lunedì 26 luglio 2021

JON BATISTE - WE ARE (Universal Music, 2021)

 


Nonostante sedici anni di carriera alle spalle, Jon Batiste si è imposto all'attenzione del grande pubblico soprattutto lo scorso anno, avendo vinto il premio Oscar per la colonna sonora del film d'animazione Soul. La punta dell’icerberg, almeno per quanto riguarda la notorietà, di una discografia che ha prodotto autentici gioielli, quali Hollywood Africans del 2018 e Meditations with Cory Wong del 2020, solo per citare gli ultimi usciti.

C’era dunque molta attesa per il nuovo We Are, un disco che riconferma il talento straordinario del trentaquattrenne songwriter, cantante e pianista originario della Louisiana, musicista legato alle tradizioni più nobili della black music, capace però di rileggere il genere tenendo lo sguardo ben rivolto al presente. We Are, in tal senso, riveste nell’involucro di un suono moderno e scintillante una miscela di soul, r'n'b, hip hop, jazz, rock, gospel e pop, dentro la quale batte un cuore old style irrorato dal sangue blu della devozione filologica.

Il disco si apre con la lussureggiante title track, in cui compare il contributo del St. Augustine High School Marching 100 e Gospel Soul Children: un'affermazione identitaria e sonora positiva che suona come una boccata d'aria fresca, specialmente quando la prima parte funky della canzone sfocia in un outro bandistico e dai cromati accenti gospel. Un inizio fulminante, che racconta di un songwriting capace di scartare dall’ovvio e di arrangiamenti spiazzanti che rendono ogni singola canzone dell’album un mondo da scoprire.

Così il funky della successiva Tell The Truth suona al contempo modernissimo e antico: il groove travolgente, il tiro della batteria e della sezioni fiati, la voce roca di Batiste a evocare il fantasma di James Brown. E siamo solo all’inizio di un viaggio breve, ma che rapisce grazie a un fascino e a un carisma che solo pochi eletti possiedono.

Cry è un ballatone strappa mutande dal retrogusto malinconico, che fonde soul e rock in quattro minuti di assoluta perfezione. Roba da tenersi stretti ai braccioli del divano per non cedere al capogiro emotivo. I Need You è puro bop, rimbalzante e trainato da una melodia effervescente, in cui cantato rap, ritornello irresistibile e il call and response, a evocare la tradizione gospel, creano un unicum che stordisce. Whatchutalkinbout, con Batiste che rappa come un califfo è divertimento allo stato puro (qualcuno ha detto Outkast?), Boy Hood (con PJ Morton e Trombone Shorty) parla alle nuove generazioni con un caldo abbraccio fra hip hop e soul, Adulthood (presente la Hot 8 Brass Band ) è una caramella miele e liquerizia che accarezza il palato, Show Me The Way, con il featuring della scrittrice Zadie Smith, apre una finestra con vista su un pop soul acchiappone che non avrebbe sfigurato in un disco degli Style Council. E potremmo continuare senza sosta a raccontare tutta una scaletta che non ha un punto debole, ma possiede un armamentario emotivo e un’intrigante intelligenza che lascia a bocca aperta per la sorpresa ad ogni singola nota.

We Are è un album stellare, capace di fondere un ricco bagaglio tradizionale a sonorità modernissime, dimostrando che Batiste conosce a menadito gospel classico, soul, jazz e funk, tanto quanto il pop e l'hip-hop degli ultimi due decenni. Un livello di semplicità disarmante, poi, e un sublime genio tecnico trasformano We Are in un disco che dovrebbe essere ammirato sia per la sua musicalità e l'intricato songwriting che per la capacità di adattarsi perfettamente alla musica contemporanea di oggi, a dimostrazione che Batiste è impareggiabile nella sua creatività, che lo rende artista senza tempo, anello di congiunzione fra epoche e sensibilità diverse. La stessa classe di Kendrick Lamar, Black Pumas, Fantastic Negrito e Gary Clark Jr., con una marcia in più. Capolavoro.

VOTO: 9 




Blackswan, lunedì 26/07/2021

venerdì 23 luglio 2021

JOHN SMITH - THE FRAY (Commoner Records/Thirty Tigers, 2021)

 


Nato e cresciuto in Gran Bretagna, John Smith è ormai un artista apprezzato a livello internazionale, grazie a sei dischi che hanno avuto ottimi riscontri di pubblico e critica, e grazie, soprattutto, ha una serie di collaborazioni di prim'ordine, che l'hanno visto suonare al fianco di musicisti del calibro, tanto per citarne qualcuno, di Joan Baez, Jackson Browne, David Gray e Tom Jones.

Questo nuovo, e settimo full length, che è stato prodotto dallo stesso autore insieme a Sam Lakerman presso i Real World Studio di Peter Gabriel e che vede la collaborazione del pianista Jason Rebello (Sting, John Mayer), del bassista Ben Nicholls (Seth Lakeman, Nadine Shah), del batterista Jay Sikora (Paolo Nutini) e di Jessica Staveley-Taylor dei The Staves, è stato scritto e concepito durante il periodo del lockdown e risente per buona parte delle sensazioni di incertezza e di angoscia di quel lungo periodo di sofferenza.

Eppure, la musica di Smith, pur riflettendo lo smarrimento di quei giorni bui, riesce comunque a mantenere una dolcezza e un ottimismo di fondo che portano lenimento a tante anime ferite. Il suo folk screziato di pop, il suo tocco alla chitarra tanto tecnico quanto suadente, il suo timbro vocale costantemente aggraziato, seducente e caldo, raggiungono con facilità il cuore e l'anima di chi ascolta, lasciando addosso una piacevole sensazione di tenerezza.

Canzoni sulla perdita e il disagio, ma anche canzoni che parlano di speranza e amore, con semplicità, convinzione e autenticità. Dodici quadretti avvolti da cura artigianale, intimi e delicati, compongono una scaletta che sembra stringere l'ascoltatore in un abbraccio rassicurate, come a proteggerlo da tutto il dolore che lo ha circondato durante la brutale pandemia.

A dar man forte a Smith, tanti ospiti che arricchiscono di bellezza e sensibilità una proposta musicale di grande intensità: Eye To Eye con Sarah Jarosz è stato il secondo singolo pubblicato, Star-Crossed Lovers con Lisa Hannigan è a dir poco favolosa, ma ci sono anche la title track, che vede la presenza dei The Milk Carton Kids, e The Best Of Me che gode della performance al contrabbasso del leggendario Bill Frisell. Gemme tra le gemme di un disco che sarebbe un vero peccato lasciarsi sfuggire.
 
 

 
 
Blackswan, venerdì 23/07/2021

giovedì 22 luglio 2021

JOE BONAMASSA - NOW SERVING ROYAL TEA LIVE FROM THE RYMAN

 


Esiste al mondo musicista più prolifico di Joe Bonamassa? La domanda, per quelli che seguono e conoscono il chitarrista di New Hartford, è ovviamente oziosa, e la risposta è uno scontato: no. Basta dare una rapida occhiata su wikipedia per rendersi conto delle innumerevoli pubblicazioni rilasciate dal musicista americano negli ultimi anni, con la particolarità, peraltro, che i dischi dal vivo superano in numero quelli in studio. Tanta carne al fuoco, però quasi sempre cotta a puntino: la qualità è mediamente alta, anche perchè Bonamassa, ogni volta, s’inventa qualcosa di nuovo, e, pur mantenendo una chiara linea artistica e un suono che è un marchio di fabbrica, cerca sempre di spostare il baricentro della narrazione per rendere più variopinto il proprio mondo. 

