia, 2021)

 


Con Imposter continua la collaborazione fra Rich Machin e il frontman dei Depeche Mode, Dave Gahan, con un terzo disco che segue i due acclamati album The Light The Dead See nel 2012 e Angels & Ghosts nel 2015. Per questo nuovo lavoro insieme, però, i due musicisti hanno spostato l'attenzione sulle canzoni e sugli artisti da cui sono stati influenzati, rinunciando a dare vita al materiale originale.

Come affermato in molte interviste, Gahan ha giocato un po' con il tema dell'impostore, per sottolineare che lui, frontman di una band che suona le canzoni composte da Martin Gore, anche oggi si trova a reinterpretare canzoni che non ha scritto. Sempre sotto mentite spoglie, dunque, se non fosse che il cantante britannico arricchisce questi brani con la propria personalità e la propria forza interpretativa, indipendentemente da quanto familiare possa essere la canzone originale. Una scaletta di cover che trovano nuove vesti, e soprattutto nuova personalità, grazie alla sensibilità di un artista la cui voce è diventata un inimitabile marchio di fabbrica. La sua cover di "Lilac Wine" (che Jeff Buckley ha fatto sua su Grace), ad esempio, assume le caratteristiche di un viaggio interiore, come se Gahan stesse cantando mentre setaccia vecchie foto, ricordi e pungoli dell’anima. Se la rilettura di Buckley era estasi e sospensione, qui troviamo un mood meditabondo, che tiene l’ascoltatore sospeso sul crinale di uno sprofondo emotivo.

Cosa che avviene anche "A Man Needs A Maid" di Neil Young, una canzone che nella versione originale era gonfia di orchestrazioni e che, invece, nelle mani di Gahan assume, una fragilità straziante e un andamento contemplativo, esaltato dalla leggerezza del tocco di Sean Reed al pianoforte.

Altrove, per converso, l'euforica spacconeria blues che è sempre emersa nelle collaborazioni con Machin, prende per mano la rumorosa "I Held My Baby Last Night" (Elmore James), che fu coverizzata dai Fleetwood Mac, mentre il crescendo elettrico della splendida "Metal Heart" di Cat Power scartavetra la pelle grazie a una voce, a cui il tempo ha dato ulteriore profondità e che, oggi, sembra capace, di padroneggiare quasi ogni genere.

Due cover in particolare toccano il cuore: una versione di "Shut Me Down" di Rowland S. Howard, originariamente registrata per l'ultimo album dell'ex chitarrista dei Birthday Party, e l’arcinota "Always On My Mind. Shut Me Down" è una canzone agrodolce che Howard scrisse mentre stava morendo di cancro e che è, quindi, indissolubilmente legata alla sua morte prematura. Gahan incanala quell’originale senso di rimpianto in volute di rassegnata malinconia appena sfiorate da leggeri refoli di vento, come se volesse evocare un barlume di speranza che sfiora le desolate rovine di un destino segnato.

E poi, "Always On My Mind", una canzone famosissima, coverizzata centinaia di volte, ma di cui spesso non si afferra il messaggio, viene qui eseguita con una semplicità disarmante, mettendo così a nudo le vulnerabilità e il tormento interiore di un uomo che si scusa con la propria amata per non riuscire ad amarla come lei vorrebbe. Un momento intenso e cruciale, messo a fine scaletta come una sorta di tributo di Gahan ai suoi fan, a cui, evidentemente, vorrebbe regalare molte più canzoni di quelle finora scritte. La chiosa perfetta per un album davvero brillante, che potrebbe rappresentare per il cantante dei Depeche Mode l’inizio di una seconda giovinezza, come furono gli American Recordings per Johnny Cash.

VOTO: 8

 


 

 

Blackswan, martedì 14/12/2021

lunedì 13 dicembre 2021

THE GEORGIA THUNDERBOLTS - CAN WE GET A WITNESS (Mascot Records, 2021)

 


Ci sono generi che non passano mai di moda, presenti da sempre, dal giorno in cui sono nati, immutabili nelle loro forme, salvo qualche piccolo scarto di modernità che ci fa dire di un gruppo “sembrano proprio quelli là”, ma anche “hanno comunque un proprio tratto distintivo”. Ecco, quindi, i The Georgia Thunderbolts, giovani avanguardie del southern rock, che rinfrescano i lick boogie e i riff anthemici, “che sembrano suonati proprio da quelli là”, ma che si tengono ben lontani dal replicare pedissequamente le gesta dei grandi padri putativi del genere (Allman Brothers, Lynyrd Skynyrd, The Black Crowes, etc), insufflando semmai una ventata di vigore in quella musica dal sapore antico, riletta, però, con consapevolezza e, nello specifico, con una notevole caratura tecnica.

