lunedì 27 febbraio 2023

IN FLAMES - FOREGONE (Nuclear Blast, 2023)

 


La stella degli svedesi In Flames, dopo l’uscita del best seller Come Clarity nel 2006, si è decisamente offuscata. Con le successive pubblicazioni, infatti, hanno fortemente diviso i propri fan, alcuni dei quali convinti che il gruppo avesse abbracciato logiche commerciali, lucrose ma poco ispirate, altri, invece, decisamente irriducibili, hanno sposato alcune scelte non proprio coerenti, in nome di quella che sembrava la capitalizzazione di un nuovo potenziale. Quel che sia, è un dato di fatto che da allora la band abbia perso la bussola e la propria coerenza espositiva, e certi dischi come Siren Charms e Battles, anche a voler essere benevoli, erano obiettivamente inascoltabili: la cacofonia, il furore e gli eccessi rumoristici che da sempre erano un marchio di fabbrica dei ragazzi di Göteborg si erano trasformati in un fastidioso sussurro, tanto che in pochi confidavano in una possibile rinascita.

I, The Mask del 2019 aveva acceso una piccola luce alla fine del tunnel, un barlume di speranza per quei fan che una volta li adoravano e anche per quelli che, nonostante tutto, non hanno mollato il colpo. Sebbene non fosse un disco perfetto, quanto meno era un passo nella giusta direzione. La domanda, quindi, è abbastanza scontata: cosa aspettarsi da una grande band la cui ispirazione è ormai un ricordo lontano? Come sarà questo nuovo Foregone, atteso da molti come una decisiva resa dei conti? Beh, senza fare proclami altisonanti, questo nuovo album è probabilmente il migliore degli In Flames da vent’anni a questa parte.

Rinvigorita la line up con l’ex Megadeth Chris Broderick, la grinta e il groove sono tornati a essere centrali, e la band sembra voler gridare al mondo intero che è rinata dalle ceneri di un glorioso passato. Forse, non è proprio così, ma, accidenti, rispetto ai lavori precedenti, qui sembra di essere nel paese dei balocchi, dove tutto barluccica e riempie gli occhi di gioia.

Chitarra acustica e violoncello aprono il disco con un caldo benvenuto a tutti quei fan che non si sono mai arresi. Un momento morbido che viene spazzato via dalla furia di "State Of Slow Decay", una canzone feroce che rimette le cose a posto e ti fa esclamare: “Eccoli, sono tornati!” Le chitarre sferragliano come ai bei vecchi tempi, mentre il frontman Anders Fridén ringhia sopra le righe con il suo caratteristico timbro, e il ritornello pulito, e bellissimo, ricorda le cose migliori di Come Clarity.

"Meet Your Maker" è un’altra grande canzone, un’altra zampata dei vecchi leoni. "Alla fine della mascherata, il tuo tempo è scaduto e ora c'è l'inferno da pagare", canta Fridén durante il ritornello, mettendo in chiaro quale sarà il mood di tutto il disco: liriche che aggrediscono lo status quo dell’umanità, ripercorrono gli ultimi terribili anni, ammantando la scaletta di un pessimismo oscuro, che non conosce il barlume della speranza. L'assolo di chitarra è il primo assaggio della bravura di Broderick, uno dei chitarristi più sottovalutati in circolazione, la cui sei corde lascia il segno anche sulla successiva "Bleeding Out".

Le chitarre hanno un ruolo più centrale rispetto ai precedenti lavori, e spesso i riff colpiscono al volto come un uppercut esiziale, come avviene, ad esempio, in "Foregone Pt 1", uno dei brani più pesanti del lotto. La title track è divisa in due parti, la prima più aggressiva e la seconda più morbida, dicotomia, questa, che crea un riuscitissimo equilibrio. Friden da tempo non cantava così bene, alternando il solito feroce screaming alle parti pulite, mai così convincenti.

Certo, la band ha completato il suo processo di americanizzazione, e forse questo è il vero limite del disco. Una canzone come "Pure Light Of Mind" ha senso solo in un’ottica commerciale, è un numero buono per quegli adolescenti che non sono abbastanza arrabbiati per ascoltare del death metal in purezza. Eppure, rispetto al passato, la sensazione è quella di una band più consapevole, che riesce comunque a tenere la barra senza scadere (troppo) nel banale. Lo dimostra anche la seconda metà dell'album, meno riuscita della prima, ma comunque convincente, che crea un mix equilibrato tra ferocia (ce ne vorrebbe di più) e melodia (ce ne vorrebbe un po’ meno): brani come "In The Dark" e "A Dialogue In B Flat Minor" dimostrano che gli In Flames hanno in parte ritrovato l’antico smalto e sono ancora in grado di scrivere ritornelli memorabili.

Così, quando parte la conclusiva "End Transmission", è facile immaginare i fan della band sfoggiare un sorriso d’apprezzamento che mancava da tanto tempo.

Attenzione, però: Foregone non è il capolavoro di cui alcuni parlano, spinti probabilmente dall’entusiasmo di ritrovare una band finalmente in palla. E’ un buon disco, il migliore da anni a questa parte, ma suona anche come un disco di transizione, un passo deciso verso una ritrovata ispirazione, ma ancora non del tutto convincente. Gli In Flames sono una band matura e consapevole, che giostra con sapienza su un suono a metà strada fra il melodico e il feroce. In questo sono maestri, non c’è dubbio. Ma certe scelte stilistiche che guardano al mercato americano, a parere di chi scrive, dovrebbero essere accantonate immediatamente. Solo così sarà possibile tornare alla grandezza dei tempi d’oro.

VOTO: 7

Genere: Melodic Death Metal

 


 

 

Blackswan, lunedì 27/02/2022

giovedì 23 febbraio 2023

IN THE SUMMERTIME - MUNGO JERRY (Dawn Records, 1970)

 


Poche canzoni nella storia sono sopravvissute all’usura del tempo come In The Summertime, un brano che ogni estate trova posto nelle playlist da spiaggia e viene costantemente commissionata per film, programmi TV e spot pubblicitari. Tanto che, nei paesi anglosassoni, è diventata un evergreen, entrato nella cultura popolare, al pari di Happy Birthday, perché quando tutti pensano all'estate, pensano inevitabilmente a In The Summertime. Una sorta di riflesso incondizionato, esattamente come quando arriva il momento di fare gli auguri a qualcuno.

Questa vivace e irresistibile melodia fu scritta da Ray Dorset, che era il cantante e chitarrista dei Mango Jerry. La band, alla fine degli anni ’60, era conosciuta come Memphis Leather e, poi, come The Good Earth; ma quando ottenne il primo contratto discografico, i produttori fecero loro cambiare nome in Mungo Jerry, ispirandosi al personaggio Mungojerrie, dal libro di TS Eliot, Old Possum's Book of Practical Cats, che in seguito venne usato come canovaccio per la celebre commedia di Broadway, Cats.

Dorset scrisse la canzone nel 1968, quando per lui la musica era solo un hobby, e la band non si era ancora affacciata al mondo dello star system. Il processo di scrittura fu rapidissimo: la melodia gli venne in mente in un momento di cazzeggio, e in un solo giorno la canzone era completata. Il brano ha una struttura molto semplice: non c’è ritornello, ma solo una melodia che si ripete all'infinito, su cui si srotola un testo che evoca la celebrazione della vita. Delle liriche che si sposano perfettamente con l’esuberanza dei giovani: è una bella giornata, sei riuscito a prendere una macchina, preferibilmente con il tettuccio aperto, vai in giro, e, se sei un ragazzo, vai a rimorchiare belle coetanee.

In The Summertime fu il primo singolo pubblicato dalla band, e decollò immediatamente, raggiungendo il primo posto nel Regno Unito e il terzo posto in America. Le fortune britanniche della canzone furono aiutate dall'apparizione del gruppo all'Hollywood Music Festival nello Staffordshire, in Inghilterra, il 23 maggio 1970, poco dopo la pubblicazione del brano. Condividere il palco con artisti del calibro di Grateful Dead, Black Sabbath, Free e Traffic, attirò sui Mango Jerry l’attenzione dei 35.000 fan presenti, e il successivo passaparola, diede grande rilevanza mediatica alla band.