Questo nuovo Now Serving Royal Tea Live From The Ryman vede il chitarrista alle prese con il materiale di Royal Tea poco prima che il disco fosse pubblicato. Si tratta, dunque, di un live, suonato nella storica location del Ryman di Nashville in totale assenza di pubblico, dal momento che il concerto, trasmesso in streaming, ha avuto luogo il 20 settembre del 2020, in piena pandemia. Ciò nonostante, e nonostante anche l’infortunio del batterista Anton Fig (frattura della caviglia), sostituito per l’occasione da Greg Morrow, Joe e la sua band non si risparmiano e danno vita a un’esecuzione vibrante e coinvolgente, proprio come si trovassero di fronte a un auditorium traboccante di folla. Per la performance al Ryman, sono state selezionate nove canzoni tratte da Royal Tea e tre canzoni da A New Day Yesterday, l’album d’esordio del chitarrista, che nel 2020 festeggiava vent’anni dalla pubblicazione.

Come abbiamo detto, il solito batterista Anton Fig si è perso lo spettacolo, ma la band composta dall’immenso Reese Wynans (tastiere), Michael Rhodes (basso), Greg Morrow (batteria), Rob McNelly (chitarre), Jade MacRae (voce), Danielle De Andrea (voce) e Jimmy Hall (arpa/voce) ha offerto una spettacolo impeccabile.

Già, perché con una band così al proprio fianco, a Bonamassa basterebbe inserire il pilota automatico per portare a casa un grande risultato. Invece, come al solito, il chitarrista mette al servizio del pubblico tanta grinta e una tecnica a dir poco mostruosa. I brani, anche quelli più complessi, come When One Door Opens, Why Does It Take So Long To Say Goodbye e Beyond The Silence, vengono eseguiti con una perfezione estrema che può persino confondere un ascoltatore ignaro che si tratti di un'esibizione dal vivo. Tecnica, si, ma anche tanto cuore: Royal Tea è un disco pervaso da un’energia talvolta traboccante, la stessa che si respira in questa esibizione, che si abbatte sugli ascoltatori con la potenza di un fiume in piena.

Insomma, lo si potrà anche attaccare per l’eccessiva prolificità, ma alla fine Bonamassa ha quasi sempre ragione lui: tanti dischi, certo, ma anche un guizzo, un’idea, una novità che rende ogni uscita appetibile non solo ai fan, ma a tutti quelli che amano il rock blues e la chitarra elettrica. Senza ovviamente dimenticare la notevole caratura tecnica e la grande passione che Joe mette in tutto quello che fa. Promosso a pieni voti anche questa volta.

VOTO: 8

 


 


Blackswan, giovedì 22/07/2021

mercoledì 21 luglio 2021

PREVIEW

 


Joan Wasser aka JOAN AS POLICE WOMAN ritorna sulle scene con il nuovo singolo “Take Me To Your Leader”, una chiamata alle armi da parte di una musicista unica e incredibilmente talentuosa.

“Take Me To Your Leader” è la prima anticipazione dell’album The Solution Is Restless, scritto e registrato insieme a Dave Okumu dei The Invisible e al leggendario batterista Tony Allen poco prima che venisse a mancare.  

Sull’album, Joan racconta: “Damon Albarn mi ha presentato Tony Allen, la leggenda dell’Afrobeat, nel marzo 2019 in occasione dell’evento di Africa Express “The Circus” e abbiamo legato subito. Io e Tony abbiamo suonato una nostra versione di “I Wish I Knew How It Would Feel To Be Free” di Nina Simone e abbiamo deciso di registrare insieme. Poi ho chiesto a Dave Okumu, grande musicista e mio vecchio amico, di unirsi a noi da Londra e abbiamo passato una serata del novembre di quell’anno a improvvisare in uno studio parigino.

Quando il mondo si è fermato, ho ripreso quelle registrazioni per dar vita a un album intitolato The Solution Is Restless. Il primo singolo “Take Me To Your Leader” è il brano più furioso e provocatorio fra tutti. L’ho scritto mentre guardavo Jacina Ardern, Primo Ministro della Nuova Zelanda, affrontare il 2020. Nel mio mondo ideale, gli Stati Uniti avrebbero richiesto un incontro con lei per capire come governare al meglio il Paese. ‘Take me to your leader/ cause Im ready to play/ cant hold my breath any longer/ word on the street is shes a healer/ Im know Im down to obey/ and dont we need a break in the chaos’”.

Il video è stato creato con le immagini della fantastica fotografa di strada Chloe Pang (@chloecpang), post-prodotto da Shimmy Boyle e diretto da Katherine Helen Fisher di Safety Third Productions. Sul suo lavoro, Chloe rivela: “il mio intento è quello di incoraggiare le persone a focalizzarsi sui piccoli momenti, quelli più intimi e genuini”. Qui abbiamo cercare di enfatizzare i legami, e pensiamo che il risultato finale possa essere un ottimo punto di partenza per una riflessione sui rapporti umani in questo preciso momento. 

In quest’anno così particolare che ci ha costretti a rallentare o addirittura a fermarci, Joan ha continuato a scrivere e pubblicare musica. Ha collaborato con Damon Albarn nel nuovo album dei Gorillaz Song Machine, pubblicato il suo secondo album di cover Cover Two e il suo primo live album, intitolato appunto Live, ed è anche apparsa sull’album di Afel Bocoum Lindé.

Tony Allen è stato il batterista e direttore musicale di Africa ’70, la band di Fela Kuti, dal 1968 al 1979, nonché uno dei co-fondatori del genere Afrobeat. Fela una volta ha detto che “senza Tony Allen, l’Afrobeat non sarebbe esistito” e Brian Eno lo ha descritto come “forse il più grande batterista di tutti i tempi”. Oltre ai molteplici traguardi raggiunti e alle numerosissime collaborazioni, negli ultimi anni Tony Allen si era unito a Damon Albarn, Paul Simonon e Simon Tong formando i The Good, The Bad & The Queen.

Dave Okumu è meglio noto come il frontman della band The Invisible premiata ai Mercury Prize e ultimamente ha anche annunciato l’album solista Knopperz in arrivo a settembre.

 


 

 

Blackswan, mercoledì 21/07/2021

martedì 20 luglio 2021

AMERICAN SKIN (41 Shots) - BRUCE SPRINGSTEEN (COLUMBIA RECORDS, 2001)

 


41 colpi di pistola rimbombano nella notte. Esattamente 41, non uno di più, non uno di meno. E’ il 4 febbraio del 1999. Ahmed Amadou Diallo ha 22 anni, è immigrato dalla Guinea a New York per motivi di studio e si mantiene facendo il venditore ambulante: commercia in cappelli, guanti e altre cianfrusaglie. Sono le 23.30, quando rientra nel suo appartamento al 1157 di Wheeler Avenue nel Bronx, dopo una massacrante giornata di lavoro. I suoi coinquilini sono andati a dormire.

Diallo ha fame e in frigorifero non c’è nulla. Decide, allora, di uscire a comprare qualcosa da mettere sotto i denti. Sotto la sua abitazione, quattro poliziotti del NYPD - Sezione Crimini Stradali stanno facendo dei controlli di routine. Si chiamano Edward McMellon, Sean Carroll, Kenneth Boss e Richard Murphy. Stanno cercando un presunto stupratore, che pare sia stato avvistato nei paraggi. Diallo è appena uscito dal suo portone, quando i poliziotti gli intimano l’alt: è nero e somiglia incredibilmente all’identikit del ricercato.

Le forze dell’ordine puntano le pistole e urlano al ragazzo di esibire i propri documenti. Ahmed infila una mano in tasca. In pochi secondi, vengono esplosi 41 colpi di pistola, non uno di più non uno di meno. Sono diciannove i proiettili colpiscono Diallo, che muore all’istante, mentre gli altri crivellano il muro, l’ingresso del palazzo e danneggiano il salotto dell’appartamento a piano terra. Sul marciapiede, vicino al corpo martoriato di colpi, in una pozza di sangue, viene rinvenuto un portafoglio. Contiene i documenti che Diallo voleva esibire e che invece i poliziotti avevano scambiato per un’arma.

Il 25 febbraio del 2000, dopo svariati processi, tutti e quattro gli agenti incriminati vengono prosciolti da ogni accusa. Secondo i giudici si è trattato di una tragica fatalità. Bisogna aspettare due anni, e finalmente, nel 2002, i familiari di Diallo vengono risarciti in sede civile, mentre la Sezione Crimini Stradali della Polizia di New York fu soppressa.