Parte "Take It Slow" e improvvisamente appare davanti agli occhi dell’ascoltatore tutto quell’immaginario sudista fatto di musicisti irsuti, bourbon tracannato in un fiato e pick up malmessi che sgommano feroci, sollevando terra e polvere. Due chitarre e un’armonica anarchica, un ghigno beffardo, un riff nerboruto, e il gioco è fatto. E se quei riff cazzuti, sporchi e spavaldi sono il vostro pane quotidiano, la successiva "Lend A Hand" ti friggerà il cuore con un groove ad alta percentuale di ottani, un ritornello contagioso e soprattutto il suono in purezza del classic rock: una Gibson Les Paul che spara decibel attraverso un ampli Marshall.

Ispidi e rumorosi, ma non solo: "So You Wanna Change The World" è un ballatone virile, dal suono famigliare, caldo e invitante, "Looking For An Old Friend", è un godereccio emulo del sound Lynyrd Skynyrd trainato da una melodia acchiappona, e la cover di "Midnight Rider" omaggia gli Allman col piglio moderno di una ritmica martellante e tonnellate di distorsioni che tracimano nell’hard rock.

Can We Get A Witness è un condensato di energia sudista, che predilige un’esposizione ruvida, accantonando gli accenti country, e scegliendo semmai una declinazione che, in certi frangenti, trasuda di soul. Un disco che passa anche dall’ovvio, certo, ma che regala gioielli di songwriting come il saliscendi emotivo della clamorosa "Spirit Of A Working Man" e la conclusiva "Step Me Free", sette minuti di epica southern che, un domani, rappresenteranno, sono pronto a scommetterci, la signature song della band e uno dei momenti più caldi dei loro live.

Con questo esordio sulla lunga distanza, i Georgia Thunderbolts si affiancano alle nuove leve del southern (Whiskey Myers, Black Stone Cherry, Blackberry Smoke, etc.) e mettono già la freccia per il sorpasso: tradizione rispettata, idee chiarissime, tecnica superiore e un surplus di vitalità che, non solo tiene viva, ma fa letteralmente divampare la fiamma del rock.

VOTO: 8

 


 


Blackswan, lunedì 13/12/2021

venerdì 10 dicembre 2021

THE LAMIA - GENESIS (Charisma, 1974)

 


Che Gabriel fosse un istrione e rubasse la scena, sia sul palco che in studio, al resto della band, è un dato di fatto sul quale sono già stati versati litri di inchiostro. L'arcangelo Gabriele, a dispetto dei modi cortesi e di quel sorriso aperto che ispirava immediata simpatia, non era proprio quello che si può definire un tipo accomodante.

La storia dei Genesis è infatti cadenzata dalle sue intuizioni, dalla sua creatività, ma anche dalle sue continue imposizioni, dall'assolutismo delle sue scelte (ad esempio, obbligò Collins a non chiudere le rullate sui piatti), dalla sua indole attoriale che lo portava a ritagliarsi sempre il ruolo di prima donna.

E' per questo che The Lamb Lies Down On Broadway, se da un lato rappresenta l'apoteosi di un percorso musicale che, per molti versi, potremmo definire Gabriel-centrico, dall'altro sarà anche l'ultimo capitolo del cantante di Bath alla guida del quintetto inglese. Gabriel è stufo degli angusti limiti che la band inevitabilmente pone al suo sempre crescente desiderio di sperimentazione, gli altri quattro, invece, sono stanchi di stare al servizio di un padre padrone che impone e dispone, spesso senza nemmeno accettare contradittorio.

Concept album, opera rock a tutto tondo e primo doppio album nella discografia Genesis, The Lamb Lies Down On Broadway non è solo il sesto (e, probabilmente, il miglior) disco in studio della band, ma è soprattutto un ponte artistico fra il passato e il futuro di Gabriel. Una sorta di anteprima di quello che sarà, nel quale l'ambiziosa progettualità sperimentale e il talento narrativo dell'Arcangelo superano per la prima volta le anguste barriere del progressive, gli orpelli e i barocchismi, l'idea ormai consunta di un rock romantico, fine a sé stesso e senza più sbocchi creativi.

The Lamb rappresenta, quindi, una sorta di (sublime e monumentale) canto del cigno del genere, la pietra miliare che segna la fine di un epoca, l'epitaffio che chiude la storia di un movimento che ha già detto tutto e forse anche troppo.

