giovedì 28 febbraio 2013

HEAVEN'S BASEMENT - FILTHY EMPIRE

In circolazione fin dal 2008, gli inglesi Heaven's Basement hanno impiegato la bellezza di cinque anni per rilasciare Filthy Empire, a tutti gli effetti il loro album d'esordio. Non che in questi anni siano stati con le mani in mano : oltre a una lunga militanza in piccoli club, che ha loro permesso di crearsi un discreto seguito di appassionati del genere, i nostri eroi si erano già messi in evidenza con un paio di Ep di ottima fattura (Heaven 's Basements del 2008 e Unbreakable del 2001), grazie ai quali si sono conquistati la possibilità di aprire i concerti di gente del calibro di Bon Jovi e Alter Bridge. Eppure, nonostante riconoscimenti di critica e pubblico, gli Heaven's Basement hanno fatto non poca fatica a entrare nel giro che conta. Colpa, soprattutto, dei continui cambi di formazione che ne hanno pregiudicato una più rapida ascesa. Nel 2009, infatti, lascia il bassista Bob Randell, nel 2010 il cantante Richie Hevanz e nel 2011 il chitarrista ritmico Jonny Rocker. Solo l'anno scorso, non senza qualche fatica, la band ha trovato una struttura definitiva ed è riuscita a mettersi seriamente al lavoro per il primo full lenght album della carriera. Disco che, dopo ripetuti ascolti, merita l'attesa e gli sforzi profusi in questi cinque anni. Gli Heaven's Basement fanno proprio l'assunto, mutuato dal gioco del calcio, che il rock, nello specifico molto hard, non è uno sport per signorine. Filthy Empire fila via, dalla prima all'ultima delle dodici canzoni che lo compongono, a una velocità da capogiro: i ragazzi pigiano la tavoletta dell'acceleratore e non guardano in faccia a nessuno. Non disdegnano, certo, qualche gancio melodico, ma tengono alto il livello di sporcizia quel che basta per richiamare alla mente, di quando in quando, mostri sacri come i Guns 'n Roses ( Executioner's Day). Potente e gagliardo, sorretto da bei riffoni di chitarra che rappresentano l'essenza stessa del genere, Filthy Empire è un disco di cazzutissimo hard-rock per appassionati di headbanging ( provate, se ci riuscite, a stare fermi mentre ascoltate Fire,Fire o l'adrenalinica I Am Electric, un titolo un programma).Un gruppo da tenere d'occhio con molta attenzione, soprattutto se nella vostra discografia fanno bella mostra gli album dei Danko Jones, dei Foo Fighters e dei citati Alter Bridge.
 
VOTO : 7,5
 
 
 
 
 
Blackswan, giovedì 28/02/2013
 
 

