mercoledì 31 maggio 2017

BLONDIE – POLLINATOR (BMG, 2017)



Per quelli, come il sottoscritto, che per un certo periodo della loro vita hanno dormito con il vinile di Parallel Lines sotto il cuscino e hanno fatto di Debbie Harry un’icona sessuale della propria adolescenza, l’uscita di un nuovo disco dei Blondie è sempre un momento catartico. La band newyorkese, a dire il vero, dopo la reunion del 1997, ha mantenuto un target prevalentemente dignitoso, ma non è più stata in grado di rinverdire gli antichi fasti. Eppure, la biondina più eccitante del rock, nonostante l’età che avanza (saranno 72 a luglio), non molla un colpo: così la speranza di ritrovarsi fra le mani un altro gioiellino non è mai venuta meno, nutrita, anno dopo anno, da quel misto di affetto e nostalgia, che tiene vivi i ricordi ma offusca un poco la percezione obiettiva del presente. Tuttavia, anche a voler dismettere i panni del fan e a vestire quelli più austeri del recensore, Pollinator risulta comunque un disco discreto, perfettamente in linea con il recente passato della band, e coinvolgente quel tanto che basta a tenere vivo il mito Blondie. Il suono, nonostante un filo di maquillage per renderlo più attuale, resta in sostanza quello che da sempre conosciamo: un’azzeccata commistione fra pop, punk-rock e new wave, geneticamente modificata da cromosomi dance. Se vi piaceva quarant’anni fa, perché dovrebbe dispiacervi oggi? Certo, nel 1978, queste canzoni erano grintose, innovative e segnavano la nascita di un nuovo suono; oggi, perso l’effetto sorpresa, suonano solo un po’ prevedibili. Eppure, un brano come Fun, divertito tributo a certa disco music dell’epoca, possiede un tiro da dance floor che molti giovani band farebbero carte false anche solo per sognarselo di notte. Nello stesso modo, vincono ai punti contro il tempo che passa anche l’opener pop punk di Doom Or Destiny (ospite Joan Jett) e la new wave spigolosa di Best Day Ever (gentile omaggio di Sia). Non tutto il disco, però, risulta centrato: la produzione di John Congleton (Modest Mouse, David Byrne, John Grant, etc) è un filo sovrabbondante, tende a riempire quando potrebbe asciugare (la pur buona Long Time), e alcune canzoni, ammettiamolo, sono obbiettivamente bruttine e suonano come riempitivi fin dalla prima nota (Love Levell). Il disco, però, nonostante qualche passo falso, regge alla distanza, e se è pur vero che gli anni gloriosi sono solo un ricordo, ci sono modi di gran lunga peggiori per invecchiare.

VOTO: 6,5





Blackswan, mercoledì 31/05/2017

martedì 30 maggio 2017

FIGLI DELLA STASI – DAVID YOUNG (Baldini & Castoldi, 2017)



Berlino Est, 1975. Quando la detective Karin Müller – ufficiale della Kriminalpolizei – è chiamata per occuparsi dell’omicidio di un’adolescente ritrovata ai piedi del Muro, pensa sia un’indagine di routine. Ma quando arriva sulla scena del crimine capisce che non è così: il volto della giovane è sfigurato, senza occhi e senza denti, e sembra che qualcuno abbia martoriato quel corpo dopo il decesso. Tutto lascia pensare che la ragazza stesse cercando la fuga… ma da Ovest. La Stasi – il famigerato Ministero della sicurezza di Stato – sin dall’inizio supervisiona le indagini e ordina a Karin di scoprire l’identità della ragazza senza approfondire il movente e i colpevoli. Meno domande fa, meglio è. Le prove sono contraddittorie ed è evidente che la scena del crimine è stata manipolata. Ma Karin non si tira indietro nella ricerca della verità, scoprendo che la soluzione all’omicidio è molto più vicina a lei di quel che pensa.