Il marchio distintivo della canzone, a parte la melodia di facilissima presa, è dato dalla particolare strumentazione utilizzata per registrarla. Ray Dorset ha cantato e suonato le chitarre (acustiche ed elettriche), e uno strano strumento chiamato cabasa, Paul King il banjo e una brocca, Mike Cole il contrabbasso e Colin Earl il piano. La peculiarità più evidente è che mancano completamente le percussioni, anche se si può sentire Dorset che batte i piedi al ritmo, una tecnica, questa, influenzata dal grande bluesman John Lee Hooker, che spesso usava il suo piede come strumento a percussione.

L’altra, più evidente, anomalia strutturale è che il titolo del brano, In The Summertime, viene ripetuto solo due volte in tutta la durata dell’esecuzione, cosa stranissima per un brano che ebbe un successo eclatante.

Un’ultima curiosità, per cogliere la quale, chi ascolta, deve prestare molta attenzione: intorno al minuto numero due, la canzone si interrompe, e si può sentire il rumore di un'auto di passaggio, come contrappunto alla frase "andremo tutti in città". Quella era la macchina sportiva di proprietà dell’ingegnere del suono, che si era allontanato dagli studi per un’improvvisa urgenza.

 


 

 

Blackswan, giovedì 23/02/2022

mercoledì 22 febbraio 2023

JARED JAMES NICHOLS - JARED JAMES NICHOLS (Black Hill Records, 2023)

 


Grezzo, diretto, muscolare, intenso: l’hard rock blues di Jared James Nichols si tiene lontano da ogni compromesso e non abbraccia le mode, spinge sull’acceleratore e appicca incendi, è prevedibile, come può esserlo una musica che punta dritto a uno scopo, uno solo: farvi abbracciare la vostra personalissima air guitar e scapicollarvi di headbanging.

Meno noto dalle nostre parti di altri coevi chitarristi, Jared James Nichols, oltre a essere ambasciatore della Gibson, è un nome di punta del moderno rock blues, che interpreta con uno stile tanto tecnico quanto primordiale, e una voce roca e rabbiosa che contribuisce al suo approccio incendiario. Nichols ha iniziato ad appassionarsi alla musica in tenera età, e dopo aver imparato i misteri della sei corde, fin dall’adolescenza ha calcato palchi e suonato dal vivo, vincendo a soli vent’anni, dopo essersi trasferito dal Wisconsin a Los Angeles, il Gibson Les Paul Tribute Contest e il Musicians Institute Most Outstanding Player Award.

Considerato fin da subito un enfant prodige della chitarra elettrica, il suo nome ha iniziato a circolare con insistenza nei circuiti che contano, dove in breve tempo si è costruito la reputazione di autentico fenomeno, pubblicando due dischi, il debutto Old Glory & The Wild Revival (2015) e il suo seguito Black Magic (2018), accolti con ampi consensi da pubblico e critica.

Con il suo terzo e omonimo album, prodotto e mixato da Eddie Spear (Slash, Rival Sons) e registrato dal vivo in studio, Nichols si concentra su un suono hard rock grezzo e infuso di blues, caratterizzato da elementi di grunge e alternative metal. Qui, non si fanno prigionieri, si prende la mira e si spara per uccidere: un attacco sonoro di dodici canzoni, tutte sangue, sudore e ferocia. Filtri: zero.

Il disco parte con la fucilata "My Delusion", un hard rock blues essenziale e senza fronzoli, sporco e basico come quello che si può suonare in un garage, con il furore di chi divampa di rock ‘n’ roll e la cattiveria di chi vuole mangiarsi il mondo in un boccone. L’assolo è di quelli che scartavetrano la pelle e mette in risalto la caratura tecnica di uno che, per quanto sappia suonare da Dio, della caratura tecnica se ne sbatte gli zebedei.

"Easy Come, Easy Go" è un’altra bordata sanguinosa, Hendrix, feedback di blues in acido, la voce ruvida come la carta vetrata e una virile melodia del ritornello, unico compromesso di un brano spacca ossa.

Non c’è un attimo di tregua per tutti i quarantacinque minuti di durata del disco: la bellissima "Down The Drain", parte quasi sommessa, esibendo stigmate grunge, e s’incattivisce, poi, in una sfuriata heavy rock, mentre "Hard Wire", sbuffa e scalcia, fumante e feroce, per quattro minuti di pura abrasione sonica.

"Skin N 'Bones" fila via attraverso dinamiche grunge e un ritornello orecchiabile, che evoca i Soundgarden, "Hallelujah" è un brano heavy metal dall’anima blues, che proietta sullo sfondo l’ologramma dei Black Sabbath e, allo stesso modo, "Saint Or Fool" è un assalto all’arma bianca, che travolge i padiglioni auricolari, con un detonante solo di chitarra.

Il disco si chiude tra le nebbie grunge di "Out Of Time", un brano meno esplosivo, ma egualmente vibrante, in cui l’assolo di Nichols raggiunge vette divine.

Al terzo album in studio, Jared James Nichols sforna la sua opera più riuscita, in cui elementi classici e moderni sono tenuti insieme da una gran tecnica, ma anche, e soprattutto, da un cuore grande così. Ciò che maggiormente piace di un disco che esplora territori ben noti agli amanti del genere è, però, la capacità di Nichols di non scendere a compromessi, di non cercare soluzioni di comodo o compiacenti. Quello che conta è solo far rivivere l’impatto esplosivo del rock ‘n’roll: vibrante, primitivo, selvaggio. Gran disco.

VOTO: 8

Genere: Hard Rock, Rock Blues

 


 

 

Blackswan, mercoledì 22/02/2023

lunedì 20 febbraio 2023

AHAB - THE CORAL TOMBS (Napalm Records, 2023)

 


La premessa è d’obbligo: se siete allergici ai dischi lenti, pesanti e tristi, e se non amate il metal, qui proposto nella sua accezione doom, il consiglio è di saltare questa recensione e passare ad altro; se, invece, siete attratti dall’estremo oppure semplicemente curiosi di misurarvi con una musica ostica alle orecchie dei più, è probabile che The Coral Tombs, nuova fatica dei teutonici Ahab, possa farvi davvero svoltare il mese.

Perché a prescindere dall’evidente bizzarria della proposta del gruppo tedesco, i motivi di interesse sono davvero molti. Sia a cagione della smisurata passione del cantante Daniel Droste per il mare, tema principale delle liriche di tutti i dischi pubblicati finora dalla band, sia per gli intenti di divulgazione letteraria che stanno alla base del progetto, grazie ai quali gli Ahab coniugano musica e letteratura, incuriosendo il lettore verso letture di grande suggestione.

Così, dopo aver creato straordinari concept album di funeral doom basati su romanzi di Herman Melville (l'esordio The Call of the Wretched Sea e il suo seguito The Divinity of Oceans), Edgar Allen Poe (The Giant) e William Hope Hodgson (The Boats of Glen Carrig), era probabilmente inevitabile che la band affrontasse un capolavoro come 20000 Leghe Sotto i Mari di Jules Verne, un romanzo che, se letto da bambini, crea un fantasioso immaginario di calamari giganti assassini e vortici inarrestabili, che dura tutta la vita.

Un romanzo avventuroso e al contempo spaventoso, che si chiude nei gorghi del terribile Maelstrom, e che gli Ahab hanno trasformato in una musica capace di evocare quel terrore crescente in un incubo al rallentatore, che scandaglia nuove profondità di pesantezza e orrore. Più che in qualsiasi altro album precedente, The Coral Tombs rifluisce, scorre, si agita e avviluppa con tutta la potenza dell’inesausto movimento oceanico.

Lente ai limiti della narcolessia e talvolta pesanti, queste canzoni sono tra le più potenti che i tedeschi abbiano mai registrato.

La discesa nell’abisso inizia con "Prof. Arronax' Descent Into The Vast Oceans" (il professor Arronax è uno dei protagonisti del romanzo di Verne), porta d’ingresso sorprendente per questa fantasticheria nautica. Le urla angosciate di Droste, evocano l’incubo che, però, presto si dissolve in una quieta eleganza acustica, prima di esplodere in una nuova ondata travolgente, che tutto consuma. La voce di Droste, sia nel growl che nelle parti pulite è sempre melodrammatica e sopra le righe, e il cantante veste i panni di un narratore fantasma nascosto nella nebbia dell'oceano. Violenza e melodie carezzevoli si fondono verso la conclusiva dissolvenza, dando vita a un episodio maestoso, potente e inquietante.