mercoledì 27 febbraio 2013

TYLER BRYANT & THE SHAKEDOWN - WILD CHILD

Se siete alla ricerca di suoni fighetti e gruppi pseudo-indipendenti che cavalcano l'onda delle mode o se amate vantarvi con gli amici per quelle next big things che fanno tanto curriculum da intenditore, vi conviene fermarvi qui e dedicare il vostro tempo a una lettura più interessante. Ma se nelle vostre vene scorre il sangue del blues e se la chitarra elettrica è pane per i vostri denti, allora drizzate bene le antenne, perchè questo disco vi farà venire l'acquolina in bocca. Tyler Bryant, diciamolo subito, è il nuovo enfant prodige della scena rock-blues americana, tanto che qualcuno si è già scomodato in paragoni, nemmeno troppo peregrini a dire il vero, con il grande Joe Bonamassa (a me ricorda moltissimo anche Johnny Lang, un altro precoce della sei corde ). D'altra parte, nonostante la giovanissima età (ventun'anni), Bryant ha già condiviso il palco con gente del calibro di Eric Clapton, Jeff Beck, Aerosmith (Graham Whitford, secondo chitarrista della band, è peraltro il figlio di Brad Whitford), B.B. King e Lynyrd Skynyrd. Insomma, con un curriculum di questa portata, i presupposti per una carriera luminosa ci sono tutti. Se poi aggiungiamo alle indubbie capacità tecniche del ragazzo anche un discreto piglio compositivo, il gioco è fatto. Wild Child, primo album completo dopo un paio di Ep, è la conferma di tutte le premesse su esposte : un disco brillante ed energico, suonato con la beata ingenuità dei ventenni, che ogni tanto pisciano fuori dal vaso ( Still Young, ad esempio, è troppo radiofonica per avere spessore ), ma compensano le banalità con grinta sincera ed entusiasmo da vendere. Le dodici canzoni di Wild Child, pur muovendosi in territori musicali abbondantemente esplorati, hanno però il merito di rileggere il canovaccio con disarmante passione. Blues elettrico, vampate hard, ammiccamenti southern e qualche deriva melodica alla Bon Jovi sono gli ingredienti principali di un disco che trova i suoi momenti migliori quando Bryant lucida la slide ( Lipstick Wonder Woman, Poor Boy's Dream ) o spinge forte, fortissimo, sull'acceleratore (Fool's Gold, House On Fire ). Niente di nuovo sul fronte occidentale, ma quarantacinque minuti di musica che scorrono via divertenti come pochi. E se il buongiorno si vede dal mattino...
 
VOTO : 7
 
 
 
 
 
Blackswan, mercoledì 27/02/2013

martedì 26 febbraio 2013

Ancora una volta a pezzi

E noi qui, per l'ennesima volta a discutere su come sarebbero andate le elezioni.
Vince il PD, cioè la sinistra.
No, il PD non è a sinistra, a sinistra ci stanno Ingroia e Vendola.
Anzi Vendola no perchè è alleato di Bersani che sostiene la TAV e compra i caccia, e quindi lui no.
Comunque si va a sinistra, Berlusconi è finito, è un patetico mascherone, l'ombra di se stesso, si addormenta alle cerimonie, non lo caga più nessuno.
E non parliamo poi della Lombardia.
Maroni? Un morto che cammina, vuoi mettere Ambrosoli?
Dopo le porcherie di Formigoni e quelle fatte in proprio dalla Lega, figurati chi voterà mai Maroni, potendo eleggere il figlio dell'eroe borghese.
Capito un cazzo come al solito.
E' evidente che queste elucubrazioni sono nient'altro che la riedizione di quelle che io personalmente mi facevo quando avevo vent'anni, quando cioè parlavo sempre e solo con quelli come me, che la pensavano come me, e ne uscivo convinto che Democrazia Proletaria non avrebbe potuto non uscire trionfatrice dalle elezioni con almeno il 70% dei suffragi.
Poi niente di tutto questo succedeva mai e per me era il paese che aveva sbagliato.
E continuiamo ancora oggi.
In un mese, dico un mese di comparsate televisive, Berlusconi ha rimontato tutti, e da soggetto politico morto quale era, oggi è uno dei tre poli con cui fare i conti.
Per me, il più forte dei tre.
Perchè Grillo lo voglio vedere, un conto è andare in piazza a dire che gli stanno sul cazzo tutti e un conto è coprire le cariche.
La coalizione PD-SEL è prematuramente scomparsa, tanto che già si parla di dimissioni di Bersani.
Il PDL, come già detto, è al soldo di un padrone, e per di più di un padrone che ha dimostrato di valere più di tutti i suoi sodali messi insieme.
Quindi, per l'ennesima volta, rassegnamoci, questo è il paese di Berlusconi, gli italiani vogliono Berlusconi, vogliono il suo modo di vivere, il soldo facile, le poche tasse, le zoccole, il Milan che compra Balotelli.
E allora perchè un popolo che vuole queste cose dovrebbe votare a sinistra, Bersani, Vendola o Ingroia che sia?
Io, vi giuro, tutto avrei pensato tranne che al sostanziale pareggio tra PD e PDL.
E meno ancora avrei pensato ad una affermazione così netta di Maroni in Lombardia.
Maroni, porca troia!!!
Ma non sono loro ad essere sbagliati.
Sbagliamo noi, nel pensare presuntuosamente che siccome abbiamo ragione la nostra ragione debba essere per forza riconosciuta come tale da tutti.
E invece occorre lavorare tanto, nelle piazze, nella scuola, sul lavoro tutti i giorni per costruire l'idea di un paese diverso.
Sapendo, comunque, che se ne potrà parlare seriamente solo dopo la dipartita fisica di Berlusconi, perchè a me sembra ormai chiaro che finchè c'è lui l'intero scenario politico italiano dipenderà in ogni caso da lui, in un modo o nell'altro.
Temevo una doppia debacle, nel derby e alle elezioni, e mi ritrovo a consolarmi persando che l'Inter è andata meglio della sinistra, ditemi voi se questa è vita...