La storia di Rael (Rael = Real = Re Lear), teppista portoricano dei bassifondi newyorchesi che vede l'agnello sdraiarsi su Broadway, è narrativamente (e musicalmente) complessa, a tratti perfino di difficile comprensione, sia per l’andamento disomogeneo della scaletta che per le liriche di Gabriel, abile come di consueto a manipolare la lingua inglese, a suggerire tramite calembour, citazioni colte e metafore, e a stupire l’ascoltatore con un con un timbro vocale sempre più duttile e cangiante.

C'è un abisso fra i precedenti lavori della band e questo concept: il suono Genesis si irruvidisce, acquista accenti più marcatamente rock, gli acquarelli della campagna inglese vengono sostituiti con i tratti decisi dei graffiti metropolitani di una New York sotterranea e malevola. I brani si fanno meno articolati e più stringati, la ritmica finisce spesso in primo piano, le canzoni mordono alla gola, sono aggressive, stanno addosso all'ascoltatore, rimandano a un futuro ancora lontano, ma qui già preconizzato.

Si pensi, ad esempio, al pulsare claustrofobico e ipnotico dell'incipit di In The Cage, con Banks a reiterare un giro di tastiera, che spinge il progressive ai limiti estremi dell'ipotesi elettronica. Si pensi a Back in NYC, che è una sorta di manifesto proto-punk, un gancio per quel futuro che di lì a breve cambierà la storia della musica, partendo proprio dal cuore di New York. Si pensi a tanti intermezzi, nei quali si esplora l'ambient fino ai confini del noise, o alle atmosfere hard-rock di Lilywhite Lilith, embrione prog-metal ante litteram.

Un'opera avanguardista, dunque, che certamente anticipa alcune sonorità del futuro, ma che gioca anche di rimando ai grandi capitoli della passata (e presente) storia della musica popolare. Così Counting Out Time e Anyway ammiccano a sonorità beatlesiane, mentre la conclusiva It omaggia nel testo It's Only Rock And Roll (but i li ke it) degli Stones, uscito poco tempo prima.

E poi, c'è il prog - rock, superato, certo, ma non dimenticato, riproposto in un'accezione più scarna e diretta, e proprio in virtù di questa nuova essenzialità, capace di toccare vette di lirismo fino ad allora mai esplorate. Ne sono esempi clamorosi Carpet Crawl, la title track, e soprattutto, la sofferta e ispiratissima The Lamia, uno dei vertici compositivi dell’album, in cui il pianismo liquido di Banks, lo struggente assolo finale di Hackett e il cantato dolente di Gabriel riescono ad aprire un varco spazio temporale fra le visioni notturne di Debussy ed il rock anni ‘70.

Le liriche, più visionarie che mai, utilizzano una figura mitologica (le lamie, secondo mitologia greca, erano figure femminili, in parte umane e in parte animali, rapitrici di bambini o fantasmi seduttori, che adescavano giovani uomini per poi nutrirsi del loro sangue e della loro carne) e giocano con sottintesi sessuali (“con le lingue tastano, assaporano e giudicano tutto il mio essere/ si muovono con una sequela di carezze che fanno rabbrividire la mia spina dorsale/ mentre mordono il frutto della mia carne, non sento dolore, solo una magia alla quale non saprei dare nome”).

Un testo elusivo, che procede per immagini seducenti e metafore. Rael incontra le tre Lamia, è affascinato, attratto, ma il suo cuore in tumulto riconosce anche il battito della paura. “Rael welcome, we are the Lamia of the pool. We have been waiting for our waters to bring you cool”: ti stiamo aspettando per farti diventare freddo. Cioè, per ucciderti. Rael lo capisce, teme le Lamia, ma ne è irresistibilmente attratto e si lascia sedurre. La bellezza lo irretisce e sconsideratamente si avvicina, rinnegando il proprio istinto e quel timore che sente nel profondo e che potrebbe salvarlo. Le Lamia iniziano a toccarlo, a leccarlo, a cibarsi della sua carne: viene evocato l’atto sessuale, piacevole, conturbante, totalizzante. Rael si abbandona, consapevole della fine, ma completamente in balia del suo destino.

Tuttavia, appena le Lamia entrano a contatto con il suo sangue, si contorcono per il dolore e muoiono in pochi secondi: “Con la prima goccia del mio sangue nelle loro vene, i loro volti sono sconvolti da dolori mortali, la più bella grida “Ti abbiamo amato tutti, Rael”. Ora le Lamia sono “corpi vuoti, simili a un serpente galleggia, silenzioso dolore in barche vuote”: un’immagine di morte visivamente potente, che lascia attoniti.