Decisamente più contenuta per gli standard degli Ahab, "Colossus Of The Liquid Graves" è quanto di più vicino a una semplice canzone metal troverete in scaletta, ma non c’è nulla di ordinario, il mood è nuovamente inafferrabile, le suggestioni virano ancora verso l’inquietudine. Dopodiché, The Coral Tombs flette davvero i suoi muscoli legati alla vorticosa potenza del mare, espandendosi con abbandono psichedelico attraverso le tempeste polverizzanti e le scintillanti oasi di "Mobilis In Mobili", e le atmosfere glaciali e post-rock di "The Sea As A Desert".

I dieci minuti della title track combinano tensione e soavità, mentre l’ampio spettro dell’imponente "Aegri Somnia" suona come un epico omaggio al magma oceanico incombente e minaccioso.

L’inevitabile chiosa intitolata "The Maelstrom" è al contempo onirica e devastante, esattamente come evoca il titolo: i riff muscolari ma intricati degli Ahab si disintegrano in uno sprofondo sbalorditivo, mentre l'oceano, che è focus del brano, turbina e soffoca, avviluppando tutto.

The Coral Tombs è un disco ostico, faticoso, il cui ascolto implica un vero sforzo sensoriale: da ascoltare in cuffia, a occhi chiusi, e immaginare la vastità del mare, percepirne gli odori, lambirne la salmastra superficie. Se lo scopo era evocare le terrificanti fantasie di Jules Verne, il risultato è centratissimo: da un lato, la quiete sconfinata dell’oceano, il solenne sciabordio delle acque, l’immensità di orizzonti che spingono lo sguardo verso l’infinito; dall’altro, le profondità dell’abisso e i limacciosi fondali, il buio che ghermisce e il pericolo che incombe in ogni anfratto. Spiritualità e orrore, la maestosità della natura, che consola, certo, ma sa anche uccidere. Fascinoso, ma non per tutti.

VOTO: 8

Genere: Funeral Doom

 


 


Blackswan, lunedì 20/02/2023

venerdì 17 febbraio 2023

A MESSAGE TO YOU RUDY - THE SPECIALS (2 Tone, 1979)

 


L’esordio degli Specials (The Specials, 1979) vendette molto bene, tanto da entrare nella top ten inglese, raggiungendo la quarta piazza. Fu soprattutto la critica, tuttavia, a sperticarsi in elogi e a infiocchettare il disco per i posteri con recensioni lusinghiere e voti altissimi. Perché questo album, divertente e divertito, è zeppo di idee e di vibrante energia, un’autentica ventata di novità, un ibrido in bianco e nero musicalmente insondabile, che tante band aveva cercato di realizzare, senza però raggiungere queste vette eccelse.

The Specials può, infatti, essere definito come il manifesto della prima ondata dello ska britannico, un genere ispirato allo ska giamaicano degli anni '60, ma rielaborato in base ai gusti e alle sonorità dell’epoca. Una musica, quindi, che condivide l'energia contagiosa e l'umorismo del suono originale, ma inietta rabbia ritrovata e sensibilità punk. Il suono risultante è considerevolmente meno rilassato e "caraibico" rispetto allo ska originale, elimina gran parte delle percussioni e delle sezioni fiati, mettendo in primo piano la chitarra elettrica, che era assolutamente secondaria nell’accezione originale del genere.

Che il legame fra le due culture, a prescindere dalle differenze appena evidenziate, sia strettissimo, è evidente dal fatto che molte delle canzoni dell'album sono cover di vecchie canzoni giamaicane: Monkey Man era stato un successo di Toots & the Maytals nel 1969, Too Hot è la rivisitazione di un brano originale di Prince Buster del 1966, You're Wondering Now era stato originariamente interpretato dal duo Andy & Joey e altre tracce sono rielaborazioni di originali giamaicani, come Too Much Too Young e Stupid Marriage.

Anche la canzone più famosa del lotto, quella che apre il disco, A Message To You Rudy, è una cover di un brano scritto da Dandy Livingstone nel 1968.

La versione originale del brano fu concepita da Livingstone in soli dieci minuti e fu registrata, il giorno dopo, in soli venti minuti al Maximum Sounds Studio di Old Kent Road con l'ingegnere Vic Keary. Il cantante, il giorno della registrazione, si era, però, buscato un fastidioso raffreddore, che gli alterava la voce. Finite le registrazioni, Livingstone non era affatto felice del risultato, e voleva registrare nuovamente le parti vocali; tutti i presenti, tuttavia, lo convinsero che la canzone era perfetta esattamente come era venuta, e ritoccarla avrebbe potuto fiaccarne la veracità. L’unico ritocco al brano avvenne una settimana dopo, quando Livingstone porto in studio il trombonista Rico Rodriguez per fargli suonare la melodia introduttiva. Lo stesso trombonista, tra l’altro, venne reclutato anche degli Specials per la loro versione del brano.

A dispetto dell’andamento giocoso e della melodia uncinante, A Message To You Rudy possiede, in realtà, un significato politico. Livingstone, infatti, scrisse il testo per raccontare il disagio sociale che, ai tempi, viveva la capitale Kingston, una situazione esplosiva che aveva generato parecchi disordini fra i giovani della città, mentre gli Specials adattarono le liriche alla grave situazione socio-economica vissuta in Inghilterra tra il 1978 e il 1979, che culminò in una serie di scioperi che sconvolsero la vita del paese. Ecco spiegato, quindi, anche il significato della parola “Rudy”, che non è un nome di persona, come molti credono, ma che sta, invece, per “rude boy”, un termine giamaicano per indicare i giovani criminali. Il messaggio contenuto nella canzone è così indirizzato a quei giovani facinorosi che, in tempi difficili, scendevano in piazza gettando, per così dire, “benzina sul fuoco”: “Smettila di scherzare, è meglio pensare al tuo futuro”.

Dopo che la canzone arrivò alla decima piazza delle chart inglesi, nel novembre 1979, il gruppo partì in tour per gli States, ma il viaggio fu un completo disastro: nonostante un'apparizione al Saturday Night Live, gli americani rimasero indifferenti alla musica degli Specials. Semplicemente, non la capivano, in quanto mancavano punti di riferimento per comprendere la storia e l’evoluzione di quel suono.




Blackswan, venerdì 17/02/2023

giovedì 16 febbraio 2023

LAURA COX - HEAD ABOVE WATER (earMusic, 2023)

 


Laura Cox ha costruito l’immagine e la carriera partendo da Youtube, piattaforma su cui ha spopolato grazie alle sue genuine e appassionate riletture di classici blues e rock. Una mossa astuta, che le ha garantito visibilità, ma non certo fine a se stessa, visto che la ragazza parigina è artista a tutto tondo, suona la chitarra da Dio, scrive ottime canzoni e quando sale sul palco sa esattamente come surriscaldare la platea.

Questo nuovo Head Above Water è il suo terzo album in studio, il secondo a proprio nome (il primo uscì come Laura Cox Band), ed arriva ben quattro anni dopo il celebrato Burning Bright, quello che fu il disco della definitiva consacrazione. In questo periodo, al netto dei problemi creati dalla pandemia e dell’impossibilità di suonare dal vivo, la Cox non è rimasta, però, con le mani in mano, ha composto, ha affinato la sua tecnica e ha preso lezioni di canto, per potersi migliorare anche sotto questo aspetto, che era forse il suo punto debole.

Oggi, la chitarrista francese è più matura e consapevole, ha sviluppato ulteriormente il suo approccio non convenzionale al genere, che ha entusiasmato tanto la scena francese (ed europea) che quella americana, ma non ha perso un briciolo la sua autenticità, grazie alla vitale energia magnetica dei suoi riff esplosivi e all’amore incondizionato per quelle sonorità classiche mutuate dagli States e rielaborate con gusto personalissimo.