domenica 24 febbraio 2013

COVERLAND



NICK CAVETHE MERCY SEATJOHNNY CASH

Quando nel 1988 entra in studio per registrare Tender Prey, Nick Cave sta camminando sull’orlo del precipizio: sarebbe sufficiente un soffio di vento per farlo precipitare nell’abisso. Il male oscuro del rocker australiano si chiama eroina. Fin dai tempi dei Birthday Party, ne assume in continuazione e in quantitavi industriali. Non è l’artista a pagarne le conseguenze ( Cave rilascia un disco più bello dell’altro) ma l’uomo, che è diventato irrazionale, violento, sempre più succube dei propri fantasmi. Quando manca un mese all’uscita del disco, Cave viene arrestato per possesso di eroina (884 grammi!) e condannato a diciotto mesi di reclusione, poi commutati in un periodo di disintossicazione forzata. Sono giorni travagliati e dolorosi, giorni di lacrime e sangue, in cui il cantante combatte una battaglia impari contro l’astinenza e il male di vivere. Ne riemergerà vincitore, raccontando la propria rinascita ( New Morning) e il proprio travaglio interiore nelle dieci canzoni che compongono Tender Prey. Non semplicemente un disco, ma il disco : il percorso dalla tenebra alla luce, da “un letto di malato e insonne”(Garcia Lorca) fino alla speranza della guarigione e della resurrezione. Il sacro e il profano, il divino e il blasfemo, il diavolo che morde forte alla gola con le lusinghe dell’eroina, il giogo dal quale è impossibile liberarsi se non attraverso la misericordia di Dio. The Mercy Seat, il blaterare confuso di un condannato a morte che prende coscienza, nota dopo nota, dei propri peccati, è l’emblema di questa lotta fra il bene e il male (“La mia mano assassina si chiama M.A.L.E. Porta una fascia nuziale che è B.E.N.E. Sono i ceppi dell'eterna sofferenza Che incatenano tutto quel sangue ribelle”). La Sedia Della Pietà rappresenta i due volti della giustizia: quella umana, la sedia elettrica, che elimina fisicamente il criminale in funzione retributiva verso le vittime (“E il trono di misericordia attende/ E credo che la mia testa bruci /E in un certo senso ho una gran voglia/ Di farla finita con questa prova della verità/ Vita per vita/ Verità per verità”), e quella divina, il trono di Dio, che attende l’uomo e forse saprà perdonare (“Nei cieli il Suo trono è fatto d'oro/ E l'arca del Suo testamento è ben custodita/Da quel trono, mi è stato detto/Discende tutta la storia/Quaggiù ci sono soltanto legno e cavi/E il mio corpo va a fuoco/E Dio non è mai lontano”).






Il peccatore Cave, orgogliosamente consapevole e sicuro di inizio canzone (“Occhio per occhio/Dente per dente/E comunque ho detto la verità/E non ho paura di morire”), crolla progressivamente innanzi al tormento del dubbio (“E in certo senso contribuisco/A farla finita con questa distorsione della verità/Menzogna per menzogna/Verità per verità”), fino all’agghiacciante resipiscenza finale ( “Occhio per occhio/Dente per dente/E comunque ho detto la verità/Ma ho paura di avere mentito”).
La canzone venne reinterpretata nel 2000 da Johnny Cash e la cover si trova nell’album “American III: Solitary Man”. Il vecchio Cash, ormai al limitare della propria esistenza (morirà tre anni dopo al Baptist Hospital di Nashville), mette a fuoco la melodia carezzandola di intimismo e trasforma The Mercy Seat in una struggente litania del perdono e in una malinconica riflessione sulla vita e sulla morte. 