Un vicenda terribile, che mette in discussione i valori fondamentali a cui è ispirata la democrazia americana. E’ questo quello che pensa Bruce Springsteen, che rimane tanto scioccato dalla triste vicenda di Diallo, da volerne scrivere una canzone.

Così, quasi nell’immediatezza dei fatti, il Boss compone American Skin (41 Shots), dolente tributo allo sfortunato ragazzo e atto d’accusa nei confronti della brutalità della polizia.

Le struggenti noti di tastiera accompagnano un testo che richiama esplicitamente i fatti (E’ una pistola, è un coltello, è un portafoglio? Questa è la tua vita, Non è un segreto, nessun segreto, amico mio. Puoi essere ucciso solo perché vivi nella tua pelle americana) e quelle due parole, 41 shots, ripetute all’infinito come un doloroso mantra, attirarono contro Springsteen l’ira dei Repubblicani, del dipartimento di Polizia e dell’allora sindaco di New York, Rudolph Giuliani, che ebbe a dichiarare, testuali parole: “C'è ancora gente che sta cercando di creare l'impressione che gli agenti di polizia siano colpevoli".

La canzone venne inizialmente suonata solo dal vivo, prima di trovar posto in Live In New York City del 2001 e poi in High Hopes (2013) in una definitiva versione in studio.

 


 

 

Blackswan, martedì 20/07/2021

lunedì 19 luglio 2021

JEAN - CLAUDE IZZO - CHOURMO, IL CUORE DI MARSIGLIA (Edizioni E/O, 2021)

 


«Mi dicono a volte che i miei libri sono neri e pessimisti, ma il più bel complimento che spesso mi hanno fatto è dirmi che quando si finisce di leggerli viene una maledetta voglia di vivere».
Jean-Claude Izzo

 

Montale, il protagonista della trilogia noir di Jean-Claude Izzo, ha lasciato la polizia e cerca di vivere secondo un’antica filosofia del suo paese, seguendo il ritmo lento del mare, andando a pesca, sedendo al bar con gli amici per una partita di belote o una discussione politica, sorseggiando un vino rosato e gustando la cucina provenzale della vecchia Honorine... Perché «di fronte al mare, la felicità è un’idea semplice». Ma Marsiglia, il Mediterraneo, non sono solo i luoghi possibili di un’arte del vivere bene; sono anche focolai di odio e di violenza. E Montale viene risucchiato in un’indagine (non più in divisa) che parte dall’omicidio di un suo cugino adolescente e lo porta dritto dritto negli interessi mafiosi sul porto della città, negli ambienti razzisti del Fronte nazionale, nei traffici d’armi degli integralisti islamici.

Chourmo, uscito per la prima volta nel 1996, è il secondo capitolo della trilogia che vede come protagonista Fabio Montale, ed è il seguito dell’iconico Casino Totale, uscito l’anno precedente. Montale, che ha lasciato la polizia, si mette alla ricerca del figlio della cugina, sparito misteriosamente, dopo essere scappato di casa. Quando scopre che il ragazzino è stato ucciso, l’ex poliziotto inizia a dipanare la complessa matassa dei rapporti fra Fronte Nazionale, terrorismo islamico e malavita organizzata, che lo porterà a scoprire una terribile e inquietante verità.

Anche in questo caso, è l’elemento noir a dare l’abbrivio a un romanzo, la cui trama gialla è solo un pretesto per indagare sull’animo umano, sulla società e su scottanti temi, sempre d’attualità, come l’integrazione e il razzismo. Jean Claude Izzo non è un giallista, o almeno, non solo: i suoi intenti sono altri, più profondi.

C’è, in primo luogo, una citta da raccontare, quella Marsiglia in cui lo scrittore ha vissuto tutta la vita e con cui aveva instaurato un profondo legame fatto di amore e d’odio. Marsiglia, una meravigliosa città portuale che, che riesce ancora a regalare angoli a dimensione d’uomo e rapporti interpersonali saldi, veri e sinceri, tenuti in piedi attraverso il collante del Chourmo, una parola che significa destino condiviso, reciproco aiuto, identità e molto altro. La Marsiglia del vino buono, del pesce fresco, delle tradizioni nate dall’intreccio di culture e dal meticciato, la Marsiglia del mare a perdita d’occhio, testimone silenzioso, affascinante e distante, delle miserie umane, rifugio dal dolore e ipotesi di fuga.

E poi, c’è la Marsiglia delle periferie, crocevia del traffico di stupefacenti, una polveriera pronta a esplodere, in cui violenza, razzismo e morte, sono all’ordine del giorno e rubano le aspettative e il futuro di adolescenti confusi, smarriti, privi di speranza. E’ questo ciò che davvero conta per Izzo: raccontare l’uomo nelle difficoltà, suggerire una possibilità d’integrazione e schierarsi al fianco dei più deboli.

Con lo sguardo romantico e malinconico, e una prosa asciutta, acuminata e profonda, Izzo fa del suo Montale (marsigliese, ma di origini italiane) un eroe schivo e depresso, popolare e progressista, vittima delle stesse contraddizione della città in cui vive, ma capace sempre, nonostante le conseguenze, di tenere dritta la barra dell’umanità e dell’empatia. Montale è un meraviglioso perdente, che lotta nonostante la consapevolezza della sconfitta, che accetta con rassegnazione e un filo di cinismo il proprio destino, ma che non smette mai di schierarsi al fianco dei più deboli. E’ possibile cambiare il mondo? No, è il messaggio pessimista di Izzo: nessuna speranza e nessun futuro. Tuttavia, vale la pena provarci, perché è ciò che facciamo per gli altri a dare un senso alla nostra esistenza e a giustificarla.

Se ne è andato troppo giovane, Jean Claude Izzo, lasciando un vuoto incolmabile nella letteratura francese e nel cuore di tanti lettori. Un autore di culto, che ancora pochi conoscono, e che invece meriterebbe di essere assurto nel novero dei più grandi autori del ‘900. Se amate le letture di spessore, correte a leggere i suoi romanzi: traboccano d’amore e di vita, quella vera.

Blackswan, lunedì 19/07/2021

venerdì 16 luglio 2021

THE SHINS - OH, INVERTED WORLD (Sub Pop, 2001)

 


Nati dalle ceneri dei Flake Music, originari di Albuquerque (Nuovo Messico) ma successivamente di stanza a Portland (Oregon), i Shins (nella formazione originale: James Mercer, voce e chitarra, Marty Crandall, basso e tastiere, Neil Langford, basso, Jesse Sandoval, batteria) esordiscono, il 19 giugno 2001, con Oh, Inverted World, un disco, che ne suoi vent’anni di vita, ha acquisito l’aura di opera di culto e spinto la band, con il placet della stampa specializzata, ai vertici delle gerarchie dell’indie pop americano.

E non certo per caso, visto che le loro canzoni, così eccentriche, sghembe e fantasiose, che guardano e raccontano la fragilità del un mondo e di esistenze cronicamente incasinate, suonavano (e suonano ancora) argute e originali. Una musica apparentemente di assoluta semplicità, che non si prefigge obiettivi rivoluzionari, una musica esuberante ma struggente, rinfrescante, esilarante e immediatamente accessibile, che, tuttavia, ricompensa l'ascoltatore regalando piccole e deliziose scoperte ad ogni singolo ascolto.

Ma andiamo con ordine. Formatisi nel 1996 in uno dei posti più improbabili per la nascita di una rock band di successo, Albuquerque in New Messico, gli Shins (a quei tempi, solo James Mercer e Jesse Sandoval) nacquero come progetto parallelo del loro gruppo già affermato Flake Music. Alla fine i Flake furono messi in ombra dal nuovo corso e si sarebbero poi sciolti nel 1999. Nel 1998 agli Shins fu, invece, chiesto di aprire per gli amici Modest Mouse, ed è durante quel tour che furono notati e messi sotto contratto dall'etichetta Sub Pop Records, con sede a Seattle. L’inizio, questo, di una relazione reciprocamente vantaggiosa, visto che la Sub Pop fornì alla band capitanata da Mercer il trampolino di lancio per la celebrità e i The Shins rianimarono le vendite di un’etichetta, che aveva da tempo esaurito i suoi giorni migliori.