E ancora. “Un’acidità nauseabonda riempie la stanza, L’amaro raccolto di una fioritura morente”: è questo, forse, il verso decisivo, quello che spiega il senso ultimo della canzone. Il sangue di Rael non è puro, ma intossicato da una vita in cui tutto è stato dolore, paura, morte. Forse c’è un abbrivio di critica sociale (il ragazzo è un teppista, portoricano, e vive nei bassi fondi), di sicuro, è presente la constatazione di un’esistenza e di un destino segnati, “una fioritura morente”, concimata dal male di vivere e dall’impossibilità del riscatto.

Guardando dietro di me, l’acqua diventa blu ghiaccio, le luci si abbassano e ancora una volta il palcoscenico è pronto per te”. Il disco non è ancora finito, così come il viaggio di Rael alla ricerca di se stesso. Alla fine, si ritroverà, nell’immagine riflessa del fratello salvato dalle rapide, ma si dissolverà nel nulla, lasciando dietro di sé una purpurea foschia, e l’impressione ipnagogica che tutto sia stato un sogno e che Rael non esista, volto tra i volti, dimenticato, obliato per sempre.

 


 

Blackswan, venerdì 10/12/2021

giovedì 9 dicembre 2021

DEEP PURPLE - TURNING TO CRIME (earMusic, 2021)

 


Se i Deep Purple riescono ancora a essere credibili dopo tanto tempo, è semplicemente perché continuano a pubblicare materiale originale e, soprattutto, di buona qualità. Dinosauri, forse, ma non balene spiaggiate: piacciano o meno, i loro ultimi dischi, strenuamente avvinghiati a sonorità classic rock, sono lavori, forse datati, ma senz’altro artisticamente convincenti.

E’ strano allora ritrovarli nuovamente sul mercato con questo Turning To Crime, album composto interamente da reinterpretazioni di brani altrui. Strano, perché questo nuovo lavoro rappresenta una sorta di viaggio a ritroso agli albori della band. È difficile da credere, infatti, e molti probabilmente se ne sono dimenticati, ma i Deep Purple, agli esordi della loro carriera, potevano quasi essere definiti una cover band. Chi ha buona memoria, si ricorda che, in effetti, i primi quattro singoli del gruppo provenivano da discografie altrui (Joe South, Neil Diamond, Ike & Tina Turner e Beatles) e non dal talento dei componenti di un gruppo che, di lì a breve, avrebbe cambiato per sempre la storia dell’hard rock, quando, nel 1969, entrarono nella line up Ian Gillan e Roger Glover, per dare vita a quella formazione che va sotto il nome di Mark II.

Da In Rock in poi, basta cover, ma solo materiale originale, cosa che, a distanza di più di cinquant’anni, rende questo Turning To Crime un autentico shock. Non solo perchè in scaletta ci sono ben dodici cover, ma soprattutto perché sono davvero poche le canzoni reinterpretate che ti aspetteresti avrebbero potuto essere suonate dai Deep Purple.

A distanza di diciotto mesi dall’ottimo Whoosh, arriva, dunque, una svolta sorprendente, una sorta di alternativa anti-pandemia (guidata dal guru Bob Ezrim), che si sostituisce al consueto processo creativo della band (le sbrigliate jam in studio), reso impossibile dal lockdown.

Nessuno aveva dubbi sul fatto che i cinque valenti musicisti, rappresentati in copertina come avanzi di galera, fossero in grado di cimentarsi con qualsiasi genere, anche agli antipodi di quello che, da sempre, è il loro territorio di caccia, ma di sicuro la scelta dei brani in scaletta fa quantomeno sollevare il sopracciglio per la sorpresa.

È un eufemismo, infatti, affermare che brani come "Rockin' Pneumonia and the Boogie Woogie Flu" di Huey "Piano" Smith, "Dixie Chicken" dei Little Feat, "Let the Good Times Roll" di Louis Jordan, "Watching the River Flow" di Bob Dylan o "The Battle of New Orleans" di Jimmy Driftwood risultino delle scelte fuori da ogni logica.