Se Burning Bright era un disco arrembante, diretto, che prendeva a sportellate l’ascoltatore con un impatto sonoro potentissimo da rock in purezza, Head Above Water imbocca anche strade diverse, è più misurato nella produzione e nei suoni, più ragionato negli arrangiamenti, e ciò nonostante non ha perso un grammo della veracità che caratterizza le belle canzoni della chitarrista parigina.

La title track apre il disco sfoggiando un riff stonesiano, rock blues vibrante, connubio fra melodia ed elettricità, un lavoro alla chitarra efficace ma misurato. Sulla stessa autostrada rock blues, proseguono le successive "So Long" e "One Big Mess", la prima più cadenzata e sorniona, la seconda, che ammalia con una breve intro atmosferica, più scattante e sanguigna (e con un assolo da capogiro). Tre canzoni che rappresentano al meglio il tiro a cui la Cox ci ha abituati da sempre, ma che non esauriscono certo un arsenale di gran lunga più vario.

Head Above Water, infatti, più che negli album che l’hanno preceduto, esplora i territori della ballata con risultati eccellenti, grazie a un mix perfettamente equilibrato di melodie uncinanti, airplay radiofonico e una strumentazione (banjo e lap steel) che evoca sonorità roots americane. In tal senso, la malinconica "Old Soul", punteggiata da un godurioso arpeggio di banjo, "Before We Get Burned", perfetta per scorrazzare in pick up tra le strade polverose del Tennessee, e, soprattutto, l’ombrosa "Seaside" e la meditabonda, conclusiva, "Glassy Days", sono espressione di una maturità compositiva che ha trovato oggi la sua più compiuta realizzazione. Brani che, oltretutto, contribuiscono a rendere varia la composizione della scaletta e a stemperare il sacro fuoco del rock che anima canzoni sferraglianti come "Fever" e la dardeggiante "Swing It Out".

Head Above Water è quello che, banalmente, potremmo definire il disco della maturità, la conclusione di un percorso di crescita che ha portato Laura Cox a essere, lei, francese di nascita, una delle più credibili interpreti femminili di un americanissimo rock blues dagli accenti southern e roots. Undici canzoni coese, ben amalgamate, che sanno toccare corde diverse e uscire dalla logica di certi dischi di genere che esibiscono solo muscoli e poco pathos. Tecnica, songwriting, grinta e un po' french touch malinconico che non guasta: ottimo ascolto. 

VOTO: 8

Genere: Rock, Blues, Americana






Blackswan, giovedì 16/02/2023

martedì 14 febbraio 2023

DANCING IN THE STREET - MARTHA & THE VANDELLAS (Gordy, 1964)

 


Quasi tutti gli appassionati conoscono Martha & The Vandellas, ma forse pochi sanno che la leader, Martha Reeves, prima di diventare una stella della Motown, fu assunta dall’etichetta come segretaria, perché, nonostante numerosi tentativi, non era mai riuscita a ottenere un’audizione come cantante. Uno dei suoi compiti era cantare i testi di nuove canzoni e registrarli su nastro, in modo che i cantanti di supporto, quelli che accompagnavano alle armonie il cantante principale, potessero imparare le parole del brano. Fu in questo modo che si fece notare dai dirigenti della Motown, tanto da divenire anch’essa, in breve tempo, una cantante di supporto.

A poco a poco, entrando sempre più nelle grazie dei dirigenti dell’etichetta, Martha li convinse ad assumere le amiche con cui cantava abitualmente, Annette Sterling e Rosalind Ashford, ottenendo anche la possibilità di registrare come trio. Dopo aver supportato Marvin Gaye in alcune delle sue canzoni, la Motown concesse loro di cantare da sole, regalando al trio la hit "(Love Is Like a) Heat Wave".

Il loro maggior successo e autentico marchio di fabbrica, però, fu Dancing In The Street, un brano scritto dai migliori cantautori in forza alla Motown: Marvin Gaye, Ivy Jo Hunter e William "Mickey" Stevenson.

Marvin Gaye aveva registrato una sua versione della canzone, dandole una connotazione quasi jazzy, ma non era particolarmente convinto del risultato. Pensò, allora, di provare a farla registrare a Martha. Fece, quindi, ascoltare il brano da lui registrato alla Reeves, che storse il naso e domandò: ”Posso cantarla nel modo in cui la sento io?”. Quando finì la propria esibizione, tutti rimasero a bocca aperta, prima di esplodere in una sincera standing ovation.

Peccato, però, che l'ingegnere del suono, Lawrence Horn, si era dimenticato di registrare la performance. In seguito, fu la stessa Reeves a raccontare cosa successe: “Ho dovuto cantarla di nuovo. Quindi, la seconda volta che l'ho cantata, ho messo un po' di rabbia perché ho dovuto ripeterla. È stata una performance diretta ed è per questo che il brano suona come se fosse cantato dal vivo. Penso che questo sia il segreto del successo della hit: il fatto che ho dovuto rifarla, e stranamente l’ho rifatta senza errori…”.

C’è anche un aneddoto interessante da raccontare a proposito della bizzarra ritmica del brano. Al produttore, Ivory Joe Hunter, la registrazione era piaciuta moltissimo, ad eccezione della traccia di batteria; voleva più potenza, come se la ritmica prendesse la forza di un vero e proprio urto. Allora, gli venne un’idea, si scusò, andò alla sua macchina e ritornò con un piede di porco. Si sedette su un pavimento di cemento e gridò all’ingegnere del suono: ”fai ripartire il nastro!”. E mentre la canzone passava, Ivory Joe Hunter iniziò a sbattere il piede di porco contro il pavimento di cemento, creando così uno dei ritmi di batteria più definiti e distintivi nella storia del rock and roll.

Il coautore della canzone, Mickey Stevenson, raccontò che l'idea di una canzone sul ballo gli era venuta mentre girava con Marvin Gaye attraverso Detroit. Durante l'estate, la città apriva gli idranti e faceva uscire l'acqua nelle strade, in modo che i bambini potessero giocare e gli adulti rinfrescarsi. E tutti sembravano quasi danzare sull’acqua.

Dancing In The Street fu scritta in un periodo decisivo per il movimento per i diritti civili negli Stati Uniti, e molti afroamericani l'hanno interpretata come un invito a "manifestare nelle strade" di tutte le città menzionate nel brano, Chicago, New Orleans, New York, Filadelfia, Baltimora, Washington, DC e Detroit, tutti luoghi che avevano vissuto periodi di disordini civili e rivolte.

Il messaggio che avevano in testa Marvin Gaye e i suoi amici era, però, un altro. Con quelle semplici parole volevano solo trasmettere gioia e speranza, voleva che tutti ballassero per strada, tutti si rallegrassero e si divertissero molto. La Reeves, a tal proposito, disse: “Marvin Gaye ha diffuso l'amore in tutto il mondo. Quando la suoni, ogni volta, la gente si alza e cosa fa? Balla!".

 


 

 

Blackswan, martedì 14/02/2022

lunedì 13 febbraio 2023

URIAH HEEP - CHAOS & COLOUR (Silver Lining Music, 2023)

 


Una carriera lunga cinquantatre anni e venticinque album in studio è il biglietto da visita di una delle band più longeve e seminali del pianeta. Negli anni ’70, gli Uriah Heep rappresentarono un tassello fondamentale della scena hard e heavy, genere che rileggevano attraverso architetture progressive, un tocco di space rock e lo sguardo rivolto alle tenebre, inanellando un filotto di dischi di livello, tra cui Demons And Wizards (1971), pietra miliare e vertice della loro discografia.

Dopo un ritorno di fiamma negli anni ’80, grazie alla NWOBHM, e a un disco imprescindibile come Abominog (1982), la fama della band lentamente si offuscò, a causa anche dei continui cambi di line up e di una proposta ormai prevedibile e consunta. Eppure, gli Heep non hanno mai smesso di macinare chilometri di note, soprattutto quando, con il cantante Bernie Shaw e il tastierista Phil Lanzon, hanno ritrovato una stabilità che dura ancora oggi e che ha permesso al gruppo di affacciarsi al nuovo millennio con una propria identità artistica.