Inizia così un periodo particolare difficile per James Mercer, mente pensante della band, che si trovò catapultato da Albuquerque a Seattle, che cambiò radicalmente vita, chiudendo anche una lunga relazione amorosa, che si staccò dagli affetti e dalle abitudini, chiudendosi in una sorta di isolamento per comporre e perfezionare il materiale del disco, con la sensazione che tutto stesse andando in fumo, prima ancora di veder pubblicata una sola nota.

Preoccupazioni risultate, poi, infondate, visto che Oh, Inverted World vendette la bellezza di 100.000 copie in due anni, quando le proiezioni di vendita della Sub Pop si attestavano sulle 10.000. Il successo vero, però, arrivò nel 2004, quando due canzoni dell'album (New Slang e Caring Is Creepy) furono inserite nella colonna sonora de La Mia Vita a Garden State, stralunato film millenial diretto e interpretato da Zach Braff al fianco di un’incantevole Natalie Portman. Il film mise sotto i riflettori la musica degli Shins, un melange colorato da suoni lo-fi e melodie sghembe, da pop, rock, psichedelia e folk, da luminosi barbagli di sole e da un sottile fil rouge di delicata malinconia. Una musica che potrebbe definirsi quasi revivalista, visto le tante influenze provenienti dal passato (The Beatles, The Zombies, The Beach Boys, The Smiths, per citarne alcune), se non fosse che tutte quelle citazioni trovano il loro perfetto punto di fusione all’interno di una miscela seducente, un po' moderna e un po' retrò, che, in fin dei conti, appartiene solo ed esclusivamente al talento di Mercer.

Oh Inverted World è un album così bello che sembra quasi impossibile possa essere il debutto di una band di egregi sconosciuti, capace di raggrumare in soli trentatre minuti un arsenale melodico che lascia senza fiato. Il disco inizia con Caring is Creepy, e basterebbe questa per rendersi conto della caratura del songwriting del leader: riff di chitarra asciutto ed efficace, drumming claudicante, sbuffi di hammond e melodia solare per accompagnare, invece, un testo che parla dell’angoscia di vivere, della nostra incapacità di incidere sugli avvenimenti dell’esistenza, quasi fossimo pedine nelle mani di un supremo che si prende gioco della nostra finitezza.

Ed è solo l’inizio di un percorso tanto breve quanto irresistibile: la malinconica One By One All Day strizza l’occhio alla psichedelia e a Brian Wilson, Weird Divide, ispirata al trasferimento di Mercer a Seattle e ai cambiamenti incorsi nella sua vita, fa rivivere Simon & Garfunkel in una dimensione pop fluttuante a mezz’aria, Know Your Onion! è irresistibilmente sbarazzina, pur raccontando le incertezze e le paure dell’adolescenza, la pimpante Girl On The Wing con il suo incedere quasi funky e il retrogusto anni ’60 possiede un pungente sapore agrodolce, e la traccia finale, The Past and Pending, acustica e appena scossa da un suadente corno francese, è la conclusione commovente di un disco fantastico.

Restano da dire due parole anche su New Slang, in assoluto la canzone più famosa del repertorio dei Shins. Un brano che cattura tutti i crucci della nostra epoca, e la cui melodia riecheggia l'inquietudine di canzoni di Simon & Garfunkel come Sounds of Silence, apparentemente dimesse eppure visivamente potenti nel raccontare quanto caduche siano la vita e la felicità e quanta insoddisfazione proviamo nel momento in cui ce ne rendiamo conto. Tre minuti e cinquantun secondi di autentico struggimento, oscillante fra languori nostalgici e picchi di arresa malinconia, una canzone che da sola vale una carriera e che si è conquistata un posto nell’Olimpo tra le più emozionanti melodie degli anni ’00.

Oh Inverted World apre agli Shins la strada del successo e della popolarità ma è anche il primo passo verso la disgregazione interna: nel 2012, dopo altri due album di successo e una pausa di cinque anni, la line up degli Shins si è ridotta al solo Mercer, che continua in solitaria facendosi affiancare dal produttore Danger Mouse, con cui dà vita anche al progetto Broken Bells.

In attesa del nuovo e auspicato nuovo capitolo della carriera di Mercer, vale davvero la pena riscoprire questo esordio, che nel 2021 compie vent’anni di vita e torna a essere pubblicato, previa rimasterizzazione, sia in cd che in vinile. Imperdibile, per chi ama l'indie pop.

 


 

 

Blackswan, venerdì 16/07/2021

mercoledì 14 luglio 2021

BLACKBERRY SMOKE - YOU HEAR GEORGIA (Thirty Tigers/Legged Records, 2021)

 


Che il southern rock, nel corso del tempo, sia cambiato è un dato di fatto. Dal suo periodo di massimo splendore negli anni '70, con artisti del calibro di Lynyrd Skynyrd, The Allman Brothers, Blackfoot e ZZ Top, il genere ha visto le proprie peculiarità scolorire ed è stato per buona parte assorbito dal country. Fortunatamente, ci sono ancora band, là fuori, che lo tengono in vita, inclusi, dal 2001, i Blackberry Smoke, i cui album, anche se li puoi trovare nelle classifiche country, sono rock sudista in tutto e per tutto. Il loro settimo disco, You Hear Georgia, conferma tutte le cose buone che abbiamo sempre scritto e pensato a proposito della band, che si ripresenta in straordinaria forma, con un lavoro ancora più southern rispetto al suo predecessore, Find a Light del 2018, che aveva virato un po' nel territorio dell'alt-rock.

La prima traccia Live It Down si apre con un riff di chitarra sgangherato, ruvido, bluesy e sudista, e tira fuori un groove quasi funky, aprendo il disco come meglio non si potrebbe. E’ questa la matrice di la scaletta, che prende anche direzioni diverse, certo, ma che suona tutta esattamente come si apre: verace, sanguigna, ricca degli afrori e dei profumi della Georgia evocata nel titolo, che sanno di sentito omaggio e incondizionato amore verso la terra natia. Merito anche del produttore Dave Cobb, autentico genietto del sound made in America, che tratta la materia con autentica maestria e accuratezza filologica, regalando alla band un suono vintage, eppure autentico e incredibilmente fresco.

Se la title track è ruvida come l’opener, All Rise Again martella le casse, virando verso un hard blues pesante e muscolare (ci sono anche la voce e la chitarra del super ospite Warren Haynes) e All Over The Road spinge il piede sull’acceleratore di un rock’n’roll adrenalico in derapata slide, la band capitanata da Charlie Starr sa anche creare ballate avvolgenti come la bucolica Old Enough To Know, luminosi mid tempo country rock come la meravigliosa Ain’t The Same, saltellanti divertissement (Hey Delilah) e lentoni country dal sapore outlaw (Lonesome For A Livin’, con Jaime Johnson come ospite).

You Hear Georgia è disco pimpante e orgogliosamente sudista, legato alle radici, certo, ma che esprime uno stile immediatamente identificativo e che fotografa al meglio una band che sta scrivendo pagine importanti di un suono che è duro a morire, nonostante tutto.

Se tutto andrà bene, dovrebbero arrivare in Italia a febbraio del prossimo anno: il nostro consiglio è di non perdervi il loro ruggente live act. In attesa, salite in macchina, abbassate il finestrino e, capelli nel vento, godetevi questo ottimo disco, che sembra scritto apposta per puntare l’orizzonte di questa calda estate italiana.