Blackswan, domenica 23/02/2013

sabato 23 febbraio 2013

FINALMENTE SABATO !


Il primo concerto acustico di quest'anno avverrà stasera all'interno della rassegna "Finalmente sabato! (e dintorni)".
Nostalgia degli anni '90 ? Il duo La tensione di Violet, composto da Morena d'Elia e Jacopo Grande, si esibirà dalle ore 22 circa a L'OrablùBar, con un repertorio che pescherà a piene mani in quello che venne chiamato il sound di Seattle e fra altri grandi del decennio. Vi aspettiamo numerosi! 
E come sempre, per coloro che non potessero raggiungerci al bar, diretta streaming a partire dalle ore 22.00 circa sul sito dell'Orablù.


Blackswan, sabato 23/02/2013

venerdì 22 febbraio 2013

CAMPAGNA PER LA DIFESA DEL DERETANO



Lo so : siamo così schifati da questa politica che l'idea di tornare a votare ci deprime. Abbiamo letto i giornali o guardato  la tv, per cercare di capire. E probabilmente anche questa volta ci siamo accorti di avere a che fare con le stesse facce, gli stessi maneggioni e le solite balle, contornati da un cafonissimo teatrino di insulti e polemiche che ci ha solo confuso le idee. Eppure, per la prima volta dadecenni, domenica si presenta una possibilità concreta di cambiare le cose, di mandarli tutti a casa e ripartire da zero, con speranza. Vale la pena, credetemi, di vincere lo schifo, e recarsi al seggio. Tanto, peggio di come è andata fino ad oggi è impossibile, ma se dovesse andare bene potrebbe essere una svolta epocale. Quindi, andate a votare !


PS : l'invito, ovviamente, non è rivolto a tutti. Se avete creduto alla bufala del rimborso dell'Imu;se godete ogni volta che sentite parlare B. di condoni e scudi fiscali; se vi siete fatti infinocchiare dal ricatto del voto utile (utile a chi?); se desiderate che un pregiudicato con gli occhialini fashion diventi governatore della Lombardia; se Monti vi sembra un tecnico preparato che lotta dalla parte degli oppressi; se pensate che stare a sinistra significhi difendere il Tav, modificare in pejus l'art.18, fottere i pensionati e i lavoratori dipendenti in nome della stabilità ed essere pronti a governare con Casini e Fini, allora è meglio che ve ne stiate a casa. Avete già dato e ci avete regalato vent'anni di merda. Quindi, domenica, fate altro : i centri commerciali sono aperti e si prospetta anche un'interessante giornata di campionato. 


 


Blackswan, venerdì 22/02/2013

mercoledì 20 febbraio 2013

NICK CAVE AND THE BAD SEEDS - PUSH THE SKY AWAY

Il rischio, quando ci si trova a recensire un disco di Nick Cave, è quello di prenderla alla lontana, come se ripercorrere il cammino tortuoso intrapreso da questo poliedrico artista (musicista, sceneggiatore e scrittore), fosse necessario a comprendere il senso di ogni sua opera. In realtà l'esercizio sarebbe inutile e stucchevole, dal momento che non esiste un filo logico che lega il rock anarcoide dei Birthday Party a un disco introspettivo come, ad esempio, No More Shall We Apart, nè una motivazione che giustifichi il passaggio dal progetto punk-noise dei Grinderman o dalla vivacità di Dig, Lazarus, Dig ! ( ultima prova a nome Bad Seeds ) alle atmosfere sommesse e quasi oniriche di questo Push The Sky Away. L'unica certezza è che Cave procede istintivamente, segue la passione del momento e vi si dedica anima e corpo, senza pianificare le tappe di un progetto che in realtà non esiste. Oggi, il rocker australiano è in palla per il cinema, scrive colonne sonore (Lawless, The Road) e sceneggiature, e condivide questa passione con Warren Ellis, l'influente "seme cattivo" con cui collabora ormai da tempo.(in coppia hanno rilasciato White Lunar nel 2009). Forse in questo modo si può spiegare il senso di Push The Sky Away, un album che suona come un concept dal fortissimo impatto visivo, che suggerisce ed evoca tramite immagini, quasi fosse un lungo piano sequenza in chiave rock. Non un disco semplice nè di facile assimilazione, ma un'opera che, come per un film refrattario al montaggio, richiede all'ascoltatore una predisposizione istintiva alla lentezza e all'elusione poetica.