Oggi, della formazione originale è rimasto il solo Mick Box, mentre sono stati arruolati alla causa Davey Rimmer (basso) e Russel Gilbrook (batteria), due ottimi musicisti che, essendo anagraficamente più giovani, hanno pompato nel suono dosi massicce di energia. E si sente. Perché se già il precedente Living The Dream (2018) era un disco con i contro zebedei, il nuovo Chaos & Colour si candida a essere uno dei migliori dischi hard rock del 2023. Un’esplosione di colori, esattamente come rappresentato nella bella copertina dell’album, insuffla freschezza in undici canzoni prodotte magnificamente da Jay Ruston (uno dei maghi dell’heavy metal) e suonate con una potenza d’impatto che lascia storditi.

Se il suono è quello classico degli Uriah Heep (chiaramente aggiornato ai giorni d’oggi) e lo sguardo è, quasi inevitabilmente, rivolto ai leggendari anni ’70, stupisce, però, come Chaos & Colour riesca a tenersi ben lontano da luoghi comuni e frusti copia incolla: il songwriting è scintillante, la tecnica esemplare, ma mai fine a se stessa, e le belle melodie e gli intrecci vocali si sprecano. Nessuno ruba la scena agli altri, l’approccio ai brani è straordinariamente coeso, la sezione ritmica è funzionale e potente, la voce di Bernie Shaw, nonostante i sessantasette anni, non ha perso un’unghia dell’antico smalto, le tastiere di Phil Lanzon sono pimpanti e avvolgenti, e Mick Box…, beh, lui non ha certo bisogno di alcuna presentazione, tanto il suono della sua chitarra è un’icona nella leggenda.

"Save Me Tonight" è un'apertura strepitosa, un classico Heep trainato dai consueti ritmi galoppanti, che sfoggia un incredibile assolo di organo di Phil Lanzon e una prova vocale di Shaw, che dimostra perché, nonostante la veneranda età, sia ancora uno dei migliori frontman in circolazione. "Silver Sunlight" è un’immersione musicale in antiche atmosfere anni ’70, evocate dall’eccellente lavoro alla chitarra di Box e da un assolo di organo in stile barocco, un altro numero che richiama i classici della band, pur mantenendo un’insospettabile freschezza espressiva.

Nonostante la potenza dei brani, è giusto evidenziarlo, gli Heep non perdono mai di vista il corpo melodico dei loro brani, che raggiunge il suo apice nel ritornello corale di "Hail The Sunrise", un altro episodio Heep vintage, in cui Lanzon accoltella il suo hammond e le armonie vocali si vestono di abiti celestiali. "Age of Changes" si presenta come l’ennesimo marchio di fabbrica della band grazie al suo acuto slancio corale, al ritornello irresistibile e al perfetto interplay fra tastiere e chitarra. Se "Hurricane" è il brano più ordinario del lotto (ma ascoltate come è simbiotico il rapporto fra chitarra e organo), i sette minuti e mezzo di "One Nation, One Sun", che inizia come delicata ballata per pianoforte per poi gonfiarsi di melodramma, sposta la narrazione verso lidi decisamente più progressive, che sono anche il focus principale della seconda parte dell’album, come risulta immediatamente evidente nella successiva "Golden Light", hammond e sintetizzatori a cannibalizzare la melodia, o negli otto minuti della splendida e complessa "You’ll Never Be Alone", in cui riff di pianoforte è da far girare la testa e la dicotomia dolce/ruvido (mamma mia l’assolo disturbato di Box è da urlo) trova, come nei migliori brani degli Heep, la sua perfetta realizzazione.

Breve ma intensa, "Fly Like An Eagle" spinge ancora sul prog (ascoltare l’uso dei sintetizzatori), mentre "Freedom To Be Free", il brano più lungo in scaletta, suona come una canzone a incastro e dallo sviluppo imprevedibile, grazie anche a uno sfavillante corpus centrale, in cui ogni musicista del gruppo si prende la scena (basso e batteria compresi), esibendo una prestanza tecnica da autentico fuoriclasse. L’album si conclude con "Closer To Your Dreams" il cui ritmo galoppante è evidentemente ispirato al loro super classico "Easy Living".

A Chaos & Colour manca un brano istant classic come quello citato, una "Gipsy", o una "The Wizard", e la sua indiscutibile bellezza va apprezzata nell’insieme, nella capacità di far rivivere un suono antico con un’energia che tante giovani band si sognano di notte. Perché suonare l’hard rock classico meglio di così è praticamente impossibile.

VOTO: 9

 


 


Blackswan, lunedì 13/02/2023

venerdì 10 febbraio 2023

DO YOU BELIEVE IN MAGIC - THE LOVIN' SPOONFULL (Kama Sutra, 1965)

 


Nei primi anni ’60, John Sebastian, e Zal Yanovsky facevano parte di un gruppo chiamato The Mugwumps, che riscuoteva un discreto successo, suonando nei club del Greenwich Village. Quando gli altri membri della band, Mama Cass Elliot e Denny Doherty, si trasferirono in California per formare i The Mamas And The Papas, i due superstiti, che non avevano intenzione di dilapidare il credito fin lì raccolto, misero in piedi un nuovo progetto chiamato The Lovin’ Spoonfull, arruolando Steve Boone al basso e Joe Butler alla batteria. L’idea di partenza era quella di imboccare strade diverse e provare a sperimentare. Così Sebastian, che nel frattempo si era concentrato sul songwriting, decise che la band avrebbe usato anche strumenti elettrici, in modo da allontanarsi progressivamente da sonorità più marcatamente folk, per attirare un pubblico più giovane, maggiormente orientato verso il rock.

I Lovin' Spoonful iniziarono a suonare regolarmente in un famoso club del Greenwich, chiamato The Night Owl Cafe, un locale frequentato di beatnik, intellettuali, poeti e giocatori di scacchi, in cui era la musica jazz ad andare per la maggiore. Una notte, durante un loro concerto, Sebastian, guardando tra il pubblico in sala, si accorse di una bellissima ragazza di sedici anni, che continuava a ballare, senza posa, ogni canzone la band proponesse. John e Zal, passarono tutto il concerto a guardare l’infuocata adolescente e a darsi di gomito, senza alcun intento lascivo, ma felici di constatare che la svolta stava avendo successo. Quella ragazza simboleggiava il fatto che il pubblico stava cambiando gusto e che i Lovin’ Spoonful era pronti a sfondare. Ispirato da questa illuminazione, il giorno dopo, Sebastian scrisse di getto Do You Believe In Magic.

Dal momento che il nome della band iniziava a circolare negli ambienti che contano, I Lovin’ Spoonful ricevettero una vantaggiosissima offerta da Phil Spector, che però rifiutarono, perché non volevano essere inghiottiti sotto un’egida tanto importante, che con tutta probabilità non avrebbe concesso loro di essere artisticamente liberi. Scelsero, così, di firmare per una nuova etichetta discografica chiamata Kama Sutra, che pubblicò subito Do You Believe In Magic, il primo di una serie di successi, che includeva Daydream, Did You Ever Have To Make Up Your Mind? e Summer In The City.

La canzone, che compare nell’omonimo album di debutto della band, balzò alla posizione numero nove delle classifiche statunitensi e, successivamente, consolidò il suo status di evergreen nel tempo, in quanto utilizza, nel corso degli anni, in parecchi spot pubblicitari (Mercedes Benz, McDonald's, Burger King, Kohl's, Dash Detergent e Trump Casino), in molte colonne sonore di film, oltre a essere oggetto di numerose cover ( David Cassidy, The Turtles, The Chambers Brothers, John Mellencamp e Dion & The Belmonts e Cher).