Eppure, alla fine, hanno avuto ragione loro, i vecchi Purple, perché, pur lontanissime dal bagaglio genetico della band, queste cover suonano tutte incredibilmente convincenti. D’altra parte, il mestiere e le competenze tecniche delle cinque vecchie volpi non sono mai stati in discussione: Steve Morse fa sfoggio di diverse tecniche di esecuzione con altrettante abilità, Don Airey fila via sul velluto, non disdegnando virtuosismi, Ian Paice e Roger Glover sono i soliti martelli, ma inaspettatamente brillanti anche nei diversi approcci ritmici, e il buon Ian Gillan, forse un po' aiutato dalla tecnologia, riesce a dare il meglio di sé qualunque cosa canti.

Certo, anche in Turning To Crime non mancano momenti più contigui all’hard rock, come nelle fiammeggianti trame psichedeliche dell’iniziale "7 and 7 Is" dei Love, nella leggendaria "Shapes of Things" degli Yardbirds, nel divertissement garagista di "Jenny Take a Ride!" presa dal songbook di di Mitch Ryder & the Detroit o in "White Room" dei Cream, il brano più ovvio in scaletta e quello decisamente più attinente al bagaglio musicale dei Deep Purple.

Chiude il disco "Caught in the Act", un medley quasi interamente strumentale, in cui la band sbriglia gli strumenti e la fantasia per riproporre grandi classici degli anni '60 ("Going Down" di Jeff Beck, "Green Onions" di Booker T. e MG, "Hot 'Lanta" della Allman Brothers Band, "Dazed and Confused" dei Led Zeppelin e "Gimme Some Lovin' " degli Spencer Davis Group) dimostrando che Mark VIII è una signora line up e che, grazie a un’inesausta voglia di divertimento, anche in tempi di vacche magre, si possono rilasciare dischi ottimi e, come in questo caso, inaspettati.

VOTO: 7

 


 


Blackswan, giovedì 09/12/2021

lunedì 6 dicembre 2021

BILLY BRAGG - THE MILLION THINGS THAT NEVER HAPPENED (Cooking Vinyl, 2021)

 


Schierato a fianco delle ali estreme della sinistra britannica, fondatore insieme a Paul Weller del collettivo Red Wedge, creato per supportare le battaglie del partito laburista durante gli anni bui thatcheriani, Billy Bragg ha saputo dare nuovo vigore alla musica folk attraverso un approccio punk e innervare di rock i muscoli della canzone di protesta. Armato di una nervosa chitarra elettrica e del tipico accento dei sobborghi, il songwriter inglese ha sempre indossato le vesti di un Woody Guthrie urbano, è stato sulle barricate, anche fisicamente, e ha abbracciato le istanze della working class, alternando vigorose strette da combattente ad affettuosi sguardi pervasi di popolare romanticismo.

Dall’agit rock è poi passato alle collaborazioni con i Wilco e Joe Henry, che si sono tuffate a capofitto in tematiche americane, sia che si trattasse di rinverdire l'eredità di Woody Guthrie o raccontare il romanticismo delle ferrovie statunitensi.

The Million Things That Never Happened è il suo primo album da solista dal 2013, un disco che lo trova abbastanza comodamente sistemato in quello che potrebbe essere definita la sua comfort zone, in cui le canzoni spaziano tra soul, folk e country, e l’impegno politico, sempre presente, è però mediato da un sottile senso d’introspezione e di riflessione.

D’altra parte il tempo passa per tutti, Bragg ormai ha più di sessant’anni, ed è ovvio e giusto che lo sguardo sia più pacato, senza che il cuore, tuttavia, abbia smesso di battere forte, sempre e comunque a sinistra.

Potrebbe anche non sembrare ad un primo ascolto, ma The Million Things That Never Happened, nonostante la pienezza dei suoni e qualche passaggio financo brioso, è un album scritto durante la pandemia. Bragg ha composto le canzoni in isolamento (e alcuni brani riflettono questo momento difficile) e poi ha inviato le sue registrazioni ai produttori, Romeo Stodart dei The Magic Numbers e Dave Izumi, che hanno levigato il suono, creando un piccolo gioiello.

Che l’album sia figlio di tempi bui, che impongono profonde riflessioni esistenziali, lo si comprende, ad esempio, ascoltando la splendida "I Will be Your Shield", una canzone che, secondo Bragg, è il cuore e l'anima dell'album, e che parla dei tormenti e della solitudine durante il lockdown, con lo sguardo rivolto agli ultimi, ai più deboli, a coloro che dipendono dalla gentilezza e dall'empatia degli altri per poter sopravvivere. Billy continua a schierarsi, certo, ma se un tempo era la passione a infuocare le canzoni, oggi il mood si fa più riflessivo, meditabondo, malinconico. La sessantina, certo, ma anche il lockdown, che ha finito inevitabilmente per essere il fil rouge prevalente che lega le dodici canzoni in scaletta.