Le nove canzoni che lo compongono hanno infatti un andamento sommesso, si muovono con passo felpato attraverso atmosfere spesso rarefatte, celando la propria crepuscolare bellezza nell'ipnotica omogeneità di suoni distanti dal "solito" Cave. Le melodie restano infatti sotto traccia, quasi si nascondono ai primi ascolti, per poi essere svelate in tutto il loro nitore da un particolare che inizialmente non era stato colto. Push The Sky Away ha bisogno, forse più di ogni altro disco di Cave, di continue attenzioni : come quando leggiamo una pagina di un romanzo che percepiamo ricca di contenuti, e che torniamo a rileggere più volte perchè la comprensione sia completa, definitiva. Così facendo, scopriamo che queste canzoni, ascolto dopo ascolto, nonostante gli scarni arrangiamenti e l'andamento all'apparenza monocorde, sanno coglierci di sorpresa ed scuoterci, all'improvviso, con le extrasistole di palpiti intensificatisi alla distanza. Silenzi e piene orchestrali, la voce profonda e umorale di Cave, il pulsare trip hop della sonnolenta We No Who U R, l'organo e le voci angeliche della title track, gli accenni di elettronica a convivere con arrangiamenti d'archi, gli echi sinistri dell'immensa Jubilee Street (qui Cave è ai suoi vertici compositivi), il lirismo straziante di Mermaids e i quasi otto minuti di Higgs Boson Blues, in cui il suono inquieto dei Bad Seeds torna a dialogare col ribollire del nostro sangue. Chi saprà avere pazienza e accetterà che lo scorrere del tempo sia metronomo delle proprie emozioni, riuscirà ad ottenere il massimo da Push The Sky Away. Che in senso assoluto non è un disco imprescindibile, ma in soggettiva può creare forte dipendenza.