C’è un altro gustoso aneddoto legato al brano, che vale la pena menzionare. Alan Merrill, che in seguito sarebbe stato leader degli Arrows e avrebbe scritto la super hit I Love Rock And Roll (portata al successo da Joan Jett), rivela che, giovanissimo, gettò al vento l'opportunità di suonare per i Lovin’ Spoonful e di debuttare proprio con questa canzone. A metà anni ’60, quando il gruppo capitanato da Sebastian e Yanovsky si stava affacciando al mondo della musica, l’amica Laura Nyro gli suggerì di fare un provino la band, che ai tempi cercava un bassista, strumento che Merrill aveva imparato a suonare decisamente bene. Per poter iniziare la carriera da rockstar, però, il giovane Alan avrebbe dovuto abbandonare la scuola, cosa che si rifiutò di fare. Qualche mese dopo, Merrill andò a trovare la Nyro nel dopo scuola, e lei mise sullo stereo il 45 giri di Do You Believe In Magic, lo guardò e sorridendo sorniona, gli disse: "Questo è quello a cui hai rinunciato". Pare che Merrill, a bocca aperta per la bellezza della canzone, sia stato in grado di pronunciare solo due parole “Oh, merda!”.

 


 

 

Blackswan, venerdì 10/02/2023

giovedì 9 febbraio 2023

LIELA MOSS - INTERNAL WORKING MODEL (Bella Union, 2023)

 


Non molto conosciuta alle nostre latitudini, Liela Moss è la frontwoman della rock band dei The Duke Spirit (per ora in stand by), e ha inanellato collaborazioni importanti sia con Nick Cave che con gli Unkle, solo per citarne qualcuna. Internal Working Model è il suo terzo album da solista, e segue My Name Is Safe In Your Mouth del 2018 e l'acclamato Who The Power del 2020, che era un disco compatto, solido e vibrante, punteggiato di qualche ottima canzone, a cui, però, mancava l’intuizione da capogiro, e nel complesso qualche slancio di originalità, pur palesando una produzione quanto mai coesa, e sorreggendosi soprattutto sulla splendida voce della Moss, l’arma vincente che salvava la scaletta dal rischio di cadere nell’anonimato di una certa prevedibilità di fondo.

Internal Working Model registra, invece, un importante passo in avanti nella scrittura e nel suono, è un lavoro di ottima fattura, che esibisce ospiti d'onore del livello di Jehnny Beth, Gary Numan e Dhani Harrison, e sonorità che, pur mettendo al centro della scena i sintetizzatori, abbracciano anche una varietà di influenze folk, pop e orchestrali, che rendono più variegato lo slancio vintage e decisamente distopico con cui la Moss disegna i suoi anni ’80 nell’attuale cornice del 2023.

Internal Working Model è così un album che sarà gradito a chi non smette di collocare il proprio orecchio fra i suoni di quel decennio, pur riuscendo a evitare piatte riproposizioni e suggerendo interessanti spunti a chiunque sia disposto a prendersi il tempo per ascoltare e assorbire le suggestive trame attraverso cui si articola la scaletta. I cui intenti, a concedere un po’ di attenzione alle liriche dell’album, sono chiaramente socio-politici, e nascono dall’idea, decisamente utopica, di una possibile nuova comunità di persone, che si allontani dalla cultura centralizzata e da coloro che si avvantaggiano dello status quo, pensando agli esseri umani come meri esecutori della loro agenda. La volontà è quella di sbeffeggiare e aggredire il capitalismo della sorveglianza e a stimolare l’impulso a distruggere il vecchio, per poi ristrutturare.

La traccia di apertura "Empathy Files" prepara la scena per ciò che verrà: la Moss veste i panni di una novella Kate Bush, la voce possiede un tocco sinistro, le ritmiche sono trascinanti, e gli anni ’80 sono proprio a portata di mano, come nella successiva "WOO (No-one's Awake)", un brano dal suono più pieno, le percussioni tintinnanti e una solida linea di basso che aggiungono colore ai sintetizzatori vorticosi. È quasi pop in alcuni punti, specialmente quando entrano in gioco gli effetti degli archi, ma l'atmosfera oscura delle fondamenta della canzone serve come un costante promemoria del mood dell’album (e dei nostri tempi bui).

Nel singolo "Vanishing Shadows" è ospite Gary Numan e il sigillo sugli anni ’80 è posto definitivamente per uno dei brani più pop (e più contagiosi) del disco, mentre in "The Wall From the Floor", la voce della Moss si fa quasi sofferente per una ballata di grande potenza emotiva.

Jehnny Beth compare come ospite in "Ache in the Middle", un altro dei momenti salienti dell'album, che regala un interplay vocale da brividi sopra un tappeto sonoro ricco e coinvolgente, attraversato da un intenso pathos malinconico. Se "Come and Find Me" si sviluppa su una ritmica martellante, "New Day" si addentra, invece, in territori ipnagogici e trasognati con risultati deliziosi.

L'album volge al termine con "Welcome To It", una canzone che è spinta da un ritmo irresistibile e primitivo, ed è, forse, il brano più facilmente accessibile dell'album. Il terzo ospite di Internal Working Model, Dhani Harrison, si unisce alla Moss per la traccia di chiusura, "Love As Hard As You Can", il cui messaggio, quasi hippy, è un invito ad amare, a prendersi cura delle persone, a trasformare la rabbia in passione e a spogliarsi del denaro e di tutto ciò che rende avidi. E, a sostegno del messaggio, il suono si gonfia, rispetto alle sonorità più contenute della restante scaletta, con pianoforte, basso pulsante, percussioni ed effetti di violino che entrano tutti nel mix. La degna conclusione di un album affascinante, con cui la Moss prende decisamente in mano il suo songwriting, dandogli in modo più deciso una connotazione personale, che precedentemente era un po' mancata.

VOTO: 7,5

Genere: Elettronica, Pop 





Blackswan, giovedì 09/02/2023

mercoledì 8 febbraio 2023

RAM JAM - BLACK BETTY (Epic, 1977)

 


Immaginate un campo di cotone al tramonto. Immaginate gli schiavi piegati da un lavoro infame e da una stanchezza che sbriciola le ossa. Immaginate la disperazione, il dolore, la rassegnazione. Tutt’intorno, solo cotone a perdita d’occhio, e il minaccioso schiocco della frusta. Resta solo la musica a cui aggrapparsi, quelle canzoni meste, cantate con voce profonda, che aiutano a tenere il ritmo, a non mollare, e sono consolazione e lenimento per l’anima.

Una di queste canzoni s’intitola Black Betty, è antica come la sofferenza degli schiavi, e viene attribuita al grande Huddie "Lead Belly" Ledbetter, anche se ci sono alcune registrazioni antecedenti, ed è quindi probabile che il grande bluesman, come spesso faceva, riadattasse materiale popolare appartenente alla tradizione.

Su cosa s’intenda per Black Betty si sono spesi fiumi d’inchiostro e ancora il significato è dubbio. Per alcuni era la frusta, per altri un carro per il trasferimento di prigionieri, per altri ancora, e questa è la versione più accreditata, una bottiglia di Whisky.

Pare, infatti, che "Black Betty", nel 1700, fosse un termine comune per indicare la bottiglia di whisky nelle terre di confine tra l'Inghilterra settentrionale e la Scozia meridionale, e che in seguito divenne un sinonimo di whisky nelle zone interne degli Stati Uniti orientali. Quando nel gennaio del 1736, Benjamin Franklin pubblicò The Drinker's Dictionary sul Pennsylvania Gazette, stilando ben 228 frasi per indicare un ubriaco, una di queste era: "He's kiss'd black Betty". Tra le cerimonie nuziali e le usanze matrimoniali nella Pennsylvania dell’800, pare fosse tradizione che due giovani uomini del corteo dello sposo si sfidassero a correre per una bottiglia di whisky. Questa sfida veniva solitamente lanciata quando la festa dello sposo si trovava a circa un miglio dalla casa di destinazione dove si sarebbe tenuta la cerimonia. Dopo essersi assicurato il premio, denominato "Black Betty", il vincitore della gara avrebbe riportato la bottiglia allo sposo e alla sua festa. Il whisky veniva offerto prima allo sposo e poi successivamente a ciascuno dei suoi amici.

Altri studi, però, portano in direzioni diverse. Nel libro di John A. Lomax e Alan Lomax del 1934, American Ballads and Folk Songs, Black Betty è indicato come l’appellativo che si dava alla frusta che era usata in alcune prigioni del sud. John Lomax, inoltre, intervistò il musicista blues James Baker (meglio conosciuto come "Iron Head") nel 1934, quasi un anno dopo che lo stesso aveva suonato la prima esecuzione registrata della canzone, ed ebbe conferma anche da lui che Black Betty era il soprannome dato alla frusta.