VOTO: 7,5

 


 


Blackswan, mercoledì 14/07/2021

martedì 13 luglio 2021

EVA CASSIDY - LIVE AT BLUES ALLEY/NIGHTBIRD (Blix Street Records, 1997)

 



Eva Cassidy se ne è andata prestissimo, a soli trentatre anni, proprio quando il fiore del suo luminoso talento stava sbocciando in tutta la sua rigogliosa meraviglia. I greci antichi dicevano che chi muore giovane è caro agli Dei: affermazione, questa, che se da un lato aveva un intento consolatorio verso chi aveva prematuramente perso un affetto, dall’altro sottintendeva qualcosa di più importante. L’idea, cioè, che una bella morte in giovane età (la valenza del gesto estetico, peraltro, contribuiva all’accrescimento del mito) strappava l’individuo all’oblio e lo consegnava definitivamente all’eternità del ricordo e della leggenda. Era la poesia degli eroi, che nell’antichità contribuì, ad esempio, a nutrire il mito di Achille, e che, rapportata alla musica rock, ambito nel quale il dato iconografico e la letteratura sono fondamentali, potrebbe valere, ad esempio, per raccontare la fine di uno a caso dei deceduti appartenenti al numeroso club dei 27. Ciò che gli dei riservarono per Eva Cassidy, invece, sembra più il frutto di un ordito malvagio, che il desiderio di consacrare un immenso talento artistico a fama imperitura. Eva nasce a Washington il due febbraio 1963 e, come molto spesso accade, è spinta alla musica dal padre, con cui iniziò a esibirsi molto giovane in piccoli club della città. L’asticella, però, si alzò solo più tardi (1986), quando la Cassidy fu notata dal produttore Chris Biondo, il primo a intravvedere in lei doti interpretative non comuni. Il gruppo con cui esordì, la Eva Cassidy Band, la collaborazione con un mito del funk, Chuck Brown, e un disco, The Other Side, con lui realizzato nel 1992, furono il trampolino di lanciò per una carriera che, però, stentò a decollare. Tanto che la Cassidy, come succede a molti musicisti alle prime armi, non smise di esercitare la professione di infermiera, che le consentiva di sbarcare il lunario. Poi, sul finire del 1995, arriva la svolta che, davvero, potrebbe cambiare il corso degli eventi. Eva molla il lavoro e con l’aiuto di Biondo, organizza due serate al Blues Alley di Washington (il 2 e il 3 gennaio del 1996), un piccolo localino jazz, che, nonostante le feste natalizie, rimase aperto per l’occasione. 

 L’intenzione è quella di pubblicare un disco con il meglio tratto dalle due esibizioni. Il fato, tuttavia, si accanisce con la Cassidy: la registrazione della prima serata va perduta per problemi tecnici; quella della seconda serata, che confluirà in Live At Blues Alley, vede, invece, la Cassidy non in perfette condizioni fisiche, causa un fastidioso raffreddamento. Sarà. Ma quando Eva sale sul palco e inizia a cantare si aprono le porte del Paradiso. Perché la Cassidy, come più di un critico non ha avuto esitazioni ad affermare, è stata la più grande cantante di tutti i tempi. Basta ascoltare questo unico, e sfortunatissimo esordio (il disco fu, ai tempi, un flop commerciale), per rendersi conto di quanta duttilità fosse dotata la sua voce impossibile, capace di rileggere e interpretare senza tentennamenti e con gusto originale ballate soul da svenimento (People Get Ready di Curtis Mayfield), standard jazz già passati attraverso ugole importanti (Autunm Leaves, Check To Check, What A Wonderful World) e hit del pop contemporaneo, come Fields Of Gold di Sting. Eccola lì sul palco, Eva, infreddolita e intabarrata, chitarra acustica o elettrica tra le braccia, e una voce possente che cerca con forza lo spazio circostante fino a riempirlo tutto, raggiungendo un’estensione concessa solo alle più grandi di sempre. E non è un caso, a tal proposito, che la Cassidy venga spesso paragonata a Aretha Franklin, anche se, per lo straordinario eclettismo e il triste epilogo della propria vita, azzarderei un accostamento con un’altra straordinaria cantante americana, Laura Nyro, la quale, guarda caso, morì nel 1997, proprio l’anno successivo la dipartita della Cassidy. Già, perché Eva Cassidy, se ne andò per un melanoma nel 1996, senza riuscire a vedere la pubblicazione dell’album che, sperava, avrebbe potuto finalmente farla entrare nel firmamento luminoso dello star system. 


Tre anni dopo, è il 1999, gli Dei, forse pentitisi del grande torto fatta alla musica e a quella povera e appassionata cantante, decisero nuovamente di mettere mano al destino e di cambiare il corso degli eventi. E da qui, nasce un’altra storia, una storia a cui nessuno crederebbe, se non ci fossero inoppugnabili dati alla mano a dimostrarlo. E’ una fredda mattina di novembre, quando Fred Taylor, proprietario dello Scullers Club, un locale dove si suona musica jazz dal vivo, mentre sistema le sue cose, mette sul piatto Songbird, uno raccolta postuma della Cassidy, pubblicata l’anno prima. Ascolta la prima delle canzoni in scaletta, la cover di Fields Of Gold di Sting, e quasi sviene dall’emozione. “Stavo lì a studiare le mie carte e sono rimasto incantato - racconta Taylor al Boston Globe - mi sono fermato, ho mandato indietro il pezzo e ho ascoltato con attenzione tutto il disco, traccia per traccia. Me ne innamorai e decisi che dovevo assolutamente trovarla per farla suonare nel mio locale". Eva però non c’era più, era scomparsa tre anni prima, senza essere riuscita a portare la propria musica fuori dagli angusti confini di Washington. "Quando mi dissero che era morta nel '96 mi disperai - ricorda Taylor - pensai che nella mia carriera mi avevano entusiasmato molti artisti, avevo scoperto anche qualche talento, ma 'Autumn Leaves' come la cantava lei, mi dava delle emozioni mai provate prima". Taylor allora chiamò un amico che lavorava alla WBOS-FM, una radio locale di Boston, consigliandogli il disco, e fu così che Songbird trovò spazio con sempre più frequenza nelle programmazioni radiofoniche, suscitando fra gli ascoltatori un incontenibile entusiasmo. Il nome di Eva Cassidy cominciò allora a circolare negli ambienti che contano e Songbird scalò le classifiche di mezzo mondo, raggiungendo la prima piazza delle charts britanniche e preparando terreno fertile all’ascesa di quel fenomeno planetario che prenderà il nome di Amy Winehouse. 

A fine 2015, è uscito l’ennesimo disco postumo (Nightbird) che, però, a differenza di tanti altri pubblicati dopo il successo di Songbird (pecunia non olet), ha il merito filologico di recuperare l’intero concerto tenuto nel 1996 dalla Cassidy al Blues Alley. Le canzoni, originariamente dodici, diventano quindi trentuno, e gli inediti assoluti sono ben otto (nel box set è contenuto anche un artigianale dvd in bianco e nero che documenta la serata). Il livello di questi brani, recuperati dall’oblio, resta comunque mostruoso, come testimoniano la cover di Something’s Got A Hold On Me di Etta James e un’incredibile Ain’t No Sunshine di Bill Whiters, solo per citarne alcune. Cresce così il rimpianto di non aver visto all’opera questa straordinaria soul woman morta prematuramente, che oggi avrebbe solo cinquantadue anni e sarebbe stata in grado di mettere in fila tutte le Adele del pianeta. Vallo a spiegare agli Dei cosa ci siamo persi.

 


 

 

Blackswan, martedì 13/07/2021

lunedì 12 luglio 2021

MOBY - REPRISE (Deutsche Grammophon, 2021)

 


Grazie a un album come Play, uscito nel 1999, e al successo che ne è derivato, Moby avrebbe potuto vivere di rendita tutta la vita. Invece, l’eclettico dj/produttore ha continuato a scrivere canzoni che hanno attraversato due decenni, e ha esplorato, nel corso degli anni, numerosi spazi sonori che l’hanno fatto approdare a quest’ultimo Reprise, un disco che rilegge il meglio del suo repertorio, riproposto in chiave orchestrale e acustica. Quattordici brani in scaletta, che provengono da Play, ovviamente, ma anche dall'altro successo mainstream di Moby, 18 del 2002, e poi, ancora, da Hotel del 2005, Innocents del 2013, dall'omonimo debutto del 1992 e da Everything Is Wrong del 1995.