VOTO : 8





Blacswan, mercoledì 20/02/2013

lunedì 18 febbraio 2013

GENESIS - SELLING ENGLAND BY THE POUND




Quando nel 1980 comprai Duke, i Genesis avevano già dato tutto il meglio o quasi. Quell’'album, partorito dal gruppo ridotto ormai a un terzetto e da tempo orfano di Gabriel, rappresentava una svolta pressoché definitiva : il passato prog-rock sfumava in una lontanissima eco e si apriva per i Genesis una nuova stagione pop- rock, misera di contenuti e per converso assai ricca in termini commerciali. Duke non è in assoluto un brutto disco : qualche buona intuizione (l'’apertura solare di Behind The Lines), alcune scorie del passato (Duke’'s travel e Duke's end), un'’impennata d'orgoglio rock (Turn it on again) e una ballata romantica a firma Collins (Please don’t ask) destinata in seguito a diventare una sorta di leit motiv della produzione del batterista/cantante. Se si vuole invece relativizzare l’'album rispetto alla discografia Genesis, Duke al confronto di ciò che verrà in seguito suona quasi come un capolavoro, mentre è ben poca cosa se paragonato al fascino della grandeur impressionista dell'’era Gabriel. Per quanto mi riguarda, Duke fu, a prescindere da ogni altra considerazione che qui non interessa, il disco che mi fece conoscere i Genesis e che diede l'’abbrivio a un percorso a ritroso durante il quale scoprii e mi innamorai dei vecchi dischi della band. Fra questi, è probabilmente Selling England By The Pound ( "Vendendo l'Inghilterra un tanto al chilo") l'’album a cui sono maggiormente legato e che ancora oggi suscita in me, a ogni ascolto, dolci ricordi di un lontano passato. The Cinema Show a far da colonna sonora a un filarino del liceo, l'’inizio di Dancing With The Moonlight Knight cantato a squarciagola prima di un concerto di Gabriel, il finale della stessa canzone ad accompagnare una passeggiata in centro a Roma al fianco di mia mamma, un pomeriggio trascorso insieme a un amico a imparare a memoria il testo di The Battle Of Epping Forest, per accorgerci poi che ricantarla identica era un'’impresa disperata se non impossibile. A prescindere da questi personali ricordi, è indubbio che Selling England sia un gran disco, anche se ascoltato senza alcun coinvolgimento emotivo, mi sembra leggermente inferiore a Foxtrot e The Lamb Lies Down On Broadway (anche se sono convinto che molti sosterranno che quest'ultimo è un disco troppo ambizioso e cervellotico per essere definito epocale). In quel lotto di canzoni a cui ho dedicato infiniti ascolti, compare infatti anche qualche risibile riempitivo che mortifica la coesione qualitativa del disco. 






La banale More Fool Me cantata da Collins (aveva fatto di meglio in For Absent Friends), nefasto presagio di ciò che avverrà dopo l'’uscita di Gabriel dal gruppo, e After The Ordeal, stucchevole e fine a se stessa, sono dei passi falsi che stridono non poco rispetto al nitore compositivo di cui è imperniato il resto dell’album. Selling England, a prescindere da ogni altra valutazione, resta comunque il disco che meglio rappresenta il percorso artistico dell'era gabrielliana, ed è indubbiamente l'opera che, forse meglio di qualunque altra, ha racchiuso in sè vizi e virtù di quella stagione musicale che i libri di scuola definiscono come prog-rock. Se da un lato, infatti, c'è il tentativo di superare certe convenzioni espressive degli anni '70, cercando la strada della sperimentazione ed elevando la struttura compositiva dei brani a vera e propria scienza architettonica, dall'altro il lavoro "a tavolino" mortifica talvolta la freschezza delle composizioni, cedendo ad orpelli di scontato tecnicismo  e imboccando derive manieriste, nelle quali il linguaggio musicale si va sovrabbondante ed enfatico. Di certo, molte delle canzoni di Selling England vestono l'abito migliore della sartoria Genesis. Nel 1973, il gruppo, che ha un seguito maggiore in Europa (Italia in primis) piuttosto che in patria, cerca il disco della consacrazione definitiva, quello che gli possa aprire le porte del mercato americano (cosa che infatti riuscirà grazie al singolo I Know What I Like). Gabriel e soci vivono una sorta di ultima spiaggia: rilasciare il disco che faccia la differenza, sia in termini di critica che di pubblico, oppure sparire nel fitto sottobosco delle migliaia di band che animano, spesso in modo pessimo, la stagione del prog. Il quintetto quindi entra in studio di registrazione con una consapevolezza maggiore e un approcio alla composizione più maturo e determinato. Non più i tenui pastelli romantici o le sfuriate ruvidissime ( The Knife, The Musical Box, Get'em Out By Friday ) che avevano caratterizzato i precedenti lavori (soprattutto Trespass e Nursery Crime) ma un suono che abbia l'omogeneità del marchio di fabbrica. Ed è probabilmente questa la maggiore novità e l'indiscusso merito di un disco come Selling England: i tempi perfetti e l'equilibrato impasto degli strumenti che si rincorrono come in una staffetta sonora, che si scambiano il proscenio senza confliggere o sovrapporsi, che introducono o sostengono l'istrionico e multiforme cantato di Gabriel, alle prese con testi che si fanno sempre più elusivi e misteriosi. Se nei precedenti lavori il tratto era talvolta acerbo e ingenuo e le canzoni assumevano spesso la forma di romantici acquarelli, brani come Firth of Fifth introducono invece nella musica dei Genesis il concetto di affresco. La sinfonia di colori è perfettamente bilanciata: l'iniziale introduttiva fuga pianistica di Banks che suggerisce il tema portante e quindi il tenue ricamo per flauto di Gabriel che lega l'estasi del silenzio al funambolico crescendo del piano e dell' epica chitarra di Hackett, sono di un equilibrio divino.