In un'altra intervista fatta da Alan Lomax all'ex prigioniero di una fattoria penale del Texas, tale Doc "Big Head" Reese, è, invece, emerso che il termine "Black Betty" veniva usato dai prigionieri per riferirsi alla "Black Maria", ovvero il carro di trasferimento penitenziario.

Se, dunque, il senso del titolo è tutt’oggi ambiguo, quel che è certo è che la canzone sia stata interpretata, nel corso degli anni, da molti artisti blues (Lead Belly, Iron Head, Odetta, Manfred Mann. Etc.) fino a quando il brano non venne preso in mano dalla band newyorkese dei Ram Jam, che la trasformò in un grande successo commerciale.

La band venne fondata dal chitarrista Bill Bartlett, che aveva militato nei Lemon Pipers, e che più tardi aveva formato una band chiamata Starstruck. Mentre era negli Starstruck, Bartlett ascoltò "Black Betty" nella versione di Lead Belly, se ne innamorò e, quindi, la arrangiò, la registrò e la pubblicò con il gruppo. Questa versione ebbe un successo limitato, ma quando i produttori Jerry Kasenetz e Jeffry Katz a New York costruirono un gruppo, chiamato Ram Jam, intorno alla figura del talentuoso Bartlett, pubblicarono nuovamente la canzone che divenne un successo a livello nazionale.

La versione dei Ram Jam era in realtà la stessa originariamente registrata da Starstruck (anche se modificata in modo significativo per riorganizzare la struttura della canzone), ma, rispetto alla matrice, divenne un successo immediato tra gli ascoltatori e raggiunse la diciottesima piazza nelle classifiche dei singoli negli Stati Uniti e la top ten nel Regno Unito e in Australia. I Ram Jam cambiarono il testo al brano, che nelle loro mani divenne la storia di una donna di colore dell'Alabama che ha un figlio "selvaggio", cosa, questa, che scandalizzò parte dell’opinione pubblica, quella, cioè, progressista, che riteneva il testo razzista e irrispettoso per la gente di colore.

Ad ogni modo, il brano, è diventato comunque un grande successo, e grazie al ritmo aggressivo e potente, oltre a comparire in molti film e serie tv, negli States è utilizzato spesso negli eventi sportivi per pompare la folla e alzare il livello di adrenalina nel sangue.

 


 

 

Blackswan, mercoledì 08/02/2023

lunedì 6 febbraio 2023

RIVERSIDE - ID. ENTITY (InsideOutMusic/Sony, 2023)

 


Id.Entity è un titolo efficace e bivalente. Da un lato, infatti, suggella una scaletta che si presenta all’ascolto come un concept album dedicato all’ingerenza dei social sulle nostre vite, dall’altro, si riferisce, evidentemente, proprio alla band polacca che, giunta all’ottavo album in studio, presenta per la prima volta il chitarrista Maciej Meller come membro permanente, dopo la tragica morte del membro fondatore Piotr Grudziski, avvenuta nel 2016. Un avvicendamento sofferto ma necessario, che modifica per la prima volta in vent’anni una line up che sembrava solida come il granito (gli altri membri sono Mariusz Duda, basso e voce, Piotr Kozieradzki, batteria, e Michal Lapaj tastiere).

In tal senso, Id.Entity è un disco che, per quanto riguarda il suono, non teme di imboccare strade diverse, ed è probabilmente uno degli album più unici e diversificati nella discografia di Riverside fino a oggi. Non una rivoluzione copernicana, però: il suono della band è ancora saldamente radicato in quello speciale ibrido di prog rock e metal che i Riverside hanno perfezionato nel corso di due decenni. Le canzoni raggiungono un ottimo equilibrio tra accessibilità e complessità tecnica, la struttura è ricca, con molteplici variazioni sul tema all’interno dello stesso brano, non mancano le consuete linee melodiche prominenti, anche se mai esplicite, i riff che tanto piacciono agli amanti del metal, gli intricati poliritmi che fanno la gioia dei fan del prog, e il basso, potente ma dinamico, che rappresenta spesso l’ossatura delle canzoni.

Un disco, dunque, che non perde gli elementi famigliari a chi segue il gruppo da tempo, anche se sono evidenti alcuni scostamenti laterali, che spostano il focus dal percorso principale e già battuto. Le nuove canzoni, infatti, sono molto meno cupe e decisamente più ritmate, scrollandosi così di dosso quel denso senso di malinconia che era diventato un tratto distintivo degli album di Riverside, specialmente gli ultimi. Il suono è anche leggermente più metallico e più pesante, riportandoci ai primi episodi della carriera della band. Allo stesso modo, il gruppo sperimenta qui una più vasta gamma di influenze non metal rispetto a qualsiasi altro album precedente, e stupisce così, ritrovare nel brano di apertura, "Friend Or Foe?", un’insidiosa, ma perfettamente riuscita, apertura verso il synth pop anni ’80, tanto che per lunghi tratti sembra quasi di ascoltare una canzone degli a-ah. Ci sono anche riferimenti al neoprog dei Porcupine tree, Anathema e Marillion nella lunga suite "The Place Where I Belong", che evoca però anche scenari settantiani, e in "I'm Done With You", mentre "Self-Aware" abbozza persino, incredibile a dirsi, ritmiche reggae.

Il gioco a incastro è seducente, non c’è dubbio, la perizia tecnica è mostruosa (la ricerca dei tempi in levare di Kozieradzki è un piacere per le orecchie) e l’ampia gamma di influenze così come le avventurose aperture prog rendono vario e intrigante l’ascolto, a cui necessita tempo e pazienza per poter cogliere tutte le sfumature della scaletta.

Per converso, forse, si potrebbe obbiettare che l'album paga pegno alla coesione, mancando di un vero collante, che non siano i testi, a tenere insieme sette canzoni nell’insieme non proprio compatte (la lunga "The Place Where I Belong" per quanto suggestiva dà l’impressione di racchiudere tre canzoni in una). Quando, poi, la capacità tecniche di una band diventano il piatto forte della cena, spesso, quasi inevitabilmente, la tensione emotiva risulta essere marginalizzata, emergendo solo a tratti in tutto il suo stordente pathos (in tal senso l’inusuale "Friend Or Foe?" è un piccolo gioiello di continui palpiti).

Insomma, i difetti ci sono, ma ciò non significa che Id.Entity sia un brutto album. Si apprezza, infatti, il coraggio di Duda di una lucida critica sociale, che pone domande importanti sulla tecnologia in un mondo pieno di fake news che si diffondono sui social media come la peste, piace la capacità di avventurarsi fuori dai consueti territori alla ricerca di nuove forme espressive, e le buone canzoni non mancano di certo. Può essere tuttavia che i vecchi fan possano storcere il naso di fronte a un album che, se non rinnega in toto il passato, cerca, tuttavia, nuove strade da imboccare nel futuro. Una nuova identità, come suggerisce il titolo, per quella che, a prescindere da ogni altra considerazione, resta una band dal livello qualitativo inappuntabile.

VOTO: 7

Genere: Progressive, rock, metal

 


 

 

Blackswan, lunedì 06/02/2023

venerdì 3 febbraio 2023

SAGA - HEADS OR TALES (Polydor, 1983)

 


Quando nel 1981 fu pubblicato il quarto album dei canadesi Saga, Worlds Apart, il singolo principale, "On the Loose", li fece finalmente entrare per la prima volta nella Top 40, raggiungendo la ventiduesima piazza delle classifiche nazionali, nel gennaio 1982, e la ventiseiesima nella classifica di Billboard, nel febbraio 1983. Anche un secondo singolo, "Wind Him Up", andò bene, spinto da una videoclip che ricevette una forte rotazione su MTV.

Qualcosa, dunque, stava cambiando, e finalmente il mondo si era accorto di questi cinque ragazzi, che avevano iniziato a calcare le scene con un omonimo album di debutto, passato praticamente sotto silenzio. Questa inaspettata esposizione mediatica, consentì ai Saga di aprire i concerti dei Jethro Tull durante il loro tour nel Nord America, oltre a vincere, sempre quell’anno, il Juno Award come Most Promising Group Of The Year. Per battere il ferro finchè caldo e cerca di sfruttare al massimo l’onda lunga del successo, i cinque canadesi si misero presto al lavoro per comporre un seguito adeguato del loro best seller Worlds Apart, un disco che permettesse alla band di restare ai vertici delle classifiche e di ampliare le schiere dei propri fan.