Come in "Lonesome Ocean", una ballata in stile Muscle Shoals, che parla di smarrimento e di sentirsi alla deriva, o in "Good Days And Bad Days", in cui piano e mellotron avvolgo amare riflessioni sull’incerto andamento di questi giorni bui, o ancora di più nella title track, una sorta di triste presa di coscienza di questi tempi dolorosi, amplificata da lacrime di violino, attraverso cui Bragg annota tutte quelle feste familiari e commemorazioni (nascite, matrimoni e funerali) che ci sono state negate a causa della moderna pestilenza.

Non manca ovviamente l’impegno civile e politico, perché Bragg, nonostante uno sguardo più introspettivo sul mondo, non può certo snaturarsi, tacere le proprie idee, disinteressarsi al mondo che lo circonda. "Freedom Don't Come Free" è un divertente brano bluegrass che riflette sull’utopia di certe idee libertarie destinate a fallire, nel southern soul di "The Buck Don't Stop Here No More" Bragg mette alla berlina l'ipocrisia dei leader populisti, in "Mid-Century Modern" analizza la propria passione politica, perché se è vero che le barricate sono un ricordo lontano, la voglia di schierarsi, però, è ancora viva, dal momento che "i ragazzini che tirano giù le statue, mi sfidano a vedere il divario tra l'uomo che sono e l'uomo che voglio essere”, mentre in "Pass It On" l’attenzione si rivolge ai bambini, che devono essere educati all’amore, alla tolleranza, al rispetto.

Così, in una sorta di ipotetico passaggio di testimone, non è un caso che il disco si chiuda con la pimpante "Ten Mysterious Photos That Can't Be Explained", scritta insieme al proprio figlio Jack, in cui gli anni barricaderi di Bragg sembrano tornare, come per magia, a risplendere. Una canzone sanguigna, che chiosa un nuovo bellissimo album: riflessivo ma non crudo, mesto e ma non furioso, l’onesta evoluzione di un ex giovane militante che si è trasformato in un uomo saggio, consapevole che le parole posso comunque centrare il bersaglio, anche se al fumo delle barricate, oggi, preferiscono la strada del cuore. Un po' indietro rispetto alla mischia, forse più placido, ma sempre al nostro fianco nella battaglia per la vita.

VOTO: 8

 


 


Blackswan, lunedì 6/12/2021

venerdì 3 dicembre 2021

HOPE THERE'S SOMEONE - ANTONY & THE JOHNSONS (Rough Trade, 2005)

 


Se Candy Darling aveva ispirato alcune bellissime canzoni dei Velvet Undergound, l’attrice transgender, autentica star della Factory di Andy Warhol, è addirittura la musa ispiratrice di un intero album, I Am A Bird Now, disco uscito nel 2005 a firma Antony & The Johnsons, band capitanata da un’altra artista transgender, Antony Hegarty.  

Nata a Londra, Antony (oggi, all’anagrafe, Anohni) si è trasferita in California all'età di 10 anni, prima di stabilirsi a New York nel 1990, con l'ambizione di diventare "una chanteuse travestita alle 3 del mattino in locali notturni inondati di luce blu, come Isabella Rossellini in Blue Velvet". Un’artista straordinaria e poliedrica, la cui musica evoca contemporaneamente Scott Walker, Nina Simone, Bryan Ferry, David Bowie, Sam Cooke, Jimmy Scott, per citare alcuni riferimenti plausibili, pur distinguendosi per l’originalità del songwriting e per quella voce così distintiva, connotata da un incredibile vibrato e da un’estensione di svariate ottave.

I Am A Bird Now è il secondo disco di Hegarty, un’opera che, ai tempi, ebbe un incredibile successo di critica e riuscì, soprattutto in Inghilterra, ad avere ottimi riscontri commerciali e a vincere l’ambito Mercury Prize. E ciò, a dispetto delle atmosfere prevalentemente cupe, seppur capaci al contempo di evocare una loro soave morbidezza, che avvolge nel suono di violoncelli, violini, viole e flauti, cornice perfetta per la voce e il pianoforte di Antony. Che sono, poi, i protagonisti assoluti di un filotto di canzoni tristi, dolenti, attraversate da sincero pathos, le cui suggestioni inducono, spesso, una commozione quasi invasiva, per cui è impossibile sciogliere il nodo alla gola o frenare lo stillicidio emotivo delle lacrime.