Firth of Fifth non è certo un episodio isolato, ma si inserisce in una scaletta di altissima qualità, introdotta magistralmente da Dancing With The Moonlight Knight, la cui struttura, complessa e spiazzante, la dice lunga sullo stato di grazia della band. L'incipit a cappella di Gabriel, la cui enfasi è appena ammorbidita dalla chitarra di Hackett, la progressiva entrata in scena di tutti gli strumenti, il ritmo che accellera e si fa nervoso e spezzato, e poi la catarsi finale, onirica e seducente, rappresentano uno dei vertici della produzione genesisiana. La citata I Know What I Like, che diverrà uno dei cavalli di battaglia dei concerti del gruppo anche post Gabriel, è invece leggera e inebriante, cerca la strada della melodia orecchiabile, punta alla radio e alle classifiche, ma non tradisce una sola nota che sia banale o scontata. Eppure, nonostante I Know What I Like si discosti, anche per durata, dal corpus centrale del disco, il suono della band è talmente compatto e omogeneo che il brano può stare tranquillamente in scaletta, e senza stridere, con The Battle Of Epping Forest, il suo opposto concettuale. In questo caso, è Gabriel a far la parte del gigante per undici abbondanti minuti: il suo cantato istrionico, incalzante e multiforme (si spinge fino alla recitazione in slang cockney), è la colonna portante di una suite, nel quale i sopraffini virtuosismi della band (su tutti il drumming nervoso e dispari di Collins) fanno da sottofondo adrenalinico a un racconto di selvaggia violenza ("I'm breaking the legs of the bastards the got me framed!"). Se la citata After The Ordeal sembra messa lì solo per riempire un vuoto, la successiva, e penultima traccia dell'album, è tra le più belle canzoni del repertorio genesisiano. Scritta a quattro mani da Banks e Rutheford, The Cinema Show è l'ennesima scintillante suite in cui le suggestioni testuali di Gabriel (qui alla prova con un racconto che unisce sensualità, letteratura - The Waste Land di T.S. Elliott - e mitologia - l'indovino Tiresia) si sviluppano su una trama musicale che parte tenue e sognante, per poi esplodere repentinamente, in un crescendo strumentale sovrastato da un lungo e velocissimo assolo di Banks. Chiude l'album Aisle Of Plenty, un minuto e mezzo senza infamia e senza lode, che riprende il tema principale di Dancing With The Moonlight Knight, a sottolineare la struttura circolare del disco e l'intento di omogeneità che lo pervade. Dopo il successo di Selling England By The Pound, la personalità eccessiva ed egocentrica di Gabriel diventa ingestibile e i rapporti all'interno della band vanno progressivamente a deteriorarsi. Ci sarà il tempo per un nuovo capolavoro ( The Lamb Lies Down On Broadway ) e poi l'Arcangelo Gabriele se ne andrà sbattendo la porta. Da questo momento in avanti i Genesis, con Collins al comando in veste anche di cantante, vivranno un lento declino, in cui i dischi buoni (The Trick Of The Tail) si alterneranno a prove incolori (Wind And Wuthering) o addirittura mediocri (And Then There Where Three), fino allo spartiacque di Duke, che condurrà il gruppo al successo commerciale ma anche all'anonimato artistico di un insulso pop-rock da classifica (Abacab).




Blackswan, lunedì 18/02/2013

domenica 17 febbraio 2013

SANREMO CI FA UNA PIPPA !