È solo un piccolo assaggio del variegato mondo musicale di Moby, eppure, grazie all’ottimo lavoro in fase di arrangiamenti e alla presenza di svariati ospiti, alcuni noti, altri meno, Reprise possiede una propria coerenza e vitalità, e sembra davvero abbracciare con esaustività la trentennale carriera del musicista newyorkese.

Un disco che si muove su un terreno acustico, a volte quasi intimo, ma non per questo privo di enfasi ed energia. E’ il caso, ad esempio, di Why Does My Heart Feel So Bad (da Play) e, ancor di più, di Lift Me Up, trainata da un basso pulsante e avvolta dal respiro profondo degli archi: un brano trasfigurato, ma ancora vivo e in salute, che ha perso il suo battito sintetico, sostituito da quello, non meno vivido, del cuore.

Sono rivisitazioni davvero azzeccate, quelle di Moby, riletture che trasformano brani arcinoti in qualcosa di estremamente eccitante, che piacerà, ne sono sicuro, anche ai fan della prima ora. In tal senso, l'orchestrazione dalla Budapest Art Orchestra possiede un ruolo che non può essere affatto. Si pensi all’opener Everloving, una delle gemme di Play, introdotta anche qui dalla chitarra acustica, ma poi rivisitata, nel suo incedere lento e magniloquente, attraverso il suono di un violino e di un pianoforte scintillanti, entrambi poi sostenuti dalla potenza evocativa degli archi.

La successiva Natural Blues, forse il brano più noto di Moby, abbraccia una nuova vitalità: entrambe le versioni sono esplosive, ma in modi diversi, perché se l’originale era simile a un mantra ipnotico, questa versione suona più gioiosa, grazie anche ai contributi vocali dei cantanti jazz Gregory Porter e Amythyst Kiah, che aggiungono stuzzicanti spezie gospel a un piatto già di per sé saporito.

Go, il primo successo datato 1992, è qui rivisitato in salsa afro-caraibica e indirizzato verso un mood quasi cinematografico, che sostituisce l’allegria dell’originale con un cupo epos contemplativo. Nonostante un viaggio lungo trent’anni per vestire nuovi abiti, la canzone non risente minimamente del tempo trascorso, anzi sembra freschissima, come fosse stata scritta ieri. E gioca ancora col cinema, Moby, riproponendo la splendida Extreme Ways, colonna sonora della serie dedicata a Jason Bourne. In questo caso, gli archi sintetici sono sostituiti da quelli veri e i beat sono scomparsi in favore di una chitarra acustica dal sapore quasi folk: una versione, questa, che surclassa decisamente l’originale.

La performance del pianista islandese Víkingur Ólafsson mette in risalto il mood sinfonico di God Moving Over The Face Of The Waters (da Everything Is Wrong del '95), canzone, questa, stilisticamente simile all'originale, anche se decisamente meno sintetica. Ed è splendida anche la rilettura in chiave jazz di We Are All Made Of Stars (da 18), trainata dal pianoforte e punteggiata dall’inusuale, per il jazz, suono del violino.

La vetta del disco, e suo cuore emotivo, è però la splendida The Lonely Night, cantata in duetto da Mark Lanegan (già presente nella versione originale) e Kris Kristofferson, il cui vocione grave conferisce al brano un’inedita profondità da far tremare le vene dei polsi. A sorpresa, compare anche una cover di Heroes di David Bowie: una versione lenta e struggente, cantata da Mindy Jones, che non sfigura di fronte all’originale.

Chi pensava a Reprise come un’operazione meramente commerciale, al pari di un disco di cover, si dovrà ricredere, perché se è vero che la maggior parte di queste canzoni sono assai note, è altrettanto vero che il lavoro di restauro da parte di Moby le ha trasformate in qualcosa di diverso, che suona intenso ed emozionante. Non un disco riempitivo, dunque, ma una nuova, imperdibile, tappa di una carriera straordinaria.

VOTO: 8

 


 

Blackswan, lunedì 12/07/2021

venerdì 9 luglio 2021

(SING IF YOU'RE) GLAD TO BE GAY - TOM ROBINSON (EMI, 1978)

 


(Sing If You’re) Glad To Be Gay è una canzone urgente, militante e, purtroppo, ancora attuale. Già, perché il brano, scritto da Tom Robinson nel 1976, presente nell’Ep Rising Free (1978) e poi inserito nella stampa americana del suo leggendario Power In The Darkness (1978), racconta, più o meno, anche l’attualità dei nostri tempi bui, in cui l’omofobia e le violenze nei confronti di coloro che, l’ipocrita morale perbenista considera “diversi”, sono all’ordine del giorno.

In quegli anni, l’ondata punk sta scuotendo l’Inghilterra, e Robinson, che ha già pubblicato un disco, è considerato uno dei musicisti più interessanti della sua generazione, tanto da guadagnarsi presto un contratto con la Emi. Power In The Darkness, il suo secondo disco, esplicita i suoi intenti barricaderi sia nella copertina (un pugno chiuso giallo su sfondo nero) che nei testi delle canzoni, in cui il songwriter, originario di Cambridge, si schiera apertamente contro il fascismo, il perbenismo e lo sfruttamento e l’oppressione delle minoranze. Il disco, grazie a canzoni come Too Good To Be True, Up Against The Wall e la title track, scala le classifiche inglesi e vende bene anche fuori dai confini britannici, Stati Uniti e Giappone compresi. Ma sono due canzoni, soprattutto, a far parlare di Tom Robinson, nessuna delle quali, strano a dirsi, compare nella prima edizione dell’album: 2-4-6-8 Motorway, che scala le charts fino al quinto posto, e Glad To Be Gay, la cui pubblicazione nell’Ep Rising Free scatena un autentico vespaio di polemiche.  

La prima versione del brano, che diviene fin da subito l’inno del movimento di liberazione omosessuale inglese, contiene un esplicito riferimento a Peter Wells, un gay rinchiuso in prigione perché sorpreso durante un rapporto consenziente con un diciottenne. Infatti, all’epoca se per gli eterosessuali l’età consentita per i rapporti sessuali era di 16 anni, per i gay era invece di 21 (i Bronski Beat, qualche anno dopo, intitolarono il loro disco più famoso proprio The Age Of Consent). Quel riferimento, manca, invece, nella versione definitiva, che inizia con una dichiarazione introduttiva, una dedica salace all’Organizzazione Mondiale della Sanità, che fino al 1990 ha ricompreso l’omosessualità nell’elenco ufficiale delle malattie planetarie:” Questa canzone è dedicata all’Organizzazione Mondiale della Sanità, è una canzone sulla medicina e riguarda una malattia la cui classificazione secondo la Classificazione Internazionale è 302.0.”

Le liriche sono ironiche, dissacranti, e al contempo inneggiano alla militanza, invitano a rendere pubblica la propria condizione omosessuale e a manifestare per i propri diritti civili.

La prima strofa è un attacco frontale e senza mezzi termini alla polizia inglese che negli anni ’60 e ’70 era tristemente nota per accanirsi contro i gay, anche in virtù del 1967 Sexual Offences Act”, in base al quale l’omosessualità, tollerata come fatto privato, era criminalizzata se manifestata pubblicamente.

La polizia inglese è la migliore del mondo, non credo neanche a una di quelle storie che ho sentito, di quando hanno fatto irruzione nei nostri pub senza ragione, e hanno messo i clienti in fila al muro. Hanno scelto gente a caso e li hanno spinti a terra, a resistere all’arresto distesi mentre li prendono a calci, e hanno perquisito le loro case chiamandoli froci.” Violenze all’odine del giorno, violenze immotivate, una persecuzione feroce e senza senso che Robinson denuncia, mettendosi faccia a faccia con una intoccabile istituzione britannica.

Nella seconda strofa, Robinson si concentra sull’ipocrita società inglese, che non solo tollera, ma ritiene anche normale che tette e culi femminili vengano esibiti sulle prime pagine dei più famosi rotocalchi (The Sun), salvo poi gridare allo scandalo per un qualsiasi nudo maschile.