Esce così, a settembre del 1983, esattamente due anni dopo, Heads Or Tales, un album che cerca nuovi consensi attraverso un'attitudine più commerciale, ma non per questo meno suggestiva. Il disco, ancora prodotto da Rupert Hine, non replica il successo del predecessore, ma raggiunge, comunque, ottimi risultati di vendita trainato dall'esplosivo singolo "The Flyer" e dal successivo "Cat Walk".  

Nonostante un taglio più mainstream, Heads Or Tales mantiene alto il livello d’ispirazione della band, e la scrittura funziona dannatamente bene, grazie alla perfetta sintesi tra consueto approccio progressive e uno scintillante airplay radiofonico, che abbraccia le nuove istanze sonore legate al coevo movimento new wave. Riascoltato, oggi, il disco risulta inevitabilmente datato, eppure continuano a sorprendere il suono pieno, rotondo e accattivante (che forse lesina un po’ sui bassi, ma poco importa), gli arrangiamenti estrosi e le spiccate doti tecniche di cinque musicisti che sono stati battezzati, e si sente, all’altare del progressive.

Il singolo apripista, "The Flyer", e la successiva "Cat Walk" replicano l’apertura esplosiva di Worlds Apart, sono due siluri lanciati per colpire e affondare. Gli schemi ritmici dei due brani si fondono alla perfezione con la voce di Michael Sadler, grande estensione e timbro vagamente melodrammatico, la chitarra di Ian Crichton dispensa arabeschi con fantasiosa tecnica, la batteria di Steve Negus è tutt'altro che ordinaria (e nel corso del disco si coglierà anche una certa propensione per i tempi in levare), le linee di basso di Jim Crichton sono muscolose ma snelle, e l’uso dei synth da parte Jim Gilmour, che spesso replicano il suono degli ottoni, sono spavaldi, ficcanti e ingegnosi, ma mai ridondanti.

Negus si prende la scena su "The Sound Of Strangers" grazie a un drumming possente che connota l’andamento minaccioso del brano, destinato a diventare ben presto uno dei cavalli di battaglia live della band. "The Writing" è una delle vette del disco, possiede una straordinaria ossatura funky, costruita su favolosi riff di tastiere di Gilmour, e si sviluppa attraverso un tumultuoso crescendo, fino a un ritornello così melodico, da potercisi fidanzare fin dal primo appuntamento. "Intermission" è il brano che resta più legato al decennio in cui è stato concepito, un leggero downtempo costruito su evanescenti tocchi di chitarra e caratterizzato da synth avvolgenti (Jim Crichton, qui, suona il synthbass) e percussioni elettroniche, le cui liriche malinconiche parlano di un uomo che ha sprecato la propria vita e che non è riuscito a esprimere quel potenziale che possedeva fin da ragazzo.

I tre minuti di "Social Orphan", sorretti da una linea di basso potentissima, rappresentano uno scintillante esempio di arena rock, mentre, per converso, suona debole "The Vendetta (Still Helpless)", l'unico punto basso dell'album, la cui melodia, anche se interessante, finisce per perdersi in una produzione che gigioneggia troppo con gli stilemi AOR. Il disco, però, si riprende subito con quella meraviglia intitolata "Scrachting The Surface", grande linea vocale di Jim Gilmour, ritornello fulminante, un suono di synth e batteria elettronica strabiliante, e un grande passaggio strumentale (che evoca i Genesis di Duke), prima del ritornello finale.

Chiude la scaletta un vigoroso funky intitolato "Pitchman", probabilmente il punto più alto dell’intero disco, che palesa, oltre alla consueta splendida melodia, anche tutte le capacità tecniche e la spumeggiante inventiva della band. La seconda parte del brano, infatti, interamente strumentale, è gioia pura per le orecchie, un sali e scendi emotivo sulle montagne russe, che si apre con un favoloso assolo di moog di Gilmour e che, poi, accelera improvvisamente in un turbinio vorticoso di elettricità, in cui la chitarra di Ian Chricton diventa assoluta protagonista.

La versione rimasterizzata del disco, frutto di un ottimo lavoro di cesello fatto da Steve Negus, contiene anche una bonus track, che non aggiunge nulla al disco originale, e cioè "Cat Walk (Unabridged)", una versione estesa dell’omonima canzone in scaletta, che contiene una serie di virtuosismi di Ian Chricton.

Genere: Progressive, Rock

 


 

 Blackswan, venerdì 03/02/2023

giovedì 2 febbraio 2023

SPANISH BOMBS - THE CLASH (CBS, 1979)

 


Quante volte abbiamo canticchiato Spanish Bombs senza pensare al suo effettivo significato, considerandola, almeno per un attimo, alla stregua di una semplice canzoncina orecchiabile? Ed è quasi inevitabile, perchè quella melodia così appiccicosa e immediata fa passare in secondo piano la tragedia storica che si cela fra le note del brano.

Joe Strummer scrisse la canzone durante le sessioni di registrazione di London Calling, e la concepì tornando a casa, dopo una giornata passata ai Wessex Studios di Londra, mentre ascoltava un notiziario radiofonico sugli attentati terroristici dell'ETA agli hotel turistici della Costa Brava. Quella notizia fu la scintilla che fece divampare un vero e proprio incendio emotivo, e quel terribile fatto di cronaca divenne l’abbrivio per tornare con la mente alla sanguinosa guerra civile Spagnola.

Non è un caso che parte delle liriche di Spanish Bombs siano cantate in spagnolo. E, come in altre canzoni dei Clash che contengono inserti di lingua iberica, le parole e le frasi vengono massacrate in modo irriconoscibile. Questo perché spesso i Clash, quando utilizzavano altre lingue, le traducevano semplicemente cercando di ogni parola l'equivalente in inglese, oppure trasponendo semplicemente la frase con la sua struttura inglese. In fin dei conti, erano punk rocker, non studiosi di linguistica, e lo scopo era arrivare diretti alle orecchie di quelle classi proletarie, più aduse a frequentare i pub che a leggere libri di scrittori spagnoli.

Spanish Bombs è una canzone pop rock sbarazzina, spinta da una combinazione di accordi potenti e da un ritornello semplice e accattivante, che racconta però la brutale e sanguinosa guerra civile spagnola, combattuta alla fine degli anni '30, fra fascisti e repubblicani. Un brano che si apre con l’immagine inquietante di "buchi di proiettili nelle mura del cimitero" e che cita il grande poeta Federico Garcia Lorca (ucciso dai fascisti), con un verso (“Oh, per favore, lascia aperta la ventana (finestra in spagnolo, ndr), Federico Lorca è morto e sepolto”) che riprende la sua poesia Addio: ”Se muoio, lascia il balcone aperto!”.

E, poi, il ritornello, cantato in una lingua che i Clash considerano "spagnolo", ma che spagnolo proprio non è:”Spanish Bombs, yo te quiero infinito. Yo te quiero, oh my corazon”.C’è dolore e morte, in questa canzone che fa battere il piede e cantare a squarciagola, e una tristezza infinita dovrebbe pervadere l’ascoltatore quando Joe Strummer, evocando un’altra guerra fratricida, e cioè quella irllandese, canta: “La tomba irlandese era intrisa di sangue, Le bombe spagnole mandano in frantumi l'albergo, la rosa della mia senorita è stata stroncata sul nascere".

Con questo verso il dramma giunge al parossismo, una giovane donna, unico vero amore di un combattente repubblicano, viene uccisa da una bomba, e la sua giovinezza (la rosa) e il sogno di una vita insieme vengono infrante per sempre. La grande letteratura incontra il rock, e per un attimo la musica dei Clash si fonde con il grande romanzo di Hemingway in una combinazione bellissima ma straziante di amore e guerra, di empatia e morte, di romanticismo e inquietudine.

 


 

 

Blackswan, giovedì 02/02/2023