D’altra parte, chi meglio di Anohni potrebbe raccontare la storia di Candy Darling? Chi altri avrebbe potuto narrare, con così tanta sensibilità e immedesimazione, la storia di un’anima imprigionata in un corpo percepito come prigione, costretta a fingere e mentire, additata spesso come fenomeno da baraccone? Chi poteva far sgorgare dal proprio cuore e da quella voce, così profonda e tremolante, parole appassionate e sincere per descrivere il desiderio di essere accettati, il conflitto interiore, la difficile strada per convivere con la propria identità, se non Hegarty?

Hope There’s Someone, già pubblicata qualche mese prima in un omonimo Ep, è la canzone che apre il disco e che introduce l’ascoltatore nel mondo di Anohni, terra di dolore e apolidia sessuale, che genera smarrimento, solitudine e speranze destinate a infrangersi contro il muro ostile della realtà. La speranza di un amore, che superi le convenzioni sociali, che sia romito e focolare domestico, che sia consolazione e condivisione, che illumini la strada nei momenti di buio e di tristezza: “Spero ci sia qualcuno che si prenderà cura di me, quando morirò…spero ci sia qualcuno che libererà il mio cuore…”.

Il bisogno di avere un compagno al proprio fianco è un pensiero costante, ma è come evocare un fantasma, un’entità che affolla la mente e le stanze della solitudine, restando solo una dolcissima e irrealizzabile chimera: “C'è un fantasma all'orizzonte, quando vado a letto. Come posso addormentarmi la notte? Come farò a riposare la testa?... Non voglio essere l'unica lasciata lì…C'è un uomo all'orizzonte. Vorrei andare a letto. Se cado ai suoi piedi stanotte, permetterò alla mia testa di riposare.

Non c’è nessuno, però, a condividere il tormento, e nell’aria, resta stordente, invasiva, e mortificante la paura di morire, da soli: “Quindi spero di non annegare, o di paralizzarmi nella luce…Spero ci sia qualcuno, che si prenderà cura di me, quando morirò”.

La mano che accarezza leggera i tasti del pianoforte e la voce di Antony raddoppiata, che scava un tunnel verso il cuore di chi ascolta, per evocare una mestizia senza fine, un dolore insanabile, un vuoto sentimentale che nessuno potrà mai colmare. E quando, nel finale, le note di piano si fanno più vibranti, quasi caotiche, l’implorazione diviene un lamento insostenibile, un canto di dolore per un destino segnato e una ferita ormai non più rimarginabile.

 



 


 

Blackswan, venerdì 03/12/2021

giovedì 2 dicembre 2021

PREVIEW

 


I BIG THIEF annunciano il nuovo album “Dragon New Warm Mountain I Believe In You”, in uscita l'11 febbraio 2022 su 4AD. Ascolta il singolo “Time Escaping”.

Dragon New Warm Mountain I Believe in You è un avvincente doppio LP che esplora le caratteristiche e le capacità più profonde dei Big Thief. Per poter indagare a fondo nella musica che Adrianne LenkerMax OleartchikBuck Meek James Krivchenia avevano desiderato nel 2020, la band ha deciso di scrivere e registrare in 4 distinte sessioni, un assurdo resoconto della loro crescita come individui, musicisti e come componenti di una famiglia elettiva.

I Big Thief hanno passato 5 mesi creando musica, tra Upstate New York, Topanga Canyon, The Rocky Mountains e Tucson, in Arizona, e realizzando 45 nuove canzoni. I pezzi migliori sono stati rielaborati fino a formare i 20 brani che rendono vario e fluido l'ascolto di Dragon New Warm Mountain I Believe in You.  L'album è stato prodotto dal batterista James Krivchenia, il primo ad aver proposto il concept di DNWMIBIY nel 2019, con l'idea di riunire in unico album i vari aspetti della scrittura di Adrianne e della band.
 
 
 

 
 
Blackswan, giovedì 02/12/2021

 

mercoledì 1 dicembre 2021

BRANDI CARLILE - IN THESE SILENT DAYS (A Low Country Sound/Elektra Records, 2021)

 


La carriera di Brandi Carlile, sempre in costante crescendo, è decollata definitivamente nel 2018, quando il suo sesto album in studio, By The Way, I Forgive You, debuttò alla quinta piazza di Billboard 200, ricevette la nomination a cinque Grammy Award, vincendone poi ben tre, e iniziò a ottenere riconoscimenti commerciali anche fuori dai patri confini. In realtà, quel disco, prodotto da “Re Mida” Dave Cobb, pur in un contesto di ottima qualità, risultava a tratti troppo appesantito da arrangiamenti talvolta ridondanti, che tarpavano le ali allo slancio emotivo della proposta.