C’è una bella frase di Walt Disney che tengo stretta al cuore e porto sempre con me, ovunque vada: “ Se puoi sognarlo, puoi farlo ”. L’ assunto sarebbe ineccepibile, se non ci fosse quel verbo “sognare” a rendere tutto estremamente complesso. Già, perché non sempre si ha la forza di sognare e spesso la prudenza usa l’arma della ragionevolezza per tenerci coi piedi per terra e costringerci alla realtà. A volte però capita di condividere lo stesso sogno, che allora diventa più forte e si gonfia come un’onda in piena che travolge ogni ostacolo che gli sbarra la strada. La prolusione, lo so, è un po’ enfatica, ma spiega molto bene come è nato il Controfestival La musica è sempre più blù e come si è potuta realizzare una serata divertente e giocosa come quella di ieri. 





Quando l’amico Lozirion, visionario come non mai, ha pensato che si potesse creare un contest musicale che nascesse e si sviluppasse nel web con il contributo di una “corale” blogger, ho impiegato tre secondi ad abbracciare l’idea e a farla mia. E dal momento che una scintilla è in grado di far divampare un incendio se il vento soffia nella direzione giusta, ho pensato che la finale di questo festival potesse essere reale, che il virtuale del computer e persone in carne e ossa potessero condividere una comune, per quanto bizzarra, esperienza musicale. Il sogno, dunque, stava prendendo forma. Gli amici dell’Orabù (Preside e VicePreside in testa), che quando si tratta di sogni non vedono l’ora di lucidare le ali, hanno detto subito si, tre secondi netti anche loro. 


Poco importa che il Controfestival fosse una scommessa e il rischio di un flop fosse alto : si vince solo se si rischia, e tanto basta. A questo punto, serviva soltanto qualcuno abbastanza pazzo da prendersi carico delle sorti della serata salendo sul palco a presentare l’evento e intrattenere il pubblico. Mica pizza e fichi, insomma. Quando glielo abbiamo chiesto, Giorgio non ci ha nemmeno fatto finire la domanda : ha impiegato meno di tre secondi per indossare il papillon, salire sul palco e travolgere tutti con la sua inesauribile carica di simpatia e umanità. E siccome i sogni sono contagiosi, Silvia e Francesca si sono subito immolate sull’altare del controfestival, inventandosi una performance autoironica da vallette trash che entrerà nella storia dello spettacolo. A tutti loro, a chi si è sbattuto perché la serata riuscisse, voglio dire grazie. Grazie al pubblico meraviglioso che per undici volte di fila ha brandito la paletta come fosse una durlindana colorata; grazie alla mamma di Lozirion che in tempo da record quelle palette ci ha fornito; grazie a Cherotto e al suo genio artistico; grazie a Pablo che è un tecnico audio e video con i controzebedei; grazie a tutti quelli che sono venuti vestiti da rockstar (erano presenti Vasco Rossi, Bob Marley, Angus Young, Lucio Battisti, e la Amy Winehouse più sobria della storia) e agli amici che sono arrivati fin da Bergamo per stare con noi; 


Amy Winehouse e Vasco Rossi
grazie ai blogger presenti in sala ( Pa e Irriverent Escapedes) e a quelli che non sono potuti venire perché influenzati (Metiu); grazie allo Zio Fonta per le pizze squisite sfornate alla velocità della luce e grazie ai ragazzi del bar che si sono fatti un mazzo tanto sgambettando fra un tavolo e l’altro. Ma soprattutto, grazie a voi tutti, amici blogger, che ci avete regalato il vostro sogno, il vostro tempo, la vostra pagina blog, le vostre canzoni e i vostri voti, affinchè l’evento fosse un successo. Se ieri sera settanta persone si sono divertite, hanno riso, sorriso e hanno ascoltato ottima musica, il merito è tutto vostro.  


LA VINCITRICE DELLA CATEGORIA ITALIAN BEST :




LA VINCITRICE DELLA CATEGORIA ITALIAN TRASH :




LA VINCITRICE DELLA CATEGORIA ALTERNATIVE  : 





Blackswan, domenica 17/02/2013