Le foto delle ragazze nude sono divertenti su Esquire e Playboy, a pagina tre del Sun, ma i ragazzi nudi sono corrotti e osceni, ed è per questo che stracciano solo le nostre riviste. Leggi come siamo disgustosi secondo la stampa, sul Telegraph, su People e sul Sunday Express, molestatori di bambini, corruttori della gioventù. E’ scritto nero su bianco, dev’essere vero”.  E’ ancora l’ironia a rendere graffianti le parole di Robinson, che sono caustiche e arrabbiate, ma contengono anche un amaro retrogusto di tristezza.

Perché è inevitabile che se la stampa punta l’indice verso gli omosessuali, e confonde artatamente l’indirizzo sessuale con il reato di pedofilia, chiunque può sentirsi in dovere di malmenarti, di picchiarti a sangue ogni volta che incrocia la tua strada: “Non cercare di farci credere che se sei riservato sei completamente al sicuro, quando passeggi per strada. Non hai neanche bisogno di essere volgare o fare commenti malevoli per essere picchiato e lasciato incosciente al buio. Avevo un amico tenero e bassino, era solo, una sera, ed è andato a fare un giro.
I picchiatori di finocchi l’hanno preso e gli hanno spezzato i denti. E’ stato in ospedale una settimana
.”

E’ l’ultima strofa, la più arrabbiata, quella con cui Robinson invita al coming out e alla lotta, chiama alle armi i gay che si nascondono, sferzandoli a uscire dall’ombra e a combattere per i loro sacrosanti diritti: “Allora siediti tranquillo a guardare mentre chiudono i nostri club, ci arrestano perché ci incontriamo e fanno irruzione in tutti i nostri pub. Assicurati che il tuo ragazzo abbia almeno ventun anni…Menti ai tuoi colleghi e racconta frottole alla tua gente, lascia stare le checche e racconta barzellette omofobe. La liberazione gay è assurda, e ridi con loro: ‘Sti froci ora sono anche legali, che vogliono ancora?”

In pochi hanno avuto il coraggio di scrivere in modo così diretto e intelligente su una condizione di emarginazione che, nonostante il successivo progresso, trova ancora società e governi recalcitranti ad accettare leggi che tutelino e integrino l’omosessualità nel tessuto sociale. Una battaglia ancora in atto, che trova in Glad To Be Gay le parole giuste per sensibilizzare le coscienze e scardinare l’ipocrisia, il razzismo e le posizioni retrive e reazionarie di una Chiesa ancorata a valori medioevali.

Canta, se sei felice di essere gay. E cantiamo tutti, se siamo convinti che un mondo più giusto è possibile, che la libertà è per ogni essere umano, a prescindere dal colore della pelle e dai gusti sessuali, se crediamo fortemente in un mondo in cui ciò che conta è solo ed esclusivamente l’amore. Cantiamo tutti, gay e non, contro l’immonda feccia discriminatoria e razzista.

 


 

 

Blackswan, venerdì 09/07/2021

giovedì 8 luglio 2021

BENJAMIN MYERS - ALL'ORIZZONTE (Bollati Boringhieri, 2021)

 



Inghilterra, 1946. Nell’estate successiva alla conclusione della Seconda guerra mondiale, Robert, sedici anni, decide di trascorrere un periodo in piena libertà a contatto con la natura, prima di cominciare il lavoro in miniera cui è destinato.Dopo qualche giorno di cammino, diretto al mare, si imbatte nel cottage di Dulcie, una donna già avanti con gli anni, eccentrica, colta, burbera, accogliente. In cambio di lavori al capanno nel suo giardino – un capanno usato in passato da una misteriosa artista – Dulcie gli offre ospitalità. Quell'inattesa generosità segna l'inizio di un'amicizia improbabile ma saldissima, che cambierà il futuro già tracciato di entrambi. Al giovane Robert, le conversazioni con Dulcie apriranno un nuovo mondo, fatto di scambi sul cibo, sulla natura, sui viaggi e sull’importanza delle parole, soprattutto scritte. Presto, Robert si avvicina, come ci confida, «a essere me stesso e non la persona che fino ad allora avevo interpretato», mentre Dulcie prova a venire a patti con il suo passato, riscoprendo nuove ragioni di vita.

All’Orizzonte è un romanzo semplice, di quelli che si leggono in un fiato, lineare nello svolgimento e prevedibile negli intenti. Un piccolo libro, se vogliamo, esile nella trama, adatto a tutti, ai giovani e ai meno giovani, categorie ben rappresentate dai due protagonisti della vicenda e dalla delicata storia di amicizia che li lega.

Eppure, Myers è capace di trasformare queste duecento trentotto pagine in un’esperienza emozionante, che racconta e suggerisce riflessioni importanti, che obbliga il lettore a indagare la propria anima alla ricerca di risposte sui temi decisivi dell’esistenza.

All’Orizzonte è innanzitutto una storia di amicizia tra un giovane uomo, alla ricerca di se stesso e del senso della propria vita, e un’anziana donna, colta, arguta e anticonformista, che ha perso lo sguardo sul futuro e la speranza. Fra i due s’instaura un rapporto simbiotico che si trasforma in un reciproco scambio fra vasi comunicanti: la donna introdurrà il giovane Robert ai piaceri della tavola e della lettura, e aprirà il suo limitato sguardo sulla bellezza del mondo, il ragazzo restituirà a Dulcie quell’entusiasmo e quell’allegria che un passato doloroso le ha tolto.

Se è vero che i due protagonisti del racconto mancano di approfondimento psicologico e si fanno esclusivamente strumenti nella mano del narratore necessari a incarnare due universi, apparentemente confliggenti, che entrano in contatto fra loro, è altrettanto vero che Myers riesce ad avvincere il lettore con dialoghi intelligenti e salaci, che sono il vero punto di forza di un romanzo che ha tante cose da dire e le dice bene, in modo asciutto e senza retorica.

Che, ad esempio, il tempo passa inesorabile, e che, se lo lasciamo fare, ci porta via tutto; che dobbiamo avere il coraggio di uscire dalle gabbie, talvolta dorate, delle nostre esistenze, e liberarci dalle catene delle abitudini, di tetri lavori impiegatizi, di destini già scritti; che la bellezza della vita risiede soprattutto nella lettura e nella poesia, in cui possiamo trovare tutte le risposte di cui abbiamo bisogno; che una bella mangiata e una bella scopata valgono tutto l’oro del mondo, e che se non siamo più capaci di osservare e amare la natura, probabilmente non siamo nemmeno più in grado di amare e rispettare il nostro prossimo.

Concetti semplici, certo, ma mai banali (anche perché troppo spesso li dimentichiamo), ed espressi attraverso una scrittura attraversata da momenti di lirismo e pervasa da quella sincerità che è in grado di conquistare il lettore fino all’ultima pagina. Vivi intensamente e cerca sempre la bellezza: il senso della vita è tutto qui.

 

Blackswan, giovedì 08/07/2021

martedì 6 luglio 2021

DEWOLFF - WOLFFPACK (Mascot Records, 2021)

 


Le strade del southern rock sono così infinite che portano anche in Olanda, dove da anni militano i DeWolff, trio originario di Geleen, che già vanta una discografia più che discreta alle spalle. Se vi piacciono il blues psichedelico e il classic rock, se vi piacciono il tocco sudista e tutto ciò che è analogico, allora Pablo Van De Poel (chitarra e voce), suo fratello Lika (batteria) e Robin Piso (hammond, voce e basso) fanno esattamente al caso vostro.

L'epidemia di Covid ha causato una brusca battuta d'arresto al tour iniziato dalla band a supporto della loro precedente uscita, Tascam Tapes (2020). Invece di rimanere con le mani in mano, DeWolff hanno sfruttato il tempo libero e hanno iniziato a lavorare su materiale nuovo, coinvolgendo, con una sorta di abbonamento, anche i fan, ai quali, in cambio dell’iscrizione, il trio ha regalato tre nuove canzoni ogni due settimane per dieci settimane, e chiesto di contribuire a comporre la scaletta dell’album.