Quando si pensa al thriller oltre cortina, vengono in mente alcuni fortunati romanzi, poi trasposti in pellicola, come Bambino 44 di Tob Rob Smith, Gorky Park di Martin Cruz Smith e, per certi versi, anche Fatherland di Robert Harris. Tutti ottimi lavori, il cui fascino veniva amplificato dall’essere ambientati, nel tempo e nello spazio, durante un regime totalitario; particolarità, questa, che creava nel lettore un surplus di inquietudine e rendeva la trama ancor più palpitante. Cosa che avviene anche per Figli Della Stasi, romanzo ambientato nel 1975, in Germania Est, durante il regime comunista di Erich Honecker, e che racconta la difficile indagine della detective Karin Muller, che deve fare i conti, non solo con un efferato delitto, ma anche con gli ingranaggi di un apparato burocratico pachidermico, con gli intrighi di palazzo e con la longa manus della Stasi, la famigerata polizia politica, nota per le persecuzioni ed epurazioni di dissidenti politici. Nonostante alcune forzature, strumentali alla risoluzione del caso, ma un poco inverosimili, il romanzo tiene viva l’attenzione del lettore dalla prima all’ultima pagina, forte di un intreccio narrativo dal ritmo serrato e da colpi di scena che si susseguono senza soluzione di continuità. Il vero punto di forza della storia è, però, la minuziosa ricostruzione storica, attraverso la quale Young si addentra nei meandri di un feroce regime fondato sul sospetto e la delazione, illuminando un pagina di storia poco nota, quella, cioè, dei bambini arruolati, mediante minacce e ricatti, per svolgere il ruolo di informatori della Stasi (a fine dittatura, i casi accertati furono circa 170.000). Il finale un po’ scontato non toglie nulla a un romanzo complessivamente vibrante e ben costruito.

Blackswan, martedì 30/05/2017



lunedì 29 maggio 2017

IL MEGLIO DEL PEGGIO





Riceviamo dalla nostra freelance Cleopatra e integralmente pubblichiamo.
Silvio, fortissimamente Silvio. E' universalmente riconosciuto: Silvio ha 7 vite come i gatti. All'alba delle 80 primavere e a dispetto dei tanti detrattori che lo avevano seppellito politicamente, l'ex Cavaliere torna in grande spolvero al tavolo da gioco a distribuire le carte. Ancora una volta a dargli lo scettro è il suo più fedele supporter, Matteo Renzi. Con l'imprimatur del neo segretario del PD, Silvio si riappropria, a pieno titolo, del ruolo di padre nobile della politica italiana. La storia, si sa, è fatta di corsi e ricorsi, di luci e di crepuscoli, ma nello strano caso di Berlusconi, le risurrezioni sono decisamente prevalse. Dopo il breve esilio del 2013, anno in cui fu condannato dalla Cassazione per frode fiscale, pareva si fosse celebrato il de profundis per il Caimano di Arcore. "Game over" sentenziava Matteone, in una lunga intervista a "Porta a Porta". Eppure, nemmeno un anno e mezzo dopo, Silvietto varcava le soglie del Nazareno con il patto d'acciaio sotto braccio, tronfio e impettito come un salvatore della patria. Era il 18 gennaio 2014, e da allora Silvio e Matteo, a parte qualche scaramuccia sulla scelta di Sergio Mattarella per la presidenza della Repubblica, non si sono più lasciati. Un amore un po' litigarello tra due personaggi contigui, sodali, complementari nella buona e nella cattiva sorte. Ora che la legge elettorale è divenuta una priorità ineludibile per la governabilità del Paese, ecco che l'antica liaison tra i due si rinfocola al punto da trovare un accordo sul modello alla tedesca, una mossa tattica che lascia intendere l'ipotesi di un governo di larghe intese. Tradotto: un inciucio. L'ennesimo, peraltro. Pensatela come volete, comunque è di nuovo amore con Silvio. E al cuor di Matteo non si comanda.

Cleopatra, lunedì 29/05/2017