In questi tre anni, la songwriter originaria di Ravensdale, ha avuto modo di lavorare con calma al nuovo materiale, alternando la scrittura delle canzoni al progetto parallelo delle Highwomen e alla produzione d’ultimo album di Tanya Tucker, While I’m Living, vincitore peraltro di due Grammy. La quarantena e l'isolamento del 2020, insomma, non hanno certo scoraggiato Brandi, semmai l’opposto: le hanno permesso di sviluppare al meglio le proprie idee, di esplorare tutti i confini del proprio songwriting, di tirare a lucido il suono e di riaffermare le proprie ambizioni.Un lavoro di cesello su contenuti e forma, che ha prodotto risultati straordinari.

Quello contenuto in In These Silent Days è, poi, anche il viaggio a ritroso nel tempo di una donna strettamente connessa al 21esimo tempo, che si è ritrovata a esplorare le sonorità pop rock degli anni ’70, con il cuore che batte forte dalla parte di Joni Mitchell (You And Me On The Rock, ma non solo). Un omaggio, certo, ma anche un forte desiderio di identificazione.

Se è vero che le sue indubbie doti, sia come cantante (quella voce che sa essere limpida e rassicurante, ma anche dolorosa e disperata) che come autrice (il gusto per la melodia di facile presa, ma anche la capacità di scavare in profondità grazie a un inusuale trasporto emotivo) avevano, talvolta, in passato, sbandato verso un surplus di melodramma, oggi trovano, invece, un perfetto equilibrio e una declinazione più asciutta, senza che, tuttavia, venga meno la consueta intensità. Registrato a Nashville e prodotto ancora da Dave Cobb, con la complicità di Shooter Jennings, In These Silent Days è un disco calibratissimo, che pur non introducendo sostanziali novità, dispiega l’intero spettro musicale della Carlile, consolidandone i punti di forza e legando insieme passato e presente in una formula cantautorale (ma non solo), che suona al contempo moderna e famigliare.

L’iniziale Right In Time, canzone sulle seconde possibilità, raggruma alla perfezione tutti gli elementi di uno stile unico: l’emozionante vibrato della voce, l’equilibrio fra palpiti interiori e teatralità espressiva, la seducente melodia a velare una profonda riflessione sulla propria anima afflitta. La Carlile sa, però, anche graffiare con il rock di Broken Horses, un ibrido fra Sheryl Crow e gli Who, una cavalcata rabbiosa, che nonostante i momenti di sospensione, esprime un’inusitata furia espressiva, tanto tesa quanto elementare. Se la citata You And Me On The Rock, conquista con la sua accattivante melodia e i suoi sentori “californiani”, gli archi avvolgenti e le scariche elettriche di Sinners, Saints And Fools introducono all’impegno politico, in una riflessione cupa sul fondamentalismo e l’immigrazione, mentre Stay Gentle si sviluppa come un acquerello folk delicatissimo, con cui la Carlile si rivolge ai suoi due figli, invitandoli a vivere la propria vita sempre con grazia, nonostante il giudizio degli altri (“trovare gioia nell'oscurità è saggio, anche se penseranno che siete ingenui”).

Una ballata di leggerezza quasi impalpabile, a testimonianza di un eclettismo che diventa amara riflessione negli arpeggi malinconici di When You‘re Wrong, canzone sul tempo che passa inutilmente quando si è intrappolati in una relazione senza futuro, e nella meditabonda e conclusiva Throwing Good After Bad, stranamente maestosa nella di un pianoforte accarezzato dalla voce di brandi, così ricca di sfumature e di urgente pathos.

La Carlile produce musica di alta qualità da anni, e In These Silent Days si aggiunge a questa eredità, risultandone, ai posteri il giudizio definitivo, il bene più prezioso. Il songwriting non è mai stato così buono, e la produzione di Cobb e Jennings è calibratissima: hanno saputo risaltare tutte le doti della musicista, capito quando lasciare che un brano rimanesse scarno, mettendo al centro i testi e la voce, e quando, invece, espandere le sonorità ed enfatizzare la musica.

Il risultato finale è uno dei dischi più intensi di questo 2021: avvincente, seducente, appassionato.

VOTO: 8

 


 

Blackswan, mercoledì 01/12/2021