Il risultato è questo nuovo Wolffpack, un’inebriante miscela di blues, soul, rock e tanta, tanta psichedelia. Calde atmosfere anni ’70 per un disco che è un’autentica gioia per le orecchie sia nei contenuti che nel suono: dalla trascinante intro di Yes You Do, alle rilassate atmosfere di Do Me, ballatone dall’accattivante tocco soul, fino all’oscillante e stratificata Lady J. e al basso fuzz della graffiante e sporca Bona Fide, non c’è un filler che sia uno, a dimostrazione di come i Dewolff siano autentici maestri nel recuperare e gestire, con uno stile ben definito, le coordinate del classic rock.

E' vero che il trio olendese potrebbe facilmente saltare in una macchina del tempo e correre indietro per diversi decenni, trovandosi comunque a proprio agio; ma è altrettanto vero, però, che l'album non suona in alcun modo datato o eccessivamente nostalgico, e che l’ispirato songwriting dei tre ha tenuto ben lontano ogni operazione di frusto copia incolla.

Se nella vostra discografia compaiono dischi di band come Magpie Salute o Marcus King Band, per citarne un paio, fatevi un giro di giostra insieme a questi tre ragazzi olandesi: non resterete delusi. 

VOTO: 7,5




Blackswan, martedì 06/07/2021

lunedì 5 luglio 2021

BILLY F GIBBONS - HARDWARE (Concord, 2021)

 


Maestro indiscusso della chitarra, membro della Rock and Roll Hall of Fame e santo patrono del rock texano, Billy Gibbons torna a sgommare veloce con il suo nuovo album solista Hardware, il terzo del frontman degli ZZ Top e il suo primo a essere quasi interamente composto di brani rock originali. Gibbons ha registrato il materiale all'Escape Studio, nell'alto deserto della California, vicino a Palm Springs, con l’aiuto degli amici Matt Sorum (Guns N' Roses), Mike Fiorentino, e Chad Shlosser, gli stessi con cui aveva registrato il precedente The Big Bad Blues, vincitore del Blues Music Award della Blues Foundation. Una location, quella desertica, che ha influenzato molto il suono del disco, come lo stesso chitarrista afferma: “Il deserto, pieno di sabbie mobili, cactus e serpenti a sonagli è stato lo sfondo perfetto per riuscire conferire un intrigante riflesso alle canzoni di questo disco”.

D’altra parte, il deserto è sempre stato una costante nella carriera di Gibbons, che a capo degli ZZ Top, con i primi cinque album (il debutto omonimo del 1970, Rio Grande Mud del 1972, Tres Hombres del 1973, Fandango del 1975 e Tejas del 1976) ha costruito una leggenda che pochi altri hanno saputo eguagliare e si è guadagnato la nomea di uno dei migliori chitarristi blues/rock di sempre.

L’ispirazione, che, ogni tanto, strada facendo, era sembrata ai minimi termini (le derive elettroniche con gli ZZ Top, quella boiata pazzesca che è Perfectamundo), con Hardware torna a essere di alto profilo.

L’iniziale My Lucky Card spinge il piede sull’acceleratore di quel tipo di blues/rock che ha reso unici gli ZZ Top, mentre la successiva She's On Fire è un rock dinamico e uptempo alimentato dalla potente batteria di Matt Sorum. Subito sugli scudi!I indipendentemente dal tipo di groove con cui si cimenta, pochi chitarristi sanno snocciolare assoli come fa Gibbons, che non ricorre mai a colpi di teatro per attirare l'attenzione, preferendo, invece, appollaiarsi in cima alla sezione ritmica e declinare il proprio asciutto ma geniale e inconfondibile stile. West Coast Junkie, primo singolo estratto da Hardware, miscela surf e rock, Texas e California ed è un vero e proprio colpo da KO, grazie a quel suono di chitarra sporco e carnale che rende il tocco di Gibbons unico.

Tre episodi, questi, che rappresentano al meglio un disco che colpisce il centro del bersaglio, con canzoni brevi ma vibranti, anche quando dal cilindro salta fuori la cover di Hey Baby, Que Paso dei Texas Tornados, un brano strappato dalla folkloristica pista da ballo e trasformato in un ruggente rock texano.

La vetta della scaletta, però, arriva con Stackin' Bones, un altro rockaccio sporco (con un ritornello favoloso), suonato insieme alle sorelle Lovell (Larkin Poe): Rebecca e Meghan si inseriscono alla perfezione nell’universo Gibbons, tanto da far sospirare all’idea di un progetto di collaborazione stabile fra i tre.

Missione compiuta, vecchio Billy! In attesa di un nuovo album sotto l’egida ZZ Top, hai regalato ai tuoi fan un disco al livello dei tuoi giorni migliori: rock blues texano, ma capace anche di spostare la narrazione verso altri generi, tutti gestiti con l’imitabile suono di una chitarra (e una voce) che ha pochi eguali al mondo. Infilate il cd nel lettore, alzate il volume e godetevi al meglio la vostra estate.

VOTO: 7,5

 


 

Blackswan, lunedì 05/07/2021

venerdì 2 luglio 2021

JUST THE WAY YOU ARE - BILLY JOEL (Columbia, 1977)

 


Phil, davvero, non ne sono convinto. Questa canzone mi sembra troppo debole, la voglio lasciare fuori dal disco

Ma che dici? Non hai sentito anche Linda e Phoebe? A loro piace tantissimo, la canzone funziona, è ottima. E poi, Billy, diciamocelo francamente: di materiale ce n’è poco e non possiamo permetterci di scartare nulla.”

Il dialogo qui sopra è immaginario, frutto della fantasia di scrive, ma riassume in modo plausibile lo scambio di idee tra Billy Joel e Phil Ramone a proposito di Just The Way You Are. A Joel la canzone non piaceva, la trovava zuccherina e troppo simile a I’m Not In Love dei 10 CC. E questo, nonostante Linda Ronstadt e Phoebe Snow, che registravano nello stesso studio, si fossero profuse in elogi, insistendo con Billy perché la inserisse nel suo nuovo disco, The Stranger. Phil Ramone, produttore dell’album, era invece di avviso opposto, anche perché le canzoni a disposizione erano poche e i tempi ristretti.

Alla fine, prevalse il parere di Ramone, che con grande lungimiranza fece pubblicare il brano come primo singolo. Il successo, manco a dirsi, fu clamoroso: Just the Way You Are, pubblicata nel settembre del 1977, è diventata il primo singolo di Joel nella Top 10 degli Stati Uniti e nella Top 20 del Regno Unito (raggiunse rispettivamente la terza e la diciannovesima piazza), e fece vincere al songwriter anche due Grammy Awards per il disco dell’anno e la canzone dell’anno.

Joel raccontò che la melodia e la progressione degli accordi del brano furono il frutto di un sogno ispirato a Rag Doll, canzone portata al successo nel 1964 da Frankie Valli And The Four Seasons, che, qualche anno dopo, furono fonte d’ispirazione anche per Uptown Girl, gioiellino presente nello splendido An Innocent Man, album che uscirà nel 1981.

Just The Way You Are, come si può intuire dal titolo, è una canzone d’amore, il cui testo fu scritto da Joel per dedicarlo a Elisabeth Weber, che ai tempi era sua moglie e suo manager. Parole sentite, che sgorgavano dal cuore e che ogni innamorato vorrebbe sentirsi dire dalla persona amata: “I said I love you, that's forever, And this I promise from the heart, I couldn't love you any better, I love you just the way you are”.

Le cose fra i due, però, non finirono come auspicato dalla canzone: niente eterno amore, ma il divorzio, arrivato nel 1982. Dopo la separazione, per lungo tempo, Joel ha eseguito la canzone dal vivo molto raramente, non solo a causa di una ferita difficile da rimarginare, ma anche perché il suo batterista, Liberty DeVitto, durante le esecuzioni, parodiava il testo, canticchiando. “She Got The House, She Got The Car”: si è presa la casa e si è presa la macchina. A Billy non piaceva essere sfottuto.

 


 

Blackswan, venerdì 02/